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n. 9 – aprile 21, Teatro, Video

Sciami di luce: chiarori, abbagli, crepuscoli

per citare questo articolo usa

https://doi.org/10.47109/0102290101

Valdemar Schønheyder Møller, Solnedgang. Fontainebleau, 1900, Statens Museum for Kunst, København.

ABSTRACT

Abbiamo concepito il progetto di questo numero di Sciami|ricerche all’inizio dell’estate 2020, un momento in cui i nostri vissuti erano carichi dell’esperienza e delle implicazioni imposte dall’emergenza “Covid”, sollecitati a reagire ma anche disorientati da quotidiani interrogativi sulle nostre esistenze; e inevitabilmente sul senso del nostro quotidiano agire entro la dimensione estetica. La proposta giunta da Valentina Valentini di pensare a un numero di Sciami dedicato alla Luce è stata l’occasione per riunire voci diverse, orchestrate su motivi consonanti. Elaborare un progetto sul tema della luce (e sceglierne un aspetto specifico) in quel momento non poteva prescindere dalle condizioni e dalle molteplici implicazioni della primavera “pandemica”. Le questioni chiamate in causa, sentite prima ancor che pensate, evidenziavano qualità sostanziali dell’evento performativo, i suoi elementi imprescindibili: la condivisione di uno spazio fisico, il respiro comune di una collettività, la percezione e la sensorialità come ineludibili premesse di ogni evento spettacolare; a contrario, il momento faceva emergere punti critici di un sistema privo di equilibri e di strategie d’orchestrazione, portava a riflettere sulla natura dei teatri… Si evidenziava la continuità esistente tra la dimensione del quotidiano, lo stare dei corpi in un ambiente fisico abitato da altre presenze e la condivisione di uno spazio in un contesto performativo; spazio sempre pervaso da sostanza luminosa anche nella forma dell’oscurità e del buio. La luce è fattore essenziale in tutte queste dinamiche, di apertura, di coesione, di isolamento. Nell’invito a contribuire, abbiamo proposto alcune “parole chiave”, nelle loro relazioni con la luce, delle coordinate di orientamento nel percorso da costruire insieme per questo numero monografico di Sciami: spazio, condivisione, separazione, aria, gas, atmosfera, sfera, materialità della luce atmosferica, buio. Questo saggio è inteso come percorso introduttivo ai diversi contributi e insieme approfondimento di voci che in epoche passate hanno straordinariamente anticipato urgenze e poetiche nel nostro presente.

Voci nella luce

Abbiamo concepito il progetto di questo numero di Sciami|ricerche all’inizio dell’estate 2020, un momento in cui i nostri vissuti erano carichi dell’esperienza e delle implicazioni imposte dall’emergenza “Covid”, i nostri affetti e le nostre menti sollecitati a reagire ma anche disorientati da quotidiani interrogativi sulle nostre esistenze; e inevitabilmente sul senso del nostro quotidiano agire entro la dimensione estetica (chi nella creazione, chi nella riflessione o nella formazione, chi ancora da partecipante/fruitore, ma anche chi di arte e cultura non si occupava (e forse per la prima volta si è interrogato in merito).

La proposta giunta da Valentina Valentini di pensare a un numero di Sciami dedicato alla Luce era motivata dai miei ormai pluridecennali percorsi di ricerca – e anche da concomitanti “approdi” di una parte di queste ricerche1; una proposta accolta con sincero entusiasmo, come occasione per riunire voci diverse, orchestrate su motivi consonanti. Immediatamente e necessariamente mi resi conto che elaborare un progetto sul tema della luce (che implicava anche sceglierne un aspetto specifico, tra le infinite declinazioni possibili) in quel momento non poteva prescindere dalle condizioni e dalle molteplici implicazioni della primavera “pandemica”. Eravamo forse più ottimisti, senz’altro con maggiori riserve di energia e capacità di reazione.

Le questioni chiamate in causa, sentite prima ancor che pensate, evidenziavano (più di quanto non sia già costitutivamente) qualità sostanziali dell’evento performativo, i suoi elementi imprescindibili: la condivisione di uno spazio fisico, il respiro comune di una collettività, la percezione e la sensorialità come ineludibili premesse di ogni evento spettacolare; a contrario, il momento induceva anche a constatare la mancanza di un autentico “collante” nella consuetudine di tante situazioni teatrali, faceva emergere punti critici di un sistema privo di equilibri e di strategie d’orchestrazione, portava a riflettere sulla natura dei teatri… Motivi affiorati nella loro urgenza anche al di fuori dell’ambito delle arti performative; dato che ingredienti basilari di tutto questo sono l’aria e lo spazio – quel nutrimento prezioso che a partire dallo scorso anno ha iniziato a subire forti limitazioni.

Si evidenziava la continuità esistente tra la dimensione del quotidiano, lo stare dei corpi in un ambiente fisico abitato da altre presenze2 e la condivisione di uno spazio in un contesto performativo; spazio sempre pervaso da sostanza luminosa anche nella forma dell’oscurità e del buio. Fattore essenziale in tutte queste dinamiche, di apertura, di coesione, di isolamento, la luce – in tutte le sue sfumature, densità, temperature e cromie – determina le condizioni del nostro stare al mondo.

Nell’invito a contribuire, abbiamo proposto alcune “parole chiave”, delle coordinate di orientamento nel percorso da costruire insieme per questo numero monografico di Sciami, intese nelle loro relazioni con la luce: spazio, condivisione, separazione, aria, gas, atmosfera, sfera, materialità della luce atmosferica, buio.

Luce-spazio: il grado zero di esistenza del teatro. Uno sguardo alle nostre spalle

Questo universo di relazioni segnato dalla presenza atmosferica della luce evoca istanze che ritroviamo già in un “pensiero della luce” esistito secoli fa. Pensiero non dominante, le cui eco a nostro avviso risuonano oggi, mutate e “reincarnate” ma riconoscibili.

Citiamo uno dei nostri riferimenti preferiti, a rischio di ripeterci3; un passo degli scritti dello scenografo Pietro Gonzaga che all’aprirsi dell’Ottocento esprime mirabilmente la consapevolezza della forma di esistenza della luce come “massa” che occupa lo spazio tra scena e sala. Già nelle considerazioni che riguardano il lavoro dello scenografo, Gonzaga insiste sull’aria e sui vapori che si mischiano agli oggetti in virtù della loro distanza dall’occhio, coprendoli «del loro bluastro o rossastro, a seconda di come la luce li colpisce e vi si mescola» e osserva che i raggi divergenti della luce riflessa dagli oggetti portano all’occhio i loro contorni tanto indefiniti quanto la loro lontananza, così che la loro dispersione confonde la nitidezza delle immagini trasmesse; tutto questo, scrive lo scenografo, non sono «teorie astratte», ma cose che si vedono molto bene, quando si guardi con un certo grado di attenzione4. Questo “indefinito” della visione negli scritti di Gonzaga ha a che vedere con il fatto che «la nostra esistenza è più sensibile che spirituale», cosa che un pittore-scenografo, ammonisce Gonzaga, non deve dimenticare5.

Lo scenografo istituisce poi la corrispondenza, così spesso ripresa da artisti e teorici successivi, tra luce e suono, visione e ascolto:

La lumière est le véhicule de la vision, comme l’air sonore l’est de l’ouïe; comme l’air sonore n’opère rien sur le sentiment, s’il n’est pas agité artistement par l’adresse du musicien, ainsi la lumière n’est simplement que du jour, si elle n’est pas travaillé, pour ainsi dire, en fantôme par la surface des objets dans lesquels elle frappe, et en est renvoyé à l’œil avec la plus grande vitesse et exactitude […]. Or, le décorateur intelligent, peut tirer tout le parti qu’il veut de la masse de lumière qui se trouve entre le spectacle et le spectateur, s’il sait artistement préparer les surfaces des coulisses de manière à nous renvoyer les rayons lumineux transformés en images illusoires 6.

L’effetto della scenografia deve essere sentito, non pensato.

La voce di Gonzaga può essere accostata ad altre pronunce, diverse tra loro, che testimoniano un universo tenuto insieme da aspirazioni che non collimano con la concezione dominante dello spazio teatrale della nostra tradizione; oseremmo dire: che non si accontentano dello spazio e della luce della finzione e guardano costantemente oltre il fondale, oltre la soffitta della scatola scenica7. La passione per la luce non separa spazio ed effetti della luce artificiale dall’esperienza della luce naturale.

Le poetiche che si esprimono tra fine Settecento e inizio Ottocento sembrano consegnare un patrimonio di idee, progetti, programmi per il futuro, in un arco che idealmente si estende al di sopra della scatola illusionistica nell’aspirazione a superarla, ad alcuni artisti e personalità del mondo teatrale d’inizio Novecento8. Dall’osservatorio contemporaneo guardare a quel momento non solo è affascinante dal punto di vista dell’indagine storica, ma potrebbe essere fruttuoso per “orientarci” nel presente – e verso il futuro.

Il motivo dello “spazio condiviso”, alla luce (o al buio) della situazione contingente, è centrale in riflessioni e pratiche della luce del primo Novecento. Mi riferisco in particolare ai movimenti che, in modo diverso, hanno cercato di ripensare la ricerca e l’attività artistica in stretta connessione con la sfera sociale ed esistenziale, ma anche nel tentativo di ritrovare nuovi patti con la sfera della Natura. Penso all’ambito delle Künstlerkolonien, le colonie degli artisti fondate soprattutto nei paesi di lingua tedesca (che è anche il territorio all’avanguardia per concezioni e pratiche teatrali dell’epoca). Per esempio Worpswede, vicino a Brema, nel cui contesto non a caso si situa un’occasione (certo marginale per uno sguardo più ampio sull’epoca ma non ai nostri occhi) che è l’inaugurazione della Kunsthalle, nel febbraio 1902: momento in cui Rilke ha modo di mettere alla prova la sua concezione teatrale, nell’allestimento di un dramma di Maeterlinck, ma anche in quella che forse oggi definiremmo una performance site specific, in cui un suo testo programmatico (Festspielszene) veniva recitato negli ampi spazi della scalinata del museo, parte di un programma performativo e artistico più ampio. Lo stesso Rilke per il quale sulla scena (ma anche nell’arte in genere e nella vita) le presenze vivono la loro autentica dimensione solo se avvolte da una stessa melodia, rifulgono di colori che l’atmosfera (la luce) fa risplendere; lo stesso Rilke (cioè negli stessi anni) che condivide con Georg Fuchs la concezione di un teatro come evento festivo, cerimoniale che consente ad una moltitudine di singoli di riconoscersi e sentirsi “comunità”. Negli stessi anni (1901) a Darmstadt9 si situa l’esperienza della Colonia degli artisti pensata come un luogo dove l’individuo potesse vivere senza scissioni e alienazione la dimensione lavorativa, quella privata, quella artistica; dove gli oggetti domestici, le abitazioni, l’urbanistica, vivono di una stessa dimensione estetica (anticipazione diretta di quanto si diffonderà a partire dal Bauhaus).

In questi contesti mai la creazione scenica è pensata disgiunta dalla sfera dell’esistenza (oltre che dalle altre arti).

Darmstadt ospita il Festspielhaus, luogo teatrale al quale è legata la pubblicazione di Peter Behrens Feste des Lebens und der Kunst. Eine Betrachtung des Theaters als höchsten Kultursymbols (Festa della vita e dell’arte. Una considerazione del teatro come più alto simbolo della cultura), dedicato alla stessa Künstlerkolonie. Vi leggiamo, tra le altre interessantissime affermazioni: «Der Stil aber ist der Symbol des Gesamtempfindens, der ganzen Lebensauffassung einer Zeit, und zeigt sich im Universum aller Kunste. Wollen wir nun ein Haus errichten das der gesamten Kunst eine heilige Stätte sein soll»10. La consuetudine, scrive Behrens, separa gli spettatori in parti isolate dello spazio, uno spazio destinato a suscitare l’illusione della natura; un non senso, dato che la dimensione dell’arte è autonoma e altrettanto reale. Tuttavia questa dimensione dalle leggi peculiari non è scissa dalla natura. Come altri suoi sodali, auspica uno spazio teatrale ad anfiteatro; ma immagina anche la presenza di «lebende Blumen» e «blühende Garten»11 (fiori vivi e giardini fiorenti) per sottolineare che non si tratta di uno spazio separato da quello naturale.

In questo teatro vi deve essere spazio tra i posti a sedere in modo da consentire agli spettatori di muoversi: «vogliamo rimanere esseri sociali e gioire della bellezza della nostra vita». Nelle pause ci si deve poter spostare in spazi luminosi o in ampie terrazze, che consentano di aprire lo sguardo sul paesaggio. Tutto il testo di Behrens “risuona” luce, nella ricorrenza di parole come farbenleuchtend, glühend, Glanz (rilucente di colori, ardente, splendore). Più precisamente, rispetto alla luce l’autore scrive che non si dovranno limitare le rappresentazioni ad un’ora specifica, bensì estenderle a tutti i momenti della giornata e della sera. Immagina inoltre di poter sfruttare superfici scorrevoli per lasciare entrare la luce del giorno e farla interagire con la luce artificiale. «Uno spazio armonico come la nostra Stimmung»12. Il proscenio assume un’importanza fondamentale agendo da collegamento tra scena e sala.

In questo paesaggio, entro il quale ci sembra di cogliere assonanze con le poetiche contemporanee che qui abbiamo riunito, si situa anche l’esperienza di Hellerau, la prima città giardino tedesca, e nello specifico del suo celebre Festspielhaus.

Adolphe Appia è indiscusso protagonista (insieme a Dalcroze, Salzmann, Tessenow) di questa esperienza, e da questa riceve ulteriore impulso e approfondimento il suo pensiero della luce, che si declina in modo sempre più convinto affermando il principio di uno spazio condiviso13. Senza voler entrare in poche righe nel merito di un pensiero così complesso, tenendo a mente l’importanza dell’incontro con Hellerau, è utile mettere in evidenza il suo distacco dalla poetica wagneriana e lo sguardo aperto ad una dimensione “teatrale” che superi il teatro stesso, quanto meno quello del proprio tempo. Il teatro non «deve essere considerato come forma compiuta e definitiva»; esso cerca istintivamente di liberarsi dal condizionamento del pubblico e di svilupparsi «in una libera atmosfera» («à se développer dans une libre atmosphère»)14.

Tôt ou tard, nous arriverons à ce que l’on appellera la salle, cathédral de l’avenir, qui, dans un espace libre, vaste, transformable, accueillera les manifestations les plus diverses de notre vie sociale et artistique, et sera le lieu par excellence où l’art dramatique fleurira – avec ou sans spectateurs15.

Tra i documenti che costituiscono le premesse alla fondazione di Hellerau16 vi è uno scritto del 1908 di Wolf Dohrn, in cui questo industriale “illuminato”, in riferimento al progetto per lo spazio del Festspielhaus scrive che l’obiettivo era fondare un edificio lontano dal traffico della città

non per abitarvi soli o in famiglia, ma per tutti; e non per imparare o per diventare intelligenti, ma per essere felici; non per pregare secondo questa o quella convinzione religiosa, ma per la riflessione e la vita interiore; non una scuola, non un museo… e tuttavia un po’ tutto questo, con qualche cosa in più17.

Immaginava uno spazio dall’ingresso maestoso ma semplice, accogliente e che non incutesse soggezione. Una scalinata semplice avrebbe condotto alla grande sala, il cui spazio avrebbe evocato quello delle chiese medievali. Un’architettura dalla forte Stimmung, “atmosfera”, e tuttavia senza una precisa identità, in modo da non sovrapporsi alla “vita” che avrebbe dovuto ospitare, quella dello spettacolo vivente e animato dal suo ritmo fluente. La disposizione della sala doveva essere estremamente semplice e luminosa, ma il luogo non doveva essere sprovvisto del fascino dei cambiamenti di luce e dei crepuscoli18.

L’esperienza di Hellerau irraggia un ventaglio di motivi che risuonano nel nostro paesaggio contemporaneo, e che aleggiano in queste pagine.

Martin Buber è uno dei testimoni di questa esperienza. Non è senza rilevanza che si tratti di un filosofo e non di un teatrante in senso stretto (slittamento o “espansione” dell’idea di “teatro” che è un altro dei segni di questo percorso di Sciami).

Individuale è collettivo

Su Martin Buber spettatore a Hellerau si aprono gli interventi di questa raccolta. Con lo sguardo di Marcella Scopelliti su Una luce lunare nella notte stellata. Scrive la studiosa:

il filosofo ricorda come nel teatro antico anche se spettatori e attori erano illuminati allo stesso modo rispetto alla scena, il senso di distanza restava comunque preservato dal carattere sacramentale della rappresentazione. Buber sostiene che i tempi moderni richiedano uno spazio scenico unificato ma cangiante e tale da poter garantire un’azione scenica “polare” preservando così il senso di “distanza” grazie all’azione attiva della luce19.

Partiamo da questo motivo della relazione tra dimensione individuale e collettiva, una relazione aperta e non esclusiva. Per Buber

L’autentico sentimento dell’arte è un sentimento polare. Ci trasporta entro un mondo a noi inaccessibile. Eppure vi siamo immersi. Un mondo che è realtà «unica e certa, come nessun mondo naturale […] ci abbandoniamo a esso, e respiriamo nella sua sfera [wir atmen in ihrem Bereich]. Da questa polarità tra familiarità ed estraneità, deriva la sacralità dell’autentico sentimento dell’arte20.

Lo spazio è per il filosofo «elemento essenziale dell’esperienza scenica». Ne fa un problema di distanza. Di che tipo? Se anche noi fossimo vicinissimi e avanzassimo verso il palcoscenico, scrive Buber, se ne toccassimo le tavole con i nostri “piccoli piedi” non vi entreremmo: questo spazio è di un’altra natura rispetto al nostro, «creato e riempito da una vita di un altro livello, di un’altra altezza, e di un’altra densità. Tale consapevolezza intesa come sentimento è il cuore dell’autentica esperienza della scena».

Annota Scopelliti: «spazio scenico e spettatore s’implicano vicendevolmente ma giammai si fondono. […] un essere l’uno di fronte all’altro che non viola il principio di individuazione»21.

Tale polarità si ritrova nella concezione della luce:

l’uso duplice – luce che unisce e luce che separa – funziona, secondo Buber, come specchio del movimento polare della realtà ed esplicita un assioma fondamentale della filosofia buberiana secondo cui “i momenti dell’incontro più alto non sono lampi nelle tenebre ma luce lunare che si leva in una chiara notte stellata”. Si tratta di “rendere l’esperienza della relazione [Erlebnis] operante “nel” mondo e non fuori da esso (nella luce delle stelle, quindi, e non nel buio della notte). Nella luce creativa si cela il principio stesso del genere umano, il suo doppio movimento: il porsi a distanza e l’entrare in relazione. La dialettica della luce in teatro diventa per il filosofo una materializzazione vera e propria della vita: come nella vita l’uomo non aspetta altro che essere riconosciuto per com’è nella sua essenza da un altro essere umano, così il teatro è il luogo dove ci si riconosce e ci si conferma in quanto esseri umani. […] l’essere umano esce dal teatro come esce dalla relazione, “ha nel suo essere un di più”, che deve rimettere in gioco nel mondo. Viene così […] vivificato il compito del teatro nell’immanenza; e l’uomo non riceve un contenuto nella rivelazione, ma una presenza, un senso: non un senso di “un’altra vita” ma di questa nostra vita22.

Qui Buber ci sembra costituire un antecedente di concezioni a noi vicine, che invitano a pensare lo spazio della rappresentazione secondo modalità capaci di ripensare e articolare i (molteplici) rapporti tra scena e sala, performer e partecipanti. Non si tratta di schierarsi pro o contro le luci accese in sala o viceversa a favore o meno del buio, bensì di pensare tanto la luce che il buio come parte integrante dello spettacolo e delle dinamiche non solo di fruizione ma dello stesso accadimento performativo, che necessariamente ingloba tutte le presenze entro un determinato spazio (spazio-luce che le connota tutte come “attive”).

La relazione tra collettivo e individuale su cui riflette Buber ci fa pensare, ad esempio, alla posizione di Olafur Eliasson23, artista che si assume una responsabilità (in primis nel proporre “visione”, nascondere o modificare porzioni del visibile) nei confronti di un mondo dove la dimensione estetica non può essere separata dal quotidiano e in cui il nostro “potere” dipende dalla nostra consapevolezza dell’atto percettivo.

In tal senso non esiste percezione o fruizione “passiva”.

In diversa ma consonante declinazione, queste relazioni vengono colte dallo sguardo di Charlotte Beaufort in Meeting. Luce e intersoggettività negli Skyspaces di James Turrell. Se il nome di Turrell è molto noto per le sue installazioni, lo è meno per le sue incursioni nell’ambito teatrale. Ma crediamo che la sua opera sia uno degli esempi di come la dimensione performativa si dia intrinsecamente24 e proprio nella contestualizzazione entro la riflessione sulla dimensione “atmosferica”.

Beaufort, che già si era confrontata recentemente con il versante delle collaborazioni teatrali di Turrell affrontando To be sung, opera del 1994 frutto della collaborazione tra l’artista e il compositore Dusapin25, mette qui in evidenza il legame tra la ricerca sulla percezione, necessariamente legata all’individualità, e la dimensione collettiva della condivisione. Fondamentali in tal senso due aspetti della formazione di Turrell: il cielo dell’aviatore (l’artista inizia a volare sin da ragazzo) e l’educazione quacchera, con l’esperienza del Meeting, riunione della comunità dove giocano un ruolo fondamentale lo spazio e la luce che ne è condizionata.

Se la Meeting House è certamente pensata come uno «spazio per ascoltare», scrive Beaufort, gli spazi creati da Turrell ne prendono ispirazione mettendo l’accento su di una forma di attenzione che non privilegia l’udito ma la vista, per farne degli «spazi per vedere». Ma la relazione tra luce, visione e ascolto rimane come un sostrato nella sua opera (pensiamo al bel film di Carine Asscher Passageways26 che mostra l’amicizia con gli hopi dell’Arizona e la condivisione delle loro pratiche di “ascolto” cosmico).

James Turrell, <em>Second Wind</em>, 2005-2009, Fundación NMAC, Vejer de la Frontera, Spagna, foto Charlotte Beaufort.
James Turrell, Second Wind, 2005-2009, Fundación NMAC, Vejer de la Frontera, Spagna, foto Charlotte Beaufort.

Nel periodo al quale abbiamo fatto riferimento sopra, la primavera dello scorso anno, le profonde implicazioni che corrono tra singolarità e pluralità o collettività venivano esplicitate con grande sensibilità in una toccante conversazione di Jean-Luc Nancy, invitato all’Università di Padova per una conferenza dal titolo Per liberare la libertà. Richiamiamo quell’istante, perché, seppure note a chi frequenta il pensiero del filosofo, tali implicazioni risuonavano in modo particolarmente vibrante, legate a quel momento così peculiare, condiviso (era il 21 maggio 2020) 27.

Ci si potrebbe chiedere: che cosa c’entra la luce?

Riandiamo a Buber. Dopo le riflessioni sopra riportate sulla necessità di condivisione dello spazio, in una dimensione che contempli e non infranga la pienezza della singolarità e l’apertura alla comunità, scriveva il filosofo:

L’unico elemento che può infondere mutevolezza assoluta a uno spazio costituito in maniera unitaria è la luce, cosa che alla nostra epoca, in cui lo spirito di Rembrandt parla come mai prima, non poteva rimanere un segreto28.

Buber offre poi testimonianza del dispositivo messo in atto nella sala “éclairante”29, il cui spazio è

composto da due elementi, dal substrato della trasformazione e dall’agente trasformatore. Il substrato consiste in numerose superfici e strisce di materiali, semplici e grigie, che delimitano e articolano la scena. L’agente è la luce diffusa, che opera non in modo episodico e selettivo, come un normale proiettore, ma nell’uniformità di grandi superfici e di lunghi periodi. Attraverso la variabilità dell’illuminazione [Belichtung] si può rendere ogni grado di materialità del substrato: i materiali possono apparire ora morbidi ora solidi, ora piatti ora rotondi, e con la loro trasformazione si trasforma anche l’immagine dello spazio creato dalla luce: da uno spazio limitato a uno che apre all’infinito, da uno determinato in tutti i suoi punti a uno che ondeggia nel mistero, da uno che mostra solo se stesso a uno che accenna l’innominabile. Innominabile è tuttavia questo spazio, quest’opera della luce. Uno spazio formato da un principio di cui ancora non conosciamo il nome e di cui conosciamo solo la manifestazione sensoriale [sinnliche Kundgebung]: la luce creatrice [das schöpferische Licht]30. Precisa poi che se questo esperimento provenisse da una riflessione sul dramma e non dal dramma stesso, cioè dall’esperienza, questo lavoro sarebbe inconsistente e sterile.

Lo scriveva nel pieno del vissuto di Hellerau. Come sopra ricordato, l’evento è l’esito di una felice, seppur momentanea, intesa tra artisti diversi; tuttavia l’autore materiale di questa sala è Alexandre Salzmann, che in Licht, Belichtung und Beleuchtung (Luce, luminosità e illuminazione) insiste sull’insostituibilità dell’esperienza diretta:

Sebbene tutti siano dotati di occhi, la maggior parte delle persone manca di esperienza visiva. È per questo che è difficile spiegare chiaramente, con parole, i problemi posti dalla luce. Sarebbero più efficaci le dimostrazioni […]. Per l’occhio e dunque per l’impressione generale, contano solo gli effetti ottenuti, quindi una denominazione relativa. Imparare a vedere questi effetti significa acquisire delle esperienze visive31.

Ricorda che

chi vuole godere di un paesaggio soleggiato non lo fa da una cantina buia con una finestra di 50 cm. Ne riceverebbe un’ondata di luce violenta […] L’illuminazione corrente arriva a darci l’illusione del sole attraverso il contrasto tra la sala oscurata e la scena luminosa. Ma sacrifica a questa illusione tutte le sfumature del quadro colorato; dato che il contrasto violento distrugge i dettagli di forma così come di colore32.

Non si tratta di una opposizione di luce e ombra, bensì di riconoscere che «tutta la luce chiamata a plasmare e a dare forma grazie al gioco di luce e d’ombra, è luce nel chiarore [Licht im Lichten]33.

Dopo una riflessione sulla corrispondenza tra luce e musica, dotate dello stesso ruolo unificante, si chiede: «c’è forse bisogno di dimostrare che [la luce] deve necessariamente serrare insieme allo stesso tempo lo spazio riservato agli spettatori e lo spazio riservato alla recitazione?». Per concludere facendo notare che a Hellerau «non abbiamo palcoscenico» e che «le nostre presentazioni non sono nemmeno teatro. Con o senza spettatori, rimangono ciò che sono. Ciascuno vi vive e vi vibra [erlebt], allo stesso tempo in se stesso e con gli altri. Esattamente come nella vita. Con la sola differenza che qui motore comune è la musica». Preoccupazione di ognuno è di rendere visibile la musica «e noi la viviamo attraverso di loro, siamo spettatori e anche più di spettatori. Partecipiamo intimamente»34.

Appia riprenderà questi passaggi nella seconda prefazione a La musique et la mise en scène35.

Abbiamo voluto richiamare questi passi perché ci sembrano singolarmente consonanti con diversi motivi che si delineano dai contributi qui raccolti.

E torniamo a Jean-Luc Nancy, nella conversazione qui proposta con Alfonso Cariolato, Il fondo, l’opacità, il bagliore. Diversi temi “toccati” risuonano a differenti livelli in altri percorsi di questi Sciami. Dal motivo dello spazio reclamato dalla notte e dal buio entro la luce abbagliante della nostra quotidiana “esposizione”, al lucore come dimensione del bagliore «che ci prende alla sprovvista. Mediante l’altro, per l’altro, poeticamente, nel semplice esistere», scrive Cariolato, «senza progettualità e finalità» (viene alla mente il fiore citato da Nancy-Ghilardi-Derrida-Jabès36, un fiore che fiorisce perché fiorisce, libero più dell’ape che lo sceglie). Si apre un orizzonte “al di là” del progetto dei singoli: «non c’è autore né creatore» in questa «luce buia […] che invece di negare l’oscurità la rende […] visibile nella sua vibrante non visibilità». Così Cariolato, prima di porgere al filosofo la domanda, nella forma di un’immagine tonante: Custos, quid noctis? Sentinella, a che punto è la notte? (Isaia, 21,11). Nancy necoglie le implicazioni accostandovi l’incipit dell’Orestea e la vedetta che attende segnali, fuochi che devono non rischiarare la notte, ma segnare un percorso. Riconducendo “Sentinella” a “sentire”… (Sentire luce, diremmo citando il titolo di questo Sciami): «un sentire che da solo cattura tutti i sensi»37.

A noi, teatranti-teatrologi, “appaiono” i segnali còlti dagli Scalognati all’inizio dei Giganti della montagna, testo insuperabile di Pirandello dove la sfida tra immaginazione e realtà, tra poesia e impegno civile – ma anche tra singolo (il poeta, l’attore) e collettivo – è giocata sull’alternanza tra il giorno e la notte. Un’alternanza “inaccessibile”, dove «il giorno è abbagliato e la notte dei sogni» e «solo i crepuscoli sono chiaroveggenti per gli uomini» (Cotrone ne I Giganti della montagna, II momento).

Nella notte di oggi, scrive Nancy, dobbiamo «vegliare, stare all’erta. Bisogna dunque vedere che cosa può tremolare nella notte: un bagliore (lueur) […]. Il verbo luire [brillare, illuminare, risplendere, emettere un bagliore] conserva qualcosa del lampo […], ma ha anche un valore attenuato, ossia quello di un riflesso o di una luce pallida, velata, indecisa. Si parla di buon grado dei “chiarori dell’alba” o di quelli del crepuscolo – una luce fioca o un riflesso, un tocco leggero»38.

Ricorda poi il brillio dei vers luisants, le lucciole di cui parla Pasolini e riprese da Didi-Huberman39. Precisa Nancy, non «i Lumi del grande sole della Ragione, ma ciò che sussiste, debole e sparso, in quell’oscurità che oggi stiamo vivendo, dove la ragione più che luminosa è diventata calcolatrice».

All’abbaglio accecante, preferibili i bagliori incerti o la penombra; potremmo anche aggiungere, sulla scorta di Tonino Griffero, preferibile porsi «contro la messa a fuoco».

Scrive Didi-Huberman: «Per aprire gli occhi, bisogna saperli chiudere»40.

Forse socchiuderli?

Curioso, ma non sorprendente: la stessa citazione «A che punto è la notte?» (che rimbalza sulle scene attraverso Shakespeare) è messa in testa al suo giornale di bordo del viaggio verso Solaris da Pasquale Mari. Dalla pelle fragile del mondo e dell’umano alla fantascienza? Quella evocata da Stanisłav Lem oltre mezzo secolo fa è una visione che ci insegna quanto realtà e immaginario futuribile spostino incessantemente i loro confini…

Trasparenze e arborescenze, fioriture

Dal punto di vista delle pratiche e riflessioni odierne, è interessante guardare ad un versante della sperimentazione sulla luce (in particolare quella che incrocia il terreno della luce-materia-colore) tenendo presenti i legami con gli spazi dei giardini botanici, con quelle aree dei giardini raccolti e protetti dalle serre: espressione di una “nuova architettura” (dalla seconda metà dell’Ottocento) che non è senza agganci con le pratiche del teatro41.

Potrebbe non essere senza importanza il fatto che il primo architetto interpellato per il Festspielhaus di Hellerau, poi affidato a Tessenow, fosse stato Peter Behrens (figura centrale per la Künstlerkolonie di Darmstadt, autore dei passi sopra richiamati), allora impegnato nei progetti per la grande esposizione di Colonia del 191442: un altro contesto ricco di promesse per il futuro. Vi troviamo infatti Bruno Taut, legato e fortemente influenzato da Paul Scheerbart nella sua concezione di una trasparente «architettura di vetro» ma anche nella “visione” dei suoi progetti teatrali e cinematografici. Un nome molto noto nell’ambito dell’architettura, meno nell’ambito teatrale (Taut è anche scenografo)43.

Nel saggio Zum neuen Theaterbau (Per una nuova architettura teatrale, 1920) vi è un passaggio importante circa le implicazioni della progettazione dello spazio per le relazioni che si instaurano tra scena e sala. Il bersaglio è la consuetudine del sipario, emblema della separazione e ostacolo alla dimensione partecipativa e comunitaria, nella quale devono fluttuare luce e colore. La sala dovrebbe essere tenuta illuminata oppure oscurata a seconda di quanto richiede la drammaturgia, mirando ad una «risonanza complessiva»; la consolle dovrebbe ampliarsi a comprendere l’orchestrazione delle luci e dei colori in sala, che andrebbero adeguati al fluire della drammaturgia44.

Una scena, quella di Taut, non necessariamente abitata da attori in carne e ossa: si veda il magnifico Der Weltbaumeister, dedicato appunto a Scheerbart. In questa danza cosmica di materia luce colore tutti gli elementi costituiscono “presenza” e sono dotati di ritmo.

Il respiro “cosmico” auspicato da autori come Taut non può essere separato da quell’idea di architettura che grazie alla trasparenza non solo abolisce rigide separazioni, ma evoca lo spazio del giardino, le serre (costruzioni allora all’avanguardia, in ferro e vetro). Il motivo della trasparenza, declinabile in forme e accezioni inesauribili, rivela l’implicazione che unisce – come una parete trasparente – teatro e architettura.

In altra sede ho proposto di affrontare ciò che spesso è letto come metafora, paradigma, immagine poetica o visionaria, nelle sue potenzialità di progetto teatrale, certo per l’avvenire ma non “utopico” – non scevro di possibilità di trovare un “luogo”. Si tratta di spostare Scheerbart dal ruolo di utopista/visionario (che senz’altro è) per dargli un posto anche tra i rinnovatori del pensiero teatrale primonovecentesco. Architettura di vetro di Scheerbart a nostro avviso può essere letto tenendo conto del mondo teatrale dell’autore, e quindi anche delle implicazioni sceniche nel rapporto con Bruno Taut. Una prospettiva affascinante che intreccia metafore e simbolismo della luce con le istanze utopiche di una nuova architettura per una nuova società (un «sogno di vetro»45). La lettura di questi autori esclusivamente come “visionari” impedisce di coglierne la portata propriamente e specificatamente teatrale e scenica. In tal senso architettura di vetro può corrispondere a quel che sarà architettura di luce, aprendo alla concezione di una luce strutturante.

Una prospettiva, quella della trasparenza, che tiene insieme luce, botanica, utopia, nuova architettura (anche teatrale).

Bruno Taut, <em>Alpine Architektur</em>, 1919; da un progetto per opera cinematografica sulla fusione tra architettura e natura.
Bruno Taut, Alpine Architektur, 1919; da un progetto per opera cinematografica sulla fusione tra architettura e natura.

Luce naturale – effetto notte e luce atmosferica

Riflessioni e pratiche sopra richiamate consentono di tenere presente un’altra importante coordinata: la luce naturale, declinata anch’essa nei territori delle arti performative; dalla riproduzione della luce atmosferica in scena e nelle installazioni di arti visive, alla sperimentazione sulla luce diffusa, al modello offerto dalla luce naturale per le pratiche luministiche, ai progetti teatrali ‘fuori dai teatri’ ricorrenti negli ultimi decenni. Ma anche nella coniugazione dei temi del paesaggio, del giardino, dei cicli circadiani con le pratiche delle arti “performative”, come emerge da alcuni degli interventi qui proposti (nello specifico Anna Wirz-Justice).

La dimensione dell’Aperto e del respiro organico della Natura da riconquistare alle arti riporta ancora il pensiero al paesaggio di primo Novecento – per esempio al primo Bauhaus, a figure come Itten che ritenevano parte integrante della formazione artistica l’esercizio di respirazione all’aria aperta.

Architettura, trasparenza, comunità, luce, vegetazione: pochi esempi potrebbero stringere insieme così significativamente questi motivi come il Teatro Oficina progettato da Lina Bo Bardi a São Paulo negli anni Ottanta del secolo scorso. Evelyn Furquim Werneck Lima, specialista della grande architetta italiana naturalizzata brasiliana, ci accompagna in questo luogo – che più di altri necessita di essere “sentito nella luce” e non solo studiato… Un teatro che si fa soglia e passaggio tra lo spazio urbano e quello scenico.

Oltre all’unicità dell’esempio raccontato qui da Evelyn Furquim, ci viene in mente anche l’impresa del Sesc Pompeia, della stessa Lina Bo Bardi: “cittadella” delle arti e della vita comunitaria di rara bellezza nell’intrecciare il fare artistico alla vita quotidiana del quartiere e della città (São Paulo). Vi risuonano i progetti di Gartenstädte di inizio secolo a Hellerau, tra l’altro si prevedeva inizialmente che lo spettacolo potesse inoltrarsi nello spazio esterno46.

Non è per mera passione investigativa della storia dello spettacolo che ci siamo soffermati sugli esempi e le visioni sopra citati. Se non possiamo dire che si siano imposte come visione dominante, siamo convinte che in qualche forma esse si possano collegare ad aspirazioni, sguardi, posture presenti ai nostri giorni. Anzi che ad esse si possa utilmente e fruttuosamente guardare.

Nella cornice di questo numero di Sciami, la luce naturale si incarna nello spazio della performance nell’opera di Romina De Novellis, qui in dialogo con Dalila D’Amico. Il pensiero e la pratica performativa dell’artista, fortemente radicati e “sentiti” a partire dal vissuto del proprio corpo, si strutturano in “drammaturgia” attraverso il tempo della luce. La poesia e la bellezza del suo lavoro non velano la denuncia di temi complessi e scottanti, come i tabù che ancora condizionano il mondo femminile o le tragedie del Mediterraneo.

Seppure l’esito per le artiste implicate sia formalmente diverso, a questo dialogo sembra fare eco un’altra conversazione, Dell’interrogare il visibile e dell’aberrazione, condotta a tre voci tra Farah Polato, Stefania Bona e Martina Melilli. Un percorso attraverso un progetto che apre squarci, di luce e di buio, sulle tragedie dei naufragi di migranti, dove corpi umani e oggetti, corpi di memoria, attivano interrogativi profondi; dove luce e oscurità dispiegano le loro diverse accezioni e potenzialità: tecniche e funzionali al visibile, espressive, simboliche e politiche.

Vi riscontriamo posture di artisti (di artiste, in questo caso) che costituiscono altri fertili casi di scelte responsabili; fertili perché si vogliono come terreno di germinazione di nuove piante e diverse arborescenze. Si tratta infatti di progetti che tessono relazioni con contesti extra-artistici, che si interrogano sul presente e sui linguaggi più consoni ad esprimerlo. Dove la luce e il buio sembrano fare da garanti di una realtà sempre “in presenza”, rassicurante e al contempo in agguato.

La sensibilità nell’avvicinarsi alla “creazione” di luce per artisti e artiste che hanno contribuito a questo intreccio di percorsi si legge in modo più esplicito se posta in relazione alle importanti premesse costituite da quella generosa infiorescenza aestetica47 dell’estetica che è l’atmosferologia. Chi ci ha offerto in Italia l’occasione di frequentarla, aprendola via via a sempre più articolate declinazioni, è Tonino Griffero. Che qui ripercorre momenti diversi del suo pensiero “alla luce” del nostro contesto… A partire dalla precisazione nel titolo “nella luce”. Nella luce. L’atmosfera quasi-cosale del crepuscolo.

A lasciar intravvedere la fertilità di questo accostamento, basterà qui richiamare alcuni motivi particolarmente cari e consoni all’arte performativa, come l’abbandono della “certezza” del vedere, che giunge a declinarsi “contro la messa a fuoco”; la preferenza per stati e condizioni di passaggio, indefinitezza, come il crepuscolo, rispetto all’abbaglio e allo splendore, l’amore per l’opaco, per dirla con Nancy e Cariolato (e Tanizaki).

Ma anche il motivo della condizione di appartenenza ad una dimensione che invita al superamento del dualismo per porre l’accento sulla relazione. Lo spostamento della sede degli “affetti” dal soggetto a ciò che lo circonda (le atmosfere vivono “fuori” e di per sé) consente al filosofo di parlare di “traità”, che potremmo forse accostare all’in between di cui dice Charlotte Beaufort a proposito dello spazio “cercato” da Turrell.

Vi è implicito il motivo dello sconfinamento dell’umano (e dall’umano) magnificamente prefigurato da Stanisław Lem in Solaris (ma annunciato in una citazione da Pascal cara a Nancy «l’homme passe infiniment l’homme»48), un pensiero che sposta l’umano dalla centralità della quale si è (indebitamente?) appropriato per secoli.

La riflessione sulla luce naturale e atmosferica entra in gioco nel processo di creazione della “luce in scena” in senso più letterale, nello spazio chiuso del teatro, da parte di creatori luci che mai dimenticano le sue relazioni con lo spazio esterno, con la luce e il buio naturali, con il contesto urbano. Dove il pensiero degli artisti, il loro paesaggio estetico di riferimento va considerato quale parte integrante e mai disgiunta dal “fare luce” o meglio dall’“essere nella luce”. Per esempio quando Pasquale Mari scrive che nel “chiuso” dello spazio teatrale sente sempre l’urgenza di trovare il varco, la breccia, l’apertura verso l’esterno (lo spazio e il contesto): «guardo sempre il cielo»… scrive nelle pagine del suo diario di bordo sull’”astronave” che lo ha portato in viaggio verso Solaris.

Sente la luce con la sensibilità e le prerogative di una scenografa che sperimenta sul proprio muoversi nella città gli effetti atmosferici Joslin McKinney, ricercatrice e scenografa che coglie l’opportunità del lock down per soffermarsi su di una lettura “scenografica” della realtà che attraversa quotidianamente. Posizione responsabile, eticamente e artisticamente, dove arte e vita non possono essere tenute separate. Luce, spazio e atmosfera urbana: fare esperienza della città come scenografia ci porta entro una dimensione expanded del teatro, esercizio dello sguardo che fa collimare la creazione artistica dello spazio (scenico) e la dimensione artistica dell’ambiente in cui ci muoviamo, che sentiamo.

La dimensione atmosferica è colta anche nella dimensione notturna.

Per non perdere di vista il nostro orizzonte primonovecentesco, già Salzmann e i suoi sodali a Hellerau si esprimevano per il crepuscolo e le sfumature e Buber per la luce lunare. Il chiarore lunare della luce diffusa si può contrapporre alla luce dei lampi. La luce lunare di Buber tuttavia non si contrappone – piuttosto si accosta alla luce dei lampi.

Due modalità sembrano delinearsi: l’intensità dell’abbaglio, il lampo, ma anche la vibrazione che lascia una scia, come le stelle cadenti dagli sciami di meteore; luce diffusa, che grazie al buio può agire da evidenziatore di presenze, come accade quando Pierangela Allegro mette in scena il buio.

Mettere in scena il buio è per Pierangela Allegro una pratica di sguardo sugli oggetti: una sequenza di immagini sull’affiorare di profili dal buio. Il buio come materia plasmabile e insieme grembo del visibile. Mettiamo l’accento sullo sguardo che trasforma in teatro situazioni incontrate (trouvées, come altre situazioni che ricorrono in questi scritti): la realtà di un uliveto morente si impone – eppure non domina; si compone in un altro paesaggio, dove i tronchi si fanno “scenografia”, presenza insieme a telai utilizzati per la potatura. Lavorando nella luce del giorno non si vede quel che si vede la notte, racconta Pierangela: si delineano visioni che con la luce diurna, e con il tipo di attenzione che il giorno richiede, non si vedevano. Si tratta di scatti con lo smartphone ad oggetti sparsi. Il flash sottrae all’immagine il dato realistico – su queste immagini si agisce poi con un lavoro di sottrazione, fino al buio – «cercare nel buio qualcosa che non c’è – e trovarlo» (Ennio Flaiano)49.

La dimensione operativa è presente in diversi i contributi qui “scritti in luce”, tramite video, fotografie, immagini.

Il video originale di Michele Sambin Lampi concentra in intensità visiva un percorso d’artista sensibile alle percezioni e capace di trasfigurarle. Vengono alla mente anche le visioni “incorniciate” da Walter De Maria in The Lightning Field. Ma nel caso di Sambin le visioni sembrano irrompere senza essere cercate, progettate. Il fenomeno atmosferico è la materia prima, poi rielaborata dall’artista. Vale la pena ricordare il luogo dove quest’opera viene concepita e colta (come quella di Allegro), dimora d’artista che è sintesi di quell’idea di comunanza tra dimensione estetica e quotidiana qui più volte chiamata in causa.

<em>Ovile</em>, opera-dimora di Michele Sambin e Pierangela Allegro, Cannole, Salento, foto Pierangela Allegro.
Ovile, opera-dimora di Michele Sambin e Pierangela Allegro, Cannole, Salento, foto Pierangela Allegro.

Lampi e rivelazioni conoscono un’altra declinazione nell’analisi di Elio Grazioli sull’errore fotografico; ancora irrompe la dimensione del vissuto, dell’aleatorio e si sovrappone o coincide con la creazione di bellezza, che porta in sé l’errore. L’artista non sposta l’esito per farlo “più bello”, lo tiene nell’istante, dotando l’immagine di uno spessore imprevisto, affettivamente pulsante.

Lampi ‘artificiati’ sono quelli al centro dell’installazione di Alfredo Pirri, Fuoco, Cenere, Silenzio concepita e realizzata per l’ultima notte del 2020 (o la prima notte del 2021) a Roma. Un declinazione contemporanea e poeticamente densa del “Teatro del Fuoco”50 di epoche passate; rito di luce e buio, trasformazione alchemica di elementi per un passaggio dall’oscurità all’alba incoronata da un arcobaleno – condizione particolarmente vibrante nel contesto dei nostri vissuti recenti.

Al buio sono dedicate le considerazioni proposte da Véronique Perruchon, che si sposano qui ad un’interrogazione attuale sulla via di una “ecologizzazione del teatro”. La studiosa, di formazione éclairagiste, gioca sul termine “extinction” additando insieme la prospettiva di uno svuotamento e lo spegnimento delle luci a teatro (Estinzione dello spettacolo: riflessioni sulla via ecologica del teatro). La padronanza di conoscenze tecniche consente di accostare le riflessioni a questioni urgenti che riguardano normative e tipologie di dispositivi illuminotecnici. L’analisi delle valenze estetiche implicate dall’uso di differenti fonti di luce si allarga a considerazioni sulla reale possibilità di un teatro sostenibile.

La dialettica tra visibile e invisibile, la “messa in luce” delle cose che intercettano il nostro sguardo a prescindere dalle nostre intenzioni, percorre l’intervento che ci offre Alessandro Serra, regista che padroneggia tutti i linguaggi della scena (autore di regia, costumi, materiali scenici, drammaturgia, fotografia, luce…). Ancora, e diversamente, un dialogo tra il “fare teatro” – farlo in scena – e trovarlo fuori dalla scena. O agire “performativamente” nel mondo, in dimensioni che esulano dal teatro, eppure sempre chiamate a farne parte, dentro e fuori la scena. In Luce sprecata la luce chiama a dotare di “voce” le cose incontrate nel quotidiano. Lontano dalle scene, nel novembre 2020.

Per Serra «dalla fotografia si impara a vedere la luce»51.

C’è una gioia che non so spiegare nell’atto del fotografare, cogliere dalla realtà ciò che solo io posso vedere. E poi condividere con altri questa visione. Ogni scatto effettuato anche dal più sprovveduto utilizzatore di smartphone, rappresenta un irripetibile punto di vista sulla realtà. I grandi fotografi riescono a convincere la retina e l’anima di chi guarda che quell’immagine sia stata scattata solo per loro. È la stessa cosa che accade in teatro di fronte a uno spettacolo esemplare: ci si riconosce, si è soli a guardare ma come se in quel preciso istante i nostri occhi fossero al contempo gli occhi dell’umanità tutta52.

Ancora, in altra forma, lo spazio della luce è luogo dell’incontro tra individuale e collettivo.

  1. Tra 2019 e 2020 si è svolto il primo convegno (Lumière Matière) del programma di ricerca Lumière de Spectacle, codiretto dalla sottoscritta insieme a Véronique Perruchon; si è avviato il progetto di conversazioni sulla luce Lighting Light(s) in «Arabeschi»: www.arabeschi.it/lighting-lights-01–conversazione-con-pasquale-mari; www.arabeschi.it/lighting-lights2–conversazione-con-alessandro-serra; è uscito il volume Cristina Grazioli, Pasquale Mari, Dire Luce. Una riflessione a due voci sulla luce in scena, Cuepress, Imola 2021.
  2. Per noi significativo il documento stilato da un gruppo di docenti dell’università di Padova: www.disll.unipd.it/sites/disll.unipd.it/files/DiSLL_DAD_protocollato.pdf.
  3. Cfr. per es. Cristina Grazioli, Luce e atmosfera, natura e pittura: alla ricerca di un fattore unitario della messinscena tra XVIII e XIX secolo, in Avènement de la mise en scène/Crise du drame. Continuités-discontinuités, a cura di Jean-Pierre Sarrazac e Marco Consolini, Edizioni di Pagina, Bari 2009, pp. 33-52; Cristina Grazioli, Pasquale Mari, Dire luce. […], cit., pp. 148, 185.
  4. Pierre Gothard de Gonzague [Pietro Gonzaga], Lettre a mon Chef ou eclaircissement convenable du décorateur théâtral Pierre Gothard Gonzague sur l’exercise de sa profession, de l’Imprimerie d’Alex Pluchart, Saint Pétersburg 1807, p. 30 (trad. in Pietro Gonzaga, La musica degli occhi, a cura di Maria Ida Biggi, Olschki, Firenze, 2006).
  5. Pierre Gothard de Gonzague [Pietro Gonzaga], Lettre a mon Chef …, cit., p. 33.
  6. Ivi, p. 53 («la luce è veicolo della visione, come l’aria sonora lo è per l’udito; come l’aria sonora non agisce sul sentimento se non è vivificata artisticamente dal musicista, così la luce non è che chiarore se non è rielaborata, per così dire in fantasma dalla superficie degli oggetti che colpisce, e rinviata all’occhio con la più grande velocità ed esattezza […]. Ora, lo scenografo intelligente può trarre il maggior profitto dalla massa di luce che si trova tra lo spettacolo e lo spettatore, se sa preparare artisticamente le superfici delle quinte in modo da rinviarci i raggi luminosi trasformati in immagini illusorie»).
  7. Cristina Grazioli, Luce e atmosfera: una direttrice alternativa, in La scena di Mariano Fortuny. Atti del convegno internazionale di studi, Bulzoni, Roma 2017, pp. 51-67.
  8. Secondo questa prospettiva è stato concepito il progetto “Atlante Fortuny”. Patrimonio e innovazione nell’opera di Mariano Fortuny: fonti ispiratrici nell’arte di orchestrare la luce, relazioni, influssi, testimonianze nel contesto artistico europeo (2012-2014).
  9. La colonia degli artisti di Darmstadt fu fondata da Ernst Ludwig von Hessen nel 1899 (cfr. Georg Fuchs, Von der stilistischen Neubelebung der Schaubühne, 1900). In merito cfr. Antonella Ottai, Scena e scenario. Frammenti teatrali della 1a Esposizione della colonia degli Artisti di Darmstadt, Edizioni Kappa, Roma 1987.
  10. Lo stile è simbolo di un sentimento comune, dell’intera concezione della vita di un’epoca, e si manifesta nell’universo di tutte le arti. Vogliamo erigere un teatro che sia un luogo sacro per tutta l’arte»; Peter Behrens, Feste des Lebens und der Kunst. Betrachtung des Theaters als höchsten Kultursymbols, Diederichs, Leipzig 1900, p. 10.
  11. Ivi, p. 17.
  12. Ivi, p. 18.
  13. Cfr. il tardo intervento pubblicato in un volume di riferimento per la scenotecnica degli anni Venti, Adolphe Appia, Art is an attitude, in Walter René Fuerst, Samuel J. Hume, XXth Century Stage Decoration, Alfred A. Knopf, London 1928, 2 voll., I,pp. 13-15; L’art est une attitude in Adolphe Appia, Œuvres complètes, éd. par Marie L. Bablet-Hahn, L’âge d’homme, 4 voll., Genève 1983-1992, IV, pp. 498-500.
  14. Adolphe Appia, Expériences de théâtre et recherches personnelles, in Adolphe Appia, Œuvres complètes, cit., IV, pp. 36-56: 53.
  15. Seconda prefazione a La musique et la mise en scène, citato in Denis Bablet, Adolphe Appia. Art, révolte et utopie, in Adolphe Appia, Œuvres complètes, cit., I, pp. 1-30: 25.
  16. Si veda il prezioso lavoro di contestualizzazione svolto da Marie Louise Bablet-Hahn, ivi, vol. III, pp. 92-226.
  17. Wolf Dohrn, Die Gartenstadt Hellerau, Eugen Diederichs, Jena 1908, pubblicato per la prima volta in «Hohe Warte», 1906. Citato in Adolphe Appia, Œuvres complètes, cit., III, p. 95.
  18. Adolphe Appia, Œuvres complètes, cit., III., p. 95. La ristrutturazione recente del Festspielhaus (2006, architetto Josef Peter Meier-Scupin), riporta l’eloquente iscrizione foucaultiana Aesthetik der Existenz.
  19. Marcella Scopelliti, Una luce lunare nella notte stellata. Martin Buber spettatore a Hellerau, «Sciami|ricerche», n. 9, aprile 2021.
  20. Martin Buber, Das Raumproblem der Bühne, in Paul Claudel, Programmbuch, Hellerauer Verlag, Hellerau 1913; tr. it. di Charlotte Geschwandtner e Francesco Ferrari, Il problema dello spazio scenico, in Marcella Scopelliti, L’attore di Fuoco. Martin Buber e il teatro, Accademia University Press, Torino 2015, pp. 229-236: 229.
  21. Ivi, p. 230, nota 3.
  22. Cfr. Marcella Scopellitti, Una luce lunare nella notte stellata. Martin Buber spettatore a Hellerau, cit.; i passi citati sono da Martin Buber, Io-Tu.
  23. Cfr. per esempio un talk TED del 2009; per noi significativo un lavoro esposto alla mostra parigina Danser sa vie al Centre Pompidou nel 2011, Movement Microscope.
  24. Cfr. Cristina Grazioli, Cavità di luce, riflessi d’ombra: poetiche dell’assenza e drammaturgie della luce, in «Culture Teatrali», On presence, a cura di Enrico Pitozzi, n. 21, 2012, pp. 41-58: 41-44.
  25. Charlotte Beaufort, To Be Sung: La lumière intransitive comme matériau de composition, relazione al convegno Lumière Matière, Venezia, Fondazione Giorgio Cini, Istituto per il teatro e il melodramma, 16-17 gennaio 2020 (cfr. nota 1).
  26. Carine Asscher, Passageways, con James Turrell e Gene Sekaquaptewa (capo HOPI del Clan delle Aquile), Centre Pompidou, Paris 2006 (DVD).
  27. L’incontro è visibile all’indirizzo sito: https://youtu.be/QmWjJD5Pyt8. Da quella occasione la proposta, accolta con nostro immenso piacere, di coinvolgere Jean-Luc Nancy in dialogo con Alfonso Cariolato. Ringrazio Annalisa Oboe e Marcello Ghilardi per la collaborazione.
  28. Martin Buber, Il problema dello spazio scenico, cit., p. 235.
  29. I disegni del dispositivo di Salzmann sono pubblicati in Adolphe Appia, Œuvres complètes, cit., III, pp. 162-163.
  30. Martin Buber, Il problema dello spazio scenico, cit., p. 236.
  31. Alexandre Salzmann, Licht, Belichtung, Beleuchtung (1912), in Adolphe Appia, Œuvres complètes, cit., III, pp. 202-204: 202.
  32. Ibidem.
  33. Ibidem.
  34. Ivi, p. 203.
  35. Cfr. nota 15.
  36. Cioè l’immagine di Jabès evocata da Derrida e citata nella conversazione tra Jean-Luc Nancy e Marcello Ghilardi, cfr. nota 27.
  37. Jean-Luc Nancy, Alfonso Cariolato, Il fondo, l’opacità, il bagliore, «Sciami|ricerche», n. 9, aprile 2021.
  38. Jean-Luc Nancy, Alfonso Cariolato, Il fondo, l’opacità, il bagliore, cit.
  39. Cfr. Georges Didi-Huberman, Come le lucciole. Una politica delle sopravvivenze, tr. di Chiara Tartarini, Bollati Boringhieri, Torino 2010 (Survivances des lucioles, 2009).
  40. Georges Didi-Huberman, Ninfa moderna. Saggio sul panneggio caduto, tr. it. di Aurelio Pino, Il Saggiatore, Milano 2004, p. 112 (Ninfa moderna. Essai sur le drapé tombé, 2002).
  41. Si pensi al “Mito delle Cattedrale” che riverbera in una produzione di successo come Das Mirakel di Max Reinhardt (1911).
  42. Deutsche Werkbund Ausstellung, 1914.
  43. Crea la scenografia (utilizzando vetro colorato) per la Jungfrau von Orléans di Karl Heinz Martin (1921). Cfr. Sandra Bornemann-Quecke, Heilige Szenen. Räumen und Strategien des Sakraler im Theater der Moderne, Metzler, Stuttgart 2018, pp. 212-241.
  44. Bruno Taut, Per la nuova architettura teatrale, in Der Weltbaumeister. Spettacolo architettonico per musica sinfonica, in Gian Domenico Salotti, Manfredo A. Manfredini, Bruno Taut. Der Weltbaumeister. L’interno e la rappresentazione nelle ricerche verso un’architettura di vetro, con scritti di Carlo M. Cella e Paolo Portoghesi, Franco Angeli, Milano 1998, pp. 79-84: 82; ed. originale Zum neuen Theaterbau, in «Das hohe Ufer», I, 8, 1919, pp. 204-208. Cfr. anche Cristina Grazioli, Pasquale Mari, Dire luce. […], cit., pp. 187-188.
  45. Rosemarie Haag Bletter, The Interpretation of the Glass Dream-Expressionist Architecture and the History of the Crystal Metaphor, in «Journal of the Society of Architectural Historians», 40 (1), 1981, pp. 20–43.
  46. Adolphe Appia, Œuvres complètes, cit., III, p. 102, si pensi anche al Théâtre du peuple di Bussang, fondato nel 1895.
  47. Cfr. Tonino Griffero, Dal bello all’atmosferico: un’estetica dal punto di vista pragmatico, introduzione a Gernot Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena. L’estetica come teoria generale della percezione, trad. e cura di Tonino Griffero, Christian Marinotti, Milano 2010, pp. 5-33.
  48. Citato nella conferenza di cui alla nota 15; cfr. anche Jean-Luc Nancy, La Peau fragile du monde, Galilée, Paris 2020, p. 20.
  49. Da una conversazione con Pierangela Allegro nell’ambito del ciclo di incontri Dire luce nel buio, Università di Padova, 21 aprile 2021.
  50. Cfr. Claudio di Lorenzo, Il Teatro del Fuoco, Storie, vicende e architetture della pirotecnica, Padova, Franco Muzzio, 1990.
  51. Cristina Grazioli, Lighting Light(s) #2, conversazione con Alessandro Serra, in «Arabeschi», n. 17, 2021.
  52. Ibidem
Author

Cristina Grazioli, si è formata con Umberto Artioli presso l’Università degli Studi di Padova, dove insegna Storia ed Estetica della Luce in Scena e Teatri di Figure. Storie ed estetiche. Tra i suoi ambiti di ricerca: le intersezioni tra l’ambito delle arti figurative e la scena (Lo specchio grottesco. Marionette e automi nel teatro tedesco del primo '900, Esedra, 1999; Humain-Non Humain. Puck. La Marionnette et les autres arts, n. 20, IIM-L’entretemps, 2014, insieme a Didier Plassard); il teatro dei ruoli in Germania; la diffusione della Commedia dell’Arte nei paesi di lingua tedesca; estetica e prassi della luce in scena in diversi momenti della storia del teatro (Luce e ombra. Storia, teorie e pratiche dell'illuminazione teatrale, 2008, con Pasquale Mari, Dire Luce. Riflessione a due voci sulla luce in scena, Cuepress, 2021). Ha curato e tradotto edizioni italiane di scritti di Rainer Maria Rilke, di autori dell’Espressionismo tedesco (Costa & Nolan 1995 e 1996), di Gert Jonke (La morte di Anton Webern, 2002), degli studi sui ruoli di Bernhard Diebold e di Hans Doerry (2002 e 2006), di materiali sulla ricezione tedesca di Eleonora Duse. Ha coordinato e diretto l’équipe di ricerca del progetto Herla (Il teatro dei Gonzaga 1480-1630) per la fondazione Umberto Artioli di Mantova, e del progetto Ruzante sulle scene del Novecento (Regione Veneto). È stata Visiting Professor presso diverse università straniere. Fa parte dei Comitati scientifici internazionali della «Revue d’Histoire du Théâtre» (F) e della rivista brasiliana «Móin Móin» (BR), del Conseil Scientifique dell’Institut International de la Marionnette di Charleville-Mézières. Fa parte del Grupo de Pesquisas, Espaço, memória e projeto urbano, Universidade Federal do Estado do Rio de Janeiro – CNPq ed è Membre associée del Laboratoire CEAC (Centre d’étude des Arts Contemporains) dell’Università di Lille dove co-dirige con Véronique Perruchon il programma di ricerca Lumière de Spectacle. Attualmente è responsabile del progetto SID Dire Luce. Le parole e le cose che illuminano la scena e prepara un volume su Rainer Maria Rilke e la scena.

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