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n. 7 - aprile 20, Teatro

Il corpo tra resistenza, forma e relazione

Appunti sull’immaginario sportivo nelle pratiche performative italiane

per citare questo articolo usa

https://doi.org/10.47109/0102270103

Cesare Pietroiusti, Giro di campo (o giro della morte), 2002. Foto di Giacomo Marcucci (courtesy dell’artista)

ABSTRACT

Il testo considera alcuni esempi di performance art italiani in cui lo sport gioca un ruolo essenziale, soprattutto negli ultimi trent'anni. Rispetto al corpo isolato dell’artista che ricorre negli anni Settanta, negli ultimi decenni l’attività sportiva viene impiegata nell’arte d’azione in maniera fortemente metaforica di certi modelli culturali egemoni per lo più maschili, oppure come dispositivo collettivo attraverso il quale sviare i principi della competitività e dello scontro in direzione della collaborazione.

Le happening n’est ni une théorie irréfutable, ni un système infaillible, se seuls critères sont subjectifs. On ne peut juger la “réussite” en cette matière comme s’il s’agissait d’un match de boxe, d’une corrida ou d’une pièce, selon l’importance de la recette et le talent des “acteurs”
Jean-Jacque Lebel

Alla fine del XIX secolo, la ginnastica entra nel novero delle attività estetiche in quanto educazione del corpo a forme che, nell’essere funzionali a determinate prestazioni, sono anche eleganti, armoniche, dinamiche. La grazia, tipico criterio settecentesco perfettamente rispecchiato nella danza, cede il posto al movimento finalizzato, direzionale, utile. L’ideale della bellezza non è più identificato con la massa muscolare e la forza statica, ma piuttosto con le potenzialità di un corpo in movimento, in cui prevalgono l’energia, l’agilità, la proporzione. Nella medesima fase storica lo sviluppo industriale celebra la velocità e il movimento, assunti parallelamente come fattori estetici da diversi esponenti delle avanguardie di inizio XX secolo1.

Tradizionalmente il movimento del corpo umano, dei fenomeni naturali, dei ritrovati tecnici, costituiva per le arti visive una sfida rischiosa da accettare e quasi impossibile da vincere: per l’estetica classica, infatti, le arti visive possono rappresentare lo spazio e sono costrette alla raffigurazione di una temporalità immobile, secondo la canonica divisione di Gotthold Ephraim Lessing. Ma, nel corso dell’Ottocento, tale distinzione entra progressivamente in crisi, per essere totalmente soppiantata nel Novecento quando, dopo l’iconografia del movimento, dalla seconda metà del secolo nelle arti visive si insediano modalità espressive basate sul tempo, come gli happening, gli events, il video, la performance, le pratiche partecipative e pedagogiche.

Se nel primo dopoguerra lo sport entra nella quotidianità, militarizzando la vita dei civili come ben testimonia il culto del corpo nel Ventennio, esso resta centrale nella cultura di massa anche dopo il Secondo conflitto mondiale come attività legata al benessere individuale e collettivo, lasciando in secondo piano i riferimenti bellici. L’attività fisica diventa elemento costitutivo del corretto sviluppo di bambini e giovani, e con il tempo perfino gli adulti del mondo occidentale si convertono all’idea del movimento del corpo quale fonte di benessere psicofisico, anche in risposta a stili di vita sempre più sedentari e regimi alimentari ipercalorici2. Inoltre, altro aspetto rilevante è il seguito di pubblico dei grandi eventi sportivi, che assume l’aspetto di ritualità collettiva, in cui compaiono inquietanti rigurgiti di violenza, nazionalismo e razzismo. Un fenomeno che sociologi e antropologi definiscono neotribalismo, sfiorato o tematizzato da artisti come Maurizio Cattelan, Andrea Mastrovito, Grazia Toderi, Sislej Xhafa, ad esempio. Le pagine che seguono, tuttavia, tralasciano volutamente tale coté, in qualche modo interno alla mediazione dello sport da parte dei mezzi di comunicazione di massa, per concentrarsi prevalentemente sull’attività sportiva effettivamente praticata, preferibilmente dall’artista medesimo3.

Sfide di corpi in azione

Negli ultimi anni alcune iniziative hanno messo a tema il rapporto fra arte contemporanea e sport, fra queste l’esposizione Fair Play (a cura di Cristiana Perrella e Paola Ugolini, MAXXI, 2014)4 con video d’artista dedicati ad aspetti non convenzionali dello sport, e il volume Sportification. Eurovisions Performativity and Playground (a cura di Emanuele De Donno, 2017) che raccoglie una ampia casistica in cui, tanto nella cultura di massa, quanto nelle ricerche artistiche, lo sport è tematizzato in rapporto all’impiego diretto del corpo5. Le presenti note, pertanto, trascurando l’abbondante iconografia dello sport nelle arti visive tradizionalmente intese, dalla pittura, al disegno, alla scultura, e la non meno rilevante produzione di “opere” attraverso la pratica sportiva, si concentrano, piuttosto, sul ricorrere dell’immaginario sportivo nell’arte d’azione italiana, considerata in un orizzonte cronologico che dalle premesse degli anni Sessanta arriva fino ai nostri giorni, seppure attraverso alcuni casi esemplari e sullo sfondo del panorama internazionale. Tra Europa e Stati Uniti, infatti, in molta Performance Art, così come nelle ricerche artistiche direttamente antecedenti, i temi e le attività sportive sono spesso evocate. Si può iniziare dalla presentazione londinese di Cyclomatic (1959) di Jean Tinguely, in cui la scultura cinetica è cavalcata a turno da due ciclisti con le maglie dei rispettivi club, allo scopo di verificare quale dei due è più veloce nel far scorrere un chilometro e mezzo di carta trasformandolo in dipinto6. La disciplina sportiva prescelta si riconnette direttamente alla passione per il ciclismo delle avanguardie storiche, richiamate nelle osservazioni introduttive, tanto da dialogare intensamente con Ruota di bicicletta di Marcel Duchamp, relativamente alle connessioni fra scultura in movimento e oggetto, meccanicità e autorialità.

Ma si possono ricordare anche The Tart (1965) l’happening di Dick Higgins sul ring del Sunnyside Garden di New York, oppure Ping-Pong (1968), il video con il quale provare a giocare, di Valie Export e, ancora, l’incontro di boxe fra Joseph Beuys e Anatol Herzfeld, alla fine dei cento giorni dell’Ufficio per la democrazia diretta, a Documenta 5 (1972). Uno dei pochi casi in cui la conflittualità è reale, fisica, violenta, ma mediata appunto dalla ritualità dell’incontro sportivo che si fa metafora della dialettica politica a cui il lavoro di Beuys rimanda.

Forse non è un caso, quindi, che in anni di conflitti armati, rivolgimenti politici e movimenti di contestazione, il pugilato abbia più di un simpatizzante, per così dire, nella Body Art: si pensi a Discours mou et mat (1975) in cui Gina Pane introduce sia il tennis sia la boxe nella complessa articolazione dell’azione, fino a Il caso n. 2 sul ring (1976) in cui il titolo, alcuni comportamenti e gli abiti rimandano allo sport. L’azione si sviluppa, proprio come un incontro di pugilato, in quattro round; al posto dei guantoni Pane indossa dei guanti da neve con i quali prende a pugni una pallina dipinta di blu sospesa al soffitto, invece del pungiball da allenamento o dell’avversario. All’interno di una complessa trama di rimandi all’infanzia, la boxe evoca in questo caso gli istinti pulsionali che muovono quasi involontariamente il corpo7. Infine, in Io mescolo tutto eseguita a Bologna nel medesimo anno, Pane svolge diverse operazioni in un ambiente in cui si trovano anche un ragazzo e una ragazza, seduti al tavolo da ping pong con il volto dipinto di bianco. I due, nonostante abbiano a disposizione l’occorrente, non giocano ma si limitano a un confronto “immobile” fra uomo e donna.

Come è noto il rapporto fra generi e ruoli sessuali è al centro – proprio in questi stessi anni – del lavoro di Marina Abramovic e Ulay, sovente attraverso sfide simili a match. I due, inoltre, hanno praticato forme di allenamento psico-fisico, spesso sulla base di esercizi di meditazione, per assumere un corpo pubblico8 nel momento dell’azione, cioè per oltrepassare i limiti del corpo individuale e contingente, e farsi statua, resistenza, capacità di superare il dolore e la stanchezza: e in tal senso sarebbe interessante capire se hanno mai fatto ricorso a sostanze analgesiche o psicotrope, ad esempio, come gli atleti9. Gli artisti, infine, hanno simbolicamente chiuso la loro relazione sentimentale e professionale con una lunga azione sulla muraglia cinese, partendo dalle estremità opposte, incontrandosi e poi separandosi idealmente per sempre. Chinese Wall Walk (1989), durata quasi un anno, vede i due fare i conti con l’esaurimento delle energie fisiche, vivendo per lo più all’aperto, pur assistiti da una schiera di collaboratori e supporter. Il parallelo è con le grandi imprese di navigazione, attraversate artiche o scalate in solitaria compiute da navigatori o atleti.

Ora, se si volge lo sguardo alla scena artistica italiana gli episodi sono più isolati, in ragione di una meno sistematica pratica del cosiddetto comportamento, e con un background diverso rispetto agli esempi fin qui considerati. Nell’autunno del 1968, nell’ambito di Arte povera + azioni povere, gli artisti invitati alla rassegna si mettono a giocare a calcio tra le opere di Michelangelo Pistoletto dentro gli antichi Arsenali della Repubblica di Amalfi, proseguendo all’esterno: un atteggiamento a metà strada tra l’azione spontanea e il gesto di irriverenza verso il dibattito critico che stentava a decollare10. Lo sport, il gioco, l’azione fisica rappresentano in tale frangente una sorta di “uscita d’emergenza”, di rottura, rispetto al contesto dell’arte contemporanea, in quel momento in grande fermento soprattutto per la messa in discussione delle istituzioni artistiche, anche a livello di luoghi, funzioni e liturgie. Una vena di ironia graffiante anima anche Ginnastica mentale in cui Fabio Sargentini, coraggioso gallerista romano, la sera del 19 ottobre 1968 trasforma L’Attico in una palestra. Prima di spostare la sede nel celebre garage di via Beccaria, gli ambienti della galleria di Piazza di Spagna diventano un luogo dinamico, in cui compiere delle azioni – banalmente allenarsi – invece che esporre oggetti11. Si tratta di una cesura simbolica – frutto della contingenza del momento e della recente scomparsa di Pino Pascali, ricorda Sargentini – e occasione in cui artisti e critici si adeguano alle implicite richieste del luogo12. Nella prospettiva della sperimentazione performativa, infatti, il corpo dell’artista diventa l’opera, traslando – in maniera dissacrante – su quest’ultimo anche i criteri di bellezza estetica che appartengono all’oggetto artistico. Pertanto prendersi cura del corpo, fare esercizio e mantenerlo in buona forma possono essere intesi, metaforicamente, come un equivalente dell’azione diretta dello scultore sul materiale da lavoro.

Proprio riguardo a tale dimensione estetica dell’attività fisica, rievocata anche in apertura, non è certo casuale che Fabio Mauri focalizzi Che cos’è il fascismo (1971) sui Ludi Juveniles a cui partecipavano i giovani durante il Ventennio. Le parate così come l’allenamento sportivo sono, nella dittatura, dispositivi di propaganda e persuasione con cui diluire la consapevolezza individuale all’interno di una dimensione collettiva tanto più galvanizzante quanto più è ingannevole, ovvero ideologica. D’altronde tali attività fisiche e il loro esito spettacolare sono per molti – Mauri incluso – una delle esperienze in cui vita ed estetica si sono fuse. Molto diversa, invece, la poesia ginnica che punteggia l’attività di Arrigo Lora Totino negli anni Settanta: un genere in cui gesto, suono e significato concorrono nella rappresentazione live, istantanea e icastica di una o poche parole, di solito coincidenti con il titolo13. Sebbene, in definitiva, non vi sia nulla di sportivo è significativo che il mondo normato della ginnastica venga evocato per indicare una gestualità codificata in cui il rapporto con la parola è definito in maniera stabile per quanto arbitraria. Il movimento del corpo dell’artista/poeta di fronte al pubblico viene assimilato, quindi, a quello dell’atleta da un lato, e al parlare, dall’altro. Si tratta di una modalità che ha fruttificato in molteplici direzioni, fra cui l’impiego di ginnaste e acrobate in relazione al testo poetico da parte, ad esempio, di Pasquale Polidori, nella serie Forma manifesta (2014-15), in cui programmaticamente il labor limae del poeta sulla lingua viene assimilato all’esercizio fisico volto al raggiungimento di una forma ideale14.

Straniamenti e derive

Dopo un periodo di minore visibilità, l’azione live torna con vigore sulla scena artistica negli anni Novanta, in un contesto fortemente mediatizzato e globalizzato, nonché segnato da una inedita fortuna del termine performance anche fuori dagli ambiti artistici. Il vocabolo, infatti, indica prestazioni economiche e sportive non solo di persone ma anche di prodotti, registrando la profonda trasformazione del sistema economico e delle relative teorie, in una fase di capitalismo finanziario spinto, di progressiva terziarizzazione dei paesi avanzati – tutto sommato ancora titolari della leadership nel sistema culturale internazionale – e poi di crescente diffusione del cosiddetto capitalismo cognitivo15. Nei decenni a noi più prossimi, d’altronde, il ricorso allo sport nelle pratiche artistiche non ha più la valenza di scardinamento degli assetti estetico-valoriali consolidati registrata negli anni Sessanta e Settanta, ma si integra sovente in interventi di mediazione sociale, didattica o di animazione: una prospettiva su cui torneremo in chiusura e che comporta anche una minore identificazione della performance con il corpo dell’artista in azione.

Uno dei primi casi utili per il nostro discorso è lo storico intervento di Sislej Xhafa alla Biennale internazionale d’arte di Venezia nel 1997, in cui l’artista albanese vestito da calciatore impersona il Padiglione clandestino, con riferimento, da un lato al diverso trattamento riservato ai comuni cittadini extracomunitari, e dall’altro ai calciatori stranieri contesi a suon di contratti miliardari fra i maggiori club. La celebre azione diventa il nucleo di una performance più complessa, svolta l’anno seguente nell’ambito della manifestazione Welcome a Città Sant’Angelo, nei pressi di Pescara. Anche in questo caso, Xhafa gioca a calcio – con dipinta sul torso nudo la maglia della nazionale albanese – coinvolgendo il pubblico che si trova lungo la via principale della cittadina. Inoltre, proprio come a Venezia l’anno prima, anche in questo caso lo zainetto che Xhafa porta in spalla diffonde la radiocronaca di una partita di calcio. L’azione coinvolge altri cittadini albanesi residenti in zona e un palazzo del centro storico simbolicamente identificato come “Ambasciata albanese”, dove la performance si conclude, davanti a un trofeo fasullo e a uno schermo che trasmette gli allenamenti dell’artista16. Il gioco del calcio è il nucleo simbolico dell’operazione in quanto componente dell’identità nazionale italiana, da un lato, e ideale zona franca rispetto alla legislazione contro l’immigrazione extracomunitaria, dall’altro. Inoltre, a pochi anni dell’esplosione della emigrazione verso il nostro paese, Xhafa mette l’accento sulla cultura popolare condivisa fra le due sponde dell’Adriatico, considerato che in Albania si ricevono regolarmente le trasmissioni radiofoniche e televisive italiane (entrambe implicate in Welcome), in cui lo sport nazionale – il calcio, appunto – occupa un posto di primo piano. Tale cultura popolare condivisa, infine, alimenta anche la diffusa conoscenza dell’italiano in Albania, paese per un certo periodo soggetto anche alla dominazione italiana.

Cesare Viel, Luca Vitone, La partita di pallone, 2001, video, col. son., 2’15”, still (courtesy degli artisti).
Cesare Viel, Luca Vitone, La partita di pallone, 2001, video, col. son., 2’15”, still (courtesy degli artisti).

Il calcio, alla stregua della lingua, rappresenta quindi un elemento identitario nazionale, motivo per cui su di esso si concentrano diversi artisti, fra cui anche Cesare Viel, costantemente impegnato sul fronte performativo e che nel 2001 gira con Luca Vitone La partita di pallone video monocanale dedicato all’identità maschile in crisi, o meglio in trasformazione, fra stereotipi ereditati dalla generazione precedente e ricerca di nuova autorappresentazione: tema caro a Viel che vi aveva dedicato, ancora trentenne, Androginia e Domande sull’identità (1994), appunto17. La partita di pallone, invece, prende il titolo non solo dal bonario confronto sportivo fra i due artisti, ma soprattutto dall’omonima canzone di Rita Pavone: il celebre brano musicale, risalente al 1962, rimanda all’infanzia dei due artisti per i quali i rovelli della protagonista incarnano rapporti di coppia e posizionamenti di genere ormai antiquati, ma non ancora decaduti. Partita di pallone, inoltre, assomiglia a un allenamento trasformato in una classica sfida fra maschi: i due, regolarmente vestiti da calciatori, in un campo sportivo, si confrontano cercando di rubarsi reciprocamente la palla, ma senza mai tentare di fare goal, mettendo in scena la ritualità e l’inutile dispendio di energie tipici di alcuni comportamenti giovanili. Il lavoro fa parte della doppia personale dall’inequivocabile titolo VIM Very Italian Macho, in cui trova posto anche una serie di disegni – intitolata in maniera ugualmente esplicita Il canone – che ritraggono Viel mentre fa sollevamento pesi18. Ancora una volta, quindi, l’esercizio fisico è assimilato a un metodo per conformare il corpo a parametri estetici condivisi, idealmente in linea con quanto scritto in apertura.

Gianni Piacentini, Partita bianca incontro di calcio uguale e pari, 2010, Stadio San Pietro, Foligno. Fotografia: Claudio Asquini (courtesy dell’artista).
Gianni Piacentini, Partita bianca incontro di calcio uguale e pari, 2010, Stadio San Pietro, Foligno. Fotografia: Claudio Asquini (courtesy dell’artista).

In un territorio concettualmente limitrofo si colloca anche Giro di campo (o giro della morte), in cui Cesare Pietroiusti nel corso del 2002 inizia ad allenarsi per i 400 metri in piano, in stadi regolamentari con l’obiettivo di migliorare con regolarità i tempi di percorrenza e, alla fine, in un appuntamento pubblico tentare di «migliorare il record mondiale per la mia categoria di età»19, spiega l’artista avvezzo a pratiche performative. Pietroiusti – che ha rielaborato il progetto con Linda Fregni Nagler per il film Un giro di campo (2009)20 – riconduce tale lavoro, rimasto per altro incompiuto, alla riflessione sull’invecchiamento. Allenarsi per una prova atletica impegnativa, se non si è mai praticato sport, non è una scelta casuale: si tratta, piuttosto, di una sorta di risposta psicologica a una stagione della vita in cui si incominciano a fare bilanci, si ha più netta la sensazione della finitezza dell’esistenza e di trovarsi nella fase discendente, per così dire, della parabola esistenziale. Infatti, il racconto di Pietroiusti dei tentativi di migliorare i tempi personali di percorrenza, e in particolare il rapporto con lo stadio e la pista d’atletica, è scandito dalla metafora delle varie fasi dell’esistenza, infanzia, giovinezza, maturità, vecchiaia, investendo anche la vita professionale: «Solo se riesco a correre forte non sarò un artista fallito./Solo se riesco ad andare sotto 1’10” questo sarà un grande lavoro»21. Tale enfatica (e fittizia) adesione alla logica della prestazione, appunto, in cui il successo è misurabile secondo parametri estrinseci, mostra tutta la sua paradossalità quando Pietroiusti trasporta le conseguenze di un simile ragionamento sul piano della temporalità. Migliorare il record di una prova sportiva, nota l’artista, equivale tendenzialmente ad azzerare l’intervallo fra l’inizio e la fine: tradurre tale prospettiva sul piano dell’esistenza, quindi significa rendere breve, brevissima la vita individuale. Si tratta di uno dei rari casi in cui nel lavoro di Pietroiusti si è infiltrato un immaginario sportivo, fatto salvo per l’occasionale passione adolescenziale per il calcio e per la partecipazione a un progetto collettivo (Terza maglia) derivato da un lavoro di Gianni Piacentini. Quest’ultimo in Partita bianca incontro di calcio uguale e pari (27.VIII.2010)22 fa scendere in campo a Foligno la Vis Foligno e una “squadra mista”: tutti i calciatori, però, indossano la medesima maglia bianca. Una sorta di “sogno” in cui i giocatori privi di distintivi mettono immediatamente in crisi i concetti stessi di confronto e di squadra, azzerati dal monocromo della divisa: una visione da pittore, per certi versi, che allude a un grado zero dell’attività sportiva liberata dalla pressione agonistica da un lato, e dispiega una condizione surreale e insensata, dall’altro, almeno rispetto alla comune esperienza sportiva, i campionati nazionali e internazionali, ampiamenti coperti dai media, in particolare nel 201023. L’artista ha ideato diverse varianti di “partite monocrome” in cui viene annullata non solo la riconoscibilità fra i giocatori, ma anche fra questi e il terreno di gioco.

Emanuele De Donno, Gianni Piacentini, Terza maglia, 2011, impianto sportivo, Castelnuovo di Assisi, frase di Miryam Laplante. Fotografia: Alice Mazzarella (courtesy dell’Archivio Viaindustriae).
Emanuele De Donno, Gianni Piacentini, Terza maglia, 2011, impianto sportivo, Castelnuovo di Assisi, frase di Miryam Laplante. Fotografia: Alice Mazzarella (courtesy dell’Archivio Viaindustriae).

In collaborazione con Emanuele De Donno, inoltre, il progetto di Piacentini viene articolato in un’occasione di simbolico contrasto alla violenza negli stadi. Terza maglia (17.IV.2011) coinvolge la Foligno Calcio e altre società dilettantistiche, a indossare la divisa bianca qualificata ora da frasi realizzate ad hoc da alcuni artisti, e donarla all’avversario alla fine dell’ultima partita di campionato, allo scopo di far circolare il messaggio e coinvolgere tutti gli attori del sistema calcio24.

Danilo Correale, The Game – una partita di calcio a tre porte, 2013, Stadio Gino Manni, Colle Val d’Elsa. Fotografia: Maurizio Esposito (courtesy della Fondazione Ermanno Casoli).
Danilo Correale, The Game – una partita di calcio a tre porte, 2013, Stadio Gino Manni, Colle Val d’Elsa. Fotografia: Maurizio Esposito (courtesy della Fondazione Ermanno Casoli).


Un analogo détournement del confronto sportivo è adottato da Danilo Correale che, prendendo spunto da Asger Jorn, realizza The Game – una partita di calcio a tre porte (2013-14), anch’essa volta a minare il principio della competizione, coinvolgendo i dipendenti di tre aziende del territorio senese25. Jorn nei primi anni Sessanta, probabilmente in relazione agli aspri dissidi politici dell’Internazionale Situazionista, pensa il calcio a tre porte, senza arbitro e con un campo esagonale, come metafora del superamento della dialettica schematica, basata sul confronto bipolare mediato da un terzo elemento presunto neutrale. Nel calcio a tre porte, se a vincere è chi riesce a ricevere meno goal, la partita non si gioca solo sul piano delle capacità atletiche ma anche su quello della diplomazia e delle strategie delle alleanze, dato che due squadre, anche deboli, si possono alleare contro la terza e tali equilibri sono potenzialmente variabili nel corso dell’incontro. Il calcio a tre porte, una sorta di paradosso nell’ambito dello sport, ha suggestionato alcuni ambienti anarchici e, nel 1995, è stato praticato da Luther Blisset26 sulla piazza d’armi del Forte Prenestino occupato, a Roma. Nel secondo decennio del XXI secolo, inoltre, l’insolita disciplina sportiva ha trovato seguito alla Biennale di Istanbul e poi a Documenta 14, come parte di progetti artistico-curatoriali con forti connotazioni filosofico-sociali.

Per la portata teorica, infatti, l’idea della partita di calcio a tre squadre nello sbaragliare l’assetto convenzionale dei giochi sportivi, si presta a ulteriori adattamenti nel mondo dell’arte e The Game di Danilo Correale ne rappresenta una versione particolarmente interessante, proprio perché l’intervento artistico – a metà strada tra progetto sociale e performance collettiva – si insedia all’interno del sistema produttivo o almeno coinvolge alcuni attori economici, saldando i campi semantici a cui il termine performance appartiene almeno da alcuni decenni, come già ricordato. La scelta di portare l’attività artistica nei contesti produttivi è peculiare della Fondazione Ermanno Casoli, ma è dell’artista l’idea di un progetto basato su questa destabilizzante disciplina sportiva, coinvolgendo ottanta dipendenti di tre aziende senesi in un articolato progetto di condivisione, allenamento e rafforzamento dell’identità di gruppo, condotto oltre l’orario di lavoro per sei mesi. Le tre squadre di calcio aziendali, con tanto di divise e tifoserie, si sono affrontate l’8.XII.2014 allo Stadio Gino Manni di Colle Val d’Elsa, arbitrati da Cristian Chironi, altro artista affezionato all’iconografia calcistica. L’intreccio fra economia, lavoro e sport affiora anche dal nome scelto da una delle squadre: Esuberanti, in segno di solidarietà verso i duecento dipendenti in esubero, appunto27. La partita in sé è solo l’ultima tappa del progetto artistico e si articola in tre tempi di 20’ l’uno, alternati a 10’ in cui invece il gioco è commentato dagli stessi giocatori a vantaggio delle tifoserie.

Fin dalla scelta del “calcio a tre porte”, The Game incarna e promuove una visione alternativa dello sport nonché delle dinamiche economiche – di cui il primo è metafora – da leggere come complesse e non binarie, nelle quali prediligere approcci collaborativi piuttosto che seccamente competitivi: non a caso le sessioni di training sono definite allenaMenti, mettendo in evidenza l’approccio teorico-cognitivo, più che quello fisico. Quindi Correale non intende la dimensione performativa, sportiva o artistica potremmo dire, come semplice ottenimento di un obiettivo di produttività, ma piuttosto come un processo dai significati stratificati, che ha una conclusione ludico-spettacolare in quanto momento di restituzione pubblica allargata. Molto lontana quindi, dalla visione corrente e prosaica della performance sportiva o economica come conquista del target, successo individuale o del team e benefici economici.
A fronte di un prevalere di riferimenti calcistici, Franco Ariaudo ha scelto invece il baseball, sport decisamente di nicchia in Italia, al quale ha dedicato un complesso progetto, culminato in una personale e in un libro: The Pitcher (2015)28. Dietro tale predilezione si cela l’interesse per l’atto fisico del lanciare, comune non solo alla pratica sportiva ma a una diffusa serie di attività di protesta politica e di aggressione: Ariaudo ne esplora appunto le comuni radici fisiologiche, ingaggiando un disegnatore esperto di anatomia, un atleta e un allenatore. È un modo per depotenziare la violenza del gesto di ribellione e ricondurre anche la pratica performativa strettamente intesa – restituita solo dalla registrazione video (Ramon) del giovane atleta che impara a lanciare – nell’alveo delle belle arti, tramite la comune radice nel disegno. Ma dialetticamente lascia riaffiorare l’agonismo/antagonismo che pare per lo più assente proprio nella Performance Art, campo di espressione artistica storicamente celebre per la sua radicalità.

Franco Ariaudo, Ramon, 2015, video HD, col. son., 8’32”, still (courtesy dell’artista).
Franco Ariaudo, Ramon, 2015, video HD, col. son., 8’32”, still (courtesy dell’artista).

Incontri di corpi e di parole

Se in Ariaudo e in Correale l’attività sportiva non è praticata dall’artista in prima persona come ormai succede in molte ricerche performative “per delega”29, in altri casi lo sport è un mezzo per catturare lo spettatore dentro l’opera proprio tramite quelle dinamiche di sfida tra avversari essenziali nelle discipline sportive. A tal proposito si può ricordare Impero Ottomano (2015-17) in cui Elena Bellantoni riattiva memorie personali imperniate sui legami affettivi, impegnando ogni visitatore disponibile in un confronto a braccio di ferro. All’interno di un dispositivo complesso, che ha al centro la parola, la sfida a braccio di ferro – non una disciplina olimpica, ma una forma di gioco sportivo popolare, aggressivo e familiare al contempo – si fa metafora dei rapporti interpersonali. Anche se il titolo rimanda alle prove di forza fra Oriente e Occidente, nella messa in pratica del confronto fra l’artista e lo/a sfidante di turno, Bellantoni chiede cosa resiste? con l’obiettivo di suscitare una reazione psicofisica, in cui la risposta verbale viene incisa su una lastra d’ottone che è parte integrante del lavoro30.

Con un simile dispositivo partecipativo, alla fine del 2017, l’americano Asad Raza interviene nella chiesa sconsacrata di San Paolo a Milano, con un’installazione performativa in cui i visitatori sono invitati a giocare lunghe partite di tennis tra loro o con gli allenatori presenti31. Anche in questo caso lo sport non è praticato dall’artista, ma dal pubblico, sollecitando i singoli a confrontarsi con un’attività fisica che si può facilmente associare alla conversazione a due. Si tratta di una visione in cui lo sport è inteso come pratica rilassante, alternativa alla dimensione produttiva, in quanto sganciata da obiettivi agonistici, ma non per questo scevra da elementi competitivi: d’altronde anche il dialogo può diventare una tenzone.

Proprio a proposito del rapporto fra linguaggio verbale e sport si può ricordare Ring (2002, 12’, francescadonatistudio, Milano) di Giovanna Ricotta in cui un incontro di pugilato tutto al femminile è metafora dell’incomunicabilità nei rapporti di coppia. Ricotta e Cristina Negrini si affrontano in tre round con tanto di guantoni e una tenuta sportiva piuttosto sexy, alternando il confronto fisico al dialogo – sul testo omonimo dello scrittore Raul Montanari – nel quale si evidenziano le tensioni emotive fra le due sfidanti32. L’azione si conclude con il knock out delle due performer, emblema della sconfitta comune in ambito affettivo dove la violenza sia fisica sia verbale non sancisce la vittoria di una parte sull’altra. I riferimenti sportivi tornano raramente nel lavoro di Ricotta, quasi mai nella cornice di un confronto con l’avversario, ma semmai come sfida con se stessi e prestazione fisica insensata – già osservata in Pietroiusti proprio nel 2002 – come nel caso di Go Fly (2004).

Giovanna Ricotta, Ring, 2002, francescadonatistudio, Milano. Fotografia: Andrea Spotorno (courtesy dell’artista e di Silvia Grandi).
Giovanna Ricotta, Ring, 2002, francescadonatistudio, Milano. Fotografia: Andrea Spotorno (courtesy dell’artista e di Silvia Grandi).

Analogo intreccio di attività sportiva e linguaggio verbale si rintraccia in alcuni lavori di Chiara Mu, una delle artiste italiane più fedeli al medium performativo, seppure in forme che hanno meno a che vedere con la tradizione della Body Art e sono più in sintonia con la cosiddetta estetica relazionale. Già nel 2011, in collaborazione con Chiara Tommasi, Mu presenta Chiara VS Chiara, alla galleria Edieuropa Qui Arte Contemporanea di Roma in cui, attraverso la metafora di una partita di tennis – non giocata ma solo evocata – da un lato, e di quotidiani gesti domestici, dall’altro, le due artiste riflettono sulle varianti fra dialogo e conflitto richiamate dal versus del titolo. Anche questo lavoro, come Ring di Ricotta, immette una certa violenza in un panorama fin qui piuttosto conciliante. Gli aspetti agonistici e competitivi tipici di molta attività sportiva, infatti, sembrano interessare poco gli artisti degli ultimi decenni: Pietroiusti insegue solo idealmente un record, Ariaudo depura il gesto del lancio dalla conflittualità sociale e politica sussumendolo proprio allo sport e al disegno. In Ricotta e in Mu, invece, il conflitto è esplicito, e soprattutto in Mu esso è ricorrente, ben oltre i richiami sportivi. Ma è in particolare in Limite. Una definizione (2014) realizzato all’interno della palestra Lungotevere Fitness di Roma che l’immaginario sportivo è pienamente presente nel lavoro di Chiara Mu, filtrato dalla componente linguistica. L’artista si conforma alla scelta curatoriale della sede realizzando una serie di interviste a istruttori e utenti della palestra sul tema del limite, in senso fisico, mentale, personale, il cui esito è una sorta di paradossale manuale su cosa non fare con il proprio corpo. Accanto alla trascrizione delle risposte il “manuale” in forma di slideshow mostra anche le foto delle persone coinvolte cogliendo la postura assunta nel dialogo con l’artista, ma senza mostrarne il volto33. Infine, durante la mostra nella medesima palestra, Mu anima la proiezione di diapositive leggendo i testi con enfasi, al fine soprattutto di intercettare una fruizione altrimenti distratta perché non abituata a confrontarsi con lavori d’arte in quel contesto34.

Chiara Mu, Limite. Una definizione, 2014, Lungotevere Fitness, Roma (courtesy dell’artista).
Chiara Mu, Limite. Una definizione, 2014, Lungotevere Fitness, Roma (courtesy dell’artista).

Concludiamo sulle connessioni fra linguaggio verbale e attività sportiva con il recente Learning Fencing in Hungarian (2015-16) durante il quale Tea Andreoletti ha trascorso sei mesi a Budapest per imparare a tirare di fioretto in una lingua a lei ignota. La scelta è caduta su un paese che non ha il calcio come sport nazionale, ma la pallanuoto e al secondo posto la scherma, appunto. L’esperienza ha costretto Andreoletti a rivedere le consuete modalità di apprendimento, usando solo i suoni – inizialmente privi di significato – da associare a gesti e comportamenti codificati: una sorta di tabula rasa linguistica che fa pensare al modo in cui si addestrano certi animali. Volutamente privo di documentazione visiva, il progetto vive, infine, unicamente nelle parole misurate con cui Tea lo racconta in pubblico35, senza particolari coloriture narrative o aneddotiche, ma descrivendo piuttosto lo straniamento e le nuove modalità di concentrazione che Learning Fencing in Hungarian ha richiesto.

Se le pratiche performative hanno oggi tanto rilievo nel sistema dell’arte lo si deve anche al fatto che incarnano, per certi versi, alcuni aspetti fondamentali delle nostre società, segnate dall’ideologia del performativo da un lato, e dall’altro dalla messa al lavoro non tanto dei corpi o di specifiche competenze, ma di ciò che caratterizza l’essere umano in generale, ovvero le capacità di adattamento, di risposta a situazioni impreviste, e quelle linguistiche. Lo sport – inteso soprattutto come disciplina, allenamento, gioco, strategia – nella sua dimensione individuale o collettiva, è per molti aspetti in sintonia con tale quadro culturale e non a caso ha tanto rilievo anche nell’arte recente, dalla quale tuttavia rimane per lo più espunta la conflittualità. Si tratta di un dato particolarmente interessante e per certi aspetti paradossale, dato che lo sport ha una forte componente agonistica e di rivalità che ne ha fatto tanto un tradizionale sostituto del conflitto bellico, quanto una valvola di sfogo della conflittualità sociale.

Nel percorso tratteggiato in queste pagine, inoltre, emerge piuttosto chiaramente come nelle pratiche performative la stessa nozione di sport sia migrata dall’uso precipuo del corpo a un insieme più articolato di elementi fra cui compaiono la dimensione di gruppo e le regole del gioco, l’immagine e la parola, e – di pari passo – come la stessa declinazione della performance abbia subito un analogo scivolamento semantico e formale.

  1. Per brevità si rimanda solo a M. Braun, Marey et Demeny: le problematique de l’éducation cinématique et l’édification du corps masculin à la fin du XIXe siécle, in Marey/Muybridge pionniers du cinéma, atti del convegno, Conseil Regionale de Bourgogne, Dijon 1996, pp. 82-89; J. Clair (a cura di), L’ame au corps: art et science 1793-1993, catalogo della mostra, RMN-Gallimard, Paris 1993; La passion du mouvement au XIXe siècle, catalogo della mostra, Musée Marey, Beaune 1991.
  2. Cfr. almeno J.M. Hoberman, Politica e sport: il corpo nelle ideologie politiche dell’Ottocento e del Novecento, Il Mulino, Bologna 1988; R. Mandell, Storia culturale dello sport, Laterza, Roma-Bari 1989; A. Dal Lago, Descrizione di una battaglia. I rituali del calcio, Il Mulino, Bologna 1990.
  3. Il testo rielabora alcune considerazioni svolte negli interventi Il corpo dell’artista tra allenamento, resistenza e forma, al convegno L’arte delle Olimpiadi, CONI-Scuola dello Sport, Roma, 6.X.2016; Disciplina, forza e resistenza fisica nelle pratiche artistiche performative, alla tavola rotonda Lo sport tra agonismo, arte e partecipazione, Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Sapienza Università di Roma, 22.VI.2017.
  4. Cfr. C. Perrella, P. Ugolini (a cura di), Fair Play, catalogo della mostra, Silvana, Milano 2014.
  5. Cfr. E. De Donno (a cura di), Sportification. Eurovisions Performativity and Playground, Viaindustrie, Foligno 2017.
  6. Cfr. T. Hamilton, Lettera, in P. Hulten (a cura di), Una magia più forte della morte, Milano, Bompiani 1987, p. 66.
  7. Cfr. A. Tronche, Gina Pane actions, Fall, Paris 1997.
  8. Cfr. Marina Abramovic: Artist Body, Charta, Milano 1998.
  9. Utili le riflessioni di J. Haberman, The Sportive Agon in Ancient and Modern Times, in J. Lungstrum, E. Sauer (a cura di), Agonistics: Arenas of Creative Contest, SUNY Press, New York 1997, pp. 293-304.
  10. Cfr. G. Celant (a cura di), Arte povera + azioni povere, catalogo della mostra, Rumma, Salerno 1969.
  11. Cfr. L.M. Barbero, F. Pola (a cura di), L’Attico di Fabio Sargentini, catalogo della mostra, Electa, Milano 2010.
  12. Cfr. F. Sargentini, intervento durante la presentazione di Archivi d’artista, La Galleria Nazionale di Roma, 25.II.2020.
  13. Cfr. G. Zanchetti et al., Altre libertà. Pratiche performative e comportamentali nella poesia visuale italiana degli anni Sessanta e Settanta, in «Ricerche di storia dell’arte», n. 114 a cura di F. Gallo, 2014, pp. 20-34.
  14. Cfr. F. Gallo, Corpi al lavoro sulla superficie delle cose, in Id. (a cura di), Sintattica. Luigi Battisti claudioadami Pasquale Polidori, catalogo della mostra, Maretti, s.l. 2015, pp. 11-22.
  15. Cfr. A. Gorz, L’immateriale, Bollati Boringhieri, Torino 2003 (ed. orig. 2002).
  16. Cfr. I. D’Alberto, S. Panerai, Il caso vestino: il Museo laboratorio Città Sant’Angelo, in Id., Ead. (a cura di), Corpo estraneo/straniero. Storia delle arti performative in Abruzzo, Castelli, Verdone 2015, pp. 104-111.
  17. Cfr. C. Viel, Arte e trauma. Fessure, perdite, scritture, in E. De Cecco (a cura di), Arte-mondo. Storia dell’arte, storie dell’arte, Postmediabooks, Milano 2010, pp. 189-199.
  18. Cfr. D. Sileo (a cura di), Cesare Viel. Più nessuno da nessuna parte, catalogo della mostra, Silvana, Milano 2019.
  19. C. Pietroiusti, Un certo numero di cose 1955-2019, Nero, Roma 2019, p. 181.
  20. Cfr. E. De Donno (a cura di), Sportification, cit., pp. 250-251.
  21. C. Pietroiusti, Un certo numero di cose 1955-2019, cit., p. 182.
  22. Cfr. E. De Donno (a cura di), Sportification, cit., p. 143.
  23. Anno in cui i mondiali di calcio si giocano in Sudafrica, primo paese africano a ospitare la prestigiosa competizione, da cui l’Italia, campione in carica, viene eliminata rapidamente.
  24. Cfr. E. De Donno (a cura di), Terza maglia, Viaindustriae, s.l. 2013, p.n.n. Le frasi sulle magliette sono di Gea Casolaro, Mauro Folci, Douglas Gordon, Gianfranco Grosso, Myriam Laplante, Franco Ottavianelli, Gianni Piacentini, Cesare Pietroiusti, Pasquale Polidori, Luca Pucci, Gian Maria Tosatti, Alberto Zanazzo.
  25. Realizzato in occasione del XIV premio Ermanno Casoli, con l’omonima fondazione.
  26. Il noto collettivo con base a Bologna legge nel gioco del calcio un dramma psicosessuale di natura omoerotica e omofobica al contempo, in relazione alla simbologia delle reti violate: cfr. www.lutherblissett.net/archive/016_it.html (ultima consultazione 10.III.2020).
  27. Cfr. M. Smarelli, The Game: l’arte tra gioco, partecipazione, vita, in XIV edizione Premio Ermanno Casoli: The Game di Danilo Correale, s.n., s.l. 2013, pp. 5-8.
  28. Cfr. www.francoariaudo.com/about (ultima consultazione 5.III.2020).
  29. Cfr. C. Bishop, Inferni artificiali. La politica della spettatorialità nell’arte partecipativa, Sossella, Milano 2015 (ed. orig. 2012).
  30. Cf. C. Guida (a cura di), Elena Bellantoni. Una partita invisibile con il pubblico, Postmediabooks, Milano 2019.
  31. Cfr. G. Bria, Le partite di tennis di Asad Raza a Milano, «Artribune», 13.XI.2017. (www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2017/11/la-chiesa-di-san-paolo-converso-a-milano-ospita-le-partite-di-tennis-interattive-di-asad-raza/ (ultima consultazione 5.III.2020)
  32. Cfr. G. Bartorelli, S. Grandi (a cura di), GR Giovanna Ricotta, Cleup, Padova 2015, pp. 164-169.
  33. Cfr. chiaramu.com/it/works-it/limite-una-definizione/ (ultima consultazione 20.III.2020).
  34. Cfr. Scambio di email con Chiara Mu, 20.III.2020.
  35. Ne sono venuta a conoscenza, infatti, durante la tavola rotonda su Lo sport tra agonismo, arte e partecipazione, Museo Laboratorio di Arte Contemporanea, Sapienza Università di Roma, 22.VI.2017; cfr. anche andreolettitea.wordpress.com/portfolio/project-1-learn-fencing-in-hungarian/ (ultima consultazione 10.III.2020).
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Insegna Storia dell’arte contemporanea alla Sapienza Università di Roma, dove è membro del Collegio del Dottorato di Ricerca in Storia dell’arte. I suoi studi spaziano dal XIX al XXI secolo, attorno al rapporto fra riflessione teorica, pratica artistica e nuove tecnologie. Ha dedicato diversi lavori a Jean-François Lyotard e un libro a Les Immatériaux (Roma 2008), e si è soffermata sulla trasformazione del format espositivo in rapporto alla New Media Art («Ricerche di s/confine» 2018). Ultimamente le sue ricerche sono concentrate sulle Neoavanguardie italiane, con contributi dedicati a Ketty La Rocca (Postmediabooks 2015 e la Biennale Donna 2018) e Giuseppe Chiari; alle pratiche performative («Ricerche di storia dell’arte» 2014) e alla videoarte delle origini («L’Uomo nero» 2018). Ha co-curato per Mimesis il libro All’alba dell’arte digitale. Il Festival Arte Elettronica di Camerino (2019), e per Giunti Gianni Melotti la fotografia è facile. Giuseppe Chiari nelle immagini degli anni Settanta (2019). Le collaborazioni con gli artisti prediligono ricerche di approccio concettuale, performativo e site specific, come nelle mostre Sintattica (Roma 2015) e Confluenze (Roma 2016).