Originariamente pubblicato in: Teatro delle Moire (a cura di), Anatomie di un corpo scenico, Mondadori Electa, Milano 2008
Rivisto dall’autrice per questa pubblicazione
Mariangela Gualtieri – poeta e drammaturga del Teatro Valdoca – indaga i tensori del campo di forze che danno vita al teatro necessario. Se l’attore parla da una resa dell’io, allora in scena entra qualcosa che sta “prima del nome e del cognome”. In quel vuoto si può vivere il personaggio che giace nelle profondità, non per aggiunta ma per spoliazione. Si può essere alfiere di una lingua che ha in sé l’archetipo della lingua; il lavoro preparatorio alla scena spoglia dunque l’attore della sua ‘tecnica’ e lo guida verso questo suo essere cuore arcaico e contemporaneo, bestia che ride, umanità ferita, potenza silenziosa. Così che porti il verso, sola lingua all’altezza dell’animale e del sovra-umano, tenendolo in uno stato perenne di nascita.
Ciò su cui vorrei porre l’attenzione è l’eccessivo accanimento sull’umano nel teatro contemporaneo.
La scuola a cui sono cresciuta, e cioè quella di Cesare Ronconi, mi ha sempre tenuta alla larga dall’umano dato nella sua norma: nella sua arte l’attore è sempre al di sotto o al di sopra dell’umano, nel subumano dunque e nel sovrumano. Per subumano intendo qualcosa che è vicino alla deformità ed anche all’animale. L’attore è, nella mia tradizione, una entità che sprigiona il tremendo e il meraviglioso, e che si affloscia immediatamente in tutti i toni intermedi.
Occorre tuttavia precisare che sub e sovra non stanno in una gerarchia di valore o di merito: piuttosto segnalano i due abissi che stanno al di là del linguaggio.
Tremendo e meraviglioso: questo è ciò che non viene dato all’interno della cosiddetta realtà. O meglio, in occidente, molto viene fatto affinché subumano e sovrumano vengano taciuti, non visti, non turbino le vite normative, non rompano abitudini, usi e costumi.
È la tremendezza della natura, non quella rappresentata ma la natura reale, col suo timor panico di bosco, di buco, di buio pesto notturno, di vetta altissima, di fondo marino, di sguardo animale, di odore animale, di corpo che nasce lordo e strappato, con le sue deformità che per secoli abbiamo rinchiuso in luoghi blindati. È la tremendezza del soprannaturale che una liturgia sbiadita e senza più riti efficaci ci ha fatto dimenticare, e da cui nuovi riti consolatori si tengono alla larga.
È il meraviglioso della natura, di grandi aperti che non percorriamo più, ed è il meraviglioso dell’imperituro, di ciò che “in me è più vecchio di me”.
In questo nostro lato di mondo, forse solo l’arte è ancora capace di tenere vivo tutto ciò che sta sotto e sopra la norma, e nell’arte, sopra tutto sta il teatro. Il teatro ha al proprio centro l’uomo, l’attore: non è difficile cadere nell’afflosciamento della norma dell’umano e raccontare storie, fare politica, parlare “del sociale”, intrattenere, divertire. Ma appunto, ciò che io ho imparato è lontano da tutto questo. Sì, anche quello è teatro, ma non quello che a me sembra necessario.
Novarina scrive:
L’attore esperto è qualcuno che si assassina da sé prima di entrare, che non entra in scena senza essere passato sul proprio corpo che considera un cane morto… Ogni buon attore entrando deve averci camminato sopra. Solo allora può parlare, da vero spossessato. Come uno che non ha nulla. Non uno che non sa. Uno denudato…»1
L’attore parla da una nudità, da una resa di quell’io che lo ha condotto fin lì, fino al bordo della scena. È in quella resa che allora compare anche la grande anima dell’animale, perché – mi sembra – gli animali hanno un’anima più grande della nostra. Allora con quella parte animale entra in scena qualcosa che sta prima del nome e del cognome. Un punto in cui, come scrive Milo de Angelis, il tuo nome è uguale al mio, prima di essere chiamato. L’animale pare più esperto di vita di noi, più esperto di respiro. Più di noi vicino al segreto indicibile da cui scaturiscono le cose e noi stessi. E forse perché stupefatto da quella indicibilità, l’animale non parla, non smette di tacere da tutta la storia. Non ha bisogno di parlare.
Solo in quel vuoto io credo si possa far vivere il personaggio, non tanto indossarlo, ma tirarlo fuori dal proprio magma oscuro, dal proprio fango profondo e trasformare quella manciata di fango in luce. Il personaggio giace imbozzolato dentro quel magma e va portato alla luce, trasformato in luce.
Il personaggio non è per aggiunta, ma per spoliazione. Il personaggio giace nelle profondità dell’attore, nel remoto del suo sangue, del suo sangue che è antico quanto tutto il sangue della terra. Da quella profondità, da quella antichità sepolta, regista e attore chiamano in vita il personaggio come si chiama un antico morto e di nuovo l’attore gli dà voce, sangue e respiro. (Per questo forse negli spettacoli del Teatro Valdoca i personaggi vengono riconosciuti e nominati quasi alla fine del tempo di allestimento).
Proprio per questo venire da una profondità oscura, il personaggio, nella mia esperienza, ha in sé sempre il tremendo dell’archetipo, del cadavere, dell’animale, del corpo appena partorito, del divino, del numinoso.
La maschera che l’attore assume col personaggio non ha a che vedere con le innumerevoli maschere che noi tutti indossiamo quotidianamente nelle nostre vite per poter funzionare, per essere all’altezza, per metterci in salvo o credere di farlo. Quelle sono appunto maschere che si indossano per aggiunta.
La maschera che dà vita al personaggio è, mi pare, l’ultima membrana sottilissima fra l’attore e il proprio silenzio, fra l’attore e il proprio niente, la propria totale nullità. La maschera è sempre un velo da cui, sotto una certa angolatura, si sprigiona una nudità nella quale lo spettatore può specchiarsi, può vedere rispecchiato l’uomo.
L’attore assume in sé il tremendo dell’essere nella vita, il tremendo della vita, lo incarna e lo esibisce. E per incarnarlo deve in qualche modo conoscerlo, cioè, secondo la biblica coincidenza fra il verbo conoscere ed il verbo amare, l’attore deve amarlo, questo tremendo, riconoscerlo come forza ctonia della vita, dell’essere vivi. L’attore è davvero un immenso conoscitore delle forze della vita.
Nel mio lavoro di questi venti anni, ho visto la regia spingere, costringere l’attore sempre fra questi due estremi: fra l’animale e il sovraumano. Forse la patologia artistica di questo regista2 è stata proprio quella di respingere l’umano, nel suo darsi normativo, corrente, narrativo, quotidiano, sociale, nel suo veicolare senso. Abbiamo sempre tenuto fuori dal nostro teatro la norma dell’umano: l’attore era sempre animale o sovraumano, e la trilogia di Paesaggio con fratello rotto è la prova quasi esatta di questo. Vi sono solo animali o personaggi che portano la forza magnetica della deformità e che quella deformità la bruciano in bellezza. Hanno in sé, fusi e risolti, il tremendo e il meraviglioso. Non vi è mai un personaggio che abbia un riferimento con la cosiddetta realtà, con la norma della cosiddetta realtà, con i fatti della cronaca. Non vi è mai il tentativo di immettere senso. La scena è sempre un quadrilatero dell’orrore e del meraviglioso in cui i fatti, la cronaca, il sociale aleggiano nella loro faccia archetipica e misteriosa, antica e sempre in una presente rinascita.
È chiaro dunque come un tale scenario abbia bisogno di una lingua che abbia anch’essa in sé l’archetipo della lingua, una lingua che non rappresenti, ma piuttosto ripercuota un suono la cui origine è nascosta. Giorgio Colli, nostro caro filosofo dimenticato, dice appunto che la parola tragica non rappresenta, ma ripercuote questo suono, un suono la cui origine è nascosta. Io credo che solo il verso, solo la verticalità del verso, sia all’altezza dell’animale e del sovrumano. Forse perché credo che la poesia, la bellezza cantata dalla poesia, come dice Mario Luzi, sia una forza spirituale attiva, una forza capace di trasformare il cuore degli uomini. La poesia con la sua ritmica e melodia, il verso, con la sua musica, parla a parti di noi che non sono solo la nostra intelligenza, tocca strati profondi e sotterranei di noi spettatori seduti a teatro. Massaggia gli alveoli, quelle minuscole parti vuote che ci fanno dotati di soffio, di respiro.
Mi pare che ora, troppo spesso, nel teatro vi sia un accanimento sull’umano, ancora oggi che il cinema così bene, così sottilmente e grandiosamente svolge questo compito, il compito appunto di raccontarci l’umano. Mi pare che troppo spesso, nel teatro attuale, manchi questo riferimento all’animale e al sovrumano. E soprattutto che manchi nella disciplina dell’attore, come se la questione fosse del tutto tecnica. Il cinema e i media hanno sgravato il teatro di innumerevoli compiti. Dunque il teatro può tornare a vivere della propria originalità che è certamente legata al mistero che ci tiene qui vivi.
L’attore porta la parola, nel nostro caso porta il verso, non solo lo porta ma deve tenerlo in uno stato perenne di nascita. L’attore fa con la parola ciò che il poeta fa con la lingua: la rigenera continuamente. E la parola non è solo merce di scambio, come vuole farci credere questo tempo idolatrico. Tutti noi sappiamo che la parola sta al centro di noi, nel profondo, con la sua energia misteriosa, col suo potere risonante, riverberante, con la sua provenienza misteriosa. Con la sua incapacità a dire in pieno il pathos che la genera, eppure, in questa impossibilità percorsa dalla poesia, essa, quel pathos lo ripercuote, lo fa risuonare, lo tiene vivo.
Novarina:
C’è in noi, molto in fondo, la coscienza di una presenza altra, di un altro accanto a noi, accolto e mancante, del quale abbiamo la custodia segreta, del quale custodiamo la mancanza e l’impronta. Dio è la quarta persona singolare. È questa coscienza di un altro in noi, questa assenza straniera, questo ricordo di un’impronta lasciata, questo vuoto lasciato che ci permette di donare la nostra parola. Quando questa strana coscienza dell’estraneo ci abbandona noi ci distruggiamo, vendiamo il mondo e ci vendiamo. Nulla si comunica allora più velocemente della morte…Ciò che abbiamo scacciato dal mondo cerca oggi in ogni uomo il suo rifugio3.
Come sostiene Deleuze: «in arte… non si tratta di riprodurre o inventare forme, bensì di captare delle forze». Spesso la tecnica non viene messa al servizio di queste forze, ma – piuttosto – si preoccupa di armare l’attore, di corredarlo, di attrezzarlo. La tecnica vuole fare dell’attore un bravo attore. Io credo che mai vada dimenticato, nell’insegnamento, che la meta è quella captazione di forze e non la sola assunzione di strumenti espressivi. Anzi, spesso questa assunzione di strumenti crea un vero tappo alla capacità, alla possibilità di essere agiti da energie più profonde. Questi anni, col mio regista, sono stati di grande scuola per me, proprio rispetto a quanto detto fin qui. Portare l’attore a sentire che può essere abitato da energie più sottili, che può lui stesso liberarle: è dunque in nome di quelle energie, di quella captazione di forze che si appronterà poi una tecnica.
Di fronte ad un teatro che sento vivo e necessario (il teatro vivo è rarissimo), sempre ho l’impressione di essere davanti a qualcosa che mi viene rivelato, o meglio, che mi viene fatto intuire, intravedere, senza che venga tradita la sostanza di quanto mi si trasfonde. L’effetto, come spettatrice, è di ebbrezza, della vaghezza confusa dell’ebbrezza, entusiasmo e gratitudine. Allora non vorrei gridare «Bravo!». Non vorrei proprio gridare: tengo dentro di me il mio commosso grazie. Ma molti attori sembrano macchine lanciate verso il plauso e molto pubblico va a teatro per il piacere di riconoscere le qualità del virtuoso e plaudirle. Io credo che il captatore di forze ci lascerà alla fine balbettanti, commossi, un po’ confusi e con la strana sensazione di avere fatto una esperienza, non di avere assistito a uno spettacolo.
Come si può condurre l’attore verso questa sua alta rotondità? Verso questo suo essere cuore arcaico e contemporaneo, bestia che ride, ragione che si incendia, umanità ferita, nudità, potenza silenziosa, intelligenza dei sentimenti?
Il poco che so, il poco che ho capito, l’ho capito seguendo il lavoro del mio regista, che ha sempre preparato i propri attori prima di portarli sulla scena definitiva.
C’è un nocciolo luminoso di cui l’attore deve impossessarsi, o meglio che deve riuscire a raggiungere dentro sé, una sorta di accensione. Questo nocciolo risplende in una dimissione, in una nudità ed infermità, come ho cercato di dire più sopra.
La tecnica, a volte, è invece qualcosa che arma l’attore, che lo fortifica, che lo rende invulnerabile. Ma forse la bellezza è proprio in quella vulnerabilità.
Credo che l’attore debba avere un’anima grande come l’anima dell’animale. Un vuoto silenzioso al centro, come l’animale. Credo che nessun virtuoso toccherà mai un cuore se non parte dallo splendore o dal fango di questa anima d’animale.
E la tecnica può essere micidiale per quell’anima. Come può essere micidiale la mancanza di tecnica.
Non posso non rilevare come la maggior parte degli spettacoli delle stagioni di prosa italiana, ma temo sia lo stesso in tutto l’occidente, come la maggior parte di tali spettacoli sia greve, mancante di vitalità, di forza, di sacralità: un teatro mummificato, potremmo dire. E questo teatro mummificato è fatto da attori “bravi”, da attori che hanno fatto buone scuole e che hanno una ottima capacità tecnica. C’è dunque qualcosa che all’interno della disciplina dell’attore non viene consegnato, qualcosa che le scuole non hanno trasferito ai loro allievi, qualcosa che i registi non sono capaci di far vivere sulla scena, di resuscitare, di incendiare.
Per me che scrivo versi per il teatro, l’attore è soprattutto l’alfiere della parola, colui che parla davanti ad una folla come si parla quando si è da soli. L’attore è questa strana creatura che parla una lingua non sua, facendoci credere di parlarla per la prima volta, facendoci credere che quella lingua accada sempre ora, ora per la prima volta. Dunque l’attore è colui che tiene la parola sempre in uno stato di nascita, che fa riaccadere la precipitazione poetica proprio come prima è accaduta al poeta che la ha accolta. L’uomo si differenzia dall’animale per il fatto che parla. E non perché parlando comunica. Anche l’animale comunica, anche i fiori e i pollini comunicano. Ma perché parlando manifesta ciò che di lui manca, quanto di lui non è qui, non è di qui, non è venuto con lui del tutto alla luce terrestre. Parlare significa tenere in vita quanto dell’uomo non è nato, l’immenso di lui che non è entrato nella materia, che non è caduto con lui nel mondo.