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n. 7 - aprile 20

Galassia Performance Art

Antonio Sixty, Eloise, Leggero Vento, Eloise, 1980. Dall’archivio personale di Antonio Syxt

Premessa

Non è possibile parlare della Performance Art (PA) come di un fenomeno che presenta caratteri omogenei nello spazio e nel tempo, negli Stati Uniti come in Europa, negli anni ‘70 e nel nuovo secolo.

Le differenze fra happening e performance sono rilevanti, sebbene nell’opinione comune i due fenomeni si confondano. Osservando queste pratiche dalla prospettiva nordamericana, gli happening sono preparati meticolosamente e prevedono delle repliche, anche al di fuori della presenza dell’autore, per procura. La Performance Art, nella prima fase, fino ai primi anni ‘80, si pone come evento unico, senza prove1, progettata dall’artista che per lo più è protagonista (“l’opera sono io” delle performance di Body Art). La Performance è arte viva, “la presenza del presente”, agli esordi era radicale perché mirava a cambiare la vita delle persone che la praticavano, implicava rischio personale e fisico del performer connesso anche all’attivazione della coscienza del proprio corpo. “Il corpo non mente” è diventato l’assioma di questa estetica anti-intellettuale che intendeva recuperare la sfera del sensorio e della percezione primaria. La performance ha dei testimoni, è veloce, disturba, mentre l’happening richiede la presenza di spettatori. La performance, quando si realizza in studio per essere riprodotta in film, foto, video, è senza spettatori. Nell’happening ci sono molti materiali, oggetti e architetture, elementi fisici (cartapesta, blocchi di ghiaccio che si sciolgono, pupazzi, plastica) mentre la performance è più astratta e immateriale. L’happening nasce a metà anni ‘50 nella East Coast mentre la Performance Art nasce nella West Coast intorno alla metà degli anni ‘60. Già da questi preliminari emerge la difficoltà di attribuire caratteri definiti e generali, nel tempo e nello spazio – al fenomeno che prendiamo in esame, per cui circoscrivere il fenomeno in un “dove e un quando” è basilare2. In Italia – che è il campo di indagine che qui incominciamo a prendere in esame – i due fenomeni si confondono: la tendenza ambientale e spaziale definisce l’arte visuale che, a partire da avanguardie e neoavanguardie, mette da parte la superficie pittorica per proiettarsi nello spazio, immergersi nel reale, sia esso oggetto, ingombro plastico di ascendenza pop, sia ambiente percettivo di ascendenza minimale. Lo spazio diventa un campo energetico in cui vivere l’utopia della totalità di arte e vita, in cui tutti gli elementi, spettatore incluso, interagiscono. L’arte cerca di costituirsi come esperienza reale. È in questo contesto che trova alimento la Performance Art che vede la collaborazione artistica fra musicisti, danzatori, attori e artisti visivi sulla base di strutture primarie come lo spazio e il tempo e di una sentita e condivisa ricerca per reinventare i linguaggi e azzerare le forme ereditate. Lo scambio più evidente fra teatro e pittura è che l’uno si spazializza, elevando lo spazio a elemento drammaturgico principale, e la pittura si temporalizza, diventando azione concreta e operatività dell’artista. Joseph Beuys incarna il modello ideale di artista che traccia una linea rossa che va dal movimento Fluxus alla Performance Art, in nome di un tutto estetico che rifiuta le opere a favore dell’azione (emblematica è quella di piantare degli alberi nelle città).

Questioni

Dedicare una riflessione alla Performance Art italiana, non limitata ai decenni ‘60-‘70, è un obiettivo ambizioso. I testi che pubblichiamo sono l’avvio di una perlustrazione che prevede nel prossimo futuro momenti di confronto in forma di seminario, approfondimenti monografici e altro. Questo fenomeno liminare, è diventato una forma espressiva diffusa, l’icona che contraddistingue l’estetica del Nuovo Millennio all’insegna della live art. Da Ten Days Six Nights, festival promosso nel 2017 dalla Tate Modern a Londra, a Performa, il festival con cadenza biennale fondato a New York nel 2004 da Rose Lee Goldberg, a DO DISTURB, al Palais de Tokyo a Parigi, non pochi sono i festival dedicati alla Performance Art. Anche in Italia dove artisti come Maurizio Cattelan hanno fatto della performance il proprio mezzo espressivo già negli anni ‘90, riscontriamo manifestazioni come Venice International Performance Art Week, curata dal duo VestAndPage, Live Works, promossa da Centrale Fies e Viafarini, la sezione Per4m ad Artissima. Significativo inoltre che la Biennale di Venezia, nelle sue ultime due edizioni abbia attribuito il Leone d’Oro a due “performance installative”: Faust (2017) di Anne Imhof, una performance di oltre cinque ore che si è svolta all’interno del Padiglione della Germania e, nel 2019, all’”opera performance” Sun & Sea (Marina) di Rugilė Barzdžiukaitė, Vaiva Grainytė e Lina Lapelytė al Padiglione lituano (significativo l’uso dei termini: performance installativa e opera-performance).

La performance è espressione dell’estetica del nuovo millennio? Può leggersi come una risposta reazionaria alle simultaneità e virtualità della nostra epoca digitale? «Un elemento molto importante, che ha favorito la performance, è anche la cultura della Rete e dei Social Network», sostiene Francesca Fini, in cui anche l’essere umano (Fini usa il termine “corpo”) diventa un network nell’epoca del chthulucene3.

Riportiamo, su questa interrogazione l’opinione di Vittoria Matarrese, che dirige il FestivalDo Disturb a Parigi:

[…] La performance oggi è talmente multipla, diversa, così sfaccettata che è difficilissimo cercare di inquadrarla in una definizione. Può essere fatta da un solo artista o da un gruppo, che performa o fa performare altri artisti. Può durare un minuto come 24 ore, può richiedere una visione frontale o, al contrario, essere dispositivo partecipativo. Può coinvolgere la danza, la musica, il video… È caratterizzata da un’assoluta libertà di espressione. Forse questa oggi è la sua più bella definizione. È un mezzo immediato, che permette di reagire a un processo sociale, poetico o politico con maggiore reattività rispetto ad altri linguaggi artistici. Creare una performance non richiede una minore riflessione, ma di certo si tratta di uno strumento molto più diretto4.

Un’altra delle questioni che il fenomeno Performance Art solleva, riguarda il lessico utilizzato nel tempo e nello spazio per definirla:

What is performance art? I have been asked so many times to define the term, and I find that it can be done only in a most general, non-specific way. We may call it time-based and non-static and intermedia art, but what we have is a definition so broad that it includes work at the opposite ends of any spectrum you care to name. I might as well be asked to define art itself5.

Tornando indietro, Luciano Inga Pin, gallerista milanese, nel 1978 pubblicava una sorta di manuale dal titolo Performances e alla pari del formato indicato nel titolo, allinea una serie di altre forme di live art: Happenings, Actions, Events, Activities Installations6. Performance Art è interscambiabile con Action Art che sta alla radice della parola attivismo7.

È possibile ricostruire una storia disciplinare della PA, come ipotizza Tancredi Gusman in Between Evidence and Representation8? Tenendo in conto la premessa di circoscrivere il contesto spazio-temporale dell’indagine, delimitare una prospettiva specifica – le arti visive – recide le relazioni trans e interdisciplinari che il fenomeno riveste e istituisce. In Italia, nei decenni ‘60-’70 sono in azione gli artisti visivi (prevalenti), insieme ai poeti, ai musicisti della Nuova Musica. Negli anni ’80 vediamo coinvolti alcuni gruppi teatrali che oltre a spettacoli realizzano performance, mentre a partire dagli anni ‘90 gli ambienti della videoarte danno un contributo al fenomeno, non esclusivo, ma significativo.

Un aspetto interessante che si presenta fin dagli esordi di questa pratica è la sua ambivalenza fra dimensione pubblica e privata: il performer deve concentrarsi su di sé, dimenticare la presenza degli spettatori in modo da stabilire un rapporto più intimo con loro? Un aspetto non trascurabile della PA è il suo darsi anche in studio, fuori dalla convocazione di spettatori, di fronte all’occhio di una telecamera o di una macchina fotografica; così come si dà in spazi all’aperto, come Lavori in Corso al Circo Massimo di Eliseo Mattiacci (23 novembre 1968), un’azione in cui l’artista e i suoi allievi fanno ruotare dei grandi ombrelloni e distendono grandi teli, poi prendono cavalletti e vi distendono carta catramata nera. Citiamo anche L’Attico in viaggio. Navigazione del Tevere, organizzata dal Gallerista Fabio Sargentini con vari artisti performer, non solo italiani (27 marzo 1976). Un altro aspetto che richiede una indagine approfondita è la relazione fra PA e i media riproduttori che trova sbocco nei film performance, nelle perfomance fotografiche e nelle videoperformance negli anni ‘60-‘70, trasformandosi negli anni ‘90 e nel Nuovo Millennio. Si tratta di indagare il nesso fra liveness dell’evento unico e non replicabile, non provato e spesso realizzato in studio senza spettatori, da parte dell’artista che espone se stesso in azione, in quanto “l’opera sono io”, e i diversi ruoli che viene chiamato a svolgere il medium riproduttore come la fotografia e il film. Scrive Margherita Mearelli: «Un atto fisico, ‘comportamentale’, poteva anche essere presentato attraverso il linguaggio cinematografico o del videotape. Era il caso di Cioni Carpi che si faceva riprendere mentre compiva processi di ‘autotrasfigurazione’, di svelamento o sparizione del proprio corpo» (ivi). La produzione di art-tapes-22 rientra nella rubrica delle videoperformance, progettate dagli artisti per la telecamera e registrate in studio, così le fotoperformance realizzate nello studio della fotografa Elisabetta Catalano, come Lo scorrevole (1972) di Vettor Pisani, Action Painting (1972) di Cesare Tacchi e altre. Qui dimensione effimera e riproduzione meccanica si alimentano reciprocamente, nel senso che le azioni si sono date in quanto effimere affinché fossero riprodotte, come fotografie, come film, come video; si realizzano nella privatezza dello studio anziché in galleria, perché poi potranno essere visionate nello spazio pubblico e durare nel tempo. Una distinzione va fatta fra queste performance che esistono esclusivamente in studio, per i media (foto, film, video) e le performance che si danno in spazi pubblici la cui documentazione li attesta nel tempo come traccia dell’evento passato. Occorre cioé evitare di attribuire alle media-performance la qualità di documentazione di performance, consapevoli che i confini sono spesso indiscernibili. In ambito di Performance Studies – la “permanenza” della performance – che non è il campo di questa indagine, ha sollevato un largo dibattito9.

Identità italiana

Francesca Gallo, in un suo saggio dedicato alla PA sostiene che l’Italia è stata precorritrice e in sintonia con le esperienze internazionali, ma che la PA è stata un episodio, transitorio come l’interesse per il video, una parentesi lungo il processo di produzione degli artisti italiani10. Come attesta Simone Carella, coinvolto nelle attività della galleria L’Attico a Roma: «A mio avviso nel caso degli artisti visivi, degli ex pittori – è il caso, appunto, di De Dominicis – il punto di riferimento artistico, creativo, era e rimaneva sempre la pittura»11. Si può parlare, in Italia, di una tradizione performativa nell’arco cronologico che va dagli anni ’60 al nuovo secolo? Francesca Fini individua due tratti: l’elemento rappresentativo di tipo teatrale e l’action poetry, la poesia sonora, che giustamente fa risalire alla poesia epistaltica di Mimmo Rotella, presente anche nel Nuovo Millennio. Caroline Tisdall (1976), rileva che una qualità specifica della PA italiana e ancor più “romana”, negli anni ‘60-’70 è: «…a Roman mood: elegantly, decadent, baroque, tastefully hedonistic and highly artificial»12. L’interesse per la storia, la mitologia, per il proprio passato come parte integrante del proprio presente, determinava il “comportamento” di Jannis Kounellis, e quindi la scelta di materiali quali i calchi, le statue antiche o determinate musiche (Verdi…). Non si trattava nel suo caso di una citazione, poiché, tali elementi appartenevano al suo mondo poetico-esistenziale, alla sua vita. Nel caso di Vettor Pisani, sottolinea Mearelli: «Egli, infatti, non solo sviluppava tematiche antropologiche, alchemiche, iniziatiche, i cui punti di riferimento teorici erano Eliade, Bachelard, Jung, Frazer, Freud, la letteratura iniziatica, etc. ma le filtrava mediante citazioni artistiche da Marcel Duchamp a Yves Klein, a Joseph Beuys»13.

Come non è possibile individuare qualità specifiche della pratica della PA in Italia valide per un arco di tempo che va dagli anni ‘60 al secondo decennio del Nuovo Millennio, altrettanto vale per i formati delle performance. Gli anni ’60-’70 sono quelli maggiormente esplorati sia da studiosi coevi che posteriori. Fra “Postavanguardia” e “Nuova spettacolarità” (fine anni ‘70 e primi anni ‘80) si elaborano nuovi formati, lo studio, il set fotografico: cinema, televisione, pubblicità, sport, fumetti (fino ad allora estranei alla scena teatrale), fantascienza, una miscellanea di media e di generi producono diversi formati che oltrepassano lo spettacolo teatrale per sperimentare e mettere in circolazione dischi, video, riviste. Il formato ‘performance’, peculiarità della pratica di Antonio Syxty, al limite fra lo spettacolo e l’installazione, trovava nella discoteca il suo ambiente altro dove alla musica si sovrapponevano immagini in diapositive mentre il frequentatore passeggia, parla, balla14. Questo repertorio di questioni, connesse alla Performance Art in Italia, si legge anche come un desiderio di poter continuare nel processo di investigazione avviato, attraverso la creazione di un gruppo di ricerca nazionale, come già ipotizzato in un progetto proposto nell’ambito del PRIN (MIUR), purtroppo non finanziato.

  1. In Italia le performance/azioni/comportamento, come venivano chiamate, erano e sono spesso ripetute.
  2. Paradossalmente la PA riesce a definirsi in negativo, a stabilre cosa non è: quando non ci sono elementi di ribellione e critica; quando non è presentata una sola volta, quando non è l’artista stesso che la esegue. In Italia, agli esordi, molti artisti esponevano corpi altrui: Vettor Pisani, Fabio Mauri, Gino De Dominicis e altri.
  3. D. Haraway, Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press, Durham (North Carolina) 2016, trad. it. C. Durastanti, C. Ciccioni, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019. Vedi i testi di F. Fini, ivi pubblicati. Cfr. anche: Intervista di C. Pirri a Susanne Franco, Performance, danza, musei, memoria, in «Voices Of Others. Interview project», febbraio 2018 (www.voicesofothers.com/interview/performance-danza-musei-e-memoria; ultimo accesso 3 aprile 2020); C. Pirri, Arte Fiera 2020: è tempo di performance. Intervista a Silvia Fanti, in «Artribune», 18 gennaio 2020 (www.artribune.com/professioni-e-professionisti/who-is-who/2020/01/arte-fiera-bologna-intervista-silvia-fanti/; ultimo accesso 3 aprile 2020).
  4. Performance in festa al Palais de Tokyo. Intervista alla direttrice artistica Vittoria Matarrese di C. Pirri, Do Disturb 2018, in «Voices Of Others. Interview project», marzo 2018 (www.voicesofothers.com/interview/do-disturb-2018, ultimo accesso 3 aprile 2020).
  5. L. Frye Burnham, High Performance, Performance Art, and Me, in «TDR/The Drama Review», vol. 30, n. 1, primavera 1986, MIT Press, Massachusetts 1986, pp. 15-51, disponibile on line (lindaburnham.com/writings/high-performance-performance-art-me/; ultimo accesso 3 aprile 2020).
  6. L. Inga Pin, Performances. Happenings, Actions, Events, Activities Installations, Mastrogiacomo Editore, Padova 1978.
  7. Cfr. P. Schimmel (a cura di), Out of Actions: Between Performance and the Objects 1949-1979, catalogo della mostra, The Museum of Contemporaney Art Los Angeles, Los Angeles-Londra 1998.
  8. T. Gusman, Between Evidence and Representation: A New Methodological Approach to the History of Performance Art and Its Documentation, in «Contemporary Theatre Review», Vol. 29, n. 4/2019, pp. 439-461.
  9. Cfr. V. Valentini, Opera-documento, in Teatro contemporaneo 1989-2019, Carocci, Roma 2020, pp. 40-43.
  10. F. Gallo, Informare,osservare, agire: riviste, performance e artisti, in «Ricerche di Storia dell’Arte», 3/2014, pp. 5-19.
  11. Simone Carella in M. Mearelli, Intervista a Simone Carella, Roma 14-15 gennaio 1988 (inedita), in La performance in Italia (1968-1981), tesi di laurea, Facoltà di Lettere e Filosofia, Sapienza Università di Roma a.a. 1988-89, relatore Luciano Mariti, corr. Valentina Valentini, pp. 877-964: 882.
  12. C. Tisdall, Performance Art in Italy, in «Studio International», n. 191, 1976, p. 42.
  13. M. Mearelli, La performance in Italia (1968-1981), cit., p. 145.
  14. Vedi F. Pitrolo (a cura di), Syxty sorriso & altre storie, Yard Press, Roma 2017; per un approfondimento: V. Valentini, Dentro l’officina di Antonio Syxty: icone di un teatro postmoderno, in «Arabeschi» (www.arabeschi.it/dentro-lofficina-di-antonio-syxty-icone-un-teatro-postmoderno-/; ultimo accesso 3 aprile 2020).
Author

Valentina Valentini, docente di Alta Qualifica presso il DPTA, La Sapienza, Roma. Ha dedicato vari studi storici e teorici al teatro del Novecento: Teatro contemporaneo 1989-2019 ( Carocci, 2020), Nuovo teatro Made in Italy ( Bulzoni,2015), pubblicato in inglese da Routledge (New Theater in Italy: 1963-2013), Drammaturgie sonore 1 (Bulzoni, 2012) e Drammaturgie sonore 2, (Bulzoni 2021), Mondi, corpi, materie. Teatri del secondo Novecento (B. Mondadori, 2007 in inglese pubblicato da Performance Research Books, 2014), Dopo il teatro moderno (Politi,1989), Il poema visibile. Le prime messe in scena delle tragedie di Gabriele D’Annunzio (Bulzoni,1993), La tragedia moderna e mediterranea (Angeli, 1991); alle interferenze fra teatro e nuovi media (Teatro in immagine, Bulzoni, 1987) e alle arti elettroniche (Medium senza Medium, Bulzoni 2015; Le pratiche e Le storie del video, Bulzoni, 2003). Pubblica su riviste nazionali e internazionali («Performance Research», «PAJ», «Biblioteca Teatrale», «Close Up», «Arabeschi»). È responsabile del network «Sciami» e dirige la webzine «Sciami|ricerche».