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n. 12 – ottobre 22, Teatro

Lo spazio eterotopico delle avanguardie teatrali e la deflagrazione rappresentativa in Theatre Functions Critical e Theatre Functions Terminated di Mario Martone e Falso Movimento

Falso Movimento, Theatre Functions Terminated, Reggia di Caserta 1979. In foto Mario Martone e Giuseppe Bartolucci durante la rassegna Passaggio a Sud Ovest, freddo/caldo alle origini della tragedia. © LELLI E MASOTTI S.A.S.

ABSTRACT

In questo articolo uso il concetto di eterotopia di Michel Foucault per definire gli spazi della seconda avanguardia teatrale italiana come luoghi della “crisi”. Luoghi non cumulatori (di strutture fisse architettoniche, di esperienze riproducibili o musealizzabili) bensì fecondamente transitori e che ricadono nella dimensione della “festa” con lo scopo non di accumulare il tempo ma piuttosto di cancellarlo ritornando alla nudità e all’innocenza del “peccato originale”. Attraverso questo paradigma analizzo due performance di Mario Martone e Falso Movimento: Theatre Functions Critical e Theatre Functions Terminated, un dittico rappresentato al Beat 72 e alla Rassegna Passaggio a Sud Ovest, freddo/caldo alle origini della tragedia organizzata nel 1979 da Giuseppe Bartolucci con la collaborazione del Teatro Studio di Caserta di Toni Servillo alla Reggia di Caserta. Sono performance liminali che assimilano l’utopia delle avanguardie teatrali e la conseguente crisi postavanguardista, preludio di una nuova stagione teatrale che si apre con gli anni Ottanta del Novecento in cui il video e i mass media nevrotizzano la dimensione ucronica della narrazione attraverso la promessa di una ininterrotta “veglia video-elettronica”. L’articolo è frutto della ricerca condotta all’interno del progetto ERC INCOMMON. In praise of community. Shared creativity in arts and politics in Italy (1959-1979) durante il quale ho raccolto materiali inediti e ho potuto contare sul prezioso dialogo con Mario Martone.

Lo spazio eterotopico delle avanguardie teatrali

Ci sono dunque paesi senza luogo e storie senza cronologia; città, pianeti, continenti, universi, di cui sarebbe certo impossibile trovare traccia in qualche carta geografica o in qualche cielo, semplicemente perché non appartengono a nessuno spazio […] sono nati, come si suol dire, nella testa degli uomini o, a dire il vero, negli interstizi delle loro parole, nello spessore dei loro racconti o anche nel luogo senza luogo dei loro sogni […] insomma è la dolcezza delle utopie. Credo tuttavia che ci siano – e questo in ogni società – delle utopie che hanno un luogo preciso e reale, un luogo che si può localizzare sulla carta […] luoghi che si oppongono a tutti gli altri e sono destinati a cancellarli, a compensarli, a neutralizzarli o purificarli1.

Queste “utopie situate” vengono definite da Michel Foucault eterotopie,  luoghi reali fuori da tutti i luoghi. Il teatro è tra questi: sulla scena si susseguono una serie di luoghi estranei, in relazione  con il tempo, ma non nel modo dell’eternità, bensì nel modo della festa. In questo articolo uso il concetto di eterotopia per definire gli spazi della seconda avanguardia teatrale italiana; spazi nati come luoghi della “crisi”, non cumulatori (di strutture fisse architettoniche, di esperienze riproducibili o musealizzabili) bensì fecondamente transitori e che ricadono nella dimensione della festa (o dell’happening) con lo scopo non di accumulare il tempo ma bensì di cancellarlo, ritornando alla nudità e all’innocenza del peccato originale2. Nella palingenesi delle arti tra gli anni ’60 e gli anni ’70 gli spazi “rimediati” delle avanguardie rappresentano un’ipotesi di riorganizzazione eversiva dei luoghi teatrali tradizionali, quindi del loro linguaggio e della reiterazione di quest’ultimo attraverso modelli riproducibili. Nelle profondità o nelle periferie ctonie delle città le avanguardie hanno il loro luogo senza luogo in cui, secondo il V principio delle eterotopie, tutti possono entrare escludendosi dallo spazio circostante. Una volta entrati ci si accorge che non si è entrati da nessuna parte, poiché sono luoghi aperti che hanno la proprietà di far restare fuori. Quando si entrava in quell’utopia situata rappresentata dallo spazio del Beat 72 si entrava nel sogno lucido delle seconde avanguardie per uscire fuori dal ruolo di teatranti o da quello di spettatori.

Lo spazio eterotopico delle avanguardie irradia nelle architetture delle cantine, dei magazzini, degli appartamenti privati; in capannoni e terreni periferici, in scuole o parchi, che sono tutti interstizi di una potente utopia di crisi e di purificazione che produce una nuova teatralità. Stefano Brilli analizzando le componenti della scena nell’articolo Perché esiste una scena anziché il nulla3 elenca tra quelle fondamentali gli spazi, ovvero luoghi fisici o mediali in cui le componenti della scena si pongono in pubblico e si rendono quindi reciprocamente presenti. […] Spazi che attraggono persone con gusti, interessi o valori in qualche misura simili, quindi funzionano per incrementare la possibilità che queste si incontrino e formino fra loro legami4. Fabrizio Cruciani rileva che lo spazio del teatro è una delle realtà che l’immaginario e la relazione tra gli uomini possono creare; c’è del desolato stupore di fronte all’architettura teatrale che nel Novecento tenta di assumere in sé l’esistenza possibile del teatro, evidenziando l’incongruenza tra teatro e società, tra teatro e cultura teatrale. Questa incongruenza è il fulcro della crisi che lega gli spazi scarni ed economicamente marginali delle “cantine” a un nuovo modello rappresentativo. Nella relazione tra gli artisti, i critici, gli spettatori, trova una comunità nella moltitudine e un’affinità semantica nelle molte differenze tra i vari gruppi o singoli artisti.

L’avanguardia teatrale infatti è «una rete che mantiene un alto grado di connessione cambiando però il senso della natura collaborativa: dalla collaborazione incentrata sulla logica della co-creazione collettiva alla condivisione di spazi in rassegne e festival, in cui ci si continua ad osservare in un’ottica parzialmente comunitaria ma conservando l’autonomia delle componenti»5. L’eterotopia teatrale delle seconde avanguardie italiane si organizza e si osserva condividendo spazi marginali e transitori come nelle rassegne e nei festival in cui l’ideale utopico di una nuova teatralità riesce a tenere insieme la spinta delle grandi individualità artistiche (sono molti gli spazi diffusi perché ogni forte personalità artistica ne genera uno6). È l’idea che genera e informa lo spazio pubblico, per questo ogni spazio è politico. Quindi non dobbiamo pensare agli spazi delle avanguardie come semplici rifugi o rimedi all’indisponibilità di teatri tradizionali (alcuni tentativi tra l’altro ci furono e non a caso fallimentari, come Quartucci allo Stabile di Genova e de Berardinis allo Stabile di Roma). Né bisogna leggerli come amorfi contenitori derubricandoli in anonime “cantine”, bensì come spazi eterotopici in cui il processo artistico avviene attraverso la relazione, la cooperazione, l’influenza reciproca nonché la competizione e il conflitto7.

Lo spazio del teatro, come scriveva Fabrizio Cruciani, abita da un lato l’evento, dall’altro l’idea e quindi la convenzione culturale che lo sottende e che si reifica attraverso la produzione di spettacoli8. Gli spazi periferici delle avanguardie rispetto alla rete ufficiale dei teatri stabili rifiutano l’architettura fissa, il prodotto come risultante dell’opera scenica. Essi si pongono come luoghi orizzontali in cui i corpi degli spettatori insieme a quelli dei performer attraversano l’evento senza fissarlo. Luoghi come il Beat 72 fanno da convogliatore di questa situazione di liminalità rispetto al teatro ufficiale offrendo la possibilità di percepirla – pur nella moltitudine della rete creativa e spettatoriale – nella dimensione della “comunità”, attivando  quindi strategie consone a esercitare la crisi del teatro come innesco per processi creativi diversificati che negli eventi  focali trovavano una dimensione ucronica all’utopia della purificazione della scena.

Sono molti gli eventi e le personalità artistiche che popolano quello che la critica e la storiografia ha definito Nuovo Teatro9. Ai fini del discorso, per semplicità, segno una coordinata essenziale che sposta questa analisi alla dimensione intraspaziale dell’evento performativo. Nel 1976 Simone Carella (che rappresenta un nodo centrale della rete di relazioni complesse che concorrevano al rinnovamento della scena teatrale italiana) metteva in scena Autodiffamazione destinata ad avere un ruolo chiave nelle vicende della sperimentazione teatrale italiana e che sanciva il superamento del «teatro immagine»10 e apriva alla stagione della post avanguardia italiana e a quello che è stato definito teatro analitico-esistenziale11. Come scrive Lorenzo Mango in Autodiffamazione:

non c’è niente da vedere, non almeno nel senso in cui è abituato il pubblico di quegli anni. Fin dall’esterno del Beat il segnale è chiaro: la porta è sprangata e sopra vi è proiettata l’immagine dei funerali di Pino Pascali. Quando si entra dentro, poi, il senso di spiazzamento è destinato a crescere. Lo spazio nero del Beat, infatti, è riempito da una scena drammaticamente vuota: solo una sedia illuminata dal raggio obliquo di un proiettore12.

Simone Carella con Autodiffamazione supera il dispositivo dell’installazione artistica attraverso un montaggio di immagini e filmati e l’uso astratto della luce. Sbarra l’ingresso agli spettatori ed elimina la presenza degli attori. Tendendo un agguato al testo mette in stasi il concetto di spettacolo teatrale «nell’accezione in cui Cage prima e Kirby poi lo definivano: occupazione di uno spazio e di un tempo attraverso un’azione»13. Crea quindi una nuova forma spettacolare in cui il primo atto fondativo è l’autodiffamazione. Denunciando il vuoto del linguaggio teatrale, la sua impossibilità a rappresentare e rappresentarsi, espone sulla scena una grammatica scomposta che disarticola in maniera radicale il linguaggio teatrale tradizionale messo sotto scacco già da un decennio dal movimento delle “cantine”, qui evocato nell’immagine di una sedia vuota in scena. Se già l’immaginifico Carlo Quartucci negli anni ’60 parafrasando una battuta dell’Aspettando Godot derubricava il teatro come quel “posto meraviglioso dal quale andarsene”14, in Autodiffamazione Carella espone il dispositivo scenico ormai abbandonato.

Non padri ma fratelli15

Inserire la coordinata del Beat 72 e della figura di Simone Carella nella cartografia artistica di Martone è essenziale al fine di segnare a quale orizzonte tendeva e quali complesse idee sceniche ne matureranno:

Io lo trovavo sempre al Beat 72 e mi accoglieva: ero un ragazzetto, prendevo il treno da Napoli subito dopo scuola per venire a Roma dove Simone aveva intitolato la stagione del Beat La nascita del teatro, assistevo a performance mitiche come Autodiffamazione, Iperurania, Marina e ai lavori dei tanti artisti ai quali Simone apriva lo spazio, alcuni oggi famosi, come Giorgio Barberio Corsetti o Federico Tiezzi,  e tornavo la notte a Napoli col cuore pieno di emozioni. E davvero nasceva il teatro per me, in una forma che non mi ha più abbandonato, dal rapporto con lo spazio al senso collettivo del lavoro artistico, da un’idea ampia del territorio su cui muovere l’immaginazione alla cura veloce, precisa e politica del gesto che si vuole compiere. Tutti gli artisti di Simone, eravamo davvero tanti, erano ii, inteso come plurale di io, termine coniato da Simone per una delle sue incredibili rassegne, Iniziative di ii16: ed era un aggredire Roma nelle forme più diverse e sorprendenti, un vero esercito dell’arte alle prese con una guerriglia che rimane oggi quanto di più vivo questa città ha saputo esprimere negli ultimi decenni17.

Per Mario Martone, Simone Carella, il Beat 72, gli artisti e  i critici che vi gravitavano18 – uno su tutti, Giuseppe Bartolucci – costituivano un «network creativo» che attingeva alle avanguardie sonore e visive al fine di sovvertire le convenzioni teatrali e che meglio rispondeva alla sua poetica artistica in fieri. Il teatro nasceva (o forse moriva) sotto i suoi occhi e per un’altra nuova generazione di artisti alla fine degli anni Settanta del Novecento. Era un teatro senza teatro, «in cui il gioco dell’assenza e della presenza si avvia a un magico girotondo: il teatro c’è, sparisce, cambia luogo, sorride ironico alle spalle di un pubblico che non ha ancora imparato a voltarsi»19. In questa dimensione di crisi e di purificazione, di rete collettiva che si agglomerava nella “Roma sotterranea” di quegli anni, Martone e i suoi compagni di liceo assistevano ai primi minuti pulviscolari di un nuovo mondo, dove i corpi degli attori scompaiono per lasciare il posto alla luce di un proiettore e al vuoto di una scena che non ha storia.

Se da un lato questi luoghi ed eventi rappresentavano la “fuga in avanti”, la comunità artistica dalla quale essere riconosciuti, il punto di origine trascurato dalla storiografia teatrale è collocabile in altri “luoghi ctoni” nella città di Napoli: Spazio Libero, le gallerie d’arte d’avanguardia napoletane, come lo studio Morra e soprattutto la galleria di Lucio Amelio; e poi Caserta  con il Teatro Studio di Toni Servillo e Salerno  con l’importante presenza di Achille Mango, Filiberto Menna, ecc.

Martone e il suo gruppo esordiscono nei locali di Spazio Libero, ideato e gestito da Vittorio Lucariello come una factory ispirandosi al modello di Andy Warhol con l’obiettivo della contaminazione dei diversi linguaggi artistici20. Spazio Libero era una cantina dall’architettura a volte, molto simile al Beat 72, dotata però di maggiore profondità e da molte stanze che permettevano di “poter fare esperimenti in senso unicentrico e policentrico (nel primo caso il pubblico si trova di fronte agli attori, nel secondo è libero di vagare)”21.

Vittorio Lucariello era arrivato a fondare Spazio Libero dopo aver superato da giovanissimo (su consiglio di Renato Cacciopoli) la concezione della rigida separazione delle discipline. A Napoli l’utopia situata delle avanguardie teatrali si riverberava negli “spazi gemelli” del Teatro Instabile, i Santella, il Teatro Esse. I cineclub diffondevano una cultura del cinema autoriale e sperimentale; al Don Orione, nella rassegna di Nuovo Teatro organizzata da Mico Galdieri, arrivarono Leo de Berardinis e Perla Peragallo, Memeé Perlini, Mario Ricci, Giuliano Vasilicò, Giancarlo Nanni; poi c’erano gli interventi critici alla Libreria Macchiaroli22. A Spazio Libero Mario Martone muove quindi i suoi primi passi collaborando ancora liceale a diverse performance, fonda il Battello Ebbro poi confluito in Nobili di Rosa a cui seguirà il gruppo Falso Movimento.

Passaggio a Sud Ovest, freddo/caldo alle origini della tragedia

Giuseppe Bartolucci con la collaborazione di Teatro Studio di Caserta di Toni Servillo organizza la rassegna Passaggio a Sud Ovest, freddo/caldo alle origini della tragedia negli spazi della Reggia di Caserta dal 22 al 24 giugno del 1979. Oltre a Falso Movimento partecipano alla rassegna Corsetti-Fantastichini (Il ladro di Bagdad), Dal Bosco-Varesco (Miami sequenza del progetto); Guasti-Avalli (Demetra goodby), Spazio Libero (Magic record), Taroni – Cividin (Tempo reale), Teatro Studio (Lotus seven 2600), Giles Wright-Ezio Ballerini (Il manoscritto ritrovato nel 4000). La rassegna prevedeva incontri e dibattiti con giovani critici teatrali e una coda di videoproiezioni di videotapes di Leo e Perla, Carella, Magazzini Criminali e Squatt Theatre con Pig child and fire. A completare la rassegna l’ironica videoproiezione di Gli ultimi giorni di Pompei, film che Bartolucci cita anche nel programma della rassegna alludendo causticamente alla tragica fine della post-avanguardia23:

Da tanti anni una stagione così infelice per il nuovo teatro non capitava che fosse sotto così stretto giudizio. L’infelicità è nei modi di lavorare e negli impatti inesorabili. Leo e Perla ci ammoniscono dall’alto (o dal sotterraneo) del loro senso artistico devastato; Simone Carella addirittura l’infelicità produttiva la fa sua strutturalmente; infine il Carrozzone sulla strada dello squilibrio permanente si butta addosso crimini non solo mentali. Ora gli impatti sono dentro il lavoro (e fuori) e fanno da leva per disastri interni ed esterni. Persino la critica matura si lascia prendere dallo sgomento subendo duri riscontri personali. Quella più giovane finge di stare al gioco del massacro non sai per derisione o per disgusto (accontentandosi di briciole e di lamentele). Insomma i tempi duri per la post-avanguardia sono arrivati, e chi non li aveva previsti ha perso mente e attività, fiducia e prospettiva. Per crollo di progetti e per ritorni individualistici la postavanguardia fa adesso parecchio manierismo e ripete, ostinatamente modelli (italiani e stranieri senza nemmeno rendersene conto). L’invasione dei residui, dei riflussi è tale da lasciare indifferenti, o da produrre tutt’al più rivisitazioni. […] Il lavoro artistico della post-avanguardia si è rappreso, congelato, dunque, di fronte ad un’azione quotidiana tragicamente, calda, ed il suo freddo analitico è stato invano scomposto dall’esistenza, dal privato. […] Abbiamo divorato la post-avanguardia in un solo boccone e dentro ci è rimasto un peso feroce o un vuoto senza fondo. Insomma abbiamo creato un buco mentale e fisico e ci siamo infilati, ed adesso siamo al buio e ci stà bene, nè vogliamo uscirne. […] Freddo/caldo in questo senso ha come sottotitolo “alle origini della tragedia” i terremoti dell’analisi, gli scompensi della devianza, sono ora vissuti, ed esposti primordialmente, trasversalmente, come materiali da parete, come elementi di mostra a guisa di tracce di fuoco, di nevrosi di impotenza, senza alcuna prova di riscatto esistenziale, di risorsa stilistica. Insomma a Caserta nella più fastosa e perduta reggia meridionale, si è invitati per perdita, si è destinati all’esaurimento, non tanto per sperpero quanto per ineffettualità. Così ognuno potrà sincerarsi di averla scampata bella nel non frequentare la post-avanguardia o potrà godere del cattivo uso che ne ha fatto impadronendosene per consumo24.

Nico Garrone presente alla rassegna descrive sinteticamente le varie performance:

«Partita da una constatazione di infelicità», di «imminente tragedia» e di «catastrofe» generalizzata, vuoi per ragioni ambientali vuoi per motivazioni più profonde e sublimali, la rassegna ha esposto il proprio campionario di «guasti» ad un ritmo serrato da carosello paradossalmente piuttosto festoso. Si sono viste trasmesse su monitor in diretta corse di motociclette intorno a una vasca (Magic record dello Spazio Libero) e, dal vivo, voli di aeromodelli teleguidati (Theatre function terminated di Falso Movimento), magliette colorate con scritte da raduno motoristico, Giorgio Barberi Corsetti (Il ladro di Bagdad) si è fatto accompagnare nelle sue vertigini tra cielo e terra su un tappeto volante di lastre d’alluminio leggerissime. Mentre le «ragazze» della Maddalena hanno replicato in Demetra goodby le loro na-scondarelle perverse ed i loro rimpiattini di The-a-tre inseguite da spettatori e comparse in pantaloncini da mar-cialonga. Il faro rosso girevole del Teatro Studio di Caserta ha illuminato una stella a cinque punte proiettata su schermi cinematografici quasi fosse un marchio, il leone ruggente della M.G.M. (Lotus seven 2600); ed i sensi lunghi artificiali dei media » (ampiamente utilizzati) sono stati mixati in rigorose sovrapposizioni e scomposizioni analitiche di indizi i pri-vati dalla coppia milanese Cividin-Taroni nel loro Tempo reale. O mescolati dai trentini Dal Bosco e Varesco seduti su un divano stile Warhol in cocktail pop di stampo dozzinalmente hollywoodiano, oppure distribuiti agli spettatori da Giles Wright e Ballarini, previo deposito di documenti, sotto forma di radioline ricetrasmittenti per lanciare messaggi nell’etere o nel parco25.

Theatre Functions Critical  

Falso Movimento, Theatre Functions Critical, Beat 72, Roma 1979. In foto Mario Martone. Archivio Mario Martone.
Falso Movimento, Theatre Functions Critical, Beat 72, Roma 1979. In foto Mario Martone. Archivio Mario Martone.

Se questo era il contesto e l’atmosfera della rassegna, bisogna ricordare che il 1979 è l’anno di fondazione di Falso Movimento26 che esordisce ufficialmente con la performance Segni di vita agito negli spazi della galleria di Lucio Amelio. Segni di vita è una composizione raffinata che mescola l’uso del sonoro e il linguaggio filmico, si compone infatti di due parti:

1. Scrittura in aria. A quest’azione pre esiste un testo sonoro, dove le pause sono espresse con silenzi. Un’emittente sonora posta in un angolo qualsiasi della città lo trasmette a un altissimo e imprecisato numero di teatri, nessuno più legittimato degli altri a essere considerato tale. I segni del testo sono scritti in aria. È qui che avviene la loro rappresentazione. Ai teatri la sola possibilità di un dialogo senza risposte. 2. Cinema da camera. Ciò che avviene nell’unico spazio consapevole (cervello emittente e propulsore all’infinito) è una serie di spostamenti progressivi del linguaggio teatrale verso quello filmico. L’uso delle luci come illusione di zoom o di montaggio lascia scivolare, ancora una volta, un impossibile dialogo nell’astrazione schizofrenica dell’analisi. La consapevolezza di aver investito una città e di aver trasformato il reale, il quotidiano in immaginario, restringe e tiene a freno la voglia di inventare27.

Seguono le performance Deserti e Verso il nulla, fin dai titoli preludio di un percorso che si sta esaurendo velocemente. Per la rassegna casertana Bartolucci aveva chiesto a Martone di portare lo stato dell’arte del lavoro fin lì svolto. Invece il gruppo si muove inquieto percependo una crisi:

La crisi è principalmente una crisi all’interno del gruppo. Tutti noi intuivamo che questo linguaggio a cui eravamo arrivati attraverso tutto il lavoro alchemico, analitico, ecc. doveva trovare un’altra strada. È come quando si costituisce un alfabeto e poi bisogna iniziare a parlare; dovevamo cominciare a dire delle cose con quell’alfabeto28.

Come scrive Silvana Sinisi, la crisi di Falso Movimento non era isolata, ma si inquadrava in un clima generale di insofferenza in cui si muovevano tutti i gruppi militanti della post-avanguardia che aveva esaurito per auto combustione la fase analitica29. Il gruppo quindi propone a Bartolucci un dittico: il primo è Theatre Functions Critical al Beat 72, l’11 giugno 1979, performance che sublima in qualche modo l’inclusione da artisti pienamente riconosciuti in quel network creativo guidato da Carella e osservato avidamente come spettatori dai giovanissimi componenti iniziali del gruppo napoletano. Il secondo è Theatre Functions Terminated negli spazi aperti della rassegna casertana, il 24 giugno 1979.

La performance “all’universo parallelo” del Beat 72 era accompagnata da una nota di servizio:

Nel linguaggio dei cervelli elettronici, “functions critical” e “functions terminated” indicano le fasi di cortocircuito e di arresto di un processo vitale. Ora che il teatro ci è scoppiato tra le mani, “theatre functions critical” è la penultima fase del nostro lavoro, almeno nel senso in cui abbiamo agito finora. Tale fase critica è iniziata con dolorose fughe di reale nelle pieghe del nostro lavoro, l’uso dei media come la radio o il telefono portava a dilatare il teatro fino a farlo esplodere. Questa esplosione si è adesso trasformata in un sistema implosivo, come la luce o il suono. Il Beat, in “theatre functions critical”, è attraversato da una rete sonora di cinque microfoni, che capta i suoni dell’interno per rigettarli, accumulati e filtrati, all’esterno; in qualche modo il Beat vale un universo parallelo, in cui sottili strisce sonore diventano interferenze reciproche, segnali di presenza e di differenza30.

Una recensione di Pino Pelloni su «Paese Sera» descrive nei dettagli l’apparato scenico e “l’atmosfera”:

Il buio della saletta vuota è rotto da due luci basse agli angoli; nel corridoio viene proiettata la scritta “theatre functions critical”, per aria sono sospesi a fili ondeggianti quattro microfoni dei quali tre sono collegati a una cassa Davoli bass strong e l’altro a due casse Bose all’esterno del locale, per strada, davanti al Visconti Palace. I pochi spettatori sono sperduti nel buio, tra i sibili meccanici dei microfoni, tra gli attori-non attori che di tanto in tanto suggeriscono rumori. Qualcuno con gli occhi stanchi torna alla luce dell’ingresso mentre una ragazza esce dalla toilette e Bartolucci in sandaletti francescani parla tranquillo con un baffuto signore. Una coppietta si strofina in un angolo. Un ragazzo dell’albergo di fronte viene ad invitare di abbassare un po’ il volume. Cordelli è vicino alla fontanella d’acqua fresca. Cinque sedie vuote sono a semicerchio davanti all’ingresso, sole, sul marciapiede. Paola D’Erme e Claudio Castellani, due attori di altro gruppo recitano ai microfoni versi sofoclei senza che nessuno li venga a disturbare. L’azione teatrale è difficile da raccontare in quanto bisognerebbe vedere/capire un’energia, un fluido che si crea all’interno del locale tra attori-spettatori-microfoni e che si riversa poi liberato all’esterno31.

Falso Movimento, molto attivo anche dal punto di vista della comunicazione, scrive su «Lotta continua»:

In questo ultimo lavoro abbiamo cambiato traiettoria: dall’esplosione. Abbiamo creato una rete, una circonvallazione del suono, per mezzo di semplici microfoni amplificati che, da una stanza all’altra del teatro, si trasmettono e si rimandano, con tradimenti e distorsioni sonore l’energia messa a disposizione del pubblico. Pubblico che con il silenzio o col suono può portare il lavoro alle estreme conseguenze; infatti l’assenza assoluta di elementi che lo renderebbero   «spettatore», lo rende parte, segmento, della rete sonora; questo non tanto per un nostro desiderio di una sua partecipazione, che però senz’altro esiste, quanto appositamente per chiudere il circuito in modo che possa mandare in corto solo se stesso: implodere32.

Franco Cordelli presente alla serata nella sua analisi coglie la questione dello spazio come centrale nella performance, sottoposta alla pressione dei media, degli elaboratori elettronici e delle devastazioni ecologiche:

Siamo ben oltre la pura critica del teatro e del meccanismo linguistico e strutturale consueta; e ben oltre, anche, il teatro concettuale […] Diremo che il problema dei ragazzi di FM non è neppure più lo spazio: quello del BEAT 72 , per di più è uno “spazio forte”, fortemente orientato e fortemente sputtanato. La questione, forse, riguarda più da vicino l’idea stessa di spazio, ma proprio in un senso astratto e archetipico: che cos’è oggi lo spazio (come si degrada o come si articola); che cos’è lo spazio sottoposto all’usura dei media, allo stravolgimento degli elaboratori elettronici e delle devastazioni ecologiche. Ebbene non a caso le luci sono poste a terra, lambiscono il suolo e tagliano via tutto lo spazio alto, lo spazio nel quale ci aggiriamo e respiriamo, lo spazio che navighiamo in quanto spettatori. Risulta più drastica in questo senso la sonorizzazione dell’immenso buio in cui consiste lo spazio vitale (o mortale) che è rimasto a disposizione, ed è un immenso vuoto imbrigliato, quasi in una rete sonora, un labirintico e indefinibile intrecciarsi di microfoni e altoparlanti e amplificatori, e diapositive. Lo spazio, magmatico e liquido, risulta dunque percettibile se non a tratti33.

Theatre Functions Terminated

Se con Theatre Functions Critical l’energia tende a implodere e a concentrarsi verso l’interno del Beat in un addensarsi di magma sonoro (cui concorre il moltiplicarsi dei rumori e delle parole prodotti dagli spettatori captati dai microfoni spie34) con Theatre Functions Terminated la performance esce fuori matericamente e idealmente dal perimetro del Beat 72 per liberarsi nei giardini della Reggia di Caserta. I membri del gruppo indossano e distribuiscono magliette ai visitatori che compongono, frammentato, il titolo della performance che oltre a questo consiste nel liberare in volo un modello di aeroplano rosso. Gli spettatori mescolati ai non spettatori, cioè ai comuni e casuali visitatori della Reggia, in una calda domenica di giugno si addensano lungo i viali osservando nella dimensione della festa e della fiera l’aeroplano volare. Se da un lato l’afonia della scena è il risultato della scomposizione analitica della stessa e dell’impossibilità di una narrazione, la performance trasforma nella sua durata la Reggia di Caserta in un “non luogo”35 svuotandola della sua identità storica. Lo spazio della performance così rimane sospeso a metà, fuoriuscito dall’ architettura effimera della cantina e perso nella realtà,  abitandola  come in un sogno. L’eterotopia potente che informa gli spazi dell’avanguardia rinuncia al monumento, prende in prestito l’idea estetica dell’arte povera e conclude la parabola della scrittura scenica perdendosi nelle strade della città o nei suoi parchi.

Falso Movimento, Theatre Functions Terminated, Reggia di Caserta 1979. In foto Mario Martone e Giuseppe Bartolucci durante la rassegna Passaggio a Sud Ovest, freddo/caldo alle origini della tragedia. © LELLI E MASOTTI S.A.S.
Falso Movimento, Theatre Functions Terminated, Reggia di Caserta 1979. In foto Mario Martone e Giuseppe Bartolucci durante la rassegna Passaggio a Sud Ovest, freddo/caldo alle origini della tragedia. © LELLI E MASOTTI S.A.S.
Falso Movimento, Theatre Functions Terminated, Reggia di Caserta 1979, durante la rassegna Passaggio a Sud Ovest, freddo/caldo alle origini della tragedia. © LELLI E MASOTTI S.A.S.
Falso Movimento, Theatre Functions Terminated, Reggia di Caserta 1979, durante la rassegna Passaggio a Sud Ovest, freddo/caldo alle origini della tragedia. © LELLI E MASOTTI S.A.S.

Non c’è distinzione tra rappresentazione e rappresentati. Le utopie come i sogni cessano all’alba degli anni Ottanta in cui il video e i mass media nevrotizzano la dimensione ucronica della narrazione attraverso la promessa di una ininterrotta “veglia video-elettronica”. Rino Mele in Mass Media e Spettacolo riconosce a Martone di essere stato tra i più bravi in quegli anni ad elaborare un teatro fatto di analisi di rappresentazione, di percorsi grammaticali tra luce e spazio, tra colore ed oggetti, tra suoni e pause scandite da presenze improvvise. Tuttavia rileva che con Theatre Functions Terminated “ora pare si sia stancato”36. Nella rassegna casertana e nella performance di Falso Movimento l’eterotopia delle avanguardie teatrali si disfa nel “luogo senza luogo dei sogni”. È così che Theatre Functions Terminated appare nei ricordi di Rino Mele:  

Nel parco (come fossero entrati in un quadro) gli spettatori guardavano il volo limpido di un piccolo aeroplano rosso (proposto da Martone), gli spettatori o il confuso mischiarsi della folla di un pomeriggio caldo di domenica. Ancora il parco. Che mi ritorna come un sogno interrotto, il verde supo, le fasce speculari di bosco, il vociare intenso come un suono di animali, un volto37

Insomma, ancora una volta per citare Foucault, è la dolcezza delle utopie.

  1. Michel Foucault, Les hétérotopies Les corps utopique, in Id., UtopieEterotopie, Cronopio, Napoli 2006, pp.11-12.
  2. «Avanguardia come utopia e come mito. Utopia come movimento, mito come vita. Sono rinato negli anni sessanta, per così dire, all’avanguardia per mito di vita e d’arte, e per utopia di rifondazione, di cambiamento. Non vedo altre ragioni, per allora e per adesso. È stata, è tuttora, la mia vocazione, un’ispirazione? Una fatalità, forse, una disperazione», cfr. Giuseppe Bartolucci, La traversata nel deserto, in Antonio Attisani (a cura di), Le forze in campo. Per una nuova cartografia del teatro, Atti del convegno di Modena 24-25 maggio 1986, Mucchi, Modena 1987. Ora anche in G. Bartolucci, Scritti critici 1964-1987, a cura di Valentina Valentini e Giancarlo Mancini, Bulzoni, Bulzoni 2007, pp.323-324.
  3. Stefano Brilli, Perché esiste una scena anziché il nulla, in In fiamme. La performance nello spazio delle lotte (1967-1979), a cura di Ilenia Caleo, Piersandra Di Matteo, Annalisa Sacchi, b-r-u-n-o , Venezia 2021, pp. 250-259.
  4. Ivi, p. 252. Gli spazi mediali, le riviste come «Sipario», «Teatro», allargano i luoghi eterotopici dell’avanguardia teatrale.
  5. Stefano Brilli, Perché esiste una scena anziché il nulla, cit., p. 254.
  6. Sono sedici le cantine storiche soltanto a Roma. Per un approfondimento vedi Il Teatro in cantina, documenti e materiali sull’esperienza delle “cantine” romane, a cura di Francesco Carvelli, Fabio Giovannini, Paola Lupi, Gloria Staffieri, in collaborazione con l’Associazione Universitaria Teatrale, Roma 1984; Memorie dalle cantine: teatro di ricerca a Roma negli anni ’60 e ’70, a cura di Silvia Carandini, Bulzoni, Roma 2014.
  7. Cfr. Stefano Brilli, Perché esiste una scena anziché il nulla, cit., p. 253.
  8. Fabrizio Cruciani, Lo spazio del teatro, Editori Laterza, Roma-Bari 1992, p. 9.
  9. Per il quadro storico si rimanda a Franco Quadri, L’avanguardia teatrale in Italia (materiali 1960-1976), Einaudi, Torino 1977; Franco Quadri, Il teatro degli anni Settanta. Tradizione e ricerca, Einaudi, Torino 1982; Franco Quadri, Il teatro degli anni Settanta. Invenzione di un teatro diverso, Einaudi, Torino 1984; Marco de Marinis, Al limite del teatro. Utopie, progetti e aporie nella ricerca teatrale degli anni Sessanta e Settanta, La Casa Usher, Firenze 1983, ripubblicato da CuePress nel 2016; Marco de Marinis, Il nuovo teatro 1947-1970, Bompiani, Milano 2000; Daniela Visone, La Nascita del Nuovo Teatro in Italia 1959-1967, Titivillus,Corazzano 2010; Salvatore Margiotta, Il nuovo teatro in Italia 1968-1975, Titivillus, Corazzano 2013; Valentina Valentini, Nuovo Teatro Made in Italy 1963 2013, Bulzoni Editore, Roma 2016 e il portale Sciami, Nuovo teatro Made in Italy dal 1963; il progetto ERC INCOMMON. In praise of community. Shared creativity in arts and politics in Italy (1959-1979), P.I. Annalisa Sacchi.
  10. Giuseppe Bartolucci, Mutations L’esperienza del teatro Immagine, OOLP, Torino 1973.
  11. Lorenzo Mango, Giuseppe Bartolucci, Achille Mango, Per un teatro analitico-esistenziale. Materiali del teatro di ricerca, Studio Forma Editrice, Torino 1980.
  12. Lorenzo Mango, La simulazione tecnologica, in «Mimesis Journal» [Online], 4, 2 | 2015, consultato il 16 luglio 2022.
  13. Ibidem
  14. Cfr. Maria Grazia Berlangieri, Aspettando Godot e la cosmogonia teatrale di Carlo Quartucci, in «Mimesis Journal, Scritture della performance», vol . 9, n.2, dicembre 2020, p.34.
  15. Mutuo il titolo di un testo di Mario Martone Non padre, ma umile fratello (Id. Chiaroscuri, scritti tra cinema e teatro, a cura di Ada d’Adamo, Bompiani, Milano 2004, pp.171-175). Martone parla di una “disposizione fraterna” di Pasolini, contraria quindi alle imposizioni paterne che fondano la nostra civiltà.  In una conversazione che ho avuto con Mario Martone per il progetto “Incommon” egli vede la stessa disposizione in Carella, come anche in quegli esponenti delle generazioni avanguardiste appena precedenti (come de Berardinis o Barberio Corsetti).
  16. Rassegna Iniziative di ii, a cura di Giuseppe Bartolucci, Ulisse Benedetti, Simone Carella, Franco Cordelli, stagione 1977/1978 del Beat 72.
  17. Mario Martone, Il tempo infinito di Simone Carella, in «il Manifesto», Roma 2016.
  18. Edoardo Fadini, Giuseppe Bartolucci, Franco Quadri, ecc., con le loro iniziative sovvertono i ruoli tradizionali di critici, studiosi, curatori. Entrando attivamente nel “network creativo” contribuiscono all’allargamento dello spazio dialettico entro il quale le nuove prassi e sperimentazioni teatrali si confrontano.
  19. Lorenzo Mango, Il teatro senza teatro, in Giuseppe Bartolucci, Achille Mango, Lorenzo Mango, Per un teatro analitico esistenziale. Materiali del teatro di ricerca, Studio Forma, Torino 1980, p. 13.
  20. Cfr. M. Porzio, La resistenza teatrale. Il teatro di ricerca a Napoli dalle origini al terremoto, Bulzoni, ROma 2011, pp. 368-70.
  21. Mario Martone, intervista di Francesco Annarumma, in Falso Movimento, tesi di laurea anno a.a. 1983-1984. Relatore Achille Mango, Università degli Studi di Salerno, p. 29.
  22. Giulio Baffi, I volti di Napoli, Vittorio Lucariello: “I miei formidabili 40 anni sulla scena”, in «la Repubblica (online)», 30 novembre 2015.
  23. Cfr. Angelo Curti, Caserta città aperta, in La Reggia della Meraviglia, inserto di «la Repubblica», Napoli, 17 novembre 2022.
  24. Giuseppe Bartolucci, dal programma della rassegna Passaggio a Sud Ovest, freddo/caldo alle origini della tragedia, 1979. Consultato nell’archivio di Mario Martone, Roma.
  25. Nico Garrone, È di moda il fuori tema. Kermesse teatrale nella Reggia di Caserta, in «Repubblica», 8-9 luglio 1979.
  26. Il biennio 77-79 è molto intenso per il giovanissimo Martone e il suo gruppo in via di definizione. Escludendo le prime azioni sceniche operate insieme a Vittorio Lucariello, le performance-installazioni sono: Faust e la quadratura del cerchio, Avventure al di là di tule (1977), L’incrinatura, Musica da camera, L’apprendista stregone, Euritmia disarmonicamente (1978), Altre circostanze, Segni di vita, Deserti, Verso il nulla, Theatre Functions Critical, Theatre Functions Terminated, Dallas 1983, Sequenza da un delitto, Falso Movimento live!, Falso Movimento al “muro” (1979).
  27. Dal programma della Rassegna della nuova creatività nel Mezzogiorno, 1979.
  28. Mario Martone, intervista rilasciata a Francesco Annarumma, 14 gennaio 1984, in Falso Movimento, tesi di laurea anno a.a. 1983-1984. Relatore Achille Mango, Università degli Studi di Salerno, p. 71-72.
  29. Cfr. Silvana Sinisi, Dalla parte dell’occhio. Esperienze teatrali in Italia 1972-1982, Kappa, Roma 1983, p. 188.
  30. Theatre Functions Critical. Nota di servizio dattiloscritta, consultata nell’archivio di Mario Martone, Roma, giugno 2022. Inoltre bisogna rilevare che i titoli delle due performance sono anche una citazione cinematografica di Odissea nello Spazio di Kubric.
  31. Pino Pelloni, Il cervello fa tilt e il teatro muore, in «Paese Sera», Roma 15 giugno 1979.
  32. Falso Movimento, a cura di Falso Movimento, in «Lotta continua», consultato nell’archivio di Mario Martone, Roma, giugno 2022.
  33. Franco Cordelli, Questo Falso Movimento, in «Paese Sera», 13 giugno 1979.
  34. Cfr. Silvana Sinisi, Dalla parte dell’occhio, cit. p. 188.
  35. Mi riferisco naturalmente al neologismo coniato da Marc Augénel saggio Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité (1992).
  36. Rino Mele, Mass Media e Spettacolo, in «Cultura La Voce della Campania», 1979, p. 62.
  37. Ibidem.
Author

Maria Grazia Berlangieri è ricercatrice in Studi teatrali e Tecnologie digitali presso l’Università di Roma Sapienza dove ha conseguito il dottorato di ricerca in Tecnologie digitali per la ricerca sullo spettacolo. I suoi attuali ambiti di ricerca sono la storia e l'estetica del teatro italiano del Novecento, la visualizzazione narrativa dei dati raccolti nelle arti performative, l'analisi attraverso le tecnologie di motion capture dei movimenti degli attori-danzatori, l'intelligenza artificiale per il Cultural Heritage, la narrazione transmediale. Ha partecipato come ricercatrice al progetto europeo "Eclap, European Collected Library of Artistic Performance" e al progetto ERC INCOMMON. In praise of community. Shared creativity in arts and politics in Italy (1959-1979). È responsabile scientifico del Laboratorio di Intelligenza Artificiale e Machine Learning per le Digital Humanities (LABS- Sapienza). Insegna Scritture per lo Spettacolo dal vivo alla Sapienza Università di Roma. Tra gli altri ha pubblicato Il Teatro dell'Università di Roma 1935-1958. Crocevia di teoresi e pratiche teatrali, Bulzoni Editore (2016), Performing Space. Lo spazio performativo e l'hacking digitale. Nuove tecnologie e transmedialità, Bordeaux Edizioni (2021).