Traduzione dal portoghese di Cristina Grazioli
Il presente contributo analizza il recupero di una vecchia fabbrica di San Paolo e il suo riutilizzo come centro culturale, luogo per il tempo libero e lo sport, che include anche un teatro. Si tratta di un'opera iconica dell'architetta italo-brasiliana Lina Bo Bardi che, singolarmente, installò il suo ufficio nel cantiere stesso, lasciando ampia libertà ai capomastri e agli operai, che comunque avrebbero seguito i suoi disegni e le sue linee guida. Utilizzando il metodo del restauro critico, probabilmente ispirato dai suoi connazionali Argan e Brandi, Bo Bardi ha creato ambienti poetici per le strutture sociali del centro, con le strade del complesso della vecchia fabbrica trasformate in spazi pubblici di qualità. Ma è nel design dei blocchi sportivi in cemento a vista con "buchi" come aperture di ventilazione che l'architetta e i suoi assistenti hanno dato voce alla poetica della scuola di Architettura Brutalista, creando un ‘contrasto armonioso’ con i vecchi magazzini della fabbrica.
Introduzione
Promuovere la riabilitazione degli edifici dismessi implica l’integrazione di questi beni alle esigenze della vita contemporanea, poiché è essenziale che le nuove destinazioni d’uso siano compatibili con la morfologia, con le proporzioni del quartiere e con il desiderio degli utenti che vi abitano. Ritenendo che la storia sociale urbana si scriva a partire dall’analisi delle città e dei loro edifici, e che la cultura sia sempre stata cultura urbana, è fondamentale che gli edifici un tempo simbolici per una determinata comunità, possano subire trasformazioni che ne rivalutino l’estetica e ne giustifichino i nuovi usi, anche quando si tratta di strutture industriali disattivate. Partendo da queste affermazioni e ritenendo che il “passato” sia sempre “presente storico”, Lina Bo Bardi ha concepito il Centro ricreativo SESC Pompeia nei capannoni di una vecchia fabbrica.
Il progetto di Bo Bardi per il Sesc Pompeia1 mira essenzialmente alla centralità dell’istruzione e della cultura, soprattutto perché dopo i lavori l’architetta si è fatta carico della creazione e della gestione di corsi e laboratori, che si protraggono negli anni e che, dall’apertura del complesso nel 1982, hanno offerto opportunità di apprendimento per tutte le classi sociali. L’architetto Marcelo Ferraz, assistente e collaboratore di Bo Bardi dal 1977, sottolinea che, da quando l’architetta ha trasformato un maniero [solar] del Seicento nel Museo d’Arte Popolare di Bahia, si stabilì il concetto di relazione tra programma e progetto, che sarebbe stato poi applicato al progetto del SESC Pompéia.
La chiave del successo del progetto sarebbe stata la componente popolare, cioè la formulazione di una programmazione ampia e inclusiva, aggiunta a soluzioni spaziali di accessibilità (portare la strada, la vita pubblica all’interno del Centro), che contemplassero e creassero interesse per le varie fasce d’età e le diverse classi sociali, senza discriminazioni2.
Al SESC Pompéia, i lavori di ristrutturazione della vecchia fabbrica dei fratelli Mauser (1938), poi acquisita da Ibesa, un produttore di fusti industriali che ha creato la fabbrica di frigoriferi al cherosene Gelomatic, sono durati dal 1977 al 1982. Incaricata della direzione del progetto per il SESC, Bo Bardi scoprì che la struttura in cemento armato era stata progettata dal francese François Hennebique all’inizio del XX secolo, forse l’unica struttura dell’ingegnere conosciuta in Brasile; un fatto che conferiva al progetto un valore speciale, poiché l’architetto valorizzò la tettonica del complesso industriale. Come ha affermato in una dichiarazione a Ferraz, lei stessa non ha trasformato nulla, ma ha creato una nuova realtà a partire da elementi dal valore simbolico3.
Sebbene il SESC occupasse parzialmente la fabbrica abbandonata già prima dei lavori di ristrutturazione, le discussioni iniziarono quando Bo Bardi espresse la volontà di cambiare il nome del Centro culturale e sportivo in Centro ricreativo [Centro de Lazer]. La definizione ‘culturale’, sosteneva Lina, «pesa molto e può portare le persone a pensare di dover fare cultura per decreto. E questo, d’impatto, può causare un’inibizione o un blocco traumatico». Diceva che la parola cultura dovrebbe essere messa in quarantena, per riposare un po’, per recuperare il suo significato originale e profondo.
Bo Bardi mantiene quindi numerose caratteristiche del progetto iniziale realizzato nel 1938, accogliendo molte delle modifiche successive e aggiungendo nuovi interventi. Molti degli aspetti formali e dei materiali specifici sono stati preservati e gli interventi, come dettato dai criteri del restauro critico, presentano l’aspetto contemporaneo, senza cercare di imitare il passato, facendo uso di materiali e forme del presente.
1.1 La teoria del restauro critico e il progetto sviluppato nell’opera
Oltre a indagare la poetica del progetto del Centro ricreativo SESC Pompeia, questa riflessione analizza quali teorie e tecniche di restauro sarebbero state presenti nella proposta di Lina Bo Bardi quando ha accettato il compito di trasformare un patrimonio industriale dismesso in uno spazio per il tempo libero, la cultura e lo sport. Una delle argomentazioni è che ha utilizzato la metodologia del restauro critico che nega la ricomposizione dell’unità stilistica proposta da Viollet-le-Duc4, implicando un lavoro che si svolge nel corso dell’intervento conservativo stesso in base ai problemi che vi si rivelano, senza tuttavia offrire una totale libertà di creazione, perché l’intervento stesso richiederà la cura dell’oggetto costruito che sarà trasmesso al futuro, come eredità del passato a beneficio dei nuovi e futuri utenti.
Questa teoria, nata a metà degli anni Quaranta, vide gli apporti di Cesare Brandi e di Giulio Carlo Argan nella nuova interpretazione delle opere di restauro. In seguito, il concetto sarebbe stato perfezionato con i precetti contenuti nella Carta di Venezia del 1964 e nella Carta del Restauro Italiano del 19725.
Brandi accetta l’incorporazione di nuovi interventi architettonici di qualità nelle opere originali. Secondo Brandi, «Comunemente s’intende per restauro qualsiasi intervento volto a rimettere in efficienza un prodotto dell’attività umana»6.
A partire da questa affermazione, il teorico insegna che il restauro è il momento metodologico in cui l’opera d’arte viene apprezzata nella sua forma materiale e nella sua dualità estetica e storica, in vista della sua trasmissione al futuro. Quasi sempre si cerca di recuperare la funzione di un prodotto dell’attività umana attraverso un intervento. Egli sottolinea inoltre che «si restaura solo la materia dell’opera d’arte […]; il restauro deve mirare al ristabilimento della unità potenziale dell’opera d’arte, purché ciò sia possibile senza commettere un falso artistico o un falso storico, e senza cancellare ogni traccia del passaggio dell’opera d’arte nel tempo»7. Da questi postulati derivano le critiche ai restauri basati su ipotesi circa lo “stato originario” dell’opera, destinati a essere mere ri-creazioni fantasiose, che travisano il godimento della vera opera d’arte. Il restauro dovrebbe «limitarsi a svolgere i suggerimenti impliciti nei frammenti stessi o reperibili in testimonianze autentiche dello stato originario»8.
Già nel 1980, considerando quanto contenuto nella Carta di Burra, il termine “conservazione” designava la cura da riservare a un bene per preservarne le caratteristiche di significato culturale. A seconda delle circostanze, la conservazione può comportare o meno la preservazione o il restauro, oltre alla manutenzione; può anche includere lavori minimi di ricostruzione o adattamento che rispondano a esigenze e requisiti pratici. Come si vede, a partire dalla concezione allargata del proprio oggetto, la conservazione punterà a una dimensione più dinamica, passando dall’idea di mantenere un bene culturale nel suo stato originario a quella di conservare quelle sue caratteristiche “che hanno un significato culturale”. Così, mentre la conservazione presuppone la limitazione del cambiamento, la tutela si riferisce all’inevitabilità del cambiamento e alla sua gestione.
Sia le opere che i testi di Lina testimoniano la sua adesione ai principi del restauro critico; inoltre, a partire dagli anni Settanta, inizia ad adottare il concetto di “presente storico” per i suoi lavori di restauro, in quanto afferma che il “passato” deve essere fatto rivivere dal presente. Questo concetto di valorizzazione del passato dell’individuo, della memoria collettiva, è alla base dei progetti di adattamento degli edifici in disuso. Utilizzando il restauro critico, l’architetto restauratore deve valutare l’edificio per recuperare il suo valore artistico, potendo utilizzare nuovi elementi da una libera scelta creativa. Secondo le parole di Lina in una lezione alla Facoltà di Architettura e Urbanistica di San Paolo nel 1989, «ciò che è necessario è considerare il passato come presente storico. Il passato visto come presente storico è ancora vivo»9.
Nell’indagare il processo creativo di Lina nella proposta di conservazione e di cambio d’uso, è necessario comprendere la sua concezione di Storia. L’architetta intendeva la Storia come «una cosa viva e attuale, rianimata nei suoi problemi fondamentali e dotata di trasmissibilità e fecondità di insegnamenti»10. In questo senso, per un confronto con l’opera costruita, i resti della fabbrica e i nuovi inserimenti, ci siamo appoggiati anche agli scritti di Bo Bardi per capire meglio le sue idee e la sua concezione.
Si può notare che l’architetta ingloba la produzione culturale di ogni comunità quando stabilisce il rapporto spazio-forma e, analizzando il materiale scelto e il trattamento dato alla forma nello spazio, sia nei suoi progetti di restauro del patrimonio che in quelli di architettura teatrale, cerca di contestualizzare gli edifici preesistenti e di inserirli nella vita attiva della gente, come ha fatto nella concezione del SESC Pompeia.
Vale la pena ricordare che negli anni Cinquanta, presso la Facoltà di Architettura e Urbanistica dell’Università di San Paolo (FAU-USP), progettata dall’architetto Vilanova Artigas, nacque un proficuo dibattito sugli orientamenti dell’architettura brasiliana; tra le proposte, vi era era quella del movimento noto come Arquitectura Nova, che auspicava un dialogo costante tra il “pensare” e il “fare” non solo tra gli architetti, ma anche tra architetti e capomastri. L’architetto Sérgio Ferro, uno dei mentori di questo movimento, in un articolo del 1968 sostiene che il progetto architettonico coinvolge diversi livelli: «è particolare, come soluzione a un certo problema immediato, ed è anche parte e riflesso di un atteggiamento globale del suo autore e, attraverso di lui, del tempo in cui vive». Tuttavia, osservando l’opera finita, si può verificare «l’adeguatezza oppure l’incompatibilità delle parti e dei livelli che la compongono, e si possono evidenziare le intenzioni e gli atteggiamenti più profondi che hanno guidato la sua elaborazione»11.
Lina Bo Bardi, che ha scritto testi critici su Artigas, si è trovata d’accordo con molte di queste idee e ha stabilito, soprattutto nel lavoro del SESC, un nuovo rapporto tra progetto e cantiere, installando il suo ufficio all’interno della vecchia fabbrica. In quell’occasione, Lina Bo Bardi ha dichiarato: «Ho allestito un ufficio insieme agli ingegneri, ai tecnici, agli operai, nel cantiere stesso. In questo modo l’esperienza di un’opera è molto più ampia e la collaborazione tra tutti questi professionisti è totale»12.
È vero che durante la realizzazione dell’opera si verificano quasi sempre delle modifiche da parte dell’impresario, delle maestranze e dello stesso architetto. Tuttavia, sarebbe auspicabile che i cambiamenti avvenuti nel corso del lavoro mantenessero il legame tra l’idea e il materiale. L’architetta stessa, da un certo momento in poi, ha evitato di dettagliare il progetto in ufficio e ha iniziato a risolvere i dettagli in cantiere, per cui, pur mantenendo la coerenza, erano sempre possibili cambiamenti, anche dovuti al fatto che l’architetta Lina Bo Bardi era molto impegnata a ‘diluire’ la paternità del progetto tra le persone coinvolte nella costruzione e gli utenti degli spazi progettati. È possibile che l’architetto condividesse alcune idee di Ferro, che nel suo libro O canteiro e o desenho (Il cantiere e il progetto) indica una concezione alternativa dell’intesa tra idealizzazione e costruzione, applicando i concetti marxisti all’architettura13.
Bisogna ammettere che il conferimento di significato all’oggetto architettonico non dipende esclusivamente dall’architetto/a, poiché altri professionisti sono coinvolti nell’esecuzione dell’opera. Il significato può variare per i diversi attori sociali, ma l’architetto, in generale, è colui che ha il maggior desiderio di conferire un significato all’edificio. Sebbene il significato possa variare per ogni utente dell’architettura, Bo Bardi si preoccupava molto dell’utente finale e di come il progetto sarebbe stato appropriato rispetto al pubblico e al contesto urbano. Secondo le sue stesse parole, «l’architetto progettista deve basare il suo progetto sullo sviluppo naturale delle forme architettoniche e urbanistiche create dalla necessità della vita quotidiana»14. Questo approccio – proveniente da una professionista che ha avuto stretti contatti con il razionalismo milanese – sembra essere stato ispirato dall’intenso periodo di indagini antropologiche ed estetiche intrapreso durante il suo soggiorno a Salvador e nel Recôncavo Baiano dal 1958. All’epoca, Bo Bardi spiegò che se si dovesse dare una definizione di architettura, sarebbe forse quella di “avventura”, in cui l’essere umano è chiamato a partecipare come “attore”, intimamente; definire la non gratuità della creazione architettonica, la sua assoluta aderenza all’utile, ma non per questo meno legata al ruolo dell’essere umano come “attore”; forse questa potrebbe essere, ammesso che sia necessario darne una definizione, una definizione di architettura15.
1.2 Il progetto dell’intervento
Il progetto di intervento è stato realizzato in due fasi: la prima, dal 1977 al 1982, è consistita nel restauro dei vecchi magazzini in capannoni di mattoni a vista (figg. 1, 2 e 3); la seconda, dal 1982 al 1986, è consistita nella costruzione degli insoliti edifici per lo sport in cemento a vista di ispirazione brutalista16, con i famosi “buracos de cavernas” (buchi di caverne) come finestre (figg. 3, 4 e 5). È evidente che la poetica del complesso si articola intorno al contrasto tra i bassi capannoni dall’architettura eminentemente popolare e le innovative torri interconnesse da rampe, oltre alla torre cilindrica del serbatoio dell’acqua, che denotano il nuovo e l’inedito, invitando l’individuo a esplorare gli spazi insoliti creati.
Nel capannone delle attività generali sono stati previsti lo spazio per le mostre, la biblioteca, l’area di lettura, il salotto e l’area giochi. In questo capannone sono stati realizzati un caminetto e uno specchio d’acqua, oltre ad alcuni volumi in cemento a vista in forma di mezzanini. Lo specchio d’acqua, secondo l’architetta, vuole idealmente riferirsi al principale fiume del Nord-Est del Brasile: il fiume São Francisco; funge da collegamento tra le diverse funzioni dello spazio e crea una poetica originale nella vecchia fabbrica (figg. 6 e 7).
In un altro capannone sono stati progettati atelier e laboratori di falegnameria, ceramica, incisione, serigrafia e grafica. In un terzo capannone, Lina ha progettato il teatro, in cui lo spazio del capannone è stato diviso in due platee che si affacciano su di un palcoscenico centrale, con i camerini e le aree di supporto disposti in volumi di cemento sospesi, a vista.
La proposta è stata quella di favorire la coesistenza tra le persone, in quanto in sé stessa induttrice di produzione culturale, senza la necessità di utilizzare il termine. Accanto agli spazi creativi, l’architetta ha creato una piscina con spiaggia per i bambini più piccoli o per chi non sa nuotare, fondendo programma e progetto17. Parallelamente alle attività di svago, rivolte a tutti, ma soprattutto agli operatori commerciali, vengono proposti spettacoli musicali, circensi, festas juninas [le feste della tradizione tenute nel mese di giugno, legate a riti di raccolta], rappresentazioni teatrali, festival multietnici e importanti mostre, spesso curate dalla stessa Bo Bardi.
La creazione di uno spazio comune di ambienti ludici e l’abolizione della distinzione tra gioco e vita quotidiana erano l’obiettivo principale dell’Internazionale, perché il valore del gioco era compreso in un contesto ideologico chiaramente definito. La costruzione di un teatro per un pubblico eterogeneo implica una critica ai criteri borghesi di piacere. Nel progetto di restauro del SESC, è evidente che il vecchio e il nuovo, l’artigianale e l’industriale, il semplice e il complesso si equilibrano in una riuscita articolazione degli spazi.
L’aspetto pedagogico delle mostre al SESC Pompeia, circa due decenni dopo le esposizioni tenute a Bahia, era rilevante per comprendere la rapida industrializzazione del Brasile e il desiderio dell’architetta di valorizzare la storia dell’uomo semplice e creativo delle classi meno favorite.
Le cinque mostre curate da Bo Bardi al SESC da Pompeia – intrise di una funzione educativa – intitolate Design no Brasil: história e realidade18 (Design in Brasile. Storia e realtà 1982), Mil brinquedos para a criança brasileira19 (Mille giochi per l’infanzia brasiliana, 1982), O belo e o direito ao feio (Il bello e il diritto al brutto, 1982), Caipiras, capiaus: pau-a-pique (1984)20 e Entreato para crianças (Supplica per l’infanza, 1985) avevano un’esplicita funzione pedagogica, ma in un certo senso erano lontane dagli oggetti artigianali trovati nelle comunità del Recôncavo bahiano ed esposti a Salvador. La mostra del 1984 non esponeva manufatti o oggetti industriali, poiché l’architetta costruì una casa in pau a pique con pollaio e forno a legna – una ricostruzione ‘scenografica’ – mostrando al pubblico la vita quotidiana della campagna brasiliana, rivelando la capacità creativa della popolazione rurale che, con le proprie mani, può risolvere problemi di sopravvivenza.
Le mostre organizzate da Bo Bardi presso la Fabbrica del SESC Pompeia sono espressioni che diffondono la cultura in tutta la sua forza e hanno la particolarità di non essere ospitate esclusivamente in un contesto museale, ma in un centro per la cultura e il tempo libero da lei progettato e riadattato. Il carattere museografico delle esposizioni che vi si sono svolte è molto diverso dal concetto tradizionale di museo, che mira a esporre trofei, oggetti della memoria e opere d’arte riconosciute dal pubblico alfabetizzato. Tale circostanza consente di instaurare un rapporto più promettente per attrarre la vicinanza del pubblico – abituale o specifico – che, grazie all’ambiente informale che lo accoglie, non si sente a disagio anche se è alla prima esperienza di fruizione di una mostra.
Vale la pena ricordare che ancora oggi i corsi gratuiti ideati dall’architetta per sviluppare le competenze artistiche e artigianali si moltiplicano in quello spazio magico, che è anche uno spazio pedagogico. Come il suo contemporaneo Paulo Freire, Bo Bardi credeva nel binomio educazione-cultura che funziona come un sistema attivo basato sul dialogo, sempre arricchito da dibattiti, discussioni in circoli di cultura e contenuti in cui l’erudizione è sostituita da situazioni esistenziali stimolanti, incentrate sulla vita quotidiana.
Attualmente il SESC Pompeia svolge attività che valorizzano tutti gli aspetti della vita culturale, in particolare le attività di spettacolo, le arti visive, l’artigianato, il cinema, la biblioteca, la letteratura e il patrimonio, nonché attività sportive, rivolte principalmente ai dipendenti degli esercizi commerciali, ma aperte a tutta la popolazione. L’ingresso al SESC Pompéia è gratuito, ma per alcune attività è necessario possedere una tessera associativa o acquistare biglietti a prezzi differenziati per categoria.
1.3 Il SESC Teatro Pompeia e il restauro critico di Lina Bo Bardi
Lina Bo Bardi è intervenuta spesso sui beni del patrimonio culturale, considerando sempre l’opera soprattutto come un atto che con la sua forma esprime il carattere di chi l’ha costruita, conferendo rilevanza e significato alle possibilità di riutilizzo del bene stesso. Nel caso della conservazione della disattivata fabbrica di fusti Mauser, all’interno della quale ha progettato il Teatro SESC Pompeia sulla base dei principi del restauro critico, emerge l’uso di questo metodo, che rimane ancora molto attuale.
D’altra parte, il teatro degli anni Ottanta ha rifiutato la concezione di spazi che esprimevano una rottura radicale tra sala e scena, poiché i paradigmi indagati all’inizio del secolo da Antonin Artaud, Gordon Craig e Jacques Copeau, tra gli altri, guardavano ad un teatro più partecipativo, in cui la tendenza era la valorizzazione della scena aperta. Già nel 1960, Jean Jacquot sottolineava che il teatro voleva essere più inclusivo dal punto di vista sociale21. L’idea di creare un teatro del popolo – che permettesse la diffusione della cultura anche alla classe operaia – sembra aver guidato l’allestimento dello spazio teatrale del SESC da Pompéia, in cui è evidente la necessità di una democratizzazione della scena e della costruzione di teatri di piccole dimensioni.
Inserito nell’edificio progettato come sede del Servizio Sociale del Commercio dell’ex Fábrica da Pompéia, il teatro può suscitare sorpresa in uno sguardo meno avvezzo alle innovazioni introdotte. Per l’architetta, il progetto doveva essere coerente con il concetto di comunicazione e con la sua visione dell’architettura: costruire un palcoscenico per la cittadinanza culturale, concepita nell’esercizio della sua forma più completa. Il foyer, ricavato in uno spazio tra due blocchi della fabbrica dismessa, coperto da piastrelle di vetro e chiuso da capriate a vista (fig. 8), consente l’accesso alla sala spettacoli. Su questa strada interna trasformata in foyer, Bo Bardi ha progettato i camerini, le sale luci e le sale audio.
Precedentemente condizionata da un ideale di bellezza, l’architettura deve invece presentare una forma che segua la funzione, come predicato dai teorici del Bauhaus. Ma l’architetta demistifica questo modello e osa costruire in modo innovativo un vero e proprio teatro sandwich, cioè con le sedute ai lati opposti della piattaforma rettangolare del palcoscenico, che funziona in modo simile ad un’arena. Per indurre gli spettatori a partecipare attivamente alla rappresentazione senza essere comodamente sprofondati nel comfort come avviene in molti teatri, Bo Bardi ha progettato poltrone in legno senza imbottitura (fig. 10). I sedili di legno duro sulle gradinate di cemento suggeriscono già che gli spettatori devono essere attenti e attivare il pensiero e l’immaginazione22.
Nell’eterno dibattito che accompagna gli studi sullo spazio teatrale fin dall’Antichità, la dialettica si svolge tra il palcoscenico attorniato dagli spettatori, più originale e dionisiaco – che forse offre maggiori possibilità alle sperimentazioni sceniche – e il palcoscenico all’italiana – più classico e cartesiano, oltre che più caratteristico della tipologia di edificio “monumentale”. Per Étienne Souriau, il teatro oscilla tra questi due poli opposti – la sfera e il cubo – senza mai far trionfare completamente un estremo. Storicamente, ogni volta che un principio è stato in procinto di portare il suo trionfo troppo lontano, il principio opposto è emerso presto come un bene desiderabile, perché è da questa “competizione” che il teatro vive23.
Nello spazio scenico del Teatro SESC Pompéia avviene una trasformazione che poetizza, comunica e modifica la vita quotidiana, permettendo di riconoscere l’esercizio totalizzante della sovrapposizione del “fare” architettonico che unisce estetica e impegno sociale. Lina cerca uno spazio ludico che trasporti lo spettatore in un irreale riconoscibile. Il “fare” teatro, il lavoro con il Teatro Oficina e José Celso, la ricerca su Brecht, gli elementi scenici creati, i costumi, hanno contribuito al desiderio di materializzazione di un reale immaginario, costituendo una vera e propria poetica architettonica. Percepiamo il senso poetico dello spazio creato dal contatto tra l’ambiente e il suo fruitore che sollecita diversi sensi, in una perfetta integrazione, dove spettatori e attori condividono la scena.
Riteniamo, quindi, che l’architetta abbia fatto uso del palcoscenico “sferico”, nonostante la base rettangolare, poiché non c’è modo di creare illusionismo con tale disposizione del pubblico che mette a nudo il palcoscenico in tutte le sue dimensioni. Lina ha difeso la teoria secondo cui il teatro è vita e che una scena “aperta” e spogliata può offrire allo spettatore la possibilità di “inventare” e partecipare all'”atto esistenziale” che lo spettacolo teatrale rappresenta. Oltre a lasciare le sedute senza imbottitura per criticare direttamente la società dei consumi, ha utilizzato la distorsione visiva che la forma rettangolare del palcoscenico sandwich propone agli spettatori, dando un aspetto scenografico deformato.
Se il teatro ad arco di proscenio, con la sua frontalità forzata, funziona come uno specchio della società24, un palcoscenico trasversale con banchi di sedie ai lati opposti permette a due (gruppi) di spettatori di condividere e valutare la scena più intensamente. Bo Bardi ha creato le condizioni per una messa in scena intima e un’intensa interazione tra interpreti e spettatori, poiché ogni azione è visibile da entrambi i lati dei banchi di sedie di duro legno da lei progettati25.
Utilizzando l’architettura come linguaggio, Lina comunica chiaramente al pubblico che non intende progettare un teatro convenzionale. Il suo concetto di “architettura povera” si lega alla proposta estetica di onestà strutturale, lasciando le pareti di cemento senza rivestimenti e identificandosi anche con la nozione di “teatro povero” che caratterizza l’estetica di Brecht, utilizzata con maestria negli spettacoli in cui ha agito come scenografa26.
Gli spazi sociali sono già stratificati di associazioni prima di essere utilizzati per eventi teatrali27 e, in questo caso, Bo Bardi ha esplorato le immagini che gli ex operai avevano del luogo, ricreando l’ambiente della fabbrica. I sedili rigidi, disposti lungo i gradini di cemento, suggeriscono che il pubblico frequenta il teatro non per comodità, ma per stimolare il pensiero e l’immaginazione. Il progetto di Bo Bardi per il teatro del SESC Pompeia incarna le idee gramsciane sul potere trasformativo e liberatorio delle azioni culturali che un intellettuale dovrebbe intraprendere e, come Freire, cerca di stimolare gli individui a percepire i fatti da soli28.
1.4 Alcune considerazioni
Per quanto riguarda il restauro, all’epoca del progetto si stava già pensando alla nuova visione di intervento sul patrimonio edilizio introdotta dalla Carta di Burra, che passa dall’idea di mantenere un bene culturale nel suo stato originario alla conservazione dei suoi elementi più significativi. I lavori di riadattamento della fabbrica hanno preservato lo “spirito del luogo” e la memoria operaia in modo non ortodosso e, con un atteggiamento poetico, Bo Bardi ha restituito l’architettura della fabbrica alla popolazione del quartiere Pompeia, con un nuovo uso socio-culturale. Bo Bardi ha portato avanti questo processo poetico-critico, combinando Teatro, Architettura e Passato come Presente Storico e la moderna tecnica del “restauro critico”, senza ignorare il rispetto per l’essenza storica degli antichi edifici29.
L’architetta si è resa conto che un sistema di relazioni simboliche tra cultura e tempo libero può presentare risultati solidi solo se collegato a un’analisi sociologica della struttura del sistema di relazioni sociali di produzione, circolazione e consumo, come il progetto realizzato al SESC Pompeia. L’intervento tra la produzione popolare e artigianale e le tecniche di produzione contemporanee indica, a mio avviso, il percorso autentico per lo sviluppo della cultura e dell’innovazione in un paese dalle culture così molteplici.
Incoraggiando la condivisione di attività culturali per tutte le classi sociali indistintamente e promuovendo la diffusione della cultura in tutte le sue espressioni, ma soprattutto delle culture originarie della stessa società brasiliana, l’architetta, la cui cultura letteraria era molto raffinata, riuscì a conquistare nuovo pubblico per le sue mostre e i suoi corsi d’arte, per non parlare delle numerose scenografie e dei costumi che disegnò per il teatro sia a Bahia che sull’asse Rio-São Paulo, e dell’impulso che diede alle discussioni sui temi culturali nelle innumerevoli riviste alle quali collaborò con articoli nei quali si esprimeva in modo schietto30.
Come verificato nel corso di questa ricerca, difendendo e incoraggiando le scoperte individuali della classe operaia e opponendosi alle forme tradizionali di apprendimento, sotto diversi aspetti, Bo Bardi – una militante per la valorizzazione della cultura emanata dalle masse – condivideva le proposte di “consapevolizzazione” e di realizzazione dell’educazione delle classi lavoratrici sostenute dal pedagogista Paulo Freire.
Il progetto SESC da Pompeia e le altre proposte di Lina Bo Bardi nel campo della cultura dimostrano che l’investimento nel capitale umano deve essere ampio e rispettoso delle differenze regionali e culturali, soprattutto in un Paese che presenta diversità sociali e di reddito come il nostro. Le molteplici culture che identificano gli individui e la società conferiscono identità culturali diverse a ogni regione e, pertanto, Bo Bardi difende progetti culturali specifici per la popolazione brasiliana, evitando di ‘pastorizzare’ le culture autoctone, contaminandole con influenze europee o nordamericane.
In conclusione ribadiamo che Lina Bo Bardi si è distinta come una delle artiste più attente agli aspetti etici del progetto architettonico, indipendentemente dall’uso pubblico o privato degli edifici da lei progettati. Sapeva articolare molto bene le tensioni umane e trasformare gli spazi in veri “luoghi”, sempre con molta poesia. Si è battuta per la creazione di condizioni efficaci di benessere sociale contro le ingiustizie, cercando di stimolare la conoscenza e la creatività. Ascoltando e tenendo sempre in considerazione il parere dei lavoratori delle sue opere e dei futuri utenti degli spazi da lei ideati, è stata una paladina dell’architettura etica, riducendo al minimo gli inevitabili conflitti e il degrado architettonico.
- SESC sta per Serviço Social do Comércio; si tratta di un’istituzione privata, gestita da imprenditori del commercio di beni, servizi e turismo, focalizzata sul benessere sociale dei suoi dipendenti e delle loro famiglie, ma aperta alla comunità in generale. L’ente no-profit brasiliano è da sempre impegnato nel tentativo di favorire l’integrazione e le attività sportive e culturali per le classi più disagiate; cfr. https://www.sescsp.org.br [N.d.T.]. ↩
- Marcelo Ferraz, Numa velha fábrica de tambores. SESC-Pompéia comemora 25 anos, in «Arquitextos», 093.01, São Paulo SP 08, abr. 2008. ↩
- Dichiarazione di Bo Bardi da Marcelo Ferraz (a cura di), Lina Bo Bardi, ILBPMB, São Paulo 1993. ↩
- Viollet-le-Duc cercava di ristabilire la “situazione originaria del monumento”, quasi sempre presunta e non provata. Le aggiunte e gli interventi avvenuti nel corso della storia del monumento vengono quindi di solito trascurati a favore della ricerca dell’unità stilistica. L’architetto sosteneva anche che restaurare un edificio non significa mantenerlo o ripararlo, ma riportarlo a uno stato di integrità che potrebbe non essere mai esistito in un determinato momento (Emmanule-Louis-Nicolas Viollet-le Duc, Restauration, in Dictionnaire raisonné de l’architecture française du XI au XVI siècle, Bance, Paris 1854-1868, t. 8, p. 14, ad vocem). Va ricordato che il teorico operava in un’epoca in cui il restauro si stava ancora affermando come disciplina scientifica. ↩
- Cfr. Beatriz Mugayar Kühl, Arquitetura do Ferro e Arquitetura Ferroviária em São Paulo, Ateliê Editorial, Campinas 1998, pp. 204-207. ↩
- Cesare Brandi, Teoria del restauro (1963), Einaudi, Torino 1970, p. 3. ↩
- Ivi, pp. 7-8 (ed. portoghese: Teoria do Restauro, trad. di Beatriz Kühl, Ateliê Editorial, Campinas 2003, p. 33). ↩
- Ivi, p. 17. (dd. portoghese p. 47). ↩
- Lina Bo Bardi, Uma aula de arquitetura, in «Projeto», n. 133, São Paulo 1990, pp. 59-64. ↩
- Ana Carolina de Souza Bierrenbach, Os restauros de Lina Bo Bardi e as interpretações da história, Dissertação de Mestrado em Arquitetura, UFBA, 2001. ↩
- Sérgio Ferro, Arquitetura Nova, in Arte em Revista, 4 (2ª ed.), São Paulo: CEAC, março de 1983 (Articolo del 1968), pp. 89-95: 89. ↩
- Lina Bo Bardi, Uma aula de arquitetura, in «Revista Projeto», n. 149, 1992, pp. 60-64. ↩
- Nel volume O canteiro e o desenho (1976), Sérgio Ferro auspica un’alleanza tra i tecnici e gli operai dell’edilizia civile, fondata sui concetti marxisti di teoria e prassi. ↩
- Lina Bo Bardi, Crônicas 8, de história, de cultura da vida, arquitetura, pintura escultura musica artes visuais. Diário de Notícias, Cidade de Salvador, 26 ottobre 1958. ↩
- Lina Bo Bardi, “1a conferência na EBA”. Escritos de Lina Bo Bardi para o Magistério. Salvador, 17/abril 1958. ↩
- Bo Bardi aveva già adottato i concetti dell’arquitetura brutalista nel progetto per il MASP, Museu de arte de São Paulo, inaugurato nel 1968. ↩
- Cfr. Evelyn Furquim Werneck Lima, História de uma arquitetura ética. Os edifícios teatrais de Lina Bo Bardi, in «ArtCultura» (UFU), vol. 11, 2009, pp. 58-70. ↩
- O design no Brasil: história e realidade, cat. Centro de Lazer Sesc Fábrica Pompéia, MASP, São Paulo 1982. ↩
- Lina Bo Bardi et al., Mil brinquedos para a criança brasileira, cat., Centro de Lazer Sesc Fábrica Pompéia, Masp, São Paulo 1982. ↩
- Pau-a-pique si dice una tecnica costruttiva che prevede l’intonacatura di fango e paglia su un reticolo intrecciato di rami o strisce di legno, sostenuto da pali verticali. Il pau-a-pique è stato utilizzato nell’edilizia fin dal Neolitico ed è ancora usato in molte parti del mondo. Caipira e capiau indicano il contadino, [N. d. T.]. ↩
- Jean Jacquot, Présentation, in Denis Bablet-Jean Jacquot, (sous la direction), Le lieu théâtral dans la société moderne, Éditions C.N.R.S., Paris 1961, pp. 7-10: 10. ↩
- Evelyn Furquim Werneck Lima, Factory, Street and Theatre: Two theatres by Lina Bo Bardi, in Andrew Filmer, Juliet Rufford (Ed.), Performing Architectures. Projects, Practices, Pedagogies, vol. 1, Bloomsbury Methuen, London 2018, pp. 35-48. ↩
- Cfr. Étienne Souriau, Le cube et la sphère, in André Barsacq, Raymond Bayer et al., Architecure et Dramaturgie, éd. Par André Villiers, Flammarion, Paris 1950, pp. 61-83 (ed. Portoghese: O cubo e a esfera, trad. Redondo Junior, in O teatro e sua estética, Arcádia, Lisboa 1964. pp. 31-48). ↩
- Cfr. Arnold Aronson, Looking into the Abyss: essays on scenography, University of Michigan Press, Ann Arbor 2005, p. 40. ↩
- Evelyn Furquim Werneck Lima, Factory, Street and Theatre: Two theatres by Lina Bo Bardi, in Andrew Filmer, Juliet Rufford (Ed.), Performing Architectures. Projects, Practices, Pedagogies, cit., p. 41. ↩
- Si veda il testo sulle scenografie di Lina in LIMA, Evelyn Furquim Werneck, O espaço cênico de Lina Bo Bardi: uma poética antropológica e surrealista, in «ArtCultura: Revista de História, Cultura e Arte», vol. 9, n. 15, jul.-dez 2007, Edufu/CNPq/Capes, Uberlândia pp. 16-28. ↩
- Cfr. Marvin Carlson,The Haunted Stage: The Theatre as Memory Machine, University of Michigan Press, Ann Arbor 2003. ↩
- Cfr. Evelyn Furquim Werneck Lima, Factory, Street and Theatre: Two theatres by Lina Bo Bardi, in Andrew Filmer, Juliet Rufford (Ed.), Performing Architectures. Projects, Practices, Pedagogies, cit., pp. 42-43. ↩
- Cfr. Evelyn Furquim Werneck Lima, Por uma revolução da arquitetura teatral: o Oficina e o SESC da Pompéia, in «Arquitextos», vol. 1, ottobre 2008. ↩
- Lina Bo Bardi ha scritto per le riviste italiane Casabella, A – Attualità Architettura Abitazione Arte e Domus. In Brasile è stata redattrice della rivista Habitat e ha collaborato con giornali e riviste di architettura e cultura. La sua tesi di laurea per professore ordinario è un vero e proprio trattato di teoria dell’architettura dal titolo Contribuição propedêutica ao ensino da teoria da arquitetura – tesi per la cattedra di teoria dell’architettura all’USP, São Paulo 1957, riprodotto in fac simile da ILBPMB nel 2002. ↩