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n. 12 – ottobre 22, Teatro

Loverbar, Cüirtopia e le crepe del Borikén

Performatività di un abitare caraibico

Loverbar, picture by Regner Ramos, Brian Torres, and Gabriela Ennich (2021). Courtesy of Regner Ramos.

ABSTRACT

Il testo che segue è parte di un lavoro di ricerca che si sviluppa attorno alla performatività e alle architetture dell’abitare a partire da una prospettiva femminista e queer. La ricerca procede per stralci di esperienze sparse nel tempo e nello spazio, il focus su Puerto Rico rappresenta un frammento di questo archivio. Il tentativo è di solcare il terreno di tali sperimentazioni per individuarne le tecnologie, i resti, e le memorie e con loro l’attività che continua a prodursi, rifuggendo la mappatura cumulativa e associativa a favore di una cartografia che distingua delle coordinate verso un divenire concreto.In altri termini guardo alla transizione-volontaria-vissuta che nel suo generarsi faccia sempre più spazio alle prospettive incarnate nella costruzione dell’abitare.
In particolare nel seguente testo cercherò di evidenziare un pensiero sul rapporto tra performatività e spazialità che si attua nei corpi/edificio prodotti dal fare cüir proprio di quest’isola, una cartografia (nel senso guattariano del termine ) sui modi di produzione dell’abitare che faccia emergere le zone non più solamente vissute dai corpi ma generate da essi . Il corpo a cui mi riferisco è un corpo transindividuale ovvero una relazione di relazioni che si danno non solo fra individui ma fra entità, termine che Philiph Butler utilizza per indicare una decentralizzazione dell’umano a favore di sistemi di rapporti complessi di tutto il mondo fisico.

Premessa

Scrivere di Loverbar, Cüirtopia e dell’isola di Puerto Rico significa porsi in un crinale scivoloso, può voler dire compiere ripetuti giri a ritroso nella ricerca per non produrre il proprio sapere sapiente sull’esperienza altrui. Significa costantemente considerare ciò che Athena Athanasiou indica come il punto del performativo in politica: «la lotta con la norma è una lotta coinvolta in ciò che cerca di contestare»1. Ho pensato inoltre fosse problematico scrivere a proprio nome sapendo che di proprio c’è molto poco, nondimeno trovo ovvio e altrettanto problematico cercare di tutelarsi affermando che chi scrive è solo una piccola parte di una pluralità di voci. Più interessante è l’idea che la teoria sia tutta dentro le cose, le esperienze e i corpi, che non ci inventiamo nulla, che non siamo noi ricercatx che offriamo un pensiero ma che c’è un pensiero che si offre a noi per ragionare e agire sull’esistente. Questo anche per dire che le scelte che stanno direzionando la ricerca in corso, si stanno dando dove questo pensiero più si manifesta. Al tempo stesso, seguendo Erika Fischer-Lichte2, l’essere-nel-mondo corporeo rappresenta la condizione di possibilità, anche nel fare ricerca: come corpi in ricerca è possibile, per alcune indispensabile, farsi oggetto in relazione da cui generare eccedenza di pensiero.

Questa affermazione introduce un elemento fondante di questo testo ovvero la mia esperienza, il punto da cui scaturisce il presente ragionamento. Il mio corpo senza un’occasione di contatto con Puerto Rico non avrebbe prodotto questa scrittura: è divenuto oggetto d’indagine nel momento in cui la mia corpo-realtà in relazione ai luoghi che abitavo e che mi abitavano, cambiava. Un cambiamento che mi si è presentato più come un malfunzionamento, un qualcosa che stava andando piuttosto storto, che stava mettendo in questione il costrutto dei miei modi di presenza in quel luogo. Per tale ragione userò spesso la prima persona, non tanto per parlare di me, ma per parlare partendo da sé, assieme a parti più narrative, per poter inserire, fin dove sarà possibile, il vissuto nella scrittura3.

Se il punto di partenza è il vissuto che, come accennavo sopra, non è tema sulle pratiche incorporate, ma metodo di ricerca e di progettazione da un lato e di archiviazione dall’altro, le fonti che ho utilizzato sono le rimanenze di quei vissuti: le memorie di quel viaggio e delle persone che erano con me a Puerto Rico, le recenti conversazioni con Carlos4, un amico artista tatuatore portoricano che ci ha fatto visita, le chat oltreoceano con Luìs a cui ho chiesto di ricordare con me, le foto e i video fatti allora e gli oggetti strambi che sono invece emersi dopo, come la facciata di Loverbar, le strane mappe della pagina Instagram di Cüirtopia, le grafiche dei notiziari delle testate portoricane, lo spanglish, il taíno, il reggaeton, i testi rap. Oltre ad interrogare questi oggetti, mi sono munita di una letteratura trasversale, che mettesse in relazione teorie della cultura caraibica portoricana con il background a me più prossimo sulla performatività. Una scelta che, distante dal voler amalgamare le diverse discorsività, indaga l’istante in cui avviene l’innesco fra tali discorsività, il momento in cui, nel toccarsi, nel nutrirsi qualcosa si genera come surplus. Così avviene per esempio tra la letteratura di Judith Butler e gli spazi di Loverbar, tra le cartografie queer di Paul B. Preciado e il viaggio a Cüirtopia, tra le teorie di Diana Taylor, Lawrence La Fountain-Stokes e le cosmogonie avviluppate dell’isola di Puerto Rico.

In questo testo attraverso spazi del Borikén5 che sono esistiti per breve tempo, di cui ho visto o saputo. In particolare la storia di Loverbar e il progetto artistico di Regner Ramos dal titolo Cüirtopia, a cui devo moltissimo per questo articolo, sono parte di un pensiero sull’abitare che opera parimenti sul piano della perfomance artistica e della pratica sociale. Non è possibile situare l’esperienza di questi luoghi e progetti senza riferirsi costantemente alla loro interrelazione con l’isola del Borikén, una terra che si fa mondo, che fonda l’essere attraverso le sue differenze. Mi rendo conto che la distanza è incolmabile ma d’altronde è proprio una riflessione sugli spazi che qui mi trovo a fare.

Il periodo che prendo in considerazione si situa tra il 2017, anno in cui l’isola di Puerto Rico fu devastata dall’uragano Marìa6 ed il 2022, uno spazio-tempo che comprende gli anni della gestione pandemica che hanno brutalmente accelerato la crisi climatica, inasprito l’ingiustizia sociale e contribuito all’aumento delle violenze di genere, facendo precipitare lo stato di diritto e sdoganando definitivamente il neocolonialismo estrattivo pressoché ovunque7. In questo contesto l’impressione del saturarsi dell’esistenza convoca l’attività poetica che risuona con il moto dell’isola stessa e dei suoi ecosistemi.

Nel Borinkén la precisa attività del farsi mondo, del farsi corpo incombe in ogni angolo e si dà come conoscenza della diversità dell’esperienza. Diana Taylor così come Lawrence La Fountain-Stokes affrontano la questione della latinità come un mondo complesso, non statico, mai prevedibilmente dualistico. Se, secondo Taylor8, nei Caraibi la perfomance in quanto pratica corporea in relazione ad altri discorsi culturali offre un modo di generare e trasmettere conoscenza attraverso il corpo, per La Fountain-Stokes, che si riferisce a Lola Von Miramar9, l’azione, il comportamento sociale e la performance drag sono modi per negoziare quelle che possono essere delle idiosincrasie10 fra l’inglese e lo spagnolo e il taino, fra gli Stati Uniti e Puerto Rico, fra la cultura di strada, il pacchiano e la cultura alta, ma anche fra la rappresentazione di un paesaggio incontaminato e le terre avvelenate dai sessant’anni di esercitazioni militari. La performatività, come precisa Taylor, contiene il verbo “performare” e il soggetto agente “performer” nella stessa parola, ma alla luce del rapporto con la spazializzazione emerge inoltre la parola “form(a)” che da un punto di vista etimologico non significa solo l’aspetto di qualcosa, ma anche ciò che rende possibile la formazione di qualcosa. “Form(a)” intesa quindi come “supporto”, termine utilizzato anche da Butler per indicare lo spazio che ci permette di agire, che co-partecipa a un’attività. La parola “form(a)”, per tanto, suggerisce qualcosa che deve accadere, che è incombente. Difficilmente, come in questo contesto, il performativo acquisisce una così incisiva capacità di intercettare la propensione al mutamento propria di quest’ isola, di corpi temporalmente marcati che riflettono particolari momenti storici, politici, economici e sociali. Una spinta al mutamento che afferisce nello stesso momento a identità, sessualità, luoghi, spazi, sistemi di relazioni nell’isola e nella diaspora.

San Juan, Puerto Rico

Gli antagonismi, le politiche di organizzazione del dissenso, gli attivismi che cambiano da territorio a territorio, sono questioni estremamente specifiche, almeno altrettanto quanto lo sono le esperienze dei corpi. Puerto Rico è una piccola isola caraibica vissuta più come territorio che come stato-nazione. I suoi confini in termini geografici vengono stabiliti dal Mar dei Caraibi e dell’Oceano Atlantico. Puerto Rico non ha regioni, dipartimenti e nemmeno province poiché essendo un territorio non incorporato degli Stati Uniti, non può avere divisioni amministrative di primo livello. L’isola è quindi divisa in 78 comuni, chiamati città. Dall’inizio del 1500 fino a oggi è di fatto una colonia che è passata dal controllo spagnolo a quello statunitense in una guerra di conquista nel 1898. Ora, nei rapporti con gli Stati Uniti, assume i connotati di Commonwealth, ma il conflitto per definire lo status politico dell’isola non ha mai avuto fine. A livello istituzionale la disputa è tra rimanere Commonwealth o l’annessione totale agli Stati Uniti come stato federale, tuttavia i movimenti sociali, femministi e anticoloniali dell’isola lottano da tutta la vita per una totale indipendenza dagli Stati Uniti e per un cambio radicale delle politiche di governo dell’isola di stampo ispanofilo, con aspirazioni annessioniste e di legame con gli USA. Di fatto il sistema politico che si riflette sullo stato di diritto, sulle infrastrutture e i servizi dell’isola è marcato da una profonda subalternità agli Usa delle istituzioni locali e dal considerare Puerto Rico una terra abitata da persone di serie b. Basterebbe questo per comprendere cosa intendo quando affermo, più avanti, che i corpi sono già in tumulto e dentro il conflitto. Ma un’altra questione che rafforza tale affermazione è il rapporto dex portoricanx con l’ecosistema che mi sovviene pensando al lavoro documentario di Beatriz Serrano Muñoz, La Cueva Negra (2012), girato in un paesaggio rurale post-industriale, ben distante dalle cartoline paradisiache destinate al turismo. Un paesaggio che, come afferma Serrano Muñoz, chi vive a Puerto Rico riconosce immediatamente, un luogo che è stato una base militare per sessant’anni e che è stato bombardato, in cui il pensiero che viene prodotto non si può avere altrove, è un pensiero possibile legato al luogo: «Se nuotate vedrete aragoste e conchiglie che vivono sui missili. Se non lo fate, non vedete nulla»11. L’aspetto interessante di quest’opera è che illumina l’andamento di produzione intrasoggetiva, nella relazione con un luogo distrutto, tossico, violentemente trasformato, che però rimane in qualche modo invisibilizzato. Serrano Muñoz si interroga infatti su ciò che produce un nuovo evento in questa storia, sull’attività dell’ambiente e del paesaggio nel fare qualcos’altro.

Nel 2018 andai a Puerto Rico, in particolare visitai San Juan, la capitale, e Vieques, un’isola che guarda a nord l’Oceano Atlantico e a sud il Mar dei Caraibi. La seconda notte dal nostro arrivo, Luìs, un amico tatuatore portoricano, ci portò dopo cena in un bar in calle Loíza nel quartiere di Santurse. Loíza, assieme alla Placita12, è una delle parti della città più palpitanti, colma di ristoranti e locali notturni e nell’ultimo decennio, soggetta a un rapido processo di gentrificazione. In strada ci stavano poche persone e non molte neppure all’interno del bar. Avrei detto che era un “fine serata”, quando senti il puzzo dell’alcol versato a terra, l’odore di fumo vecchio di ore, l’umidità corposa, la luce soffocata, la barra del bar quasi vuota. Alcunx erano ammassatx attorno a quello che io chiamerei volgarmente piano-bar e altrx appoggiatx ammiccanti alle pareti fuori del locale.

Vieques di notte, foto di Roberta Da Soller, dicembre 2018.
Vieques di notte, foto di Roberta Da Soller, dicembre 2018.
San Juan di notte, foto di Roberta Da Soller, dicembre 2018.
San Juan di notte, foto di Roberta Da Soller, dicembre 2018.

San Juan, tuttavia, non è una città europea e neppure americana bensì uno spazio dove le alture del tempo occidentale con la loro nozione falsificante di istante fisso e linearità crollano. San Juan, come altre città di quest’isola è una terra ad alta densità temporale, uno spazio di soglia dove, come afferma Glissant, il passato e il futuro «risiedono in oggetti materiali che liberano i loro significati nascosti solo quando vengono incontrati in modo immaginativo, nella loro profusione inesplorata traducono la natura intricata e polisemica dell’esperienza collettiva»13.

A questo punto non saprei dire quale momento della giornata fosse, poteva essere l’alba come un tardo tramonto, perché ricordo un cielo notturno chiaro14. Quando siamo entratx abbiamo scambiato qualche occhiata con le persone che erano lì. C’era un ritmo, un certo piacere. Anche chi non era impegnatx a ballare a pieno corpo, dava comunque un suo cenno. Tempo fa un’amica performer, commentando una foto di noi sedute su di uno scalino a parlare, capelli corti rasati ai lati e lunghi sopra, catena al collo, gilet in jeans, scrisse “Le risposte sono tutte scritte sui nostri corpi” e qualcuna commentò “pure le domande”.

Josè Esteban Muñoz, scrivendo di Kevin McCarty e in particolare di un passaggio nell’autobiografia del fotografo in cui racconta di una certa soglia esistente fra il bar gay 1470 e il Chameleon Club in Ohio, dice:

In una certa misura sta narrando la scena del trovarsi in mezzo [in-between-ness], una spazialità che si allinea con una temporalità sulla soglia tra identificazioni, mondi di vita e potenzialità.15

Immagino che quello che sto facendo ora sia provare a narrare una soglia, una confluenza, un crocevia. A quel tempo, invece, provavo a leggere nei corpi. Dov’ero? Che posto era quello? E più cercavo qualcosa da identificare più scivolavo nel buco nero della memoria. Quello che so è che non ero in un luogo straight, ma neppure in un bar gay o lgbtqia+, non ero in un bar di corpi bianchi e neppure di corpi neri, non ero in uno spazio dedicato alla performance artistica ma neppure sembrava distante dall’esserlo, c’era comunque tutto, tutto quello che riconoscevo e tutto quello che non avrei saputo dire. Quel posto mi dava i sintomi di un’amnesia sincopata, tuttavia pur non capendo, questa perdita di senso era curiosa e apocalittica assieme.

Cosa significa cüir16 nel Caribe e per il Caribe? Lawrence La Fountain-Stokes afferma che cüir significa diversità, che ha a che vedere con vari processi storici, con la lingua, con la sovranità, con l’essere un paese indipendente o essere una colonia, riguarda la negoziazione dello stereotipo. La colonialità, intesa come costruzione identitaria strutturata a partire da un rapporto di subalternità da un lato e da una cultura regnante dall’altro implica, fra le varie cose, la mancanza di conoscenza storica sulla diversità dell’esperienza dei territori. Il non conoscere di per sé non sarebbe un problema, se non fosse che l’ingombro di una certa “conoscenza” data, può prendere tutto lo spazio del possibile.

Cüirtopia: Soft Crash at the Museo de Arte Contemporáneo de Puerto Rico by Regner Ramos, photography by Josh Anton + Nos Veran Studio (2022). Courtesy of Regner Ramos.
Cüirtopia: Soft Crash at the Museo de Arte Contemporáneo de Puerto Rico by Regner Ramos, photography by Josh Anton + Nos Veran Studio (2022). Courtesy of Regner Ramos.

Torniamo per un attimo nel bar di calle Loìza. Ordino qualcosa al bancone del bar e mi guardo attorno. Una fila di luci colorate al soffitto, paillettes, rossetti e smalti colorati si avvertivano a intermittenza tra i toni freddi e scuri del locale. C’era alcune persone che facevano salsa, mi avvicino mentre Luìs mi dice: «Mira ese es Tego!» (Guarda, quello è Tego). Le cantanti erano due afro-portoricane, una indossava uno sgargiante kanga, l’altra una fascia nera che raccoglieva la chioma di capelli scuri. Erano accompagnate al bongo drums da un uomo sorridente, che Luìs chiamava Tego, con un’enorme fessura in mezzo ai denti, dreadlock neri lunghi fino al fondo schiena. Ebbene, per chi agli inizi del 2000 ascoltava i Cypress Hill, ricorderà sicuramente quel pezzo in spanglish che è Latin Thugs, forse non ricorderà il featuring ma di certo ha presente il ritornello:

Cypress con Tego
Llegaron los mero mero
Cuba, Borinquen, Mexico entero
Los Angeles, como arriba, ándale […]

Quel Tego del bar di calle Loíza era Tego Calderón, rapper nato a Loíza nei primi anni Settanta, trasferitosi con la famiglia a Río Grande, altra città dell’isola e successivamente negli Stati Uniti. Dopo una serie di collaborazioni, Tego rientrò a Puerto Rico a fine anni novanta con l’intenzione di ristabilirsi ed iniziare a produrre qui la sua musica dalle influenze salsere e caraibiche. Tale proposito fu presto deluso dalla mancanza di possibilità dentro la scena portoricana. In questo periodo Tego finì in carcere. Quando uscì, pubblicò il suo album di debutto El Abayarde17 dal quale iniziò per lui l’ascesa. Latin Thugs, brano dei Cypress Hill con Tego, é del 2004. Tego non è solo un musicista, è un un indipendentista afro-portoricano che scrive di razzismo, di autodeterminazione, della vita di strada e della durevole occupazione indebita dei gringos statunitensi, distante dall’indipendentismo portoricano ispanofilo bianco istituzionalizzato, così come dal razzismo intestino, dal classismo e dalla corruzione propri dell’isola e dei suoi politici. Tego, in un post sui social, parla a suo modo del razzismo che si dispiega sulla linea del colore, afferma che il razzismo è come il machismo e ci fa entrare pure il femminismo, poi si scusa se ha detto qualcosa di non corretto, che ha studiato fino alla terza elementare e che porta rispetto. Tego non lo biasimo affatto, da femminista, accademica, bianca, europea, di classe media, sono consapevole di quanto una parte del femminismo occidentale bianco, così come lo è in generale una parte della cultura occidentale bianca, possa farsi civilizzazionista. Tuttavia i femminismi e i corpi coinvolti nelle lotte femministe, non essendo una sfera omogenea e indistinta di fare teoria, ma una molteplicità di pensieri e di pratiche, fortunatamente non possono assurgere in ogni specificità a questa “funzione”. Molto interessante è invece ciò che il femminismo decoloniale (di cui La Cole – Colectiva Feminista en Costrución di Puerto Rico18è un esempio) e il fare queer ci invitano a realizzare: tradire la razza, tradire la classe, tradire il genere e se serve, tradire anche un certo femminismo19.

En Resistencia era il nome del bar dove mi trovavo, investita da una configurazione di corpi variabili, resistenze antirazziste, performatività cüir, ritmi salseri, temporalità in collasso che mandavano fuori-di-sé. Situarsi, posizionarsi in quello spazio non era cosa facile perché necessitava una rapida e mutevole capacità di dislocarsi.

Il posizionamento è mutevole, parlo da un margine in quanto donna precaria20, da privilegiata in quanto europea, bianca, di classe media, ma poi il mio margine si sposta di continuo, si stringe o si allarga e così il mio privilegio. Mai come in quel contesto si rendeva tanto evidente. Bernardine Evaristo, come una sorta di premessa alle pagine che poi seguono il libro, scrive in Ragazza, donna, altro:

Courtney ha risposto che Roxane Gay ci ha messo in guardia contro il rischio di imbarcarci nelle “Olimpiadi del privilegio” e in Bad Feminism ha scritto che il privilegio è relativo e dipende dal contesto […] Obama è meno privilegiato di un ragazzino bianco di provincia che cresce in una roulotte con una madre single tossica e un padre che è un avanzo di galera? una persona con una disabilità grave è più privilegiata di un richiedente asilo siriano che ha subito torture? Roxane dice che dobbiamo trovare un modo nuovo per parlare di disuguaglianze21.

Non solo il posizionamento dipende dal contesto ma può mutare più volte anche dentro uno stesso spazio, nello stesso contesto; chi sono e qual è il mio luogo, non solo di enunciazione, ma anche da dove produco pensiero, visione, ascolto, spazialità, movimento: sono elementi sottoposti a una disposizione reattiva verso una trasformazione data dalla relazione di contatto. Questo non significa che si smetta di essere privilegiate o di abitare un margine solo perché in relazione, ma se privilegi e marginalità hanno in prima istanza una ricaduta sulla materialità della vita, forse i corpi in quanto materia che siamo e che abbiamo in certi contesti precisi (penso al bar di calle Loìza) denormalizzati, frantumati, trasfigurati, reagiscono, si trasformano, producono surplus, eccedenza attraverso il quale il potere possa finalmente essere discusso al plurale, poteri, a indicarne l’accessibilità22 e il moltiplicarsi degli spazi di possibilità.

È la relazione tra spazialità e corporeità a produrre tali poteri. Non una qualunque relazione, ma dei rapporti specifici. La performatività essendo un’attività del divenire ha un ruolo chiave non solo nella costruzione dell’identità (e non nell’esprimere un’identità), ma anche nella produzione della spazialità attraverso cui tale identità si genera, si rigenera e si trasforma. Butler sostiene che l’azione è sempre supportata e che per ottenere i supporti che ci consentono di agire dobbiamo lottare23. Se questo è senza dubbio un piano, e lo vedremo a breve nell’esperienza di Loverbar, un altro piano è che questi rapporti disegnano coordinate non tracciabili a prima vista, ma che di fatto re-istituiscono l’abitare, lo stare, l’attraversare. Non mi riferisco solo a quello che già Butler ha detto con chiarezza, ovvero che una certa attività «riconfigura la materialità dello spazio»24 già presente, bensì ipotizzo che queste configurazioni, in cui i supporti non sono solo rivendicati come parte dell’azione stessa, ma progettati e prodotti, arrivano a indicare non solo i soggetti ma anche, se non i mezzi, almeno delle traiettorie da praticare per un’architettura dell’abitare.

Come vengono prodotti questi spazi? La performatività, in questi specifici rapporti fra certi supporti, certe corporeità e la produzione di coordinate per un pensiero futuribile sullo spazio, genera una disposizione del corpo e dei corpi che persiste verso modi dello stare, parlare, sentire e pensare, flessibili, mobili, componibili ma duraturi. La Fountaine-Strokers, che ha scritto pagine importantissime sulla diaspora cüir di artistx portoricanx, afferma che la resistenza alla migrazione non è vista come tale, ovvero “non-migrare” non è visto come atto di resistenza a una logica dominante, nonostante lo sia. A Puerto Rico, il movimento è nei corpi anche di chi rimane, la diaspora riguarda chi va, ma anche chi resta come qualcosa che può darsi sempre, in qualunque momento. In egual misura, l’andarsene riguarda anche chi resta in quanto parte di un corpo sociale, dentro un legame dato da relazioni affettive ed esperienze condivise.

Loverbar

Loverbar, picture by Regner Ramos, Brian Torres, and Gabriela Ennich (2021). Courtesy of Regner Ramos.
Loverbar, picture by Regner Ramos, Brian Torres, and Gabriela Ennich (2021). Courtesy of Regner Ramos.

Nel settembre 2017 l’uragano Marìa si è abbattuto sui Caraibi. Puerto Rico è stata l’isola che ha registrato più morte e devastazione nelle isole caraibiche. Ai danni strutturali si sono aggiunti mesi senza elettricità e una crisi economica che ha pesato enormemente sulle già precarie condizioni socio-politiche dell’isola. Puerto Rico era già stato dichiarato in bancarotta dal 2016. Si registrarono almeno duemila persone che dovettero andarsene. Dentro questo scenario la chiusura degli spazi cüir che ne seguì, potrebbe sembrare cosa da poco. Ovviamente non è così.

In quel periodo, a capo del governo di Puerto Rico c’era Ricardo Rossellò, anche conosciuto come Ricky per la campagna di deterrenza #RickyRenuncìa contro il suo governo. Nel febbraio 2017, appena entrato in carica, Ricardo Rosselló emise un ordine esecutivo per eliminare le lezioni di studi di genere da tutte le scuole portoricane. Nel 2019 emise un altro ordine esecutivo che impose alle istituzioni, che richiedevano una licenza per esercitare la professione medica, di certificare che non avrebbero offerto o eseguito la terapia di conversione. Tuttavia la legislatura di Puerto Rico non ha approvato un divieto completo della procedura, lasciando la porta aperta a un futuro governatore per annullare l’ordinanza. Infine Rossellò cadde nell’agosto 2019, dopo settimane di intense e appassionanti manifestazioni chiamate “Levantamiento de Verano” (Insurrezione d’estate) che ne chiedevano le dimissioni a causa di email trapelate dal centro di giornalismo investigativo di Puerto Rico. Tale corrispondenza esponeva conversazioni omofobe, sessiste e razziste tra lui e i suoi principali collaboratori. Il “Levantamiento de Verano” lasciò un’impronta indelebile nella storia dell’attivismo portoricano perché radunò soggettività politiche mai viste insieme prima di allora. I gruppi cüir che vi presero parte erano in qualche modo in contatto con le reti dei movimenti e con i gruppi femministi, con i quali si organizzarono. Dopo essere statx parte attiva nel “Levantamiento”, sparirono, con questa forma di presenza che accoglie e agisce situazioni impreviste, utilizzando l’invisibilità, il non apparire volontariamente, come tattica che gioca con la possibilità dell’apparizione.

Il passaggio di Rossellò lasciò comunque una scia di gravi conseguenze: nel 2020 si registrò il più alto numero di omicidi di persone transgender dal 2013. In questo contesto la chiusura di uno spazio come El Escondite, dove potersi esibire e riunire, ha rappresentato una perdita profonda. El Escondite era un tiki bar che stava nell’Avenida de Diego a Río Piedras25, attuale distretto della città di San Juan, un viale derelitto, abbandonato, decadente, segno del fallimento dell’attività di uno dei maggiori centri commerciali dell’area metropolitana di San Juan.

Il progetto di Loverbar nasce nel rimestarsi di queste catastrofi atmosferiche, sociali, economiche e politiche, nasce dalla festa cüir del giovedì sera, che alla fine è divenuta House of De Show, serata organizzata mensilmente da Jhoni Jackson al Club 77, un locale punk-rock vicino all’Università di Porto Rico a Río Piedras di cui Jhoni era co-proprietarix. All’ El Escondiste approdò House of De Show, dopo che Jhoni decise di vendere la sua quota del Club 77 nel 2016. A seguito dell’uragano, El Escondiste dovette chiudere e tre anni dopo, fra quelle mura, aprì Loverbar, un nuovo progetto di cui Jhoni Jackson si è fattx carico per la collettività. Il progetto ha coinvolto diverse persone della comunità cüir durante i tre anni di progettazione dello spazio e per tutto l’arco della sua esistenza.

Ana Vujanovic26 sottolinea comea causa della mancata considerazione della performance come modello di produzione, molti tentativi di politicizzare e ri-politicizzare la performance e le analisi delle sue dimensioni politiche non sono riuscite a creare antagonismo, senza il quale, afferma, non c’è politica.

Diversamente in quest’isola dei Caraibi ciò che viene prodotto in termini di performance artistica non ha la pretesa del politico, né tanto meno reclama un’analisi delle sue dimensioni politiche, ma è irrorata di una politica immanente alla produzione performativa. A Puerto Rico la performance artistica si genera da corpi che sono già dentro al conflitto e in tumulto, in quanto soggetti latinoamericani, caraibici, diasporici, coloniali, queer, trans e di colore, ancora prima di potersi organizzare politicamente.

Quello che avviene quindi in termini performativi è che da un lato la produzione artistica diventa protesi dei corpi, dilatazione di quello che i corpi dicono e di come i corpi si trasformano e assemblano e dall’altra, la performatività, in senso butleriano, scorre dentro, fuori, sotto, sopra, a lato, attraverso i modi di produzione artistica, modellando ciò che viene fatto, inventando tanto quanto inventariando lo spazio che articola.

Pertanto, in questo contesto, la performatività è intesa nella sua dimensione elastica, come concetto/laboratorio27 che tiene assieme le forme dello spazio scenico, non tradizionale, e lo spazio del politico, ovvero del divenire dei corpi (umani e non umani) e delle loro intra-relazioni.

Loverbar, picture by Regner Ramos, Brian Torres, and Gabriela Ennich (2021). Courtesy of Regner Ramos.
Loverbar, picture by Regner Ramos, Brian Torres, and Gabriela Ennich (2021). Courtesy of Regner Ramos.

[…] LA COMUNITÀ LGBTTQIA DI RÍO PIEDRAS HA BISOGNO DI UN LUOGO PERMANENTE TUTTO SUO / LOVERBAR COLMERÀ QUESTO VUOTO / COME LOCALE INCENTRATO SULLA VITA NOTTURNA DELLA COMUNITÀ / CHE SI IMPEGNERÀ PER L’INTERSEZIONALITÀ INCLUSIVA COME SPAZIO (PIÙ) SICURO / LOVERBAR SARÀ UNA CASA PER TUTT_ ARTIST_ QUEER, AMIC_ E FAN / DRAG / DJ / BAND / PERFORMANCE ART / PIÙ OSPITI DA FUORI L’ISOLA / E NATURALMENTE UNA NUOVA EDIZIONE DI “THE SHOW” OGNI MESE28.

Loverbar aprì il 20 agosto 2020 in piena pandemia, dopo tre anni di lungaggini burocratiche. Proprio per il tipo di gestione che la pandemia esigeva, le attivistx dello spazio hanno messo a valore tutta una serie di servizi per la comunità, a partire dall’apertura in orari diurni e dai pranzi e merende vegane. Fu aperto inoltre un armadio (closet) di vestiti vintage raccolti nei mesi prima dell’apertura, di cui chiunque poteva usufruire indipendentemente dalla loro identità di genere o dal loro orientamento sessuale. Era una boutique comunitaria, piena di vestiti di tutte le taglie e completamente gratuiti come forma di sostegno reciproco, di solidarietà e di interscambio a cui la comunità veniva invitata a partecipare donando a sua volta abiti e accessori.

Loverbar ha l’aspetto di una dollhouse, dalle tinte rosa, rosse e viola. Le finestre sono a forma di cuore e in alcune occasioni hanno funzionato come barra del bar per le persone che si trovavano all’esterno. Gli elementi della facciata sono opere dell’artistx cüir, isolana-caraibica Paula I del Toro e in generale come sostiene Regner Ramos, Loverbar sembra prendere ispirazione dall’estetiche rosa punk dissacranti di John Water29. La dollhouse è un oggetto che ha attraversato la ricerca di molte artistx femministe e che incarna tutta una serie di stereotipi legati alle donne e alle persone cüir, a partire dalle tinte naïve, dal domestico come luogo del femminino, luogo delle bambole, compagnia assegnata alle bambine per nascita, e delle varie sembianze che le bambole possono assumere: rassicuranti e inquietanti, essere protettrici e demoniache. In genere, una dollhouse, nel segno dello stereotipo, può appartenere al regime dell’infanzia come a quello della vecchiaia, queste temporalità condividono le stesse condizioni di partenza: entrambe sono associate a un disimpegno, un disimpegno a cui è associato anche il lavoro domestico, un modo di stare frivolo e inconsistente delle persone cüir, l’infanzia, in sostanza un universo immaginifico ancora-non e non-più adatto al mondo.

Loverbar, picture by Regner Ramos, Brian Torres, and Gabriela Ennich (2021). Courtesy of Regner Ramos.
Loverbar, picture by Regner Ramos, Brian Torres, and Gabriela Ennich (2021). Courtesy of Regner Ramos.

Nel 1972 nel contesto di Womanhouse, Miriam Shapiro e Sherry Brody realizzano Dollhouse, una casa delle bambole composta da diverse stanze, ognuna delle quali disarticola i ruoli di genere attraverso degli elementi organizzati dalle artiste come ad esempio ragni, uccelli, mostri. Dollhouse è una casa segnata da un’assenza, quella della donna, ogni spazio della casa è abitato da animali o da oggetti, ma disancorato dalla propria funzione domestica. L’unico “movimento” è di un uomo in posa per un dipinto-miniatura, Silver Windows del 1967 della stessa Miriam Shapiro che compie, anche in quel caso, una disgiunzione fra l’uomo, presupposto soggetto, e il quadro in cui sono dipinte a ripetizione figure geometriche che ricordano la griglia inglesina delle finestre. Un lavoro artistico che perturba ruoli, funzioni, spazialità, insinuando una riappropriazione della dimensione progettuale creativa/non decorativa della e sulla casa. Inoltre, la perdita finale del corpo femminile, indica la scomparsa di una registrazione visiva che si è fatta nel tempo solo dato referenziale, per suggerire un cambio di rotta verso un corpo progettante da re(i)stituire.

Se il fare cüir ha privilegiato le differenze trasformative non solo tra i generi, Loverbar sembra compiere un’operazione molto simile: da un lato dissociativa – potrebbe essere una casa delle bambole, un nightclub, una mensa comunitaria, uno spazio di produzione di performing arts, ma non è nulla di questo bensì tutte queste cose assieme che si danno parimenti – dall’altro riappropriativa, come spazio di legittimazione progettuale. Al contrario di Shapiro e Brody, i corpi incombono sull’edificio di Loverbar che diviene corpo/edificio, si traveste e si presenta come un’ulteriore superficie d’iscrizione a contatto con il mondo. A queste latitudini, come per il tempo, pure lo spazio segue coordinate non assegnate. La casa che per molte significa lavoro domestico, lavoro di cura, lavoro riproduttivo e in definitiva lavoro non retribuito, spesso con l’aggravante delle violenze che ben si celano dentro quel personale-privato che possono essere le mura domestiche, per alcunx invece si trasforma e diviene luogo di resistenza e lotta fondamentale dove «potersi confermare l’un l’altra e così facendo guarire molte delle ferite che la dominazione razzista aveva inflitto»30. Le parole di bell hooks aprono uno squarcio su Loverbar, sulle ferite della comunità che per un anno e mezzo ha abitato dentro e fuori, di fronte o accanto ad esso, nel parcheggio, sul percorso adiacente. Ferite del razzismo, del sessismo, della misoginia, del classismo, della colonialità, dell’estrattivismo culturale e territoriale, della crisi ecologica, della omotransfobia, di cui Loverbar si è fatto carico, il che significa che l’intera comunità che si è riunita attorno a questo bar, si è assunta la responsabilità di una ferita inferta a un corpo transindividuale.

Questo corpo/edificio/casa/istituzione, sempre seguendo il pensiero di bell hooks, si fa quindi focolare di attivazione politica, sito di resistenza, sala di produzione e centro del mutualismo comunitario. La superficie di Loverbar non rappresenta, è! Si è Loverbar, si ha Loverbar e questa architettura che si evolve come un sistema camaleontico di dettagli che appaiono nelle superfici delle pareti, nei corpi, negli spostamenti (dentro e fuori, di fronte o accanto ad esso, nel parcheggio, sul percorso adiacente), è un proiettile in canna per la politica istituzionale che vorrebbe la casa come uno spazio politicamente neutro. L’esistenza di questo posto è la condizione per fare comunità di resistenza.

Lover/amante e non Love/amore è il nome che sembra sgomberare il campo da interpretazioni troppo ingenue e massimaliste su l’amore. “Because the night belongs to lovers […] / Desire is hunger is the fire I breathe / Love is a banquet on which we feed […] If we believe in the night we trust”31, cantava Patty Smith in Because the Night, un amore fatto di passione, di carne, un amore reciproco in primis ma non pacificato con il mondo, non un amore da “bona dea” ma un processo per la conquista dell’amore, per uno spazio (più) sicuro, dove, nel caso, poter operare un anche violento rovesciamento. Only lovers left alive32.

Loverbar, picture by Regner Ramos, Brian Torres, and Gabriela Ennich (2021). Courtesy of Regner Ramos.
Loverbar, picture by Regner Ramos, Brian Torres, and Gabriela Ennich (2021). Courtesy of Regner Ramos.

Dal pomeriggio fino a notte a Loverbar si organizzano drag show, laboratori e sfilate di voguing e sessioni di neo-perreo, a cui partecipano molte studenti dell’università di Río Piedras. È un luogo destrutturato, grezzo, nel senso di non patinato, di pratiche DIY, autogestite, dove si può fare drag per la prima volta, svecchiato anche dalla tradizionale scena cristallizzata in categorie come la drag queen e drag king, facendo spazio a tutta una serie di performance molto più fluide. Zylia Zoé Ramírez per esempio, artistx che in più occasioni si è esibitx a LoverBar, è un* Meta Queen la cui storia fantastica, dalla quale fa nascere Nomi Latoken, è la seguente: dopo essersi innamorata di un uomo gay, Nomi decide di sottoporsi a un intervento di riassegnazione del sesso. I medici, però, si accorgono che Nomi sta fingendo di essere un paziente transgender e interrompono l’operazione a metà, lasciando Nomi con solo metà pene. Unx perfomer, Nomi, che incarna molteplici ibridazioni oscillando costantemente tra i generi.

Drag che nella nostra lingua significa “trascinare/si”, nei caraibi si rapprende di significati: trascinarsi tra incroci transatlantici, transcaraibici, translinguistici, transnazionali. Trascinare fuori l’assurdo disprezzo per la parola travestitismo, che in spagnolo ha una connotazione offensiva (travestismo). Perché, come afferma Paul B. Preciado, pur essendoci una predisposizione per alcunx al mutamento, a conti fatti siamo tuttx mutanti, la vera differenza sta che mentre una parte del mondo continua a pensare che tutto sia normale, di essere normale, c’è chi, abbracciando la transizione intenzionale, non viene riconosciutx come soggetto politico33.

Le pratiche corporee che abitano e istituiscono Loverbar sono cariche di performatività cüir, progettualità e prospettiva politica, sono dispositivi di produzione micropolitica, inseriti dentro sistemi di organizzazione di cui queste pratiche parlano. Il caso del neo-perreo ne dà nota, un movimento all’interno del reggaeton che cerca e propone spazi più sicuri sulla pista da ballo per le donne e le soggettività cüir. Il perreo è un movimento sinuoso, specifico del bacino, legato al genere musicale portoricano del reggaeton, molto simile al movimento del twerking. Il nome deriva dalla parola perro che significa cane e indica il movimento del bacino dell’animale durante il sesso. Le danze caraibiche sono permeate di tradizioni provenienti dalla Nigeria e da altre aree bantu della Costa di Guinea dove muoversi è direttamente collegato, in diverse occasioni, a celebrazioni Yoruba, Ashanti, Fon e Igbo. Ciò nonostante l’ipersessualizzazione dei corpi femminili e cüir ha investito il perreo del portato oggettificante di una cultura maschile a cui questo movimento si asservirebbe. Il neo-perreo quindi nasce per liberare questa danza dalla morsa della sala da ballo etero-macho-funzionale, una rivendicazione di spazio e autodeterminazione che ha generato già in tempi non sospetti uno dei brani più famosi della vecchia scuola, Yo quiero bailar (Voglio ballare) di Ivy Queen del 2003:

Yo quiero bailar
Tú quieres sudar
Y pegarte a mí
El cuerpo rozar
Yo te digo: “sí, tú me puedes provocar”
Eso no quiere decir que pa’ la cama voy34

Come il neo-perreo, anche il voguing nei Caraibi si intensifica di tracce della storia cüir dell’arcipelago e con esse della lotta di liberazione e del processo di soggettivazione politica che questa pratica artistica porta con sé. I patterns, i movimenti a ripetizione che hanno fatto la storia delle competizioni del voguing newyorkese degli anni Ottanta, cambiano in quello che Muñoz definisce comememoria utopica queer35, un passato che si sbilancia oltre il presente e che in questo caso si dà come resto delle gestualità di antenate “cüir e frocie” del Borikè36. Il linguaggio del voguing cambia a contatto con i Caraibi a partire dalle piattaforme: le “balls” statunitensi qui diventano Las Bolas, un termine influenzato dalla storia del voguing messicano, La Paserela Caribeña, a differenza di quella americana, mette in evidenza le curve, il viso gioioso e il gusto del rimbalzo ad ogni movimento-leva e si basa sull’atteggiamento con cui si cammina quotidianamente, il cosiddetto piquete o tumbao, un modo di passeggiare che hanno ereditato le portoricanx e che riflette il passaggio delle onde del mare sul corpo. Anche il Jíbaro Vogue, praticato soprattutto nelle Bolas natalizie, sorge dalla fusione del voguing con elementi della cultura contadina portoricana.

Come possiamo guardare a Loverbar? Ancora José Esteban Muñoz ci viene in aiuto indicando come l’enfasi sui mezzi e sui modi di produzione anziché sui fini sia intrinsecamente utopica, un’affermazione che spesso è stata utilizzata al contrario, per indicare una cesura degli anti-utopisti, fra progetto e utopia, per i quali l’utopia, intesa come genere utopico, non indicherebbe i mezzi e sarebbe un grado massimo di organizzazione dopo il quale non si muove più nulla, rimane tutto immobile. Ora sappiamo che Muñoz si riferisce a una riflessione precisa, quella che guida Ernst Bloch in Il Principio Speranza e che afferisce alla movimentazione che sta alla base delle utopie concrete, ovvero alla spinta che anima ogni pratica di trasformazione del mondo. Tuttavia, la critica che in qualche modo continua ad aleggiare anche per questo tipo di sperimentazioni, si basa sul fatto che sarebbero sacche di resistenza protette e in cui proteggersi, nostalgiche forme di ritorno alla comunità, che si appellano a una sorta di paradiso in terra e che pertanto, seppur animati da buoni intenti, sarebbero innocue. Potrebbe essere utile aprire una lunga parentesi su come il concetto di “innocuo”, come d’altronde quello di “conflitto”, soffra un tipo di misurazione tarato su rapporti di forza occidentali, bianchi e maschi, ma quello che qui mi interessa, tenendo comunque conto delle limitazioni culturali che queste parole-concetto patiscono, è invece al contrario osservare come l’esperienza di Loverbar e delle sue pratiche artistichelavorino proprio su una potenza temporale, che lontano dall’essere innocua, inonda il non-ancora-qui. Si tratta di una modalità del fare con un reale non sempre verificabile, è proprio un’apertura di prospettiva che le specifiche pratiche artistiche attuano in questi luoghi, che come ci ricorda Muñoz non riduce la potenza all’ontologia della presenza37. Loverbar stesso è traccia nel tentativo di materializzazione degli archivi dei corpi trans portoricani della diaspora anni Ottanta e oltre. A sua volta Loverbar, il neo-perreo, la ripresa del voguing, il dragging e le forme di organizzazione che intercorrono fra di loro, continuano a produrre potenzialità laddove indicano una crepa nel presente, le stesse estetiche così apparentemente fuori posto, fuori tempo, non adatte ai modi di produzione capitalistica, alle temporalità neoliberali, alle rappresentazioni dell’età della ragione, sono già altrove. L’ondata di femminismi, decoloniali, intersezionali, che sta cambiando tutto non sarebbe stata possibile senza il salto carpiato delle compagnx del passato, dei bar, degli spazi d’immaginazione radicale, dei fallimenti che proprio nel loro accadere materializzavano tutta la serie di possibilità che erano state aperte. Possibilità che giacevano lì nell’invisibilità di un lavoro che distante dall’essere innocuo, scorreva e scorre fra le pieghe del tempo e articola un’inesorabile processualità di invisibilità e apparizione, che ci allerta, inoltre, sul fatto che anche la scomparsa e l’apparizione necessitano di mezzi per potersi dare. Se da un lato le immagini degli ambienti di Loverbar ci mostrano uno spazio interrotto, dall’altra attraverso di esse possiamo accedere non solo alle temporalità affettive che l’hanno fatto esistere ma anche a quel non-ancora-qui che ha generato e che continua a produrre futurità38.

Loverbar ha chiuso il 21 dicembre 2021 per una serie di circostanze che sono state, prima, spinta per la sua fioritura e dopo qualche tempo, causa del suo termine. Vikki Bell ci esorta però a guardare alla performatività, al farsi degli spazi, come qualcosa di non genealogicamente lineare ma come luogo degli effetti del proprio ambiente39, superfici in cui concorrono rimandi molteplici di uno stare, che proprio nella persistenza, dissotterra, evidenzia l’assurdità della norma/linearità dentro cui si trova inscritto40. I continui controlli della polizia, i raid per disperdere la folla che si trovava fuori dal locale, gli atti coercitivi e intimidatori verso chi lavorava all’interno del bar, sanzioni amministrative che hanno pesato sulle enormi difficoltà finanziarie dovute alla pandemia e in aggiunta la crisi dell’elettricità causata dalla società privata Luma41 nell’ultimo anno e mezzo, non hanno lasciato molta scelta. E probabilmente dovremmo domandare allo stato di polizia che si è dispiegato attorno a Loverbar se questa esperienza era percepita come innocua.

Pure le amanti/Lover in queste circostanze possono sentirsi spezzate, fragili, la scomparsa temporanea dell’amore/amante può essere un cataclisma. Forse è proprio quest’esplosione, questa rottura così dolorosa e ancora potenzialmente detonante che si rivela a noi nel tempo. Un baluginio, direbbe Josè Esteban Muñoz, una luce ad intermittenza della memoria che tenta di farsi carne, riattivando la conoscenza raccolta negli archivi corporei42.

Cüirtopia

Mappa di Cüirtopia, Courtesy of Regner Ramos.
Mappa di Cüirtopia, Courtesy of Regner Ramos.

Rumors of this little-known-island tell the tales of a pitch black room, where bodies glowing in purple light used to gyrate and grind into the night. I’ve been told of a discrete hole in the wall, where a blinking, red, neon “BOYS” “BOYS” “BOYS” sign led you down to secret rooms that reek of S-E-X. I’ve heard stories about this building whose dance floor, filled to the very top with foam, hid all sorts of mischief. And stories of a secret pool located on the second floor of a building in an ancient fortified citadel.
I call the setting of these stories, this remote island: Cüirtopia. In Cüirtopia, truth is stranger than fiction. This should come as no surprise: islands are rich in myth and magic. But although, for some, paradise is an island, it can be hell too. For all their wander, islands are also the stage for chaos and disaster43.

Cüirtopia è un progetto queer/cüir caraibico dell’architetto e ricercatore Regner Ramos che raccoglie tracce e memorie degli spazi/edifici/territori dell’isola dagli anni Sessanta fino ad ora, Loverbar è uno di questi.

Un progetto che inaugura una zona d’indagine dove interrogare la spazialità del farsi cüir caraibico come modo di organizzazione di un nuovo tipo di realtà. Cüirtopia è una piattaforma digitale, un programma radiofonico, una serie di disegni/mappe e sculture plastiche, un canale Instagram, una mostra e un film. Il progetto, attraverso la piattaforma web, funziona come archivio e come metodo di ricerca speculativo attraverso l’invio da parte di chi fruisce, di vari set di informazioni spaziali a seconda del luogo, mentre i disegni/mappa sono stati prodotti dall’osservazione di questi luoghi in relazione alla morfologia dell’isola e al campo di ecologie relazionali che agiscono in queste spazialità.

Cüirtopia: Soft Crash at the Museo de Arte Contemporáneo de Puerto Rico by Regner Ramos, photography by Josh Anton + Nos Veran Studio (2022). Courtesy of Regner Ramos.
Cüirtopia: Soft Crash at the Museo de Arte Contemporáneo de Puerto Rico by Regner Ramos, photography by Josh Anton + Nos Veran Studio (2022). Courtesy of Regner Ramos.

Cüirtopia è un metodo di mappatura dei modi di produzione di micropolitiche orientato verso la costruzione di una contro-storia che mette al centro le tecnologie di soggettivazione più che gli oggetti44. Per questo Cüirtopia è stata importante anche per la stesura del presente testo, perché se da un lato offre uno strumento di ricerca, dall’altro interroga anche il farsi ricerca come spazio di soggettivazione. La riflessione su architettura e strutture della spazializzazione si dà attraverso una mistura di realtà e finzione particolarmente manifesta nella parte del progetto in mostra al MAC, Museo de Arte Contemporáneo di Puerto Rico45 dal titolo Cüirtopia: Soft Crash, dove dei viaggiatori cüir, qui intesi come “altri”, oltre i generi, lasciano la loro casa alla ricerca di Cüirtopia: un arcipelago dove si dice che chi vi abita siano esseri liberi dalle norme imposte del genere e della sessualità. A bordo di una barca a vela e di altre due imbarcazioni, il gruppo intraprende un viaggio lungo anni per raggiungere le acque dei Caraibi. Un viaggio che si dispiega attraverso identità, architetture, paesaggi, tradizioni, rituali, economie e politiche spaziali, attraverso le questioni sull’alterità, i generi, la sessualità e le pratiche decoloniali. Il materiale di finzione si trastulla con il reale perché a Cüirtopia la verità è più strana della finzione, come racconta Regner Ramos, una sorta di doppio salto. Il reale di Cüirtopia è «qualcosa che è sempre stato lì in qualcosa che non era davvero lì», un modo che Richard Schechner ha utilizzato per spiegare la parola sanscrita maya secondoO’Flaherty, chein origine significava ciò che era reale. Lila, ci dice Schechner, invece è una parola più usuale che vuol dire gioco, sport o dramma. Maya-lila, assieme, indicano un «atto performativo-creativo continuo in cui le categorie positiviste vero e falso, bene e male non possono essere distinte»46. Cüirtopia è senza dubbio Maya-Lila in questa doppia negazione con cui si realizza un grado diverso dell’esperienza corporea che si dà per negazione e affermazione assieme, senza mai l’attuazione di una perfetta coincidenza, di un’identificazione, di una produzione di sameness.

Cüirtopia: Soft Crash at the Museo de Arte Contemporáneo de Puerto Rico by Regner Ramos, photography by Josh Anton + Nos Veran Studio (2022). Courtesy of Regner Ramos.
Cüirtopia: Soft Crash at the Museo de Arte Contemporáneo de Puerto Rico by Regner Ramos, photography by Josh Anton + Nos Veran Studio (2022). Courtesy of Regner Ramos.
Instagram Cüirtopia, pictures by Regner Ramos. Courtesy of Regner Ramos.
Instagram Cüirtopia, pictures by Regner Ramos. Courtesy of Regner Ramos.

Il programma radiofonico è stato concepito come satellite del progetto di ricerca, viene registrato in diretta da Zoom e trasmesso su Radio Universidad i primi due martedì di ogni mese, dalle 18.00 alle 18.30 a partire da aprile 2021 fino ad oggi.

Nella trasmissione datata 28 giugno 2022, Regner Ramos affronta assieme a unx studentx dell’Università di Architettura di Puerto Rico, l’artista Arnaldo Cotto Reyes, il tema particolarmente curioso della costruzione di un’infrastruttura chiamata Puerta de Tierra, pianificata ed edificata sopra quello che una volta era chiamato El Paseo de los Enamorados, anche conosciuto come Las Uvas. Questo paseo, ci raccontano Regner e Arnaldo, per molti anni fu uno spazio di cruising, un “estacionamiento”, ovvero uno stazionamento per interscambi sessuali. Era un mirador, una zona che dava sull’oceano, situata a otto piedi (2,5 metri circa) sotto il livello principale della calle Luís Muñoz Rivera ed era coperto di Uva Playera (Coccoloba uvifera o sea grape), così che nella parte dedicata allo stazionamento, la visibilità era scarsa.

Il piano di costruire Puerta de Tierra come opera di riqualificazione proprio sul Paseo de los Enamorados, fu di fatto un’operazione per ridurre i possibili rischi per la sicurezza della zona. Un tentativo del sistema di sanare una crepa. Nonostante venisse utilizzato da tutti i tipi di pubblico e non fosse esclusivo delle persone della comunità lgbttqia+, l’attenzione punitiva che lo Stato dava pubblicamente era rivolta a questa comunità.

Regner Ramos osserva però come la crepa trovi comunque la sua via di uscita, perché questo grande progetto, volto a sistemare le abiezioni del cruising, pare stia crollando, divorato dall’erosione costiera come se, afferma Ramos, il Caribe lo stesse respingendo. La ricerca di Arnaldo Cotto Reyes gravita attorno alla crepa/crack/grieta come fessura che si crea nel sistema per poter resistere, essere incisivi, per visibilizzarsi e prendere posto, per rivendicare “questa è la mia crepa, io la genero e questo è il mio momento di possibilità”47.

Mappa di Cüirtopia, Courtesy of Regner Ramos
Mappa di Cüirtopia, Courtesy of Regner Ramos

L’incanto di Cüirtopia sta nella raffinata capacità di insinuare una stretta e profonda alleanza fra questa magica isola dei Caraibi che è Puerto Rico, con i suoi ecosistemi e i suoi cataclismi, e i suoi corpi abitanti in lotta. Un sibilo serpentino che acutizza i sensi, fa bruciare gli occhi e sanguinare le orecchie perché nella ricerca forsennata di una comprensione profonda di questa alleanza, nel tentativo di vivisezionare l’effimero, se ne può solo che uscire ammaccatx.

Qui si ferma, per ora, anche questo testo, nel Morro, protuberanza che dà sull’oceano, nella città di San Juan, una delle estremità del Triangolo delle Bermuda. Si calcola sia uno dei punti più profondi della terra, una dimensione ancora irrisolta. All’interno di questo triangolo nell’ Oceano Atlantico, in un punto preciso, ma non identificabile in quanto mobile, sembra che vi siano delle correnti potentissime dovute a dei campi magnetici che scompaginano l’ordine delle rotte. Tutto viene inghiottito, la materia si piega, l’impressione è di uno scarto rispetto al dato naturale. Eppure, dem/dom48, attività a noi note, significano sottomettere la materia con violenza e afferiscono alla dimora e all’abitazione. «L’abitare non è un momento di riposo, di sintonia, di immediatezza con la natura e con l’ambiente. È invece, un momento di lotta in cui si mostra la ferita del piegare»49.

  1. Judith Butler, Athena Athanasiou, Spoliazione. I senza casa, senza patria, senza cittadinanza, Mimesis/Eterotopie n°566, Milano 2019, p. 93.
  2. Erika Fischer-Lichte, Estetica del performativo. Una teoria del teatro e dell’arte, Carocci editore, Roma 2016.
  3. Gayle Letherby, Feminist Research in Theory and Practice, Open University Press, Philadelphia 2003, p.6-9.
  4. Per alcune delle persone citate in questo testo, ho utilizzato solo il nome proprio e non il cognome né il nome d’artista con cui si identificano per questioni di privacy.
  5. Antico nome indigeno derivante dal Taino che indica “Puerto Rico”. Il nome Borikèn è stato recuperato da chi vive l’isola e nella diaspora per affermare che l’eredità culturale portoricana si genera da una cultura indigena precedente e autonoma dalle ondate coloniali spagnole e americane. Molto spesso i/le/lx portoticanx si definiscono boricua. È possibile inoltre trovare il termine scritto nella sua traduzione spagnola Borinquén.
  6. Gli uragani dell’Atlantico sono stati chiamati con nomi di donna a partire dal 1953 «la gente non avrebbe preso sul serio le tempeste se i nomi non avessero evocato immagini di furia femminile», come riporta il Washington Post. Si dice che i meteorologi abbiano scelto i nomi delle loro (ex) mogli o fidanzate per evocare la loro rabbia. L’11 aprile 2018, il nome María, è stato ritirato, per motivi religiosi, dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM) e non verrà mai più utilizzato per la stagione degli uragani atlantici a causa degli ingenti danni che ha lasciato nei terrori di Puerto Rico e nell’isola dominicana. È stato sostituito con il nome Margot.
  7. Cfr., Report del dibattito del “Venice Climate Camp 2020 – Decolonizzare la crisi ecologica” in «Global Project». Vedi anche, OltrEconomia Festival, La pandemia in America Latina: estrattivismo, autoritarismo e risposta dei movimenti. Intervista a Raul Zibechi, e Marco Armiero, La pandemia e la nuova guerra di conquista in Brasile, in «Global Project».
  8. Diana Taylor, Performance, Asunto Impreso Ediciones, Toledo 2018.
  9. Lola von Miramar è l’alter ego drag di Lawrence La Fountain-Stokes ed è una donna portoricana divertente e sopra le righe che ama la poesia e la cucina, soprattutto la frittura. Nel 2010 ha fatto il suo ingresso nel cyberspazio con una serie di video bilingue di cucina drag queen nel programma Feast of Fun e si è esibita in Argentina, Messico, Porto Rico e Stati Uniti. Vedi, Lawrence La Fountain-Stokes, Becoming Lola: Self-Reflexivity and Drag, in Transloca. The politics of Puerto Rican Drag and Trans Performance, University of Michigan Press, 2021, p. 21.
  10. Con il termine “idiosincrasie” qui si intendono delle forme di incompatibilità dovute a ragioni culturali, di classe, genere eccetera. Il termine “idiosincrasia” viene inoltre utilizzato spesso nel parlato di Larry La Fountain-Stokes, durante le trasmissioni radio di Cüirtopia.
  11. Ionit Behar, Beyond Beauty: Beatriz Santiago Muñoz on How to Truly Perceive a Place, «ArtSlant» 2017.
  12. La Placita sorge ai piedi del mercato principale, un’ex fattoria che fu donata all’incirca cento anni fa al governo di Puerto Rico con la condizione che vi fosse costruita la piazza del mercato. La struttura originale aveva due livelli: uno inferiore dove si trovavano i negozi di alimentari, i chioschi e le biglietterie e uno superiore dove c’erano la macelleria e vari uffici, compresi quelli medici. Nel corso degli anni, la Piazza del Mercato è stata ristrutturata più volte e in un’occasione il secondo livello è stato rimosso. Oggi, Il monumento che celebra questa piazza è un una scultura di due alberi di avocado.
  13. Per approfondire la nozione di temporalità caraibiche vedi Eduard Glissant, Caribbean Discourse. Selected Essays, Caraf Books, Virginia 1999, pp. 5-9.
  14. «Secondo le credenze popolari la magia tende a condensarsi nei momenti liminari, nei punti di passaggio, quando qualcosa non è né A né B, ma è entrambe allo stesso momento” in Jude Ellison Sandy Doyle, Il Mostruoso femminile. Il patriarcato e la paura delle donne, Tlon 2021, p.31.
  15. José Esteban Muñoz, Cruising Utopia. L’orizzonte della futurità queer, trad. it. di Antonia Anna Ferrante e Samuele Grassi, Nero, Roma 2022, p. 137.
  16. [1]«Variante ortografica di queer in spagnolo che è emersa come modo per marcare una distanza dalla lingua inglese e dai quadri teorici e attivisti del Nord globale.» trad. it. di chi scrive, in Lawrence La Fountain-Stokes, Translocas. The politics of Puerto Rican Drag and Trans Performance, University of Michigan Press, 2021.
  17. Da bambino, Tego Calderón ha imparato a suonare i timbales e bongo drums. La nonna lo ha soprannominato El Abayarde o Aballarde, una parola che significa in portoricano “la formica di fuoco”, ed è il nome di una specie di formica piccola, aggressiva, di colore giallo-rossastro, con un morso molto irritante.
  18. Attiva dal 2013, La Cole è un’organizzazione politica femminista decoloniale e interesezionale con sede a San Juan, Porto Rico. Vedi la pagina facebook, Colectiva feminista en Construción, e la pagina Instagram, colectivafeministapr.
  19. Rachele Borghi, Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema mondo, Meltemi, Milano 2020, p.155.
  20. Qui il termine “donna precaria” vale come autodefinizione e riguarda sia il lavoro che la dimensione identitaria.
  21. Bernardine Evaristo, Ragazza, donna, altro, BigSur, Roma 2019, p. 82.
  22. Priscilla Frank, Witches Explain How To Take On Political Power With Occult Magic, in «Huffpost», 2017.
  23. Cfr. Judith Butler, L’alleanza dei corpi, Nottetempo, Milano 2017.
  24. Ivi. p. 116-117.
  25. Rio Piedras è un’ex città e comune di Puerto Rico divenuta uno dei distretti di San Juan nel 1951. A Río Piedras si trova la sede del campus principale dell’Università di Porto Rico.
  26. Ana Vujanovic, Performance that matter: from public sphere to creative labour, in A. Vujanovic e L.A. Piazza, A live gathering: perfomance and politics in contemporary Europe, b-books, Berlin 2019, p. 87-104.
  27. Ilenia Caleo, Performance, materia, affetti: una cartografia femminista, Bulzoni, Roma 2021, p. 36-37.
  28. Estratto dal video utilizzato per la campagna di crowdfunding.
  29. Adam Nathaniel Furman, Joshua Mardell (a cura di), Queer Spaces. An Atlas of LGBTQ+ Places and Stories, RIBA Publishing, London 2022, p. 110.
  30. bell hooks, Casa un sito di resistenza, in Elogio del Margine, Tamu Edizioni, Napoli 2020, p. 30.
  31. Perché la notte appartiene agli amanti […] / Il desiderio è la fame è il fuoco che respiro / l’amore è un banchetto di cui ci nutriamo […] Se crediamo nella notte ci fidiamo”, trad. it. di chi scrive.
  32. Solo gli amanti sopravvivono, diretto da Jim Jarmusch, prodotto da Pandora Film e Recorded Pictures Company, Germania, Regno Unito, Grecia, Francia 2013.
  33. Cfr., https://www.youtube.com/watch?v=NLZIautPukU.
  34. Voglio ballare / tu vuoi sudare / e attaccarti a me/ il tuo corpo strofinare/ ti dico: “sì, puoi provocarmi” /questo non significa che verrò a letto con te”, trad. it. di chi scrive.
  35. José Esteban Muñoz, Cruising Utopia. L’orizzonte della futurità queer, p.45.
  36. Termini usati dalle artistx della BoriVogue per autodefinire le pratiche artistiche che si stanno delineando in questi anni dentro lo scenario de La Bola a Puerto Rico. Per saperne di più sul laboratorio Boricua di Vogue aka La BoriVogue, cfr. https://www.youtube.com/watch?v=BNn9e42fI5I, https://www.instagram.com/laborivogue/.
  37. José Esteban Muñoz, Cruising Utopia. L’orizzonte della futurità queer, p.129.
  38. Ivi, pp. 127-147.
  39. Vikki Bell, Culture and Performance. The Challenge of Ethics, Politics and Feminist Theory, Berg, New York 2007.
  40. Cfr., Athena Athanasiou, in Judith Butler, Athena Athanasiou, Spoliazione. I senza casa, senza patria, senza cittadinanza, Mimesis, Milano-Udine 2019.
  41. LUMA è una società privata che ha iniziato a operare a Porto Rico, il 1° giugno 2021, fornendo energia elettrica all’isola. Di fronte a un aumento delle tariffe per l’elettricità di almeno sette volte in un anno, i servizi elettrici sono peggiorati e si verificano quotidiani blackout a causa della mancanza di manutenzione. Tale crisi dei servizi si somma all’attuale violenza del governo in carica, guidato da Pedro Pierluisi, che attraverso la vendita massiva di terreni pubblici a ricchi imprenditori americani sembra esacerbare le disparità tra nativi e colonizzatori ricchi e puntare dritto all’annessione totale di Puerto Rico agli Stati Uniti. Un’operazione che, dall’altro lato, si scontra con la resistenza delle organizzazioni politiche di movimento e femministe dell’isola.
  42. Cfr. José Esteban Muñoz, Cruising Utopia. L’orizzonte della futurità queer, pp.1-24.
  43. Cfr. Regner Ramos, Cüirtopia, in «El Site», 2021. «Le voci su quest’isola poco conosciuta raccontano di una stanza nera come la pece, dove i corpi che brillavano di luce viola si agitavano e si strusciavano nella notte. Mi hanno raccontato di un discreto buco nel muro, dove un’insegna al neon rossa e lampeggiante “BOYS” “BOYS” “BOYS” ti conduceva in stanze segrete che odoravano di S-E-X. Ho sentito storie su questo edificio la cui pista da ballo, riempita fino all’orlo di schiuma, nascondeva ogni sorta di malefatte. E storie di una piscina segreta situata al secondo piano di un edificio in un’antica cittadella fortificata. Ho chiamato l’ambientazione di queste storie, quest’isola remota: Cüirtopia. A Cüirtopia la verità è più strana della finzione. Questo non deve sorprendere: le isole sono ricche di miti e di magia. Ma anche se per alcuni il paradiso è un’isola, può essere anche l’inferno. Per tutte le loro perle, le isole sono anche il palcoscenico del caos e del disastro», trad. it. di chi scrive.
  44. Paul B. Preciado, Cartografias “queer”: o “flâneur” perverso, a lésbica topofóbica e a puta multicartográfica, ou como fazer uma cartografia “zorra” com Annie Sprinkle, in «Performatus», n. 17, gennaio 2017.
  45. Cüirtopia: Soft Crash, MAC, Museo de Arte Contemporáneo di Puerto Rico, marzo-agosto 2022.
  46. Richard Schechner, The future of ritual, Routledge, New York 1995.
  47. Cüirtopia, 28.06.22, Ep. #11 “Paseo de los Enamorados”, 26min 29sec, www.cuirtopia.xyz/radio.
  48. Cfr.Vittorio Ugo, Roberto Masiero, La questione architettura, CittàStudi, Milano 1995, pp. 20-21. «Usando le indicazioni di Benveniste (vocabolario delle istituzioni indoeuropee) le radici dem/dom – utilizzate per indicare “la casa” con la comparsa delle abitazioni a livello del suolo, significano domare […]. Si pensi alla funzione greca del Demiurgòs e al termine latino dominus».
  49. Ibidem.
Author

Roberta Da Soller è un’attivista, attrice, performer e ricercatrice che vive e lavora a Venezia isola e terraferma. Fa parte di S.a.L.E. Docks, uno spazio-laboratorio dedicato alla riflessione e all’attivazione politica nell’arte contemporanea. È dottoranda presso l’università IUAV di Venezia con una ricerca su performatività e architetture dell’abitare da una prospettiva femminista e queer. Dal 2013 ad oggi ha lavorato come attrice cinematografica: Fra due Battiti di S. Usardi (2020), Effetto Domino (2019) di A. Rossetto, Il Miracolo di N. Ammanniti, F. Munzi, L. Pellegrini (serie TV, 2018), La sedia della felicità di Carlo Mazzacurati (2014), Piccola Patria di A. Rossetto (2013). Come performer ha collaborato con l’artista Dora García durante la Biennale d’Arte di Venezia 2011 e 2015 e nel 2021 all’interno della personale dal titolo Conosco un labirinto che è una linea retta al Mattatoio di Roma. Ha svolto parte della ricerca sulle pratiche performative al Workspacebrussels di Bruxelles assieme a Peter Aers, Melissa Mebesoone, Oshin Albrecht, Mauro Sommavilla. Dal 2011 al 2017 ha lavorato come producer per il progetto Live Works a Centrale Fies Art Work Space, da cui nel 2019 nasce la pubblicazione Live Works. On the folds of real by the lens of performative a cura di Roberta Da Soller e Simone Frangi.