Performare il ridere propone un’articolata analisi del gesto espressivo della risata all’interno del panorama coreografico e performativo contemporaneo. Il ridere, potente proclama acustico che investe il campo del desiderio e del potere, è una delle principali manifestazioni sonore in dote allo spettatore per testimoniare la propria adesione all’accadere scenico. Il saggio prende in esame il paradossale ribaltamento che vede la risata collocata al centro della scena. Non più reazione a un avvenimento comico, questo riso autonomo diviene il perno orientativo della scrittura scenica in considerazione delle sue componenti vocalico-corporee e in quanto dispositivo emotivo che reinventa i limiti del performabile. L’analisi di alcuni casi evidenzia come la specifica vocalizzazione sincopata del ridere possa essere riconosciuta come un gesto interamente e intrinsecamente coreografico, capace di isolare alcune precise dinamiche dell’emozione, di disturbare le organizzazioni collaudate del corpo (anche della cultura coreutica); di criticare l’ingiunzione a “dover essere felici”, e di dispiegare, in virtù della sua natura contagiosa, uno spazio esperienziale permeabile frutto di sintonizzazione comunitaria e prossimità empatica.
As she laughed I was aware of becoming involved in her laughter and being part of it, until her teeth were only accidental stars with a talent for squad-drill. I was drawn in by short gasps, inhaled at each momentary recovery, lost finally in the dark caverns of her throat, bruised by the ripple of unseen muscles…
Thomas S. Eliot, Hysteria
La risata è un potente proclama acustico che investe il campo del desiderio e quello del potere. È una manifestazione rumorosa che convoca una precisa corporeità suscettibile a pressioni e spese. Affine al grido inarticolato e ostile al disciplinamento fonematico del linguaggio, la sua energia convulsiva vive nel paradosso di essere massimamente comunicativa nell’esatto istante in cui produce un’interruzione dell’atto di comunicazione, giacché opera l’arresto temporaneo di una sequenza discorsiva, sospende le strutture semantiche e sintattiche, spezza il continuum di una situazione, attraverso la propria forza acustico-gestuale. Il ridere è l’espressione cioè di una perdita di controllo momentanea, lo slentarsi di una forma di sorveglianza in una carica sonora eruttiva che genera un assetto relazionale variabile per via della peculiare «opacità» che resta «ampiamente determinata nel decorso di ciascuna delle sue possibili modulazioni»1.
La «seducente grazia del limite»2 che ogni risata convoca ha la forza di instaurare una comunità dal nulla, la sua contagiosità di promuovere una catena di sintonizzazioni, riverberi, connessione inaspettate con l’altro. Nel ridere si esaudisce un preciso nesso intersoggettivo, quello che fonda il legame sociale, esemplato dal riso accogliente tra madre e neonato3. Ma anche la superiorità nutrita da un’anestesia momentanea del cuore, che si manifesta quando si ride di qualcuno o di qualcosa, conferendo alla scena un effetto di derealizzazione4. È una egemonia che può divenire collante d’aggregazione identitaria del gruppo, in cui bersagliare qualcuno o qualcosa che non ce la fa. Si ride nonostante se stessi, esercitando l’arma tagliente dell’autoironia o per mascherare la propria profonda e inconfessabile amarezza. È un «riso rituale» e collettivo quello nutrito dalla logica del mondo alla rovescia, dal ribaltamento di norme e gerarchie; o prettamente comico quando risponde a qualcuno o a qualcosa di indecoroso e ridicolo, a qualcuno o a qualcosa che sospende le leggi della misura e della decenza, orchestrando cose umili e basse5. La retorica antica ha fatto ampio uso dei tropi finalizzati al riso, attraverso una serie di mosse linguistiche e gestuali, capaci di produrre effetti comici e catturare l’astante6, movenze che continuano a esercitarsi e a forare il linguaggio tra le pieghe di freddure, lapsus, motti di spirito7.
In teatro il ridere è una delle manifestazioni acustiche primarie, una sonora e immediata espressione in dote allo spettatore con la quale testimonia la propria partecipata adesione all’accadere scenico. Ma cosa accade quando il ridere, in un paradossale ribaltamento, si colloca in modo esclusivo e intenzionale al centro della scena? Cosa accade quando, scollegato da un avvenimento comico, non è più la risposta antifonale dello spettatore all’azione umoristica? Quali logiche del sensibile s’innescano quando esplosioni sonore della e nella bocca sono spaziate come perno orientativo della composizione coreografica? E quando nella scrittura scenica s’installano e parassitano il soggetto in un cortocircuito fuori-senso?
Attraverso un’analisi di casi prelevati dal panorama coreografico e performativo contemporaneo, guardiamo al ridere come a un evento di suono e di corpo che non risponde alle dinamiche del comico, ma a un riso che prorompe in scena senza prestarsi a rappresentare ragioni e intenzioni, non incorniciato narrativamente. Si tratta di cogliere cosa ne è allora scenicamente di quella simmetrica «ripetizione di scoppi» e «scoppi di ripetizione»8 quando, tradotti in una concertata partitura, designano un ambiente non disciolto nella pienezza del senso. Se il riso espone «la sorpresa di essere alla frontiera più remota di ogni tipo di presenza»9, prioritario è indagare la natura del suo investimento corporeo, le pratiche di incorporazione, limiti della rappresentazione che si inscrivono nella negoziazione vibratoria tra corpo e voce.
Sintomatica è la manifestazione fisica del ridere in Hysteria10 di Sam Taylor-Wood. È il video in cui l’artista inglese – sul finire degli anni Novanta – ritrae il volto di una giovane donna in preda alla violenta energia propulsiva di una incontenibile risata. Il primo piano inquadra l’ovale del viso, la testa reclinata all’indietro (e poi in avanti) sotto l’effetto di una spinta oscillatoria, la fronte spianata, gli occhi appena schiusi e contratti, le palpebre corrugate, le guance rigonfie con forza verso gli zigomi, la piega arricciata del naso, la bocca spalancata, l’intera arcata dentale, il sussultare ritmico della lingua. L’inquadratura accoglie per brevi istanti porzioni di braccia e mani aggrappate ai capelli o a sostegno della testa; talvolta nel close up il volto si decentra per via del movimento a cui è sottoposta l’intera figura. L’irrefrenabilità del ridere è colta sotto l’effetto di un incitamento affettivo che investe tutto il corpo – ora piegato verso il ventre, ora flesso all’indietro – a testimoniare come le regolazioni nervose provocate dalla risata siano da intendersi come «un evento gestuale espanso»11.
Sam Taylor-Wood – oggi più nota come Taylor-Johonson – corrosiva figura della Young British Art, si è affacciata sulla scena artistica con opere interessate al funzionamento degli affetti, colti nelle micro-alterazioni corporee mai precisamente misurabili né definibili in modo unico. Variazioni di stato che si manifestano attraverso un’intera gamma di espressioni ritualizzate, micro-drammi senza contenuto che le tecnologie permettono di catturare oltre i limiti delle capacità corporee. È così, ad esempio, nel video Method in Madness, nel quale è possibile cogliere un uomo in preda a una crisi di nervi o in Breach dove una ragazza seduta sul pavimento piange e singhiozza in una sequenza filmica di breve durata, sprovvista di sonoro.
In Hysteria12 la minuziosa drammaturgia corporea del ridere, inscritta e riflessa sul volto – bruciante punto cieco del soggetto che si espone al mondo –, è dilatata e acuita percettivamente dalla sottrazione del sonoro e in conseguenza di un rallenty effect che investe l’azione. La cruda densità del silenzio, la tensione anecoica e l’espansione temporale dello slow motion che investono l’«immagine-affezione», fomentano, sul piano sensibile, la percezione dei dettagli minimi, l’osservazione minuta di tutto uno snodarsi di micro-movimenti, arresti e andamenti germinativi da una piega all’altra del corpo, incitati da una variazione di stato, d’intensità, di densità della presenza. L’interdizione acustica imposta agli scrosci sonori e alle modulazioni vocaliche del ridere fanno sì che lo sfogo vitale sia sostenuto dallo sguardo che gli offre l’ossatura, tale che sguardo e voce appaiono qui come oggetti del loro reciproco scarto13.
Questo rallentato cinemà sourd [cinema sordo]14 – per dirla con Michel Chion – carica di una tale drammaticità la risata (qui ammutolita) che essa pare si stia progressivamente tramutando in pianto. È come se quell’ondeggiare del corpo, quello strizzarsi degli occhi, quel soccombere a una forza sconosciuta ma percepibile, siano il frutto della cerimonia di un pianto incontenibile. L’enfasi prodotta dall’apnea acustica e dal rallenti dispone una zona indecidibile tra ridere e piangere, che sconfessa lo schema binario e polare che ascrive il riso alla sfera del piacere e il pianto a quella del dolore15. Il mescolarsi perturbante di istanze apparentemente antitetiche, nell’opera di Taylor-Wood, incoraggia risposte contrastanti nello spettatore, collocato in una posizione continuamente sbilanciata tra identificazione e alienazione, coinvolgimento emotivo e distacco critico. In Hysteria la “drammatica” ambiguità somatica del ridere sintonizza l’astante su questo scuotimento corporeo a cavallo tra ilarità e commozione spingendolo a concentrarsi sul “come funziona”. È l’instaurarsi con l’immagine di una relazionalità critica nei confronti del dualismo ragione/sensazione, che dispone l’emersione di un piano affettivo, quello in cui si manifesta una versione complessa del nesso di causalità, poiché ad ogni affetto appartengono simultaneamente entrambi i lati della relazione causale16.
Inventare il ridere
È soprattutto nell’universo coreografico della «post dance»17 che il ridere acquista una propria centralità espressiva, esattamente in quel contesto in cui la danza si occupa delle trasformazioni corporee in relazione a tecniche enunciative che impiegano «diverse grammatologie per proporre topografie extra-discorsive»18. È la compagine in cui l’espressione danzata, collocata al di fuori del regno del repertorio, si mostra interessata alle pieghe dell’evento corporeo del linguaggio.
La coreografa americana Meg Stuart con One Single Action: Laughing intende il ridere come l’esercizio di una danza collettiva. Originariamente pensato per l’apertura del festival Politics of Ecstasy, promosso dal HAU Hebbel am Ufer di Berlin nel 2009, viene presentato nuovamente nel quadro di Moves Without Borders in Israele19. Si tratta del progetto curato dall’artista bielorusso Arkadi Zaides, nato con lo scopo di riflettere criticamente sul clima politico e culturale israeliano, contrassegnato da imposizioni, limitazioni corporee, forme di sorveglianza, confini e muri20. Meg Stuart, decisa a riprendere la pratica del ridere in tale mutato contesto, circostanzia le intenzioni che avevamo portato all’iniziale ideazione: «Volevo che performer, spettatori, critici e produttori creassero una scultura cinetica e sociale attraverso un’esperienza condivisa»21.
One Single Action: Laughing invita i partecipanti a esplorare le qualità, gli accenti, la texture del ridere nell’arco di un’ora, facendo della durata un componente essenziale per la comprensione interamente corporea dell’atto. Stuart intende la risata come un ready-made movement material»22 tale che l’azione performata all’Arab Jewish Community Center di Jaffa si dispieghi nell’articolazione delle sue infinite variazioni: dal riso a comando a quello involontario, dalla risatina infastidita alla concatenazione ilare di urletti ripetuti e disturbanti, dal riso meccanico a quello estatico, tutta una serie di qualità di questa «vibratorory syncopation»23 intesa come gesto interamente e intrinsecamente coreografico. Praticare la scarica motoria del riso è certamente un modo di convocare quella sua peculiare mobilizzazione della gabbia toracica (in senso verticale, trasversale e anteroposteriore), l’impegno coordinato della muscolatura, volontaria ed involontaria, dell’apparato respiratorio, di diaframma e muscoli dell’addome, del dorso e degli arti superiori ed inferiori; nell’accordo, ogni volta pattuito, con i tessuti muscolari di laringe e corde vocali, responsabili di quella specifica vocalizzazione sincopata.
Ma l’impiego della risata come pratica comune di scrittura del corpo, situata di proposito nel campo della danza, è implicata per disfare la convenzionale dicotomia tra razionale ed emotivo, acquistando un accento critico ed eversivo: l’esercizio della “singola azione” del ridere corrisponde qui all’impiego di una tattica capace di abbracciare creativamente la sfera del quotidiano, attraverso l’attivazione di un precipuo spazio di “invenzione”, da intendersi nell’accezione che abbiamo imparato a declinare nel solco delle riflessioni di Micheal de Certeau24. È un modo cioè per ri-spazializzare collettivamente questo spasmo umano, ritmico-corporeo e contagioso, alleandolo con istanze desideranti. Si tratta cioè di incoraggiare, sperimentare e allenare collettivamente una forma di “fuori controllo/controllo”, in cui parimenti disturbare le organizzazioni e i sistemi collaudati del corpo (radicati anche nella cultura coreutica). Questo aspetto è tanto più vero quanto più si riconosce al ridere la capacità di produrre e rinnovare, ogni volta, un’interruzione nell’ordine del noto, evocando forme di micro-sovversione che eccedono i tabù stabiliti da comportamenti socialmente legittimati, lasciando emergere il marginale e il periferico. One Single Action: Laughing è dunque un atto di riappropriazione che si espleta fomentando la prossimità, l’accordo delle increspature simpatiche dei partecipanti. La natura comunitaria dell’atto del ridere, imbrigliata nella catena attrattiva dell’effetto contagioso, serve e Suart per promuove una forma temporanea di sincronizzazione sociale, dove proliferano molteplici possibilità di esistenza, liberate dal giogo della sussunzione a modelli di comportamento e posture corporee stabilite.
Morire dal ridere
Per la coreografa spagnola La Ribot l’atto fisico del ridere è il pattern sonoro e il dispositivo corporeo distintivo di Laughing Hole (2006), long durational performance (6 ore) presentata nella rassegna Art Unlimited nel quadro di Art Basel 37. Concepita per l’ampio white cube di una galleria d’arte, la performance prevede la fruizione informale degli spettatori, invitati a disporsi a terra lungo i muri della stanza. Tre interpreti femminili (tra cui La Ribot), vestite con camici da addette delle pulizie – tape per imballaggi alla mano –, rimuovono, uno a uno, centinaia di cartelli sparsi su tutta la superficie del pavimento, per poi attaccarli alle pareti. I cartoni contengono alcune parole, brevi sintagmi, certuni dal pungente tono imperativo: “ALIEN BRUTALITY”, “IMPOTENT TERROR”, “DO NOT DIE”, “GAZA PARTY”, “BRUTAL WAR”, “BUILDING OCCUPATION”, “CLEAN HERE”, “MASSIVE SHIT”, “DIE HERE”, “ANONYMOUS IN GUANTÁNAMO”, “BRUTAL HOLE”, “SECRET DEATH”, “SHIT SPECTATOR”, “IMMIGRANT ON SALE” […].
I muri si compongono via via di frasi sconnesse, spesso politicamente tendenziose. Fanno riferimento alle condizioni di vita dei detenuti reclusi nel campo di prigionia di Guantánamo; alla guerra tra Israele e Hezbollah in Libano; alle rappresaglie israeliane contro i rifugiati palestinesi della Striscia di Gaza{25R. Burt, Ungoverning Dance: Contemporary European Theatre Dance and the Commons, Oxford University Press, Oxford 2016, p. 112..}. I cartelli sono impugnati, ora con una certa dose di indifferenza, ora con vere e proprie pose, come si trattasse di esercitare una qualche forma di esibita rivendicazione, ora cullati con divertita ostentazione. Il pavimento cosparso di pezzi di cartone25 è una superficie scivolosa, inadatta alla padronanza corporea e al controllo che la danza chiede, ma perfetta a suggerire un’instabilità di contesto e una scompostezza ricercata. Lo scivolare continuo delle interpreti convoca l’inciampo esecutivo: oltre a generare un senso di precarietà, si allude qui in modo ambiguo – disinnescandone però il potenziale di ridicolo26 – a quel movimento determinato «per mancanza di agilità, per distrazione, per ostinazione del corpo»27 riconosciuto come uno dei cliché del comico (esemplato nella classica caduta sulla buccia di banana). Ma qui si scivola su inneschi verbali di violenza. La percezione delle frasi, che funzionano per vincoli associativi, è disturbata – ed è questo il dato che altera e disinnesca (paradossalmente) l’effetto comico – dal ridere-senza-sosta delle danzatrici. Microfonate, la loro emissione continuata è mescolata di tanto in tanto con le proprie stesse tracce di risa registrate. Un artista del suono le raccoglie e mixa dal vivo, legandole e trasformandole in circuiti sonori che alonano di eco le sponde simmetriche e i picchi sonori. L’effetto acustico genera un’atmosfera ambientale marcata da un’aura di conflitto, tale da produrre, in alcuni momenti, un vero e proprio brusio cacofonico che diffonde una nebbia percettiva. La persistenza delle risate è articolata in una scala di variazione piuttosto ristretta: da lievi a isteriche, da mormorate a stridenti, mai sardoniche. Nella loro esecuzione a oltranza agisce una forma di eccedenza, una spesa che contagia gli spettatori, i quali per le prime due ore (circa) non sembrano in grado di esimersi dal ridere a propria volta, dall’attivare la risposta involontaria della parte inferiore dei muscoli orbicolari. Ridono dunque nonostante la brutalità veicolata dalle novecento iscrizioni su guerra, tortura, economia, famiglia, debito, segreti militari, che saturano spazialmente l’orizzonte ottico. La contagiosità conduce lo spettatore a percepire l’incongruità e il naufragio del proprio comportamento, pronto a manifestare ilarità di fronte a una partitura in cui, di fatto, non c’è niente da ridere.
Nella durata delle sei ore – scandite dalla sintassi ricorsiva che prevede scelta del cartello, posa per esibirlo, caduta, fissazione al muro – le danzatrici continuano a ridere imperterrite, nell’alternanza regolata tra vocalizzazioni solitarie e nugolo di voci sostenute da micro-loop elettronici. Il dispendio fisico richiesto dal continuo andamento sussultorio del ridere, defigura con sempre maggiore intensità i volti delle interpreti, contrae i corpi, distorce le pronunce vocaliche: all’intensità estenuata di spasmi corporei e contrazioni facciali corrisponde infine una partitura vocale fatta di rantoli, ansimi e singhiozzi, pronti a ricordare che non c’è spasmo corporeo capace di escludere al proprio interno una componente di disperazione, spavento, clamore. Le danzatrici sostengono il proprio ridere con un corpo sul punto di cedere per la vertigine della fatica. Ed è proprio lì, nella dimensione pletorica di questo riso ininterrotto e fuori-luogo – scollegato da un contesto narrativo definito e restituito in una panphonia ipnotica – che esso riesce nell’intento di far galleggiare le frasi dei cartoni in un offuscamento di senso che, con il passare delle ore, genera nello spettatore una sensazione di impotenza mista a timore.
Nel saggio The Choreographic, la studiosa Jenn Joy, che a Laughing Hole dedica un’ampia riflessione, riconosce a quel ridere la forza di «echeggia[re] negli interstizi tra coreografia e istanza critica, inquietando tanto il linguaggio del corpo quanto l’ordine semantico»28. Il ridere (e la sua incongruità incorporata coreograficamente) esaudisce infine la sua natura oppositiva e divisiva. L’intera dinamica del ridere che contempla il limite della sua finale dissipazione, conduce lo spettatore a esperire l’arco montante che percorre gli estremi compresi tra una forma di ilare distacco a un atto d’accusa nei confronti dell’universo di manipolazione ideologica, disumanizzazione, forme repressive di dominio veicolato dalla violenza delle frasi. Si potrebbe forse sostenere che Laughing Hole, all’incrocio tra politico e poetico, riesca a impaginare la radicalità inaudita di una corporeità spinta fino al punto da “morire dal ridere”: un ridere che rischia tutto, agendo come un’arma di dissenso che ha luogo dove non potrebbe.
Happiness Dute
Il ridere è la postura fisica e vocale socialmente riconosciuta come manifestazione di felicità, gioia, benessere. Il ridere ad oltranza, quindi la rappresentazione di un eccesso di felicità, è la condotta concessa dal coreografo Alessandro Sciarroni agli interpreti di Augusto (2018). L’oltranza, la tecnologia della ripetizione, l’assiduo rinnovarsi della presenza, l’ostinazione indefessa all’adempimento di un compito, l’esecuzione di una sequenza al punto limite dello sfinimento, l’endurance test, l’estenuazione nella durata fino all’ipnosi della trance, la coazione a ripetere fino alla soglia scabrosa del virtuosismo, sono le tattiche compositive, i dispositivi della percezione, le macchine concettuali che, di opere in opera, si rintracciano nella scrittura coreografica di Sciarroni. Si tratta di sfide percettive pattuite e imposte allo spettatore a cui è chiesto di esercitare un’adesione al presente della scena, di accordare la propria esperienza spettatoriale a un vincolo di sintonizzazione corporea, affettiva, che investe in primis il campo dell’attenzione. Sia che si tratti dello Schuhplatter di Folk-s (2012), del lancio dei birilli di Untitled. I will be there when you die (2013), del girare ininterrotto sul proprio asse del progetto Turning (2015), ogni volta la scena impagina un’attitudine dinamica spinta alla vertigine, laddove qualcosa di imprevisto si rivela, un sapere sensibile si fa largo, inatteso. È quello che consiste nell’ardito apparire di un’estraneità nel cuore di qualcosa di familiare.
Dall’ilarità espansa e fragorosa al violento ghigno di un rictus, in Augusto il ridere agisce come un’intensità collettiva e contagiosa che, investendo il corpo vivente degli interpreti, indaga le potenzialità e i limiti della danza. I performer, giovani, belli, vestiti con abiti di jeans dal design ricercato, tutti secondo una calcolata palette di azzurri, compongono ritmicamente una circonferenza regolare, camminano, aumentano l’intensità del passo, corrono, si tallonano e respingono, si abbracciano e spintonano, si fronteggiano e duettano: tutta una modulazione di nessi, scanditi dal moto convulsivo del ridere che dispiega coreograficamente relazioni incarnate in un organismo sensiente, comunitario, poliritmico.
La performance compone, in un calcolato crescendo, una partitura di geometrie corporee variabili, incitate dalla vibrazione vocale del ridere come avvenimento neuro-muscolo-scheletrico che dà avvio a una sequenza di gesti sprovvisti di una chiara focalizzazione intenzionale: scoppi sonori in successione, tonanti emissioni, discreti sussurri, rantoli carichi di fiato e saliva, sincopi del respiro, si combinano con corrugamenti deformanti della bocca, increspature delle palpebre, ondulazioni regolate del busto, andamenti sussultori delle spalle, colpi ritmici sulle cosce, mani sul ventre. Ad essi si aggiungono, con il passare del tempo, crolli improvvisi a terra come si stesse soccombendo al proprio vissuto corporeo.
Le azioni sono accolte in un ambiente neutro, intensamente bianco. La asetticità della scena viene via via controbilanciata dal calore della spesa corporea, da calibrati registri di luce, che scaldano e intensificano le figure, in una sofisticata drammaturgia luminosa che punta ad allontanare o far sbalzare i corpi in primo piano, enfatizzando una prossimità tattile. Il silenzio che svela le pronunce singolari del ridere, i brusii del corpo, il cadenzato
rumore dei passi, dialoga con un suono che scandisce e rinnova il clima di eccitazione complessiva attraverso la creazione di una dimensione atmosferica densa di riverberi. Lo spettatore è preso in una vera e propria trappola percettiva che lo sincronizza emotivamente con quel ridere largo e insistito. Nell’arco dello spettacolo si scopre contagiato dalle dinamiche relazionali dei performer, pur restando escluso dall’imprecisata forma di complicità che li lega sotto il segno di una sconfinata e irragionevole gaiezza.
Quello che investe i performer di Augusto è un ridere teso al parossismo, immotivato. Non è generato dall’ortopedia del comico. A dispetto del titolo, nessuna gag, entrée clownesque, acrobazia, capriola volutamente malriuscita, ha luogo in questa compagine. Augusto, il clown rosso, il fool, la figura impacciata, irriverente e disgraziata che contesta e ribalta l’ostentata fierezza e la severa eleganza del clown bianco, è convocato, sebbene espunto dalla scena, come l’evocazione di un fantasma. Se il clown in quanto re derisorio “è il rivelatore che porta la condizione umana fino all’amara coscienza di se stessa”29, Augusto suggerisce la presenza di una qualche forma di sedizione all’opera sotto la patina gioiosa della performance. Il vibrare all’unisono di contentezza dei performer, nella durata, rivela un lato sinistro e perturbante: la coazione a ridere di fronte a una donna schiaffeggiata o a un pianto irrefrenabile rivelano che la macchina dell’ilarità, lanciata in una corsa obbligata e irreprensibile, non prevede frenate di salvataggio né interruzioni. È una pura coazione a ripetere. Vede nel giusto Alessandro Iachino quando suggerisce che
Augusto, con il suo ambivalente nitore, sfida e sconvolge l’osservatore ben più di qualsiasi approccio cronachistico o documentario: non c’è logica né realismo nel circo che Sciarroni mette in scena, quanto il precipitato estetico e performativo di una visione etica, laica, civica, della realtà e della società. Un’umanità sfigurata dal riso, anestetizzata da una gioia forzata: ma verso la quale percepiamo, con una complicità altrettanto confusa, un’adesione istintiva30.
Una delle principali ingiunzioni, che sembra guidare oggi la vita sociale, è il dovere di essere felici. «La riflessione porta a concludere – sostiene Walter Benjamin nelle sue Tesi di filosofia della storia – che l’idea della felicità che possiamo coltivare è tutta tinta del tempo a cui ci ha assegnato, una volta per tutte, il corso della nostra vita»31. Tra gli assunti che attraversano The Odd One In: On Comedy, innovativa traiettoria teorica sul comico, Alenka Zupančič rivela che la nozione di felicità elaborata nella società contemporanea è dominata dall’istanza secondo cui per avere successo non è sufficiente svolgere in modo efficace le proprie mansioni all’interno della macchina neocapitalista, ma è necessario anche esserne felici. L’infelicità è percepita come un difetto nella struttura dell’individuo tale da diventare una barriera alla propria affermazione. La studiosa afferma con decisione:
Negatività, mancanza, insoddisfazione, infelicità, sono sempre più percepiti come difetti morali, peggio ancora come una corruzione a livello dell’essere o della nuda vita. C’è un aumento spettacolare di quella che potremmo definire bio-moralità (o piuttosto moralità dei sentimenti e delle emozioni), che promuove il seguente fondamentale assioma: una persona che sta bene (ed è felice) è una brava persona; una persona che sta male è una cattiva persona. È questo cortocircuito tra emozioni/sensazioni e il valore morale a conferire il tono specifico alla retorica ideologica contemporanea della felicità32.
Le attuali barriere tra felicità e infelicità – per Zupančič – stanno creando steccati, forme di «razzizzazione»33 (racization) in cui proliferano (nuove) razze basate su fattori e differenze economiche, politiche e di classe. Vere e proprie forme di segregazione, basate su queste differenze, stanno sostituendo le concezioni biologiche e culturali tradizionali della razza.
Sono posizioni che fanno sponda con le riflessioni di The Promise of Happiness34, in cui Sara Ahmed muove una critica serrata contro l’intrinseca bontà attribuita alla nozione di felicità. Nel clima ideologico contemporaneo, l’essere felici è diventato un impositivo che agisce come una stenosi normalizzante, che oscura la possibilità di diversi modi di essere nel mondo. Ecco l’ambivalente bruciante nodo che Augusto riesce a toccare: il fossato che si scava tra la promessa insistente e coatta al dovere di essere felici e la sensazione che effettivamente proviamo nelle vicende della vita. È la perturbante convivenza di due istanze, l’una maschera dell’altra, che vede la solidale complicità del ridere rivelarsi nella piega traumatica di una coazione senza tregua. Ad essa, senza fatica, possiamo associare l’attitudine – più vicina a un’intimazione – a percepire tutte le cose che ci accadono, anche quelle terribili, come qualcosa di necessariamente positivo. Ne stiamo facendo esperienza in questi giorni di segregazione domestica dettati dalle misure antiCovid-19: l’“andrà tutto bene” non è forse un’ingiunzione che ci persuade a vivere questo momento come fosse un’esperienza preziosa che porterà “senza dubbio” frutti nella nostra vita futura? Si tratta in realtà, per Amhed, dell’ennesimo tassello, eclatante, che si unisce alle narrazioni edulcorate della famiglia felice, del lavoratore felice, del cittadino felice, vale a dire un perno che un restringimento degli orizzonti immaginativi che precludono diverse forme di vita.
«I like to laugh. I laugh often. I am often seen laughing»
È memorabile il caso dell’imitatore di voci originario di Oxford ritratto con piglio di divertita precisione e neutralità da Thomas Bernhard nelle sue scritture brevi devote a uno stile cronachistico35. Si racconta che il virtuoso imitatore di voci, dopo aver intrattenuto gli ospiti della Società di Chirurgia al Palazzo Pallavicini di Vienna e deliziato con la «massima premura» gli astanti sul Kahlenberg, sorprendentemente si dichiarò incapace di poter chiudere il programma imitando «la propria voce». Qualcosa senza dubbio inquieta in questa appuntita e “umoristica” prosa breve, e non è solo l’effetto paradossale prodotto dal corto-circuito tra l’assurdità dell’affermazione e la piana apoditticità della pronuncia. Ciò che produce una vertigine del pensiero è che tale impossibilità (imitare la propria stessa voce) scredita ciò che comunamente è inteso come il suo proprium, vale a dire l’essere espressione e marca singolare d’unicità che ci differenzia gli uni dagli altri. Il racconto si interrompe con decisione al culmine di un paradosso gravido di conseguenze. Si allude forse al fatto che l’impronta vocale (voiceprint) nella pratica dell’imitazione sia a tal punto (con)fusa con le pronunce dell’altro, da aver perduto la propria singolare fisionomia? Cosa accade esattamente nell’atto di imitare la voce altrui? Che specchi e riverberi acustici e corporei si attivano in quell’atto di incorporazione?
Il racconto suggerisce che la voce che imita, non più in grado di esprimere la profondità della soggettività umana del parlante, nella sua duplicazione sembra implicare una paradossalità non dissimile da quella del ventriloquio: si allude a una rottura con il proprio supporto corporeo, pur continuando (l’imitare) ad essere un accadimento della/nella bocca che convoca i recessi del corpo, stati muscolari e viscerali. Questa faglia, come nel ventriloquio, palesa e rende tangibile la condizione inesorabile e traumatica d’essere parassitati dal discorso, allarmando al contempo lo statuto identitario del parlante36. Ci ricorda Mladen Dolar, nel suo imprescindibile saggio La Voce del Padrone, che in ogni pronuncia la voce non è mai semplicemente del soggetto che la emette, il suo carattere dispersivo – che con Guy Rosolato possiamo chiamare “emanativo”37 – rivela sempre un minimo effetto di ventriloquio, in cui «non sono tanto io che parlo, quanto piuttosto sono detto da una voce che parla dentro e attraverso di me»38.
Questo racconto e le complessità che alimenta sono istruttive nell’affrontare l’autoritratto ideato dalla coreografa, performer e filmmaker tedesca Antonia Baehr. Interessata a indagare “cosa può un corpo” nell’atto di ridere, l’artista – nel biennio di residenza ai Laboratoires d’Aubervilliers di Parigi (2006-2008) – compie un percorso di ricerca che la conduce alla performance Rire (2008)39. Antonia, a detta di amici e familiari, «è quella che ride». Ma questo tratto singolare della sua personalità è messo alla prova attraverso le riflessioni multiple del ridere altrui.
In scena vestita/o in abito da uomo e cravatta, scarpe di vernice, partitura alla mano, Baehr appare in uno spazio ridotto all’essenziale: una sedia e un leggio. Un didascalico annuncio, severo ma non freddo, per presentarsi con un nome di invenzione40, e informare circa l’occasione e la struttura del proprio “autoritratto”41 compiuto attraverso gli occhi degli altri. Rire – il titolo proiettato sul fondale nero – è suddiviso in due parti con interludio. L’interprete riferisce di aver chiesto in dono a familiari e amici per il suo ultimo compleanno delle «partition pour mon rire». Parte dei materiali raccolti costituiscono lo spartito della performance che si configura come un esperimento tra coreografia e ricerca vocale (musicale)42.
Ridere Rire Laugh Lachen
Antonia Baehr, seduta davanti al leggio, dà avvio alla partitura: è l’esecuzione delle risate che le sono state consegnate in precedenza. I nomi dei donatari, ciascuno per ogni segmento vocalico, sono proiettati sul fondale. A una sequenza di Ah! Ah! Ah!, a intervalli irregolari con la bocca appena aperta, che descrive un gesto gutturale e ricorsivo, succede un ridere ingolato, marcato dalla contrazione gioiosa dei muscoli facciali. Una concatenazione di Ih! Ih! Ih! ritmati spingono il suono in testa, e riecheggiano poi, a bocca chiusa, in maschera con un tratto nasale, segue un ridere quasi soffocato, infine sottilissimo e appena sussultorio, che investe le spalle, più simile a una forma di dispnea. Un gradasso e derisorio Oh! Oh! Oh! mette in vibrazione visibile la gorgia e piega verso un ilare, persino snobìstico, risolino a fil di bocca con gli zigomi fortemente corrugati. Batte il tempo con il piede in modo quasi impercettibile. Di seguito, un aperto sghignazzare, con l’arcata dentale e le gengive a vista, è accompagnato dalla spinta contrazione dei muscoli intorno alle labbra senza impegnare il busto. Più simile a un grido acuto, uno spregiudicato Ooooh! Aaaah! Ooooh!, chiaramente canzonatorio impenna in uno sfacciato Uh! Uh! Uh!, fortemente intriso di respiro.
Baehr isola, con precisa fermezza, ogni singola esecuzione dello spartito, che ha sotto gli occhi, da quella successiva, inserendo una piccola pausa durante la quale torna a una condizione neutra. In piedi, non più rivolta al leggio, indossa delle cuffiette e attiva un piccolo iPod. Segue la riproduzione mimetica di una risata marcatamente maschile in cui il suono si manifesta insieme a piccole scariche di aria pressurizzata. Le brevi sequenze sembrano essere la punteggiatura di una conversazione, la cui completa articolazione è preclusa allo spettatore. Queste probabili marcature di frasi si palesano, come scoppi improvvisi tra intervalli di silenzio, in quello che appare infine un canto discontinuo, accompagnato da movimenti circolari della testa. Baehr, serissima, mette via le cuffie e si inchina. Applausi. Di tanto in tanto, concluso un segmento di partitura, la performer si alza e fa un inchino, esattamente come accade in sede concertistica quando alla fine di un’aria più o meno famosa, per slentare temporaneamente la tensione esecutiva e preparare quella successiva, ci si ferma in cerca dell’applauso.
Voltata pagina dello spartito, l’emissione raggiunge frequenze vertiginose come fosse la risposta riflessa a un gas esilarante o all’inalazione di elio. La pronuncia assume un timbro artificiale, il ridere si fa psichedelico, puntellato da sonori respiri di rilascio. Si tratta di un vero e proprio doppiaggio in cui Baehr labia una risata (precedentemente registrata e poi acusticamente manipolata). La schisi tra l’articolazione mandibolare, che il ridere convoca, e la fuoruscita effettiva del suono è una trappola percettiva per lo spettatore. Quando la performer sospende, d’improvviso, di simulare il suo ridere muto, interrompendo la coerente riproduzione di movimenti corporeo-facciali, oramai a bocca chiusa, viene svelata agli astanti che l’effettiva sorgente dell’emissione è altrove.
Dopo una sequenza di risate in cui il suono aumenta, si fraziona e diminuisce nel passaggio dall’una alla successiva, in modo incostante e puntellata da colpi di glottide, viene eseguito un vero e proprio solfeggio in cui la pronuncia della nota è sostituita con il nucleo germinativo e onomatopeico della risata: “Ah!”. L’emissione è sostenuta da una certa consistenza vocale e da una controllata quantità di fiato. Questa segmentazione dell’unità distintiva della risata, variata in base al metro scelto, è ripetuta a ogni battuta e accompagnata dal movimento della mano, tipico della lettura musicale. Da uno schema ritmico regolare, il solfeggio via via accoglie sincopi e ritmi irregolari, tatuando la fonazione con risolini isterici, colpi di tosse e con l’aggiunta, a fine serie, di una linguaccia senza intenzione. Come in preda a una convulsione asmatica, il gesto del braccio ormai asincrono non segue più il vocale, sganciando la risata dai tempi forti della battuta, ratificando l’atto di dirigere il proprio stesso riso come una pratica insulsa. Inchino. Applauso. Buio.
Rimossi leggio, spartito e sedia, in piedi, inizia il secondo movimento della performance. Da un box nero vengono prelevate, di volta in volta, delle palline di diverso peso e consistenza. A ogni rimbalzo Baehr fa corrispondere un colpo di risata, la cui ricorsività si assesta e sintonizza con ogni impatto sul pavimento, così che l’andamento della risata venga determinato – con una precisa allusione alla musica aleatoria – da una metrica decisa dal caso. Al rimbalzo pesante di una palla da tennis corrisponde la voce di un basso; diversa è la mimesi, tutta in levare e carica di fiato, dei colpi brevissimi e ripetuti di una pallina da pingpong che scivolando sul pavimento è inseguita da un leggero rantolo. Lo schema metronimico dei rimbalzi – accompagnato dal movimento sobbalzante della testa – si complica quando le palline sono due e con diseguali comportamenti: il compito è quello di seguire le indicazioni ritmiche di entrambe, sdoppiando il suono in un’esecuzione virtuosa. Chiude la partizione, in modo esilarante, la caduta di una palla che non rimbalza, collimando con una singola acuta esplosione sonora.
La catena successiva rende visibile l’investimento corporeo complessivo del ridere: si tratta di mettere in primo piano non solo le reazioni fisiologiche dettate dalla sintonia tra meccanica respiratoria e muscolare; non solo la sollecitazione delle strutture organiche che investono contrazione e decontrazione del diaframma, chiusura e apertura dell’epiglottide, la vibrazione delle corde vocali, i movimenti sussultori di ventre, busto e le spalle, ma anche tutti quei comportamenti concreti, più o meno minimali, quei tic associati al ridere quando è al massimo grado d’intensità. È dunque l’articolarsi di una sequenza di schiaffi ripetuti sulle cosce, di mani appoggiate sulla testa, di passetti instabili sul posto, del piegamento in avanti del tronco, della flessione delle gambe fino all’altezza delle ginocchia, gesto che rende visibile la reazione fisiologica che coinvolge gli sfinteri, segnalando il rischio vero – da tutti sperimentato almeno una volta – di “pisciarsi addosso dal ridere”.
L’acme drammatico è raggiunto nel passaggio in cui, abbassata la luminosità dello spazio scenico in modo da aureolare la figura con un caldo controluce che oscura il volto, Baehr emette un suono ingolando l’aria come in uno spasmo asmatico. È il ritmo serrato in cui si rinnova la parentela tra riso e pianto, ilarità e angoscia. La scomparsa dell’oggetto della visione (il viso) enfatizza la dimensione acustica dell’evento, chiedendo allo spettatore una sintonizzazione affettiva basata principalmente sull’ascolto che registra e rilascia la portata drammatica del momento. Luce, inchino. Applauso.
L’ultimo blocco esecutivo prevede l’ingresso di una lente quadrangolare, un piccolo schermo di vetro all’altezza del volto. Oscillando avanti e indietro, sformalizza e aumenta in senso caricaturale43 alcuni tratti del viso come la bocca, rendendo ancora più evidente il mouthing44 in gioco nella risata. Con il suono spinto nel naso, Baehr emette un riso simile al ragliare di un asino, poi, in arsi, allo starnazzare di una gallina a cui aggiunge il movimento mimetico delle mani come omologhi delle ali del volatile. Dopo un intermezzo a denti serrati, in cui il suono vibra fortemente in bocca, è la volta di un’emissione che rimanda alle acute vocalizzazioni di una iena ridens, tipico suono baritono associato a stati di paura o eccitazione. L’oscillazione continua della testa, che asseconda o si contrappone al pendolo di vetro, genera un che di claustrofobico, al punto in cui il ridere – forma di vocalizzazione distintiva e stereotipata, segnale uditivo inconfondibile proprio dell’esperienza umana45 – si produce sonoramente in un progressivo «divenire animale»46. Le vocalizzazioni stratificate in loop accolgono infine una molteplicità di tracce preregistrate legate in un crescendo compiutamente musicale. Stop improvviso, inchino.
In conclusione, una glossa. Una proiezione di scritte e un audio instradano, non senza una certa dose di ironia, lo spettatore verso l’occasione che ha dato avvio alla ricerca su cui si fonda la performance: è la registrazione di una bizzarra confessione della madre, estorta nel suo giardino mentre un cuculo canta sull’albero. La donna esclude, senza timore di incorrere in errore, che Antonia possa essere capace di ridere a comando e che tali risate coatte possano essere contagiose. Rire si ferma su un’asserzione ampiamente smentita dai fatti: nel suo corso in effetti si esperisce esattamente in contrario, vale a dire l’incontenibile e scomposto ridere degli spettatori che a riprese e in gruppo uguagliano, rifrangono, incorniciano, gareggiano con la strutturata esecuzione di risate della performer.
Prossimità empatica
Rire è il terzo atto di una trilogia sulle emozioni, iniziata con lo spettacolo Holding Hands (2000), in cui Antonia Baehr e William Wheeler si presentano come un unico organismo simbiotico con due diverse personalità, attraverso il quale è possibile confrontarsi con una tavolozza di emozioni da cui è rimosso ogni intento narrativo; secondo momento è l’indagine condotta con Un après-midi (2003), performance centrata sul setting del dialogo, in cui quattro interpreti femminili, invitate a mostrarsi in attitudine drag king, compongono una sintassi di gesti dettati da comandi che mettono a lavoro il nesso esistente tra esecuzione di un’istruzione, embodiment, demistificazione47. Si tratta di casi in cui l’assetto logico della relazione, liberato da una precisa referenza motivazionale o di contesto, non è solo lasciato fuori campo, ma intenzionalmente sottratto. Attraversate da una comune corrente d’anomalia, determinata da una serie di istruzioni senza contenuto, le tre performance possono essere intese come tre diversi «modi di performare uno spartito»48. È la tesi sostenuta da Xavier Le Roy nella conversazione-analisi con la coreografa pubblicata nel libro-archivio Rire Laugh Lachen (2008). Concepito come un manuale di istruzioni, questo catalogo è uno strumento utilissimo per comprendere a pieno il lavoro drammaturgico-musicale che sottende la ricerca di Rire, contiene infatti gli spartiti e gli esercizi per ridere dai quali sono scaturiti i materiali performativi, una volta selezionati.
Viste nel loro insieme i tre lavori appaiono centrati sull’idea di isolare alcune precise dinamiche dell’emozione, una volta scollegate da referenze narrative. Sprovviste di un esplicito nesso causale, di implicazioni psicologiche o etiche, le azioni previste da questa suite di risate rappresentano l’occasione per investigare non solo la meccanica della risata e le sue componenti fisiologiche, non tanto il riso nelle sue varie forme (yogica, da commedia, personale, sociale49), quanto piuttosto la sua natura espressiva capace di designare un proprio «spazio vocalico»50 e una propria logica d’ascolto51. L’artista si dichiara disinteressata alla creazione di un pezzo comico, e non potrebbe essere più lucida quando argomenta: «Nelle commedie gli attori sul palcoscenico non ridono. Essi provocano il ridere, il loro scopo è far ridere le persone. Per me funziona l’opposto: io sono sul palcoscenico e rido, e non cerco necessariamente di far ridere, o non solo. Piuttosto sto provando ad autorizzare una ricezione multidimensionale dello spettacolo»52.
È evidente che l’orchestrazione di risate sia strutturata come un concerto da camera: ne sono convalida il rigore esecutivo, la fisicità minimale e controllata dell’interprete, la presenza di spartiti concepiti con ossequio alla durata delle note, all’intervallo che si spazia tra esse, agli accenti in battuta, alla scansione ritmica, contemplando decrescendo, simmetria temporale e regolarità, tutti aspetti che contribuiscono al suono caratteristico del ridere53.
Ma Rire mira anche a riconoscere a questa partitura ritmico-corporeo una natura interamente coreografica, capace di estendere i confini del danzabile. La corrente interna al corpo e lo scoppio eruttivo del ridere occupano cioè uno spazio, regolato esteticamente, che mette in vibrazione transitabile profondità e superficie attraverso la sintonizzazione intima con una sequenza di movimenti passata al vaglio della composizione: le risate agiscono cioè come «il movimento coreografico di un’emozione»54. Le emozioni che «sono pratiche culturali e non stati psicologici», vissuti dal corpo e negoziati nella sfera pubblica, «non sono né individuali né sociali, ma producono la superficie e le frontiere che permettono di delineare l’individuale e il sociale come se fossero oggetti» che prendono forma come «effetti di circolazione»55. Nell’elaborare la sua sociologia dell’emozione, Sara Ahmed, con approccio multidisciplinare, smentisce il pensiero comune che relega le emozioni a processi molto interni e individualistici, basate sull’assunto per cui ciò che “si sente” non può essere trasmesso con precisione ad altri, e opera per comprendere come esse siano intrinsecamente legate a cultura e potere. Indagando cosa «fanno e come circolano», piuttosto che interrogarsi su cosa sono, la studiosa suggerisce che le emozioni non possono essere intese se slegate dal concetto di relazione: non sono semplicemente qualcosa che “io” o “noi” possediamo, ma sono il modo attraverso cui rispondiamo agli oggetti e agli altri, giacché “io” e “noi” sono modellati e prendono forma dal contatto con gli altri56.
È questo con-tatto la vera posta in gioco in Rire, in cui la risposta empatica degli spettatori fa sì che essi «diventino consapevoli di ciò che sta accadendo nei loro corpi e nei loro volti»57. Baehr parla, non a caso, di una funzione «contaminante» e «nomadica» del ridere: la concatenazione di riverberi implicati dall’effetto di contagio attiva una rinnovata permeabilità tra il corpo del performer e quello dello spettatore.
Il neurologo statunitense Robert B. Provine, tra i maggiori scienziati del ridere, riconosce nel potenziale contagioso una delle notevoli proprietà del riso umano58. Quel comportamento che si diffonde attraverso un gruppo in una reazione a catena (anche quando non è il prodotto di una situazione comica), è «la prova di un modo unico e antico di comunicazione uditiva prelinguistica» secondo cui «le risate sono probabilmente i resti di un processo di sincronizzazione sociale automatica che precede la lingua»59 lì dove è attivo, cioè un «processo in gran parte inconscio del dominio affettivo»60 che pertiene all’empatia. La conferma che anche il ridere a comando possa stimolare altro ridere, consente di comprendere la situazione paradossale e insolubile per lo spettatore di Rire che desidera, da un lato rimanere in silenzio perché gli altri possano ascoltare, e dall’altro non riuscire a reprimere le proprie reazioni sonore.
A partire dalla sua drag identity, Baehr assume diverse posture che surclassano la dialettica di genere confermata nella coppia binaria maschile/femminile, e pone in gioco una corporeità «trans-individuale»61 nella quale scorrono, a differenti velocità, flussi d’intensità e molteplicità che diventano per performer e spettatore soglie di possibilità. L’esecuzione delle risate altrui, la loro “imitazione”62 – che veicola altrettante strutture di potere immanenti alla rappresentazione –, si compie per atti di incorporazione. Altissimo ascolto e disposizione alla risonanza si dispongono ad accogliere flussi impersonali, una miriade di microsoggettività umorali che sfuggono alla macchina dell’identità. L’idea paradossale di comporre un autoritratto non centrato sull’io, ma rifratto sui saperi incarnati della differenza, è dunque per Antonia Baehr l’attivazione di precisa istanza sociopolitica. E lì che qualcosa di sovversivo può apparire. La performance è dunque un dispositivo emotivo che reinventa i limiti del musicabile e del danzabile attraverso un corpo mutevole, permeabile, queer, che si dispone, nella sua immanenza radicale, alla mutua contaminazione di spazi esperienziali segnati da «prossimità empatica» e «interconnettività intensiva»63.
Il presente saggio rappresenta il primo nucleo di un’indagine sul gesto sonoro-espressivo-coreografico della risata all’interno del panorama performativo contemporaneo. Va inteso come nodo di riflessioni, in corso di sistematizzazione, di un più ampio studio dedicato agli “usi” della voce nelle performing arts. Solo parzialmente in questa sede sono state declinate le connessioni con il comico, qui convocate piuttosto come una tramatura di fondo, e con il regime commedico, essenziali a una corretta ricostruzione genealogica della funzione performativa della risata.
- H. Plessner, [1982] Il riso e il pianto. Una ricerca sui limiti del comportamento umano, a cura di V. Rasini, Bompiani, Milano 2007, pp. 51-52. ↩
- J.-L. Nancy, Wild Laughter in the Throat of Death, in MLN, Vol. 102, n. 4, 1987, p. 736. ↩
- E. Dupréel, (1928) Le Problème sociologique du rire, L’Harmattan, Paris 2012. ↩
- H. Bergson, Il riso. Saggio sul significato del comico, trad. it F. Sossi, Feltrinelli, Milano 1990. ↩
- M. Bachtin, Estetica e Romanzo, trad. it. Einaudi, Torino 1979; I.d., L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Einaudi, Torino 1979. ↩
- Cicerone, De ridiculis, in De oratore (216-290), trad. it. Opere in retoriche, Unicopoli, 1976. ↩
- Cfr. S. Freud, [1905] Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, Newton Compton, Roma 1976. ↩
- J.-L. Nancy, The Birth to Presence, Stanford University Press, Stanford California 1993, p. 384. ↩
- J.-L. Nancy, Wild Laughter in the Throat of Death, in MLN, Vol. 102, n. 4, 1987, p. 736. ↩
- Sam Taylor-Wood, Hysteria, 16 mm color film transferred to digital video, 8 min in loop (1997). ↩
- B. LaBelle, Lexicon of the Mouth. Poetics and Politics of Voice and the Oral Imaginary, Bloomsbury Academic, New York/London 2014, p. 115. ↩
- L’opera è ispirata dalle conversazioni notturne che l’artista ha avuto con un’amica in sofferenza per il lutto della sorella, morta a causa del cancro. Nella sua confusione emotiva, ci sono alternativamente riso e pianto. ↩
- M. Dolar, La voce del padrone. Una teoria della voce tra arte, politica e psicanalisi, a cura di L.F. Clemente, Orthotes, Napoli 2014, p. 82. ↩
- M. Chion, La voix au cinéma, Cahiers du Cinéma/Editions de l’Etoile, Paris 1982, p. 20. Riferendosi agli albori del Cinema, Chion sostiene che l’espressione cinéma muet [cinema muto], con il quale si intende l’incapacità di produrre voce, vada più correttamente sostituita da cinéma sourd [cinema sordo] dato che i corpi sullo schermo, raffigurati come parlanti, producono una voce che non si sente. ↩
- La dimensione silenziata e il cortocircuito prodotto dal titolo convocano gli estremi sonori sintomatici dell’isteria: la perdita della voce (comprese disfonia, afonia e afasia) e il suono di attacchi convulsici, eiaculazioni vocali irrefrenabili (gemiti, pianti, mormorii, urla), aspetti che qui non indaghiamo limitandoci a rimandare ad alcuni importanti contributi su voce e isteria, voce e forme della possessione: K. Silverman, The Acoustic Mirror: The Famele Voice in Psychanalysis and Cinema, Indiana University Press, Bloomington-Indianapolis 1988; Janet Beizer, Ventriloquized Bodies: Narratives of Hysteria, Cornell University Press, Ithaca 1994; M. De Certeau, Il linguaggio alterato. La parola della posseduta, in La scrittura dell’altro, a cura di S. Borutti, Raffaello Cortina Editore, Milano 2005, pp. 67-94. ↩
- M. Hardt, Foreword: What Aspects are Good For, P. Ticineto Clough, J. Halley (a cura di), The Affective Turn: Theorizing the Social, Duke University Press, 2007, xi. ↩
- Cfr. D. Andersson, M. Edvardsen, M. Spangberg (a cura di), Post-Dance, MDT, Stockholm 2017. ↩
- M. Spångberg, Something like a Phenomenon, in «Frakcija. Performing Arts Magazine» 24/25, 2002, p. 35. ↩
- Nel quadro di Moves Without Borders, oltre a One Single Action: Laughing, Meg Stuart ha proposto, inoltre, un workshop (a Bat Yam) e la performance An Evening of Solo Works (a Jeffa). ↩
- Oltre alla sequenza di risate della durata di un’ora, One Single Action: Laughing in Israele ha previsto una sessione di 30 minuti di silenzio in cui ascoltare il proprio corpo, seguita da una discussione collettiva sull’esperienza appena vissuta. ↩
- Note di invito e presentazione a One Single Action: Laughing (foglio di sala). ↩
- Ibidem. ↩
- J. Joy, The Choreographic, The MIT Press, Cambridge MA 2014, p. 89. ↩
- M. de Certeau, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma 2005. ↩
- Sull’impiego del cartone cfr. A. Lepecki, Exhausting Dance: Performance and the Politics of Movement, Routledge, London 2006, pp. 81-84. ↩
- Lo stesso può dirsi per altre posture corporee presenti che alludono alla grammatica della clownerie. ↩
- H. Bergson, Il riso, op. cit., p. 17. ↩
- J. Joy, The Choreographic, op. cit., p. 77. ↩
- J. Starobinski, Ritratto dell’artista da saltimbanco, a cura di C. Bologna, Einaudi, Torino 1984, p. 122. ↩
- A. Iachino, Alessandro Sciarroni. Il riso perturbante di Augusto, in «Teatro e Critica», 9 Luglio 2019, www. teatroecritica.net/2019/07/alessandro-sciarroni-il-riso-perturbante-di-augusto/ Si rimanda al testo anche per la dettagliata analisi della sequenza coreografica che qui non ripercorriamo nel dettaglio. ↩
- W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e Frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 1995, p. 75. ↩
- A. Zupančič, The Odd One In: On Comedy, Cambridge, MIT Press, MA 2009, p. 5. ↩
- Ivi., p. 6. ↩
- S. Ahmed, The Promise of Happiness, Duke University Press, Durham and London 2010. ↩
- T. Bernhard, L’imitatore di voci, trad. it. E. Bernardi, Adelphi, Milano 2009, p. 12. ↩
- P. Di Matteo, Teatro e voce (dis)incorporata, in M. Bonazzi, C. Serra, S. Vizzardelli (a cura di), Voce. Un incontro tra filosofia e psicoanalisi, Mimesis, Milano 2019, pp. 165-174. ↩
- G. Rosolato, La voce: tra corpo e linguaggio, a cura di P. Di Matteo, trad. it. A. Riponi, in «Sciami|ricerche», n. 3, Aprile 2018: webzine.sciami.com/la-voce-tra-corpo-e-linguaggio/; originariamente pubblicato in: «Revue française de psychanalyse», Parigi, 1974, pp. 76-94. ↩
- “My voice is never simply my own, but there is always, as you note, a ‘minimum of ventriloquism’; it is not so much I who speaks, but rather I am spoken, the voice speaks in and through me” in A. Schuster (a cura di), Everyone is a Ventriloquist. An Interview with Mladen Dolar, originarimante in metropolism.com/magazine/2009-no2/everyone-is-a-ventriloquist/ ora in vanishingmediator.blogspot.com/2012/02/everyone-is-ventriloquist.html; cfr. anche M. Dolar, La voce del padrone. Una teoria della voce tra arte, politica e psicanalisi, a cura di L.F. Clemente, Orthotes, Napoli 2014, pp. 85-86. ↩
- Rire Laugh Lachen di e con Antonia Baehr, Les Laboratoires d’Aubervilliers, Parigi 10 e 11 aprile 2008. ↩
- A seconda della peculiarità del progetto, Baehr assume diverse transidentità associate alle competenze artistiche dei suoi transiti identitari: Werner Hirsch danzatore, Henri Fleur musicista e coreografo, Henry Wilt compositore, e Henry Wilde ex-marito e aspirante compositore di New Music. Queste figure, intese come “esercizi della differenza”, esemplificano il suo costante lavoro sull’identità di genere. ↩
- L’annuncio vocale corrobora quanto è possibile leggere sul foglio di sala dello spettacolo che recita “Mi piace ridere, lo faccio spesso. Mi si vede spesso ridere. Antonia Baehr stava seduta alla finestra nel suo appartamento berlinese, piccolo ma elegante, assorta in un dialogo esistenziale con se stessa, o per dirla con più esattezza, con uno dei suoi io. Passandosi la mano tra i capelli castani dal taglio maschile un po’ stempiato, si chiedeva: se mi vedessi tra un gruppo di altri personaggi eleganti, come mi descriverei? Quella con i capelli castani? Quella ben vestita? Quella con i baffi che fuma la pipa? No, si disse, soffiando una boccata di fumo verso il soffitto. No. Mi descriverei come quella che ride, quella che si vede spesso ridere”. ↩
- Questo esperimento tra coreografia e ricerca musicale che si manifesta come esecuzione gestuale di uno spartito instaura una consonanza con la ricerca frutto della collaborazione più che decennale tra il compositore Matteo Fargion e il coreografo Jonathan Burrows, in particolare con la suite «per mani e braccia» Both Sitting Duet, composizione musicale per esecuzione corporea della classica partitura For John Cage di Morton Feldman; cfr. J. Burrows, Choreographer’s Handbook, Routledge, London-New York 2010; e anche il recente, D. Perazzo Domm, Jonathan Burrows. Towards a Minor Dance, Palgrave, London 2019. ↩
- Cfr. C. Baudelaire, Dell’essenza del riso e in generale del comico nelle arti plastiche, in trad. it. G. Guglielmi e E. Raimondi, Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 2004, pp. 139-155. ↩
- Per «mouthing», parola intraducibile in italiano, Brandon LaBella, intende tutta una estesa gamma di movimenti, azioni, (dis)articolazioni, gesti orale-buccali della bocca, cavità mobile e canale vitale da intendersi come palcoscenico (stage) con precise valenze estetiche, in cui primariamente si mettono in stato di negoziazione la profondità del corpo e il mondo, cfr. B. LaBelle, Lexicon of the Mouth, op. cit., p. 7-9. ↩
- R.R. Provine e Y.L. Yong, Laughter: A Stereotyped Human Vocalization, in «Ethology», 89(2), 1991, pp. 115-124. ↩
- La dimensione deleuziana del «divenire-animale» può essere analizzata come un tratto distintivo di altre performance di Baehr in particolare: la “sonic lecture-performance” My Dog is My Piano (2012), Abecedarium Bestiarium: Portraits of Affinities in Animal Metaphors (2013) in cui dispiega una articolazione di rimandi, dalle favole di La Fontaine alla fisiognomica zoologica o alla “animal drag”. ↩
- Cfr. P. Sabisch, Solo for reading bodies, in «Frakcija. Performing Arts Magazine», Vol. 36, Summer 2005, pp. 126-137. ↩
- X. Le Roy, Entretien/Interview, in A. Baehr (a cura di), Rire Laugh Lachen, L’œil d’or & Les Laboratoires d’Aubervilliers, Parigi 2008, p. 80; la stesura integrale dell’intervista oggi anche su sarma.be/docs/2945 ↩
- Cfr. nota 22 in Joy J., The Choreographic, The MIT Press, Cambridge MA 2014, p. 82. ↩
- S. Connor, La voce come medium. Storia culturale del ventriloquio, Sossella Editore, Roma 2007, p. 28. ↩
- Vale la pena ricordare che in occasione della rassegna Art Fall 2010, curato da Silvia Fanti, Ferrara contemporanea/Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara e Xing hanno prodotto un vinile di Antonia Baehr a tiratura limitata (300 copie) contenente due Studi in miniatura di linguistica corporea che raccoglie delle suite di risate. ↩
- A. Baehr, Entretien/Interview, in Rire Laugh Lachen, op. cit., p. 87 (corsivo nostro). ↩
- R.R. Provine e Y.L. Yong, Laughter: A Stereotyped Human Vocalization, op. cit., p. 115-124. ↩
- A. Baehr, Entretien/Interview, in Rire Laugh Lachen, op. cit., p. 95. ↩
- S. Ahmed, The Cultural Politics of Emotion, Edinburgh University Press, Edinburgh 2007, p. 10. ↩
- Ibidem. ↩
- A. Baehr, Entretien/Interview, in Rire Laugh Lachen, op. cit., p. 93. ↩
- Il potere delle risate contagiose è tale da manifestarsi persino in forma epidemica: una vera epidemia di risate è documentata tra le ragazze dai 12 ai 18 anni in un collegio a Tanganyika, poi diffusasi nel the distretto di Bukoba, richiedendo la chiusura delle scuole, cfr. A. M. Rankin e P.J. Philip, An Epidemic of Laughing in the Bukoba District of Tanganyika, in «Central African Journal of Medicine, n. 9, 1963, pp. 167-170. ↩
- R. R. Provine, Contagious Laughter: Laughter is a sufficient stimulus for laughs and smiles, Bulletin of the Psychonomic Society, 30 (1), 1992, pp. 1-4; cfr. Id., Curious Behavior: Yawning, Laughing, Hiccupping, and Beyond, Belknap Press (Harvard University Press), Cambridge, MA 2012. ↩
- Ibidem. ↩
- Cfr. E. Balibar e V. Morfino (a cura di), Il transindividuale. Soggetti, relazioni, mutazioni, Mimesis, Milano-Udine 2014. ↩
- Oltre a raccogliere le partiture di parenti e amici, Antonia promuove laboratori dove praticare il ridere, per scoprirne le dinamiche di gruppo, in una sorta di apprendimento collettivo la dimensione imitativa era stata sviluppata anche attraverso il video per verificare il tipo di contagio che si attivava, cfr. A. Baehr, Entretien/Interview, in Rire Laugh Lachen, op. cit., pp. 83-84. ↩
- R. Braidotti, In metamorfosi: verso una teoria materialista del divenire, Feltrinelli, Milano 2003, p. 17. ↩