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n. 12 – ottobre 22, Teatro

Occupare per istituire: risonanze nel fuori-tempo. Un archivio di voci e corpi che infestano e ramificano

anasuromai, Roma, Altare della Patria, 8 marzo 2017

ABSTRACT

In Italia a partire dagli anni Sessanta e Settanta, i movimenti inventano l’occupazione di spazi, con una grandissima varietà di forme. Allo stesso modo il femminismo occupa i propri spazi: reparti di ospedali, spazi per la salute delle donne, luoghi di socialità, di incontro e di organizzazione in un proliferare di istituzioni autonome. Negli anni, artistx e lavorat_ culturali hanno fatto propria questa pratica, declinandola in modi diversi e nutrendo sperimentazioni estetiche, politiche, di linguaggi. La spazialità dunque può essere osservata come campo di affermazione di autonomia. Queste nuove istituzioni che nascono, creando spazio per l’azione collettiva, hanno spesso però una temporalità fragile, sono spesso più esposte e non durature. Dove si sedimentano dunque queste esperienze? Abbiamo a disposizione per leggerle solo la lente della scomparsa e del fallimento? Prima della fine, vive il tempo del nel frattempo. La fragilità degli archivi – queer, delle donne, delle lotte dei soggetti minoritari, della performance – è una questione politica. Qui viene affrontata attraversando varie infestazioni a diverse altezze spaziotemporali (Roma 1972, Roma 2018, Teatro Valle Occupato 2011, Globe Theatre occupato 2021) alla ricerca di ramificazione e trasmissione possibile dei repertori di resistenza/istituenza. Partendo dalla vocalità, la più volatile tra le performance.

1. INFESTAZIONI

Voice 1. 8 marzo 1972 / Campo de’ Fiori, Roma1

Parto da qui, dall’assemblaggio corporeo, sonoro, politico e affettivo innescato dalla prima manifestazione femminista in Italia, a Campo de’ Fiori a Roma, l’8 marzo 1972. Ho guardato il video2 molte volte, a cercare indizi, tracce tra le crepe della pellicola. Una prima volta. È un documento storico, ma è anche la traccia – sonora, visiva – di una precisa intensità affettiva. E non è forse un caso che dietro la camera, a girare, ci sia Alberto Grifi, cineasta tra i più radicali dei Settanta italiani – la posizione della camera è sempre interna, nel dentro della mischia dei corpi, riprende le reazioni della polizia, da una posizione militante. Sperimentazioni politiche, sperimentazioni estetiche. Vorrei però soffermarmi, più che sulle immagini, sulle voci. Ascoltandole oggi ciò che colpisce sono infatti le vocalità fragili, tremolanti, malferme. Una pasta granulosa e sottile, come fossero voci appena nate, appena venute al mondo. Un’emersione. Se gli slogan sono radicali, definitivi, assertori nei contenuti (“nella famiglia / l’uomo è il borghese / la donna il proletario”, “e noi che siamo donne / paura non abbiamo”) la messa in voce suona leggermente fuori tempo, quasi stonata. Un megafono è utilizzato per amplificare, per potenziare l’emissione nello spazio aperto, e diventa all’occorrenza anche interstizio tra due corpi, membrana che ripara – più volte, una delle donne che scandisce gli slogan al megafono lo terrà stretto avvicinandolo al corpo dell’agente in borghese, urlandogli proprio in faccia. Affrontamento. Fragilità e potenza. Ci dà l’idea che non siamo ancora dentro un rituale di piazza consolidato, che qualcosa sta accadendo. Queste voci sono tremolanti ma piene di energia, una polifonia, di contro alle voci degli uomini invece piene, solide, sicure, senza crepe –– un tono paternalista (“se ne vada”, “andate a casa”, “ragazze, andate sul marciapiede”, “adesso basta eh”, “ma non vi vergognate?”, “lei è un’incosciente”) che poi svela tutta la violenza. Chiusi negli impermeabili, mani in tasca o alzate a presagire gesti, minacciano, insultano, sminuiscono, infantilizzano, e infine ordinano la carica. Caschi calati, e manganelli.

Manifestazione dell'8 marzo 1972 a Campo de' Fiori. Archivio NoiDonne.
Manifestazione dell’8 marzo 1972 a Campo de’ Fiori. Archivio NoiDonne.

Una prima volta che stratifica altre prime volte, un aggregato molecolare. Quell’8 marzo del 1972 è presente in piazza una figura fondativa del lesbofemminismo italiano, Mariasilvia Spolato. Da sola, tiene tra le mani un enorme cartello che le copre quasi interamente il corpo. Lo possiamo considerare il primo atto di visibilità lesbica, una nascita – tra la molte nascite – del movimento lesbico e gay, una nascita “minore”. E anche la prima autonominazione pubblica: dirsi “lesbica”. La storia è nota. Spolato pagherà carissimo questo atto politico: la foto viene pubblicata su una rivista nazionale, e lei, professoressa di matematica alle scuole superiori, con collaborazioni all’università e pubblicazioni alle spalle, viene licenziata in quanto “indegna di insegnamento”. Finirà a vivere per strada, nei treni, isolata; muore in ospizio dove trascorre gli ultimi venti anni di vita. Ma questo accade dopo, e l’esito non è mai un buon metro di giudizio per valutare una vita, o un’esperienza di lotta; prima che la fine accada, Spolato sarà una figura cardine dell’attivismo in Italia, un anello, un filo di giuntura, che ha tessuto per anni con intelligenza politica i legami tra femminismo, movimento lesbico nascente e attivismo gay. Intravedendoli prima che si solidificassero, immaginandoli. Quella trama sottile e fragile su cui ancora oggi proviamo a stare in equilibrio, che adesso riconosciamo come un “fatto”, e che forse è il caso di riannodare nelle genealogie multiple del queer3.

Manifestazione dell'8 marzo 1972 a Campo de' Fiori. In Foto Mariasilvia Spolato. Archivio Panorama.
Manifestazione dell’8 marzo 1972 a Campo de’ Fiori. In Foto Mariasilvia Spolato. Archivio Panorama.

Prima della fine, accadono moltissimi “nel frattempo”. Questi sono da raccontare. Gli archivi delle lotte devono poter raccogliere queste temporalità storte, spesso incompiute, ma non per ciò meno rilevanti, meno trasformative, per rompere la scena patriarcale e maschile dell’evento, della Rivoluzione, della vittoria, dell’accadimento unico e definitivo. I “nel frattempo”, prima che le cose prendano forma e nome, sono una delle temporalità queer.

Manifestazione dell'8 marzo 1972 a Campo de' Fiori. Fotogramma tratto da <em>Anna</em>, di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli, 1975.
Manifestazione dell’8 marzo 1972 a Campo de’ Fiori. Fotogramma tratto da Anna, di Alberto Grifi e Massimo Sarchielli, 1975.

Voice 2. 8 marzo 2018 / Roma, Milano.

anasuromai, Roma, Altare della Patria, 8 marzo 2017
anasuromai, Roma, Altare della Patria, 8 marzo 2017

Un’altra presa di parola, altri corpi, altre vocalità – la voce e il gesto sono i segni della pratica femminista dell’anasuromai, adottata da un collettivo fluido di artiste* di Roma e Milano attive nel movimento di Non Una Di Meno, per gli scioperi dell’8 marzo del 2017 e 2018. Si legge nella call delle attiviste: «l’uso imprevisto del corpo collettivo nello spazio pubblico è sovversivo. Cerchiamo un gesto che racconti l’alleanza radicale tra corpi che eccedono i confini angusti dell’immaginario dominante: vogliamo alzarci le gonne, vogliamo farlo insieme e, insieme, vogliamo ridere con tutta la forza della nostra rabbia»4. È un gesto “arcaico” – alzare la gonna e mostrare i genitali, mettendo in gioco anatomie fantastiche e proliferazioni di organi bioartificiali5 – che viene incorporato e insieme queerizzato, rovesciando le retoriche della naturalità del corpo. Niente di naturale nei nostri corpi. L’azione è preparata da una serie di laboratori aperti, tra Roma, Milano e Bologna – si scambiano immagini, idee, videoclip. Il repertorio che viene rimesso in gioco proviene dalle estetiche riot grrrl, punk e postpunk, dal lavoro di artiste come Cosey Fanni Tutti, Peaches, Amanda Palmer, ma compostate e riassemblate dentro sensibilità contemporanee. La presenza di un gruppo di artiste e lavoratrici dell’arte e dello spettacolo fa fermentare un diverso lavoro sui linguaggi, che si rivolge anche verso lo stesso movimento femminista, spingendo a uscire fuori dalla ritualità delle manifestazioni e dalle retoriche consuete della comunicazione politica, a cercare altri modi, altre pratiche, altri immaginari. Meno rassicuranti, più disturbanti, sgradevoli.

L’urlo è l’azione: «anaaasuuuromaiii», che è anche una parola magica da intonare insieme, a più voci, un incantesimo, un rito. Un grido selvatico, senza origine in cui le vocali si allungano a coprire la durata del gesto. Ancora una volta, la vocalità porta con sé una tonalità affettiva. Hackerare lo spazio pubblico è l’obiettivo, ma anche turbare e disturbare – il disturbo è infatti anche un turbamento, rottura di un ordine e alterazione emotiva. A Roma le azioni si svolgeranno sull’Altare della Patria di Piazza Venezia, rinominato “Altare del Patriarcato”, e poi nel 2018 all’obelisco del Foro italico che reca ben leggibile la scritta “Mussolini Dux”, rovesciando con una pratica contrasessuale il Fallo fascista in un “dilDUX” rosa. Si vuole sovvertire una monumentalità carica di narrazioni e simbologie patriarcali, fallocentriche.

dilDUX, Roma, Piazza Lauro de Bosis, 8 marzo 2018.
dilDUX, Roma, Piazza Lauro de Bosis, 8 marzo 2018.

La voce e il gesto contro la solidità del marmo, della pietra, dell’archivio urbano fatto di strade, edifici, statue – monumenti effimeri, impermanenti.

2. L’EFFIMERO CHE SIAMO: DOVE VIVONO GLI ARCHIVI?

Le infestazioni appena attraversate, composti instabili di gesti, grida, presenze, prese di parola nello spazio dell’aria sono momenti transitori, volatili appunto. Eppure stratificano, lasciano traccia, si imprimono nei corpi e nelle memorie anche se in maniera carsica, nascosta. È possibile rendere conto di queste stratificazioni, che non trovano posto nelle storie maggiori neanche delle lotte, o sono destinate alla scomparsa?

Ragionare su quanto siano fragili gli archivi – delle lotte, della performance, delle culture subalterne, delle vite queer, lesbiche, gay, trans – è una questione politica che chiama in causa la capacità trasformativa e istituente nel medio e lungo termine, e che negli ultimi anni sta prendendo sempre più spazio6. Collocata come sono in un punto di intersezione tra pratiche artistiche e pratiche politiche, mi sembra di vedere un’affinità profonda tra questi archivi differenti eppure egualmente effimeri ed esposti. Mescolare le domande, i nodi e le pratiche può aprire spiragli e allargare visioni. La performance, in quando arte della (co)presenza tutta riversata sulla dimensione della liveness, addensa per sua natura domande attorno alla sua temporalità – sembrerebbe consumarsi interamente nel presente, nel qui e ora, senza possibilità di essere archiviata, depositata, trasmessa. Senza lasciare dietro di sé resti materiali – artefatti, documenti, testi – la performance sembrerebbe destinata alla sparizione7. È un ampio dibattito, che nell’elaborazione di Peggy Phelan, Rebecca Schneider, Diana Taylor, Annalisa Sacchi, Jose Esteban Muñoz e altre/i si intreccia però a doppio filo alle riflessioni sulle culture minoritarie, subalterne, colonizzate, sui saperi minori e controegemonici delle comunità resistenti, queer, delle donne e delle persone razzializzate. Quali sono le esperienze, le tradizioni, i gesti, i comportamenti, le conoscenze che rimangono visibili e dunque ripetibili? Quali gruppi e quali soggetti riescono a trasmettere le proprie storie e la propria memoria, e quali vengono invece “fatti sparire”? Chi è degna/o di essere ricordata/o e chi viene dimenticata/o, omessa/o?

Rovesciando questa prospettiva, per Annalisa Sacchi il teatro, arte effimera per definizione, è invece luogo di produzione e di moltiplicazione della presenza, che costituisce un archivio di memoria in sé; una particolare forma di archivio affettivo che si deposita nella memoria vivente delle spettatrici e degli spettatori8. In quanto esercizio di memoria, la scena istituisce le forme della propria memorabilità: una memoria non monumentale, non statica, non autoritaria, un atto della sopravvivenza collettiva contro ogni metafisica della fine. Un’arte della ricomparsa che accade nei corpi, da corpo a corpo. Archivi affettivi. Stiamo guardando alla performance, eppure questa descrizione mi parla moltissimo se riportata sul piano delle esperienze politiche controegemoniche. E certo nell’annodarsi di questi fili imprevisti tra arti e politiche della presenza è prezioso il lavoro di Diana Taylor9, studiosa latinoamericana della performance e postcoloniale. Per Taylor la performance diventa lo spazio attraverso cui ripensare – contro l’egemonia eurocentrica e patriarcale dell’archivio fondata sulla centralità del documento scritto e dei materiali solidi – la possibilità un repertorio vivente delle controstorie, delle esperienze migranti, diasporiche, colonizzate, delle culture subalterne. Memorie incorporate, quelle della performance così come quelle delle storie minori, ma non per questo prive di consistenza, repertori effimeri di saperi, gesti, atti fuori codice, danze, parole dette a voce solo esposti alla sparizione ma al tempo stesso disponibili a essere trasmessi, ripetuti, reincorporati e riattivati.

Infestazioni, spettri in cerca di corpi. Archivio e repertorio si mischiano continuamente, in forme ibride di trasmissione, senza formare un binarismo oppositivo.

3. OCCUPAZIONI DI SPAZIO E TEMPORALITÀ FRAGILI

Occupare non è parola neutra – parlando a un incontro di documenta15 che si teneva nello spazio palestinese10, mi sono resa conto quanto il termine possa essere associato a un linguaggio militare connesso alla violenza statuale e al controllo del territorio. Ma in Italia a partire dagli anni Sessanta e Settanta, l’occupazione di spazi è un’invenzione dei movimenti e con una grandissima varietà di forme: dalle terre abbandonate dalle occupazioni abitative nelle zone urbane per il diritto alla casa e all’abitare, alle fabbriche e ai luoghi di lavoro, alle scuole e alle università fino ai centri sociali a partire dagli anni Ottanta e agli spazi urbani. Allo stesso modo il femminismo occuperà i propri spazi: reparti di ospedali, spazi per la salute delle donne che diventeranno consultori, spazi di socialità, di incontro e di organizzazione. Si può riconoscere qui un tratto identitario del movimento femminista italiano, soprattutto degli esordi, che non si limita a negoziare l’ingresso nelle istituzioni “maggiori”, istituzioni artistiche o dipartimenti delle università, ma prolifera di istituzioni autonome, librerie, case editrici, consultori autogestiti, spazi separati per l’autocoscienza, gruppi di studio, seminari per l’autoformazione medica, sessuale e politica, case per le donne. L’autonomia si lega alla creazione di nuove istituzioni.

Artistx e lavorat_ culturali hanno fatto propria questa pratica, attraversandola e declinandola in modi diversi. Innanzitutto, partecipando come militanti ai movimenti di occupazione; e spesso dentro questi spazi “politici” creano luoghi dedicati, atelier, progetti artistici, costruiscono teatri e sale prove, tipografie autogestite, sale da concerti. Da questo innesto fioriscono esperienze anche molto diverse tra loro – solo per fare un esempio, la scena più di ricerca che prende corpo negli anni Novanta ha una relazione profonda con i centri sociali e gli spazi indipendenti o occupati, dentro cui i gruppi e le compagnie non solo provano e mettono in scena i loro lavori, ma entrano in contatto con il lavoro di altrx artistx, spesso di altre discipline, curano serate, feste e ambienti, immaginano programmi culturali e sperimentano nuove pedagogie11. Già dagli anni Settanta la sperimentazione artistica è passata dalla costruzione di reti di luoghi non istituzionali, dalle cantine alle gallerie e ai festival indipendenti.

Provando ad adottare una lente diversa, possiamo riconoscere alcuni di questi grovigli relazionali e spaziali come forme di altre-istituzioni – anche la compagnia teatrale, unità base del lavoro della scena, può essere intesa come un modello collettivo e cooperativo che tiene insieme vita e legami affettivi, produzione ed economie comuni, e intesse relazioni con altrx artistx, collettivi e spazi nel nomadismo. Quando parliamo di spazi indipendenti è opportuno visualizzare le filiere materiali e i network organizzativi, spesso fitti, che implicano l’attivazione di economie alternative, nuovi pubblici, un diverso rapporto con la distribuzione urbana, tra centro e periferia, tra grandi e piccole città, circuiti di scambio, l’attivazione dei saperi necessari alla produzione. Non è dunque una questione solamente estetica – le controculture hanno avuto a disposizione (almeno fino agli anni 2000, momento in cui è avvenuto un cambio nel rapporto tra underground e mainstream) club, librerie, riviste, fanzine, spazi prove, studi di registrazione, etichette, distributori, gruppi per la comunicazione, service tecnici che si muovevano tra economie formali e informali, etc.

Ma altre volte, artiste/i e lavorat^ dell’arte hanno attivato i propri processi di soggettivazione in prima persona e innescato pratiche istituenti a partire dai loro bisogni materiali – spesso infatti, l’occupazione è stata una strategia alternativa per soggettività precarie e disperse che non hanno a disposizione lo strumento dello sciopero. Dall’occupazione del TPO / Teatro Polivalente Occupato nel 1995 a Bologna, all’emersione delle/gli intermittenti italiani, le occupazioni romane del Rialto e dell’Angelo Mai, fino al movimento delle occupazioni culturali degli anni Dieci (Teatro Valle Occupato, Macao, L’Asilo, Teatro Rossi Aperti, Teatro Garibaldi, La Cavallerizza, Sale Docks), con modalità differenti queste lotte hanno assunto la pratica dell’occupazione, della gestione o dell’autogoverno di spazi come forma di autorganizzazione del precariato artistico. Una riappropriazione delle istituzioni dell’arte pensata e compiuta in continuità con le pratiche artistiche, e che attiva un processo di soggettivazione e di presa di parola da parte dellx artistx, molto più profondo della semplice partecipazione. Si tratta di problematizzare e riprogettare la propria biografia, la propria identità sociale (“artista” o “lavoratrice culturale”?), i curriculum disomogenei e “impresentabili”, le condizioni materiali, i sistemi relazionali e produttivi, le economie multiple, rompendo la frammentazione e l’isolamento e operando continui passaggi di scala – dal personale al politico, dalle singolarità a ciò che possiamo definire transindividuale12, dall’eccezionalità presunta del lavoro artistico alla messa in comune di esperienze di precarietà. È forse qui, in queste esperienze, che l’arte si riconfigura come uno spazio di immaginazione radicale, capace di ripensare anche lo statuto delle istituzioni, artistiche e non solo, oltre che della creazione, delle estetiche, dei linguaggi.

Come scrive Valeria Graziano, dobbiamo chiederci se il campo artistico, uscendo da un’idea di autosufficienza, possa generare modi di creare altrimenti: «le industrie ri/creative equivalgono sempre a esercizi dalla temporalità fragile che tentano di proteggere la nostra forza lavoro, e che ci consentono di sperimentare sia la sua potenza quando questa si libera dalle forme di relazione capitalistiche, ma anche la nostra differenza costitutiva, intesa non come qualcosa che è semplicemente da gestire, ma come fonte del piacere che si compie nella “funzione creativa” del corpo politico»13.

Esercizi dalla temporalità fragile, istituzioni autonome, istituzioni del comune, nuove istituzioni – queste invenzioni collettive creano spazio per l’azione, plasmano il mondo intorno, fanno-mondo. Le pratiche istituenti generano autonomia, processi di cittadinanza attiva e di cooperazione sociale, ma anche veri e propri sistemi di prossimità in senso corporeo e spaziale, in cui linguaggi, esperienze, saperi, abitudini, posture si trasmettono, si mescolano ed entrano in variazione. Archivi disponibili a essere continuamente reincorporati e riattivati, il piacere irresistibile dell’autogoverno.

4. RAMIFICAZIONI: (A) 2011, (B) 2021

2011 – Teatro Valle Occupato

Un’altra voce, un altro urlo. Ancora altri corpi, altre intensità. La sera di martedì 16 luglio 2013 al Valle Occupato va in scena The Plot Is The Revolution, un lavoro di Motus con Judith Malina e Silvia Calderoni14. Alla fine della performance Judith dichiarava che il teatro non è qui, è in strada e proponeva al pubblico di provare ad abbattere i muri dell’edificio con un urlo collettivo. Qualche secondo per prendere fiato e sincronizzarci, e poi le pareti della sala, corpo rotondo fatto per essere cassa di risonanza, iniziavano a vibrare: 700 voci, forse di più, insieme a riempire quello spazio-tra, a renderlo percepibile. Quando l’urlo scioglieva e si esauriva, Malina invitava il pubblico a salire sul palco e a scrivere sul pavimento di cartone una risposta alla domanda “Che cos’è la rivoluzione per te ORA?”.

The Plot è anche un lavoro sulla trasmissione da corpo a corpo e sugli archivi. Nel corso della performance, dal vivo, Malina passava a Silvia Calderoni alcuni dei suoi gesti, delle pratiche e delle intensità emotive di pezzi dell’Antigone, The Bridge e Paradise NOW. Calderoni racconta di non aver mai voluto vedere la documentazione video – il passaggio avveniva dunque così, in maniera analogica, corporea, affettiva. Non mediatica ma piuttosto quasi medianica. Da un corpo fragile con una mobilità ormai ridotta a un corpo invece scenicamente allenato, potente, da un’età all’altra, da un mondo ad un altro.

La stessa Judith Malina era anche, in quel particolare momento della sua vita, un archivio vivente, e non della scena soltanto. Lascia il teatro occupato sulla sedia a rotelle, l’ultima sera, intonando a piena voce Bella Ciao, dopo aver raccontato delle lotte, del teatro nell’East Village da cui erano stati cacciati, dei mille spazi indipendenti creati, sostenuti, attraversati in giro per il mondo, delle università occupate, delle piazze e delle strade brulicanti.

Il Teatro Valle, occupato nel luglio 2011, era in quegli anni lo snodo di un intenso movimento di occupazioni artistiche e culturali in Italia, dall’Asilo a Napoli e da Macao a Milano (preceduto dalla spettacolare occupazione del grattacielo di Torre Galfa), alle altre occupazioni in tutto il territorio nazionale15, insieme alle esperienze-sorelle del Sale Docks di Venezia e dell’Angelo Mai a Roma nate precedentemente ma affini. Le occupazioni nascevano dal tentativo di auto-organizzare il lavoro precario nella crisi, nel flusso aperto di un movimento attivo su più fronti nel pieno della crisi economica apertasi nel 2008 e delle politiche di austerità fatte di tagli al welfare e ai fondi nei comparti pubblici del lavoro culturale (scuola, università, beni culturali, spettacolo). Un modo federativo di fare e pensare insieme, che è il frutto di una politica delle relazioni già attiva prima delle occupazioni, un tessuto connettivo che è stato favorito proprio dalla natura nomade e mobile de^ lavorat^ dell’arte e dello spettacolo. Non siamo infatti quasi mai radicate/i geograficamente in maniera definitiva, lavoriamo in diversi luoghi e contesti, che non coincidono con la città in cui abitiamo, cambiamo frequentemente datori di lavoro e colleghe/i, e ci conosciamo tra di noi. Caratteristiche che sono state immediatamente messe a frutto nelle lotte e nelle mobilitazioni, attivando reti informali e connessioni stratificate nel tempo. È nato così un network/assemblaggio composto di nodi talvolta effimeri ed eterogenei, instabile eppure in ebollizione, di spazi ma anche di micropolitiche territoriali, gruppi, soggettività sparse. In una scala più piccola, questo nascente movimento respira in risonanza con altre insorgenze globali, interconnesse da parole e pratiche comuni come la riappropriazione degli spazi pubblici e il richiamo all’autogoverno e alla democrazia diretta, dal 15M spagnolo, alle rivoluzioni in Nord Africa, a #occupy in US, Gezi Park a Istanbul, le rivolte e le esperienze di autogoverno nella crisi in Grecia (scuole e ospedali).

La novità del Teatro Valle Occupato è che non chiede un riconoscimento, ma si pensa e si autodefinisce come istituzione: un’istituzione del comune, autogovernata da artistx e lavorat^ dello spettacolo, basata sull’autonomia e su principi di redistribuzione di economie, attività, potere. Pensarsi dunque non semplicemente come uno spazio liberato ma dentro la cornice sperimentale delle nuove istituzioni ha prodotto uno scarto nell’attivismo dellx artistx. Le pratiche istituenti fanno-mondo, generano modelli, prototipi, sperimentazioni già in atto di possibili sistemi produttivi; “utopie quotidiane” o spazi sociali inventivi, le chiama Davina Cooper, “utopie concrete” invece Jose Estaban Muñoz a indicare sistemi instabili di vita ed estetiche queer16. Entrambi si riferiscono a pratiche che seppur di margine, invisibili o di scala ridotta si muovono fuori dalla dimensione statuale, si pongono come controistituzioni radicali.

Al Valle moltissime sono le sperimentazioni che danno corpo al desiderio di nuova istituzionalità, tra cui:

– permanenze, forma espanse e abitate della classica residenza artistica.

– pedagogie: formazione aperta e gratuita, nell’idea che i percorsi formativi debbano essere accessibili e permanenti durante tutto il corso della vita professionale. Tra i moltissimi laboratori, le pratiche di sharing, la formazione con artistx, registx, coreografx, si istituisce anche la “Sindacale di danza”, ogni lunedì classi tenute da professionistx, aperte a danzatori/danzatrici e performer.

– scuole di formazione per le maestranze: oltre alle pedagogie artistiche, una priorità è per la formazione dedicata ai saperi della scena – illuminotecnica, macchineria, scenotecnica, suono, anche nell’idea di non separare e di non fare gerarchie tra la dimensione artistica e quella tecnica e artigianale del teatro.

– autoinchiestesulle condizioni di vita e di lavoro, provando a illuminare le zone più nascoste della precarietà dell^ lavorat^ della cultura, e delle specifiche forme di adattamento, sopravvivenza e autosfruttamento che questa produce.

– tavoli collettivi di progettazione artistica – il programma del Teatro Valle Occupato scaturiva dal lavoro incrociato, informale e difficilmente riassumibile di diversi gruppi di lavoro. All’assemblea politica del lunedì si affiancava un’assemblea generale aperta di programmazione artistica. Il lavoro di “curatela” e co-progettazione artistica era inestricabile dalla gestione tecnica e spaziale, dalla comunicazione e dall’organizzazione, e spesso le stesse persone svolgevano simultaneamente più ruoli, in una concreta messa in discussione delle tradizionali forme di divisione del lavoro e delle sue gerarchie. A questa assemblea settimanale che faceva anche da raccordo, si aggiungevano tutti i gruppi di lavoro sui singoli progetti: i progetti di ricerca drammaturgica (Crisi, Rabbia, Tutto il mio folle amore), di lettura di nuovi testi (Orazio), di cura delle residenze, della programmazione cinematografica, degli incontri, dei seminari di autoformazione in collaborazione con le università e via così. Ogni gruppo era già in sé una realtà collettiva, e le persone che prendevano parte a queste assemblee diversificate non erano necessariamente le stesse, producendo così un reale allargamento della partecipazione – all’occupazione nel complesso o su progetti situati. Un organismo a geografie variabili, a cerchi centrifughi potremmo dire, esponenziale.

– scrittura partecipata dello statuto della Fondazione Bene Comune, basato sull’autogoverno e la redistribuzione di potere ed economie. È stata una pratica di scrittura collettiva, che ha coinvolto centinaia di persone sia offline che online, oltre al contributo di giuriste/i e studiose/i di diritto. Si sperimentano modalità decisionali aperte, non solo consultive ma elaborative, progettuali, pratiche connesse all’esercizio della cittadinanza e della democrazia diretta.

– forme di reddito e di economie informali e circolari.

– seminari di autoformazione e collaborazione con le università: durante gli anni di occupazione, molte/i docenti hanno spostato le loro lezioni al Valle Occupato, o messo in comunicazione seminari e attività didattiche. L’effetto è stato quello di un decentramento delle attività di ricerca fuori dall’accademia, e di una messa in connessione dell’elaborazione teorica con le pratiche, che ha avuto effetti profondi sul corso dell’occupazione, ad esempio per quanto riguarda l’elaborazione sui commons e sulle istituzionalità autonome. Una dinamica simbiotica, trasformativa.

– progetti di scritture collettive e strategie di sostegno alle nuove drammaturgie.

– creazioni e produzione (o sostegno alla produzione) di progetti artistici, performativi, musicali, visivi, editoriali, curatoriali.

Vorrei soffermarmi in particolare sull’esperienza delle Permanenze – già dal nome, l’idea che le animava era di spostare il fuoco dalla spazialità delle residenze (bisogno di uno spazio fisico per fare ricerca), alla temporalità, provando a dilatarla. Le Permanenze erano dunque immaginate come intervalli di tempo in cui artistx, compagnie e gruppi abitavano fisicamente il teatro, attraversando e contaminando la vita dell’occupazione. In questa temporalità aperta, lx artistx erano invitatx non solo e non tanto a mostrare i propri lavori e portare avanti la propria ricerca, ma a fare una loro proposta sull’assemblaggio-Teatro: a invitare quindi altrx artistx, da cui erano influenzatx o ispiratx, o con cui desideravano collaborare, a programmare lavori di altrx, a segnalare giovani gruppi o compagnie, a immaginare percorsi pedagogici e di formazione, a costruire proiezioni di cinema e incontri. Insomma a costruire la temporalità complessa e stratificata del teatro, aprendo il proprio percorso di lavoro su altre traiettorie parallele e coinvolgendo a fili allungati altre reti e comunità. I pubblici si mescolano, le comunità si stratificano, a geografie complesse. Cambiano le mappe e i flussi: tra centro e periferie, tra nord e sud. Le idee – non solo sulle estetiche, ma sui modelli, sulle forme di creazione, sull’uso degli spazi, sulle poetiche e sulle politiche – entrano in compostaggio tra loro. Era questo un modo di sperimentare concretamente la proposta di direzione artistica collettiva contenuta nello statuto.

Ho ritrovato la vocazione di questo modello esponenziale nell’architettura di documenta 15: la curatela della mostra è stata affidata a ruangrupa, un collettivo di nove artistx di Giacarta che a sua volta ha invitato altri gruppi e collettivi a condividere con loro la curatela. Questo gruppo ampio, un collettivo di collettivi, ha invitato altri artistx, collettivi e gruppi in un meccanismo esponenziale, riservando un grande spazio al programma di incontri e scambi in presenza, anche con comunità territoriali e attivistx. È questo il principio del lumbung, che in Indonesia indica una gestione collettiva delle risorse e del lavoro di una risaia, e che applicato al mondo dell’arte ha generato un meccanismo di allargamento e di redistribuzione sia delle economie che degli spazi. Le risorse sono state infatti equamente redistribuite tra i gruppi, che hanno impiegato i budget in autonomia, ma dentro un processo collettivo. L’effetto è stato quello di una moltiplicazione vertiginosa delle presenze, e di una mappa completamente stravolta rispetto a quelle costruite dai curatori occidentali.

Guardando dunque da qui all’attivismo artistico degli anni Dieci, la pratica dell’occupazione esprime una capacità istituente e di immaginazione radicale. È così che si va oltre la dimensione di rappresentazione, attivando una modalità immediatamente trasformativa nel qui e ora, che implica la gestione dei mezzi di produzione, la costruzione di economie informali e la sperimentazione di nuovi sistemi relazionali. Un’arte del governarsi “altrimenti”, che trasforma la protesta in un campo largo dell’immaginazione – istituire per fare-altri-mondi.

2021. Remake the Globe / Globe Theatre, Roma.

Remake the Globe, occupare il Globe per rifare il Mondo. Sono le parole che aprono l’ultima occupazione di artistx e lavorat^ dello spettacolo a Roma durante il lockdown dell’aprile 2021. Molti degli avanzamenti e delle innovazioni prodotte dal Valle Occupato e nel precedente ciclo di lotte sembravano perduti, eppure sono bastati cinque giorni per riattivarli, dislocandoli. Archivi viventi. Nel pieno della crisi pandemica, dopo un anno di blocco dello spettacolo dal vivo e di richieste di una riforma strutturale del settore, una rete composta da autorganizzati dello spettacolo, RISP – Rete Intersindacale Professionist_ dello Spettacolo, associazioni di lavorat^ dell’arte dal vivo insieme al collettivo fluido queer-femminista Il Campo Innocente, occupano il Globe Theatre convocando un’assemblea aperta e convergendo su una richiesta di reddito senza condizioni e sul riconoscimento delle intermittenze.

In questo teatro senza tetto, a cielo aperto, nascono comunanze con riders, lavorat^ della scuola, movimento dei/delle braccianti. Qui si sono riversati il lavoro e le discussioni fatte per la scrittura del Manifesto di Art for UBI – Unconditional Basic Income. Il Campo Innocente apre un laboratorio che a partire dalle esperienze dirette prova a mettere a fuoco la relazione tra sessismo e precarietà. La precarietà, profondissima e sistemica nel mondo della produzione artistica e culturale in Italia, privo di meccanismi di compensazione e di garanzie sociali, non è però un universale neutro. Quello che emerge dal tavolo di discussione è che anche nel mondo dell’arte le artistx e lavorat^ donne*, non binarie, queer, frocie, trans, disabili che mettono in gioco (mettono al lavoro) il proprio corpo e la sfera emotiva nella sua complessità sono più esposte a situazioni violente, al ricatto, a contesti di sfruttamento. Le dinamiche di potere, i contesti tossici e abusanti sono connessi e rafforzati dalla precarietà. In questo quadro il reddito – senza condizionalità, e liberato dalla matrice familista e patriarcale – è sembrato non solo una risposta alla precarietà, ma più radicalmente una forma di uscita dalla violenza. Più siamo precari^ più siamo espost^, fragili, ricattabili. Autonomia e autodeterminazione sono legate.

In queste giornate di discussione e di immaginazione, in cui l’invenzione collettiva è stata sollecitata anche per creare spazi sicuri e attraversabili da tuttx, comprese le persone più fragili, si sono intravisti spiragli di un agire politico collettivo, capace di assumere la portata del femminismo all’interno di lotte su lavoro e sul reddito, modificandole. La cura reciproca e il riconoscimento di una radicale interdipendenza sono state le parole chiave. Spiragli, aperture, temporalità fragili, incompiute, troppo poco per aprire a una pratica istituente.

Ma le voci delle studentesse dell’Accademia di Belle Arti, arrivate da Napoli per denunciare, in gruppo, le molestie e le violenze di un professore e silenziate per mesi, hanno suonato alte, acute, giovani, poco più che adolescenti, quasi stridenti. Sul punto di rompersi e piangere, non hanno pianto ma hanno urlato. Nel frattempo, hanno gridato forte.

  1. Questa scrittura “per voci” riprende la traccia di scavare buchi di notte, una conferenza che si è tenuta nel luglio 2022a Bulegoa z/n, uno spazio di ricerca e curatela femminista a Bilbao, e curata insieme a Silvia Calderoni e Paola Granato. Eravamo lì in occasione di una tappa del nostro progetto SO IT IS, basato sulla trasmissione di una pratica corporea a distanza con altrx artistx nel mondo, e che poi prende corpo nello spazio in un poster del corpo dell’artista modificato attraverso un’immaginazione. Qui i materiali: https://soitis.art/it.
  2. Il riferimento è a un frammento della manifestazione femminista contenuta nel film Anna (Alberto Grifi e Massimo Sarchielli, Italia, 1972).
  3. Per un’accurata ricostruzione del movimento e delle soggettività lesbofemministe in Italia, vd. Elena Biagini, L’emersione imprevista. Il movimento delle lesbiche in Italia negli anni ’70 e ’80, ETS, Pisa 2018.
  4. Call dell* attivist*: https://www.macaomilano.org/spip.php?article419.
  5. Cfr. anche l’intervista rilasciata dalle attiviste / lavoratrici dello spettacolo: http://www.noidonne.org/articoli/otto-marzo-perch-antigone-sciopera.php
  6. Di questo tema, e della sua articolazione politica, ragioniamo spesso con Anna Antonia Ferrante, studiosa, amica e compagna. Devo a lei, e alle nostre discussioni, molte delle domande con cui interroghiamo gli archivi queer.
  7. Cfr. Peggy Phelan, Unmarked: The Politics of Performance, Routledge, New York 1993.
  8. Francesca Bortoletti, Annalisa Sacchi (a cura di), La performance della memoria. La scena del teatro come luogo di sopravvivenze, ritorni, tracce e fantasmi, Baskerville, Bologna 2018, pp. 9-28.
  9. Per una panoramica del dibattito cfr. P. Phelan, Unmarked: The Politics of Performance, cit.; Rebecca Schneider, Performing Remains: Art and War in Times of Theatrical Reenactment, Routledge, London 2011; Rebecca Schneider, Performance Remains, «Performing Research», vol. 6, no. 2 2001, pp. 100-108; Diana Taylor, The Archive and the Repertoire: Performing Cultural Memory in the Americas, Duke University Press, Durham-London 2003; Paul Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza (1993), Meltemi, Milano 2019; Jack Halberstam, In a Queer Time and Place: Transgender Bodies, Subcultural Lives, New York University Press, New York 2005, in particolare pp. 152-187; José Esteban Muñoz, Ephemera as Evidence: Introductory Notes to Queer Acts, «Women and Performance: A Journal of Feminist Theory», 8/2-16 (1996), pp. 5-18.
  10. Practitheorizing Counterinstitutions era il titolo del workshop organizzato da IMAGINART nella cornice di documenta 15 a Kassel, e radunava studios^ e attivist^ a ragionare intorno alle forme di istituzionalità radicale attive da pratiche artistiche: https://imaginart.site/previous-events/. Le/i partecipanti al workshop: Ann Stoler, Melani Budianta, Ilenia Caleo, Quinsy Gario, Paul Goodwin, Annie Jael Kwan, Lara Khaldi, Jeroen de Kloet, Wayne Modest, Christa-Maria Lerm Hayes, farid rakun (ruangrupa), Deborah Thomas, Ming Tiampo, Wet Hole Group (Nikita Kadan, Bogdana Kosmina, Alina Kleytman), and Mi You, con il coordinamento di Chiara De Cesari, Andrea Elera, Erick Fowler, Nuraini Juliastuti, Yazan Khalili, Abdulkerim Pusat, Aria Spinelli, Eszter Szakács, and Carine Zaayman. IMAGINART: Imagining Institutions Otherwise: Art, Politics, and State Transformation è un progetto di ricerca basta alla Amsterdam School for Cultural Analysis presso la University of Amsterdam, finanziato dal Dutch Research Council (NWO).
  11. Solo per nominarne alcuni, e senza pretesa di esaustività: Societas Raffaello Sanzio, Motus, Teatrino Clandestino, Accademia degli Artefatti, Masque Teatro, Fanny & Alexander, Lenz Rifrazioni, Teddy Bear Company, Monica Francia, Teatro della Valdoca, Amadossalto, Kinkaleri, MK, Sistemi Dinamici Altamente Instabili e molti altri, gruppi che hanno biografie differenti, alcuni attivi dal decennio precedente.
  12. Per il concetto di transindividuale, cfr. Gilbert Simondon, L’individuazione psichica e collettiva (1989), Deriveapprodi, Roma 2001.
  13. Valeria Graziano, Recreation at Stake in Ana Vujanovic, Livia Andrea Piazza (eds.), A Live Gathering: Performance and Politics in Contemporary Europe, b_books, Berlin 2019, p. 27.
  14. The Plot Is The Revolution, ideazione e regia Enrico Casagrande e Daniela Nicolò con Silvia Calderoni, Judith Malina (Living Theatre NY) e la partecipazione di Thomas Walker e Brad Burgess; spazio scenico di Enrico Casagrande e Daniela Nicolò; una produzione Motus realizzato grazie al sostegno di Festival Santarcangelo41, Fondazione Morra, Napoli. Première 2011.
  15. Tra queste: Teatro Coppola a Catania, Teatro Garibaldi a Palermo, Teatro Rossi Aperto a Pisa, La Cavallerizza a Torino, il Cinema America a Roma. Per una ricognizione generale di questa scena, consultare Silvia Jop (a cura di), Com’è bella l’imprudenza. Arti e teatri in rete: una cartografia dell’Italia che torna in scena, Il Lavoro Culturale, 21 dicembre 2012. E fuori dall’Italia, il Teatro Embros ad Atene, oltre a moltissime collaborazioni con gruppi e collettivi nello spazio euromediterraneo.
  16. Davina Cooper, Utopie quotidiane. Il potere concettuale degli spazi sociali inventivi (2014), ETS, Pisa 2016; José Esteban Muñoz, Cruising Utopia. L’altrove e l’allora della futurità queer (2009), NERO, Roma 2021.
Author

Ilenia Caleo è performer, attivista e ricercatrice indipendente. Dal 2000 lavora come attrice e performer nella scena contemporanea, collaborando con diverse compagnie e registe/i. Con Silvia Calderoni, nel 2018, ha dato vita a KISS, progetto performativo con 23 performer, prodotto da Santarcangelo Festival e CSS Udine, programmato in diversi festivals. Filosofa di formazione, ha svolto un dottorato di ricerca su corpo e performativo tra Performance Studies e filosofia politica femminista all’Università La Sapienza di Roma. Si occupa di corporeità, epistemologie femministe, sperimentazioni nelle performing arts, nuove istituzioni e forme del lavoro culturale. È ricercatrice allo IUAV di Venezia e coordinatrice del Modulo Arti del Master Studi e Politiche di Genere di Roma Tre. Attivista del Teatro Valle Occupato e nei movimenti dei commons e queer-femministi, è cresciuta politicamente e artisticamente nella scena delle contro-culture underground e dei centri sociali.