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n. 7 - aprile 20, Teatro, Video

La Performance Art in Italia, fra teatro e live art

Conversazione di Valentina Valentini e Daniele Vergni con Francesca Fini.

Francesca Fini, The golden age, 2014, foto di Tito Andrade.

Valentina Valentini (da qui in avanti V.V.): La sua produzione comprende video e film d’animazione, performance, installazioni. Può descrivere qualche sua performance?

Francesca Fini (da qui in avanti F.F.): In Fair & Lost (2013) indosso elettrodi regolati al massimo della potenza, su entrambe le braccia, e cerco di truccarmi il viso. Le contrazioni causate dalla scossa elettrica sono fortissime, rendendo di fatto impossibile calibrare il movimento delle mani, e il make-up si sparge trasformandomi in una maschera tragica. In sottofondo il suggestivo coro del Nabucco, un brano simbolo della storia nazionale che porta con sé il fantasma di antiche lotte per la libertà che nessuno ricorda più. Anche il mio pianto sembra involontario, causato dalla matita nera e dal rimmel che entra negli occhi accidentalmente. Un pianto meccanico che, attraverso quei dettagli ravvicinati degli occhi bagnati proiettati sul muro, si traduce nel senso di sofferenza e disagio di chi assiste alla performance, in una sorta di collegamento empatico inconsapevole, ma autentico. Il mio corpo sfugge al controllo della mia volontà, soggiogato dal condizionamento di un agente esterno (gli elettrodi), facendomi piombare in una condizione schizofrenica e malata. Quando l’ho eseguita a New York, per un evento al Watermill Center di Bob Wilson, qualcuno dal pubblico mi ha avvicinata e mi ha fatto notare che, alla fine della performance, somiglio ad una di quelle “donne disturbate in metropolitana”, che individui subito per via del trucco sparso male, clownesco, che ti fa capire che qualcosa non va.

Francesca Fini, Fair & Lost (2013), foto di Carlo Maria Causati.
Francesca Fini, Fair & Lost (2013), foto di Carlo Maria Causati.

In Skin/Tones (2017) la pelle umana, esplorata da un microscopio digitale, mostra dettagli che sembrano mappe di pianeti sconosciuti: una varietà infinita di colori, texture e forme,
schemi e imperfezioni. Io sono nuda davanti ad uno schermo, dando le spalle al pubblico. Passo lentamente un microscopio digitale sul mio corpo, indugiando sulle diverse tessiture che lo compongono. Il software originale, che io stessa ho compilato, calcola i valori RGB della tonalità di ogni segmento di tessuto, trasformando il flusso di dati in suono e immagini generati dal vivo: cicatrici, ferite, lesioni, nei, rughe e smagliature diventano cristalli, mandala e rosoni di chiesa. Lo spettatore non osserva più il corpo dell’artista, ma la sua elaborazione macroscopica e deformata, come in una sorta di super-selfie trasmesso attraverso un filtro, o una membrana invisibile. La performance espone la pelle umana, elaborata dal microscopio digitale e dal filtro caleidoscopico, giocando ironicamente sul concetto di biometria, che è lo studio di quel sistema di tecnologie e dispositivi che consentirebbero un’identificazione certa attraverso la scansione delle variabili biologiche. La performance, al contrario, celebra il caos, l’errore e l’imprevedibilità dell’identità individuale.

Francesca Fini, SkinTones (2018), foto di TF18.
Francesca Fini, SkinTones (2018), foto di TF18.

The Paperwall (2018) è una performance che si è sviluppata dall’8 al 22 gennaio 2019, al Museo Macro di Roma. L’installazione è iniziata con la costruzione di un muro simbolico, realizzato assemblando moduli di cartone trovati per caso in rete, la cui forma sinistramente evocativa si inserisce perfettamente nel concept del lavoro. Il Muro, qualsiasi sia il suo colore, è un’idea diabolica: oltre a tenere fuori gli indesiderati, imprigiona chi si trova dentro. Questo principio ha la sua manifestazione nella seconda fase, quando marco il territorio con i colori e le forme della bandiera americana. In questa fase sono coadiuvata da alcuni robot che interagiscono con l’installazione. Quelli che posiziono all’interno, dotati di pennarelli neri, interferiscono con il mio disegno, ma tendono anche ad espandere le loro traiettorie randomiche, finendo ai confini del muro, dove aggrediscono i mattoni di cartone per cercare una via di fuga. La performance si evolve quindi nel mio tentativo di proseguire il disegno, mentre cerco di riportare i robot all’interno: una danza affannosa in cui si consuma la natura grottesca del controllo.

V.V. Quali occasioni/istituzioni in Italia per la Performance Art? In quali contesti viene presentata?

F.F. In Italia ci sono ben poche occasioni per presentare la Performance Art. Tuttavia, devo ammettere che quei pochi festival ed eventi che comprendono e promuovono la performance sono di qualità molto alta. Dal 2012 al 2018 a Venezia si sono svolte le tre edizioni biennali della “Venice International Performance Art Week”, a cura del duo artistico VestAndPage (Andrea Pagnes e Verena Stenke). Tre edizioni, ognuna dedicata ad un macro-tema legato alla pratica della Performance Art (Corpo Ibrido-Corpo Poetico, Corpo Rituale-Corpo Politico, Corpo Fragile-Corpo Materiale), che hanno esibito il lavoro di artisti storici come Jan Fabre, Marina Abramović, Hermann Nitsch, Valie Export, Yoko Ono, Vito Acconci, Stelarc, accanto a quelli più giovani ed emergenti, attraverso mostre fotografiche e video, performance durazionali, azioni e talk. “Venice International Performance Art Week”, dopo aver esaurito il progetto triennale del festival, continua la sua attività per la promozione della performance attraverso l’organizzazione di workshop e laboratori annuali per la produzione di opere collettive.

Dal 2015 alla Fabbrica delle Candele di Forlì c’è “Ibrida”, festival delle arti intermediali. Quest’evento, curato dal duo artistico ConTatto (Francesca Leoni e Davide Mastrangelo), è incentrato soprattutto sulla videoarte, il meta-cinema, le animazione 2D e 3D, ma accoglie in maniera del tutto naturale anche la Performance Art e la musica elettronica.

“Corpo”, festival delle arti performative. Il festival, nato a Pescara nel 2011 da un’idea di Ivan D’Alberto e Sibilla Panerai quale occasione culturale per approfondire i linguaggi performativi, si suddivide in una sezione dedicata ai giovani artisti, una ad autori già storicizzati e una di approfondimento teorico con esperti e ricercatori.

“Viafarini-in-residence” è la storica residenza per artisti performativi di Milano. Uno spazio articolato che promuove la crescita culturale e professionale dei giovani artisti, collaborando con una lunga lista di residenze e fondazioni internazionali. Sicuramente un’esperienza importante soprattutto per il network di altissimo livello a cui si appoggia quest’iniziativa.

Metto nella lista anche il festival “T*Danse”, che co-dirigo alla Cittadella dei Giovani di Aosta insieme al coreografo Marco Chenevier. Il Festival, alla sua quarta edizione, promuove la danza e la live art contemporanea, con particolare attenzione per quelle esperienze e quelle ricerche artistiche che integrano new media e tecnologia nella pratica performativa.

V.V. Cosa distingue una performance, quali elementi sono indispensabili?

F.F. La performance deve vivere sempre nel qui e nell’ora (hic et nunc), perché non è mai una forma di rappresentazione ma è prima di tutto un’esperienza intima del performer, che non recita un ruolo ma è se stesso, e quindi, a mio parere, l’azione deve poter innescare dei meccanismi che permettano al performer di dimenticare la presenza del pubblico. Le performance più intense e autentiche che ho visto, quelle che mi hanno profondamente colpito nel corso di tanti anni di festival e residenze, hanno una struttura comune, che io ho decodificato e adottato nei miei lavori. Innanzitutto, queste performance partono da un concetto molto forte che si materializza in una missione da compiere. Questa missione (che è l’intenzione del performer), si incontra/scontra con un detonatore, un dispositivo che rende l’azione davvero unica, sorprendente, provocatoria e irripetibile. In genere questo detonatore è un elemento costruito ad arte che ostacola l’intenzione/missione del performer, fisicamente o psicologicamente, producendo un conflitto reale, a volte drammatico, in cui si consuma la performance stessa, l’esperienza del performer e del pubblico, generando empatia e conoscenza. Il detonatore può essere anche una regola da rispettare rigorosamente fino alla fine dell’azione, un elemento ossessivo e ripetitivo dell’opera (un oggetto che viene usato, una durata temporale, un gesto che viene eseguito, uno spazio performativo che condiziona l’azione). Ovviamente le dinamiche innescate dal detonatore sono la vera sostanza della performance, che prescinde assolutamente dal risultato finale. Che la performance abbia successo, ovvero soddisfi le intenzioni del performer, oppure fallisca, è un dato del tutto irrilevante. Il detonatore è la drammaturgia dinamica e imprevedibile della Performance Art.

Nella mia performance Fair & Lost, ad esempio, il concept è il condizionamento che la società opera sull’individuo, e che si replica fortemente nel condizionamento femminile e nell’obbligo alla bellezza. La mia missione è naturalmente quella di compiere il gesto quotidiano di truccarmi il viso, di “rendermi presentabile”. Il mio detonatore sono le scariche elettriche, che rendono questa missione faticosa, complicata e dolorosa. La performance si consuma nel conflitto eterodiretto tra mente e corpo, volontà e condizionamento.

V.V. Quale è il background degli artisti che la praticano? Vive in una zona intermediale, insieme ad altri formati?

F.F. La provenienza è davvero varia. Ho conosciuto artisti che vengono dagli ambienti underground della Body Art estrema e artisti usciti dall’Accademia di Belle Arti e legati all’arte concettuale e al concetto di installazione vivente. Negli ultimi anni moltissimi artisti performativi provengono anche dagli ambienti della videoarte, come se avessero fatto il percorso inverso, passando dalla videoperformance alla Performance Art e riproducendo il loro immaginario filmico, corporeo e fisico, in situazioni di live art. Molto importante è, negli ultimi anni, il contributo ai linguaggi contemporanei della Performance Art che viene dai bio-artisti e dagli artisti che lavorano con i dati e l’intelligenza artificiale, nel vasto mare di quello che possiamo chiamare performing media. L’ibridazione dei linguaggi e la diffusione di spazi sempre più simili al white box della galleria d’arte, e comunque alternativi rispetto al teatro, ha fatto riversare nel campo della Performance Art anche molti artisti della danza contemporanea e del teatro sperimentale.

V.V. Quando ha cominciato a realizzare performance era in contatto con altri performer della scena italiana? Quale era la situazione della Performance Art in Italia?

F.F. Io ho cominciato con il video e sono stata successivamente introdotta alla Performance Art, frequentando, per lavoro e per passione, gli ambienti della Body Art estrema romana. Sono ambienti molto ricchi di sfumature, vivaci, ma anche molto dispersivi e forse troppo legati alla gratuità del gesto e all’estetica del dolore. Fin dall’inizio della mia attività ho cominciato a viaggiare, immettendo il mio lavoro nel network delle residenze artistiche internazionali e partecipando agli eventi in Italia come riflesso delle mie avventure all’estero. Ho quindi una visione e una conoscenza molto parziale della scena performativa italiana. Posso dire, però, che noto ancora oggi un’influenza troppo forte del linguaggio teatrale nella performance italiana. C’è un elemento rappresentativo cui non si vuole rinunciare che, nel bene o nel male, è una caratteristica italiana.

Daniele Vergni (da qui in avanti D.V.): Comincia a realizzare performance nei cosiddetti anni zero, anni di forte espansione delle pratiche performative. Cosa succede in quegli anni?

F.F. Nel saggio Relational Aesthetics (1998) del curatore francese Nicolas Bourriaud, si dice che l’arte non è più una collezione di oggetti ma uno stato di incontro. L’opera di ogni artista, dopo la rivoluzione cyborg degli anni ‘90, diventa un insieme articolato e complesso di processi, ibridazioni e relazioni con il mondo. Relazioni che si innescano e che danno origine ad altre relazioni, e così via, all’infinito. La maggior parte degli artisti ha abbandonato da tempo gli oggetti per dedicarsi alla creazione di eventi o esperienze, dal vivo o in differita, on line e off line, concrete e virtuali, con cui i visitatori interagiscano direttamente. Questa dimensione immateriale ed esperienziale dell’arte, in cui domina una complessità stratificata di segni e dimensioni, ha trovato nella Performance Art il suo linguaggio più autentico. Oramai è davvero complicato trovare un artista che si concentri solo sul risultato e non sul processo stesso dell’arte, che è naturalmente dinamico, articolato e profondamente performativo. Un elemento molto importante, che ha favorito la performance, è anche la cultura della Rete e dei Social Network. In un mondo sempre più interattivo, e su misura, dominato dall’invito parossistico e illusorio alla partecipazione collettiva dal basso, al fai-da-te e al design personalizzato di ogni esperienza umana concepibile, l’arte ha raccolto il guanto di sfida – nei casi meno interessanti replicando gli stessi meccanismi menzionati e in quelli più validi cercando di lanciare un ferro tra i denti del meccanismo e mettendo in crisi il sistema. La disintegrazione del corpo, nella sua dimensione intimistica e individualistica degli anni ‘70, attaccato dal virus mutante della malattia e della macchina, ha determinato la completa metamorfosi della società che si è disintegrata e infine riaggregata. Il corpo diventa network, rete virale e sociale, trascinandoci dall’epoca dell’umanesimo a quella del postumano (o postumanesimo), da quella dell’antropocene a quella del chthulucene (Donna Haraway), da quella dell’oggetto a quella dell’evento.

V.V. Trova una peculiarità della Performace Art in Italia, sia nella sua storia che dopo gli anni ‘90?

F.F. Ci sono dei tratti molto riconoscibili nella Performance Art italiana, che io ritrovo sempre anche nel mio lavoro. Come dicevo, c’è un’attenzione fortissima per la dimensione estetica che non individuo, ad esempio, in altre esperienze performative. Il retaggio storico, l’educazione visuale, una certa propensione alla cura della luce e delle simmetrie sono rintracciabili anche in quelle azioni dal vivo che dovrebbero teoricamente concentrarsi solamente sul gesto, inserendosi in uno spazio dato senza modificarlo, secondo dinamiche più vicine al teatro che alla live art. Così, quasi tutti noi performer italiani, veniamo accusati prima o poi di essere troppo “teatrali”. Quest’accusa si situa naturalmente in quella psicosi da definizione-di-campo che da troppo tempo ammorba la Performance Art, costringendola a distinguersi arcignamente dal teatro. C’è inoltre una importante tradizione performativa legata alla parola, alla action poetry, alla poesia sonora, che mi sembra davvero un fenomeno peculiare italiano, per il successo e la fortuna che ha avuto, dalla poesia epistaltica di Mimmo Rotella degli anni ‘60 in poi (basti pensare alle performance di Nicola Frangione, Giovanni Fontana, ma anche ad alcuni miei lavori recenti). Altro elemento è la presenza massiccia del video, sia nella forma drammaturgica del video-teatro che in quella del video interattivo (e qui bisogna citare Giacomo Verde). C’è, in generale, una complessità particolare nella performance italiana, una naturale ibridazione e stratificazione di linguaggi che sembra puntare sempre all’opera d’arte totale. Come se la performance non fosse semplicemente una parentesi di vita che ti racconta una piccola parte della storia attraverso un gesto – cosa che oramai credo fermamente sia la Performance Art – ma una chiave di lettura filosofica per comprendere il mondo, come una sorta di teoria artistica del tutto. Naturalmente mi inserisco anche io in questo movimento più o meno consapevole, anche se negli anni ho inaugurato una sorta di “decrescita felice” delle mie opere performative, verso un impianto meno stratificato di segni. Nota importantissima: l’ironia. La Performance Art italiana, per fortuna, è una delle poche che sa gestire bene questo elemento preziosissimo, in grado di ribaltare ogni presupposto ideologico dell’azione e svelarne i risvolti sorprendenti.

D.V. Dalla sua esperienza, potrebbe indicarci delle caratteristiche, delle tensioni nelle performance tra gli anni ‘90 e anni zero?

F.F. La performance degli anni ’90 propone un ripensamento profondo del pianeta “corpo” rispetto alla centralità ritualistica e intimista che gli aveva attribuito l’inconscio molecolare degli anni ’70. La dimensione politica del corpo, che si era fatto manifesto di riscatto e protesta, di rivendicazioni e contestazioni, si situa a mio parere nel contesto ancora umanistico della cultura occidentale dai tempi del Rinascimento. Adesso improvvisamente si svuota, si dissangua, perde per sempre le sue difese immunitarie, la sua centralità filosofica, e viene colonizzato dalle forze che premono dall’esterno, in primis la macchina. Si tratta di un processo evolutivo e involutivo allo stesso tempo, che ha il carattere definitivo delle grandi rivoluzioni culturali. L’olocausto dell’AIDS dalla metà degli anni ’80 ha sconvolto il mondo, diffondendosi con particolare accanimento proprio negli ambienti creativi, sterminando artisti, musicisti e intellettuali, da Keith Haring a Freddy Mercury, privando così un’intera generazione del suo cervello. Questa generazione acefala, priva di una guida spirituale, ha osservato le dinamiche terrificanti e distopiche di questa nuova pestilenza: una malattia che non ha una sua identità che la connoti in una sintomatologia precisa, per quanto orribile, ma è un cavallo di troia biologico che penetra le difese del corpo e le disintegra, lasciando entrare tutti i mali del mondo. Il corpo post-aids diventa entità aliena che non ci appartiene più, in un capovolgimento estremo rispetto al glorioso antropocentrismo della Body Art degli anni ’70: un ricettacolo del male, dell’ignoto, del virus (biologico e tecnologico) e delle distopie postumane. Un corpo senza sistema immunitario, a definire i suoi confini, è un corpo senza identità, e può quindi ripensarsi completamente per diventare altro, rifondersi, ibridarsi, contaminarsi e, infine, evolversi in nuovi scenari del pensiero e della cultura.

La Body Art estrema degli anni ‘90 si evolve in maniera decisamente radicale e, letteralmente, finisce in un bagno di sangue. Il sangue diventa elemento quasi sacrificale, che si stacca dal corpo del performer – oramai svuotato e decentrato – quasi fosse corpo estraneo, diventando elemento connettivo, network, rete, fluido empatico e prova salvifica. Qui entra in gioco naturalmente il discorso fatto rispetto all’Aids e alla crisi culturale determinata dalla sua diffusione. Il sangue, simbolo di comunione eucaristica, diventa vettore dell’infezione. Nella performance di Body Art estrema si trasforma nell’ingrediente di una viralità empatica che si fa rete sociale ed emozionale. Così Ron Athey, omosessuale e sieropositivo dichiarato, lavora con il suo sangue in scena, pericolosamente, in una serie di azioni che mescolano richiami allo sciamanesimo e alla cultura pop. Lavora con il sangue anche Franko B, che nella magnifica I Miss You (1999) simula una sfilata di moda, ma con il suo corpo nudo, dipinto di bianco e sanguinante, passeggiando avanti e indietro mentre il telo ai suoi piedi si tinge di rosso.

D.V. Le sue performance hanno due modi di permanere. In un caso attraverso il video, nell’altro attraverso il riutilizzo dei “resti” delle performance. Può parlarci di quest’uso a posteriori?

F.F. L’idea del relitto performativo, o della reliquia, dell’osso di seppia, è un processo speculare rispetto all’abbandono dell’oggetto nell’arte contemporanea. Nel generale processo di ibridazione e osmosi che subiscono i linguaggi artistici oggi, l’azione performatica del dipingere è importante almeno quanto il prodotto della pittura (action painting), mentre il prodotto residuale di un’azione performativa è importante quanto la performance stessa. In quella reliquia performativa si racchiude l’energia pura dell’azione, la documentazione parziale di quello che è avvenuto, il gesto del performer, come in un’impronta digitale. Lo spettatore lo intuisce e, infatti, religiosamente, porta via, spesso senza chiedere il permesso, i relitti manipolati, danneggiati, distrutti, dipinti, mangiati, tagliuzzati o bruciati, perché contengono la memoria dell’azione, la firma del performer. Ho un amico che segue i miei lavori e che sta collezionando feticisticamente gli oggetti residui di tutte le mie performance. Io riutilizzo questi oggetti assemblandoli all’interno di sculture, di installazioni, o riproponendoli all’interno dei miei video. Brandelli del costume rosso di Ofelia, utilizzato nel mio film sperimentale Ofelia non annega, sono assemblati nel blu-ray in edizione limitata, mentre i collant sporchi di vino rosso della versione estesa della performance Fair&Lost sono stati imbottigliati ed esposti insieme al video dell’azione in molte gallerie d’arte. Per quanto riguarda il residuo video delle performance, si tratta di un discorso ulteriore e più complesso, in quanto la versione video dei miei lavori di live art non è mai semplice documentazione, come lo sono invece gli oggetti reliquia, ma reinterpretazione filmica del lavoro dal vivo, nella forma originale della videoperformance.

D.V. Alcune sue performance sono agite in studio esclusivamente per testimoni elettronici e digitali. Agire per un occhio silente, invece che per spettatori animati, quali differenze comporta nel suo modo di agire?

F.F. Innanzitutto è importante dire che la rielaborazione filmica della Performance Art, nel mio modo di agire, la trasforma in altro: non è più Performance Art o cinema, ma un prodotto terzo che nasce da questa ibridazione, utilizzando il linguaggio e tutti i dispositivi propri del media digitale. Il prodotto non è mai una mera documentazione di una performance, ma un vero e proprio film realizzato con un linguaggio ibrido tra cinema e Performance Art, per valorizzare, sublimare, distillare entrambi i linguaggi, cercando di riprodurre lo sguardo emotivo dello spettatore. In questo senso la videoperformance mi permette di superare le restrizioni inevitabili di un’esperienza dal vivo davanti al pubblico. L’unica regola che adotto, per cercare di restituire la freschezza e autenticità del gesto performativo, è che nulla venga mai provato prima, se non nella mia testa. Tutto viene accuratamente preparato, ma l’azione avviene per la prima volta davanti all’unico freddo e onnisciente spettatore nella stanza: la videocamera. Quindi devo assicurarmi preventivamente di avere tutti gli stacchi e i punti di vista che mi serviranno nella sacra distilleria della fase di montaggio. Non dovendo rendere conto ad un pubblico, posso naturalmente posizionare diverse videocamere, anche molto piccole e praticamente invisibili, nascoste nel pavimento o appese al soffitto, a coprire tutto lo spazio performatico, in modo da ricreare una sorta di cupola videografica sullo stile degli studi per le dirette televisive. A differenza della documentazione rigorosa e purista di una performance dal vivo, che spesso deve essere prodotta, come mi dicono alcuni amici talebani della Performance Art, da un’unica videocamera su cavalletto fisso e inquadratura totale, la videoperformance “anarchica” può utilizzare e stressare le prerogative del linguaggio filmico: utilizzando più punti di vista – soprattutto punti di vista impossibili per il pubblico –, effettuando contrazioni temporali nel montaggio, sintesi emotive e simboliche. Nello stesso tempo, è proprio il mezzo filmico che può restituire parte dell’esperienza reale che avrebbe lo spettatore, e che la mera documentazione purista non può restituire. Infatti, fino a prova contraria lo spettatore non è una videocamera. La vista umana è emotiva, ovvero predisposta a focalizzare (come in una sorta di zoom emozionale) su alcuni punti della scena, su alcuni colori, su alcuni oggetti, oscurando il resto, contraendo o dilatando il tempo in base alle emozioni. Lo spettatore non vede mai un campo totale e il tempo percepito non è quello senza tagli della documentazione purista. In TYPO#3, infilo una GoPro sotto la tastiera della macchina da scrivere, per restituire la vista del suono martellante della Olivetti.

D.V. Nelle sue azioni la performance è in continuo dialogo con il video e con l’interaction design, assumendo a volte dei modi vicini all’installazione, ma quello che mi sembra essere costante è la necessità di espandere il corpo umano. Da dove nasce questa urgenza e che relazioni permette con gli spettatori rispetto ad una performance non mediatizzata?

F.F. Nelle mie performance ci sono sempre diversi elementi che convivono e che amplificano il mio corpo e lo trasformano, venendo a loro volta amplificati e trasformati. C’è sempre qualcosa di molto semplice, organico e analogico, che però nasconde in potenza un’anima elettronica. Io uso molto spesso semplici elettrodomestici o strumenti medicali, stravolgendo il DNA del loro design, lo scopo per cui sono stati concepiti. Mi piace capire come funzionano e poi hackerarli in senso dadaista: prendere una cosa che è stata prodotta per uno scopo preciso e usarla per qualcosa di completamente diverso. I robot pulitori di The Paperwall diventano robot sporcatori, l’elettrostimolatore che serve per la terapia del muscolo danneggiato diventa uno strumento di tortura una volta regolato al massimo della potenza, il microscopio digitale che serve per identificare l’elemento tumorale viene utilizzato per creare mandala partendo proprio dall’errore cutaneo e dalla cicatrice. Lo spettatore assiste quindi non tanto ad un’amplificazione, ma ad una trasfigurazione, sia del dispositivo che del corpo, e questo mi permette di proporre nuove e sorprendenti letture del reale dove nulla è veramente ciò che sembra. In questo senso avviene un’amplificazione della conoscenza che non potrei ottenere in una performance non mediatizzata.

D.V. Oggi siamo tutti rappresentati digitalmente (avatar, account vari ecc.) e il nostro respiro digitale lascia tracce ovunque, spesso in modi referenziali. Nelle sue performance tecnologiche mi sembra, invece, che la rappresentazione di sé lasci spazio a diverse possibilità di soggettivazione. Penso agli impulsi esterni di Fair and lost (2013), in cui c’è un processo di assoggettamento, o a The golden age (2014), in cui il lavoro su di sé diventa una vera e propria elaborazione del sé aperta agli spettatori, o il Super-Selfie (2017) che sfocia in un atto di auto-cannibalismo rappresentativo. Cosa ci dicono queste performance dell’identità del soggetto contemporaneo?

F.F. Io parlo sempre di identità sfaccettate, ambigue e contraddittorie, di cui nessuno conosce il destino ultimo e la vera intima natura. Fortunatamente la rivoluzione cyborg ha destabilizzato la mensola cartesiana dove avevamo catalogato ed etichettato il vivente, facendoci ripiombare in una dimensione orgiastica e olistica colma di possibilità e sfumature, in cui nulla è più binario. L’identità del soggetto contemporaneo è, parafrasando ancora una volta le parole di Donna Haraway, un compost: materiale organico di varia natura che, per azione dei batteri, si decompone, si mescola e si trasforma in nutrimento per altre forme di vita. Siamo identità culturali e biologiche in costante processo di decomposizione e trasformazione, mostruose e grottesche, nel senso barocco che suscita meraviglia, e incapaci di trattenere alcuna forma precisa.

In particolare Super-Selfie, uno dei lavori che hai citato e che amo di più, che tratta il concetto del ritratto dell’artista che diventa prodotto commestibile, e nello stesso tempo rievoca le immagini delle maschere mortuarie. Io prendo un calco in alginato del mio volto, che assume le diverse pose iconiche dei selfie, e poi lo utilizzo come calco per realizzare delle torte di cioccolato e glassa da dare in pasto agli spettatori. L’autoscatto dell’artista, il cannibalismo artistico, la tradizione delle maschere mortuarie nelle civiltà occidentali e orientali, la comunione religiosa nell’arte, la vanitas vanitatum, l’energia dell’io che passa attraverso il pasto rituale, l’artista che si dona al pubblico e il cibo che è morte e vita allo stesso tempo: questi sono alcuni dei concetti che si intrecciano caoticamente, si mescolano e confluiscono nel lavoro, in un continuo riferimento di simboli e reminiscenze personali e collettive, che dalla tradizione dell’arte e dalla filosofia classica convergono nel mondo contemporaneo.

D.V. Nelle sue performance molto spazio è dato al suono. Qual è il suo rapporto con l’immagine acustica e che ruolo ha nelle sue performance?

F.F. Il suono ha sempre avuto un ruolo importantissimo nel mio lavoro, nei miei video e nelle mie performance. A volte mi capita di partire proprio dal suono per sviluppare una performance, un’animazione o la sequenza di un film. Mi affascina in particolare il suono

generativo, interattivo, e la possibilità di creare una reazione sonora al gesto e al movimento in tempo reale. Oppure mappare lo spazio, aumentarlo, nascondendoci dentro dei suoni che vengono poi attivati quando quell’area viene sollecitata dal movimento. Sostanzialmente mi affascina il fatto che tutto è traducibile in suono, perché ogni evento, ogni forma, ogni fenomeno è traducibile in informazione numerica.

D.V. The call center (2019) mi sembra inaugurare una riflessione sulla vocalità. Una voce impegnata in un’attività poetica viene in contatto telefonicamente con sconosciuti. Cosa accade a questa voce, cosa deve affrontare e quali sono state le reazioni che la hanno più colpita?

F.F. The Call Center è una performance molto recente che ho realizzato in collaborazione con il poeta eoliano Davide Cortese. L’idea è molto semplice: Davide si siede al tavolo e apre le pagine bianche. Senza pensarci troppo sceglie un numero a caso e chiama. Quando intercetta una presenza umana dall’altra parte del filo, comincia a recitare una poesia dalla pila di libri che tiene accanto al telefono. Una roulette russa poetica, inaspettata, imprevista e imprevedibile, scevra da mediazioni, presentazioni, preliminari, filtri e formule di cortesia. La voce deve affrontare il disagio, il rifiuto, l’insulto e, nel frattempo, deve studiare il modo migliore per tenere il cliente al telefono fino alla fine della poesia, che è poi l’intenzione della performance (che coincide anche con la mission degli operatori dei call-center). In questo senso l’addestramento di Davide Cortese nel telemarketing ha reso tutto più semplice e, direi, professionale. Le reazioni degli sconosciuti sono inaspettate: silenzio, divertimento, sconcerto e, come qualcuno ha avuto poi il coraggio di confessare, puro terrore. Occhi sgranati e fronti aggrottate, in qualche angolo della città, davanti ad un evento inimmaginabile e incomprensibile: uno sconosciuto che ti chiama per dedicarti una poesia. Ma a volte invece l’interlocutore reagisce, sta al gioco, si fa trascinare nel mondo poetico di Davide. Ed è allora che il dispositivo performatico esplode e improvvisamente si creano situazioni sorprendenti e magiche. Riscopriamo finalmente la bellezza della nostra fragilità umana, dell’empatia e della follia, parlando al telefono con uno sconosciuto. Mi ha molto colpito quando Davide ha chiamato un numero dall’elenco e si è scoperto poi che lo sconosciuto era anche lui un poeta. A quel punto Davide lo ha invitato a recitare le sue poesie, rivelando il contesto della performance.

D.V. Il progetto Typo (2014-2017) è “tra le arti”, la performance oscilla tra teatro, danza, videoarte. Potrebbe parlarci di questo progetto e delle differenti versioni realizzate?

F.F. Typo è un progetto fatto di narrazione, canto e scrittura. Il tema centrale è l’evoluzione della conoscenza umana attraverso la parola, arma a doppio taglio di un’intelligenza che smista, divide, sminuzza e archivia il creato, organizzandone le dinamiche per trovare un ordine ideale, irraggiungibile e utopico, eliminando le sfumature. La macchina da scrivere, onnipresente in scena, è il simbolo di questa meccanizzazione dello spirito in nome dell’efficienza, che diventa trappola mortale e strumento di dolore auto-inflitto. Il progetto consiste di tre performance finite, e di una quarta su cui sto lavorando proprio in questi giorni.

In Typo#3 – Ofelia non annega (2016), un’infermiera preleva, in scena, sei fiale del mio sangue, con cui alimento il nastro vergine di una vecchia macchina da scrivere Olivetti Lettera 32, quindi comincio a scrivere parole di libertà, con il mio stesso sangue. L’infermiera prende i fogli scritti, uno dopo l’altro, e li attacca a sottili fili trasparenti appesi al soffitto, fino a creare un muro di parole di sangue, che copre progressivamente la scena. Questa performance è ispirata ad un tragico fatto di cronaca del ‘51. Duecento ragazze si presentarono in Via Savoia 31, a Roma, davanti agli uffici di una ditta che aveva pubblicato un annuncio sul Messaggero: “Cercasi dattilografa. Primo impiego, miti pretese” diceva l’offerta di lavoro, in una città incattivita dalla fame del dopoguerra. Improvvisamente, tra l’ansia e la frustrazione della folla di ragazze assiepate sotto gli uffici, si diffuse come un virus la voce che una “raccomandata” era riuscita ad entrare per prima, passando davanti alle altre. Le ragazze cominciarono allora ad accalcarsi e a spingere sulla scala, che non riuscì a sostenere tutto quel peso. Settanta di loro rimasero ferite nel crollo, mentre una di loro perse la vita. Il cinegiornale Luce che raccontò l’incidente è surreale: una squillante voce maschile racconta l’accaduto, con una narrazione paternalistica che mette in evidenza il rossetto e le borsette, le calze di seta che le ragazze avrebbero voluto comperare col primo stipendio, mentre vediamo la facciata del palazzo, i vigili del fuoco al lavoro sulle lunghe scale di legno, l’ingresso sventrato “come da una bomba”, le ragazze ferite sulle barelle, l’ambulanza che parte verso l’ospedale. Siamo nel presente, nel reame della Performance Art che ripensa la cronaca del passato nella metafisica di un simbolo/feticcio: la macchina da scrivere. La macchina da scrivere, strumento di schiavitù e allo stesso tempo icona della libertà (di parola), protagonista di una catena di automatismi. Ci troviamo in un ambiente completamente bianco. Ofelia è tornata in manicomio? Come in uno di quegli incubi dove ti ritrovi sempre nello stesso luogo/prigione/ossessione? Una delle donne afferra un ago-cannula e lo infila nel braccio dell’altra. Preleva il suo sangue con guanti di lattice e lo raccoglie in una fila di provette dal cappuccio turchese. Il sangue viene poi versato in un grande calice dove le due donne immergono un lungo nastro di raso bianco. Una volta imbevuto di sangue, il nastro viene steso attraverso la stanza – grondante di sangue, nel bianco, coma una ferita nello spazio accecante –, riavvolto intorno ad una vecchia bobina arrugginita e avvitato nella pancia aperta di una Olivetti Lettera 32.

Typo#4 (2017) è invece una performance di poesia visuale in cui le parole di un poeta si trasformano in note musicali e immagini. La melodia che ascoltiamo, e il racconto visivo che si dipana davanti a noi dal vivo, non dipendono da un’intenzione musicale; sono determinati esclusivamente dalla successione di lettere, parole, versi e pause espressive. Protagonista della performance è una vecchia macchina da scrivere Olivetti Lettera 32, i cui tasti sono cablati e collegati ad un computer. Grazie all’uso di un software di interaction design, ogni tasto della macchina – e quindi ogni lettera dell’alfabeto – produce una nota precisa e allo stesso tempo attiva un clip video associato a quella particolare lettera alfabetica. La macchina da scrivere, nel suo splendore di cimelio da collezionisti, è quindi al tempo stesso congegno di scrittura meccanica, strumento musicale e mixer video. Immagini, note, rumore (sonoro e visivo) si mescolano al ritmico battere dei tasti, e si intrecciano in base alle parole che scrivo. E così scopro che esistono frasi intensamente melodiche e struggenti.

Typo#2 (2014), è un vero e proprio spettacolo teatrale realizzato in collaborazione con il suonatore di ghironda medievale Pierpaolo Caputo e con l’attrice Anna Bastoni. Un testo ispirato liberamente al Me-ti di Bertolt Brecht, che diventa spartito fatto di corpi pulsanti e presenti, di gesti, di immagini in movimento, di suoni e visioni generate dal vivo, di sollecitazioni improvvise, di congegni elettronici interattivi: una vecchia Olivetti Lettera 32 con puntine affilate al posto dei tasti, una ghironda elettronica, una macchina da scrivere degli anni ‘40, microfonata e amplificata. Sono questi gli ingredienti di una Gesamtkunstwerk che guida le azioni di un danzatore, una performer e un musicista, i vertici di una coreografia triangolare, un meccanismo ad orologeria che si muove puntellandosi al Meccanimus, Anima e Macchina allo stesso tempo, la grande casa/scultura che prende vita al centro della scena.

Francesca Fini, Eternal Tree (2010), foto di Lotus C.
Francesca Fini, Eternal Tree (2010), foto di Lotus C.

D.V. Nelle sue performance c’è spesso un tema di fondo che le slega dall’autoreferenzialità di molte performance storiche. Questa mi sembra essere una caratteristica che nel nuovo millennio cresce nelle pratiche performative, sempre più politiche – con un’accezione ampia del termine. Il problema della cultura che si assottiglia rendendo ogni nostro gesto difficoltoso in Capoverso (2015), e soprattutto uno scandagliare l’immaginario occidentale, come in Western Meat Market (2010) e I was there (2014), in cui sono in gioco stereotipi sulla carne asessuata e sul corpo femminile. Come equilibri (o disequilibri) il gesto e le sue interazioni mediatiche con l’azione politica?

F.F. Ho una certa resistenza a parlare di azione politica riflettendo sul mio lavoro. Le mie performance sono come sedute spiritiche che evocano paradossi, provocando e incoraggiando la discussione. In questo, sicuramente sono azioni politiche senza contenere un messaggio politico. Io parto molto semplicemente dalle immagini che mi hanno colpito, che ho eventualmente elaborato a livello inconscio e onirico e che poi, alla fine, acquistano un senso. Il senso, la portata politica delle azioni, la scopro sempre a posteriori, non la ricerco consapevolmente, perché credo ancora che la funzione dell’artista non sia educare, ma esprimere. Ovviamente tutti noi portiamo nel nostro lavoro quello che ci angoscia, che ci preoccupa, che ci appassiona, e quindi un universo profondamente politico.

D.V. Nella sua pratica artistica mi sembra che performance e memoria siano inseparabili. Non mi riferisco al repertorio di gesti, ma ai cortocircuiti che le sue azioni creano attraverso l’assunzione di un corpo segnato dalla cultura e dalla civiltà occidentale. Possiamo ripensare il passato e contemporaneamente protenderci nel presente, riattivare piccole porzioni temporali. Mi sbaglio?

F.F. La memoria è una lettera morta, fino a quando l’immagine vivente e pulsante non emerge dall’inconscio, attivata dalla necessità di riflettere noi stessi nel mondo esterno e, principalmente, in altri esseri viventi. I bambini imparano a parlare osservando il movimento della bocca della madre. In parole povere, memorizzano il suono della lingua che parleranno da adulti attraverso un’immagine della carne. La teoria del neurone specchio mi ha sempre suggerito questa immagine viscerale: la memoria è sempre carne, qualcosa che inizia e finisce nella carne (un’immagine cronenberghiana che spiega anche la mia totale attrazione e dedizione per l’arte performativa come linguaggio principale del contemporaneo). La nostra creatività, il sangue intimo della memoria, nasce dall’osservazione di altri esseri viventi e dalla capacità di riflettere noi stessi in loro. La memoria diventa un meme di carne e non è più egoista (parafrasando Richard Dawkins), perché l’empatia ci collega tutti su questa terra, come un vero mezzo di conoscenza e apprendimento, e quindi di sopravvivenza. La memoria è quindi per me un fatto profondamente fisico, ed ogni azione fisica nasce da un ricordo. In questo senso è assolutamente vero che possiamo ripensare il passato e contemporaneamente protenderci nel presente, camminando un passo alla volta su piccole porzioni di tempo. Questa è, in effetti, parte integrante della mia pratica. In particolare c’è un lavoro che sintetizza proprio questo rapporto empirico, sperimentale e profondamente fisico con la memoria: si tratta di Mother-Rythm, un progetto performativo, espositivo e videoartistico del 2014. Il fulcro di questo progetto sono dei fotomontaggi e dei fotoritocchi in cui mi inserisco, bambina e ragazza, nelle foto di mia madre da bambina e da ragazza, immaginando di essere stata una sua coetanea, una sua compagna di classe a scuola, la sua migliore amica. In una sorta di rituale psicomagico, affronto l’idea impossibile di tutti i figli che i genitori abbiano avuto una vita prima della loro nascita, e scopro con tenerezza una ragazzina paffuta di 5 anni con un bizzarro cappello di paglia. Stili e modi della narrazione si sovrappongono e si compenetrano in un viaggio in cui il tempo si flette e si piega fino a quando incontro mia madre in una dimensione astorica ma piena di significato – perché in questo incontro impossibile raggiungo il senso della mia vita, profondamente segnata da questo confronto. Nella versione performativa del progetto, agisco in pubblico insieme a mia madre, creando con lei una fitta rete di connessioni grazie ad un filo di lana rossa.

Francesca Fini, Eternal Tree (2010), foto di Lotus C.
Francesca Fini, Eternal Tree (2010), foto di Lotus C.

V.V. Cosa pensa del reenactment di performance del passato?

F.F. Credo sia un’operazione molto interessante e, forse, l’unica documentazione autentica e possibile di una performance, anche perché si tratta di fatto di una ri-attualizzazione del lavoro che non potrà prescindere dall’aggiornamento della location, dalla diversa sensibilità del pubblico che assiste e che porta nel lavoro istanze del tutto nuove e infine dai performer chiamati a restituire la performance, che vivono nella contemporaneità, manifestandola nel loro aspetto, nel loro stare al mondo.

Roma, 6 febbraio 2020

Author

Valentina Valentini, docente di Alta Qualifica presso il DPTA, La Sapienza, Roma. Ha dedicato vari studi storici e teorici al teatro del Novecento: Teatro contemporaneo 1989-2019 ( Carocci, 2020), Nuovo teatro Made in Italy ( Bulzoni,2015), pubblicato in inglese da Routledge (New Theater in Italy: 1963-2013), Drammaturgie sonore 1 (Bulzoni, 2012) e Drammaturgie sonore 2, (Bulzoni 2021), Mondi, corpi, materie. Teatri del secondo Novecento (B. Mondadori, 2007 in inglese pubblicato da Performance Research Books, 2014), Dopo il teatro moderno (Politi,1989), Il poema visibile. Le prime messe in scena delle tragedie di Gabriele D’Annunzio (Bulzoni,1993), La tragedia moderna e mediterranea (Angeli, 1991); alle interferenze fra teatro e nuovi media (Teatro in immagine, Bulzoni, 1987) e alle arti elettroniche (Medium senza Medium, Bulzoni 2015; Le pratiche e Le storie del video, Bulzoni, 2003). Pubblica su riviste nazionali e internazionali («Performance Research», «PAJ», «Biblioteca Teatrale», «Close Up», «Arabeschi»). È responsabile del network «Sciami» e dirige la webzine «Sciami|ricerche».

Author

Daniele Vergni, dottorando in Spettacolo presso la Facoltà SARAS dell'Università La Sapienza di Roma, si occupa di Performance Art e del Nuovo Teatro Musicale in Italia nella seconda metà del Novecento. È redattore della rivista «Sciami|ricerche», membro del gruppo Acusma e di Nuovo Teatro Made in Italy, diretti dalla Prof.ssa Valentina Valentini. Collabora con la rivista «Artribune» e ha collaborato con «Alfabeta2». Tra le sue pubblicazioni Nuovo Teatro Musicale in Italia (1961-1970) (Bulzoni, 2019). Per il progetto ERC “INCOMMON In praise of community. Shared creativity in arts and politics in Italy (1959-1979)” diretto dalla Prof.ssa Annalisa Sacchi ha pubblicato il saggio Fare Musica. L’azione “teatrale” di Giuseppe Chiari negli anni Sessanta (in Ilenia Caleo, Piersandra Di Matteo, Annalisa Sacchi (a cura di), In fiamme. La performance nello spazio delle lotte (1967-1979), Bruno Editore, Venezia 2021, pp. 360-369).

Author

Francesca Fini è un’artista interdisciplinare che da anni si muove in quel territorio di confine dove le arti si ibridano, cercando di distillare una sintesi personale proprio nel linguaggio performativo e videoperformativo contemporaneo. Negli anni ha presentato il suo lavoro al Museo MACRO e MAXXI di Roma, al Guggenheim di Bilbao, al Schusev State Museum of Architecture di Mosca, alle Tese dell'Arsenale di Venezia, al Georgia Institute of Technology e in numerosi ambiti accademici nazionali e internazionali. Ha performato a Toronto per FADO Performance Art Festival, a Chicago per Rapid Pulse Festival, a Belo Horizonte per FAD Festival De Arte Digital, a San Paolo e a Rio per FILE Electronic Language International Festival, a Madrid per IVHAM e Proyector Festival, a Mumbai per Kala Ghoda e a Tokyo per il Japan Media Arts Festival. A Venezia ha preso parte alla prima Venice International Performance Art Week, nei suggestivi spazi di Palazzo Bembo. Nel 2014 e nel 2016 è stata selezionata da Bob Wilson per partecipare alla residenza artistica presso il Watermill Center di New York, e successivamente invitata alla Triennale di Milano per un evento del Watermill presso l’Illy Art Lab. Ha la sua base in Italia, ma espone, ricerca e lavora in tutto il mondo. Nel 2016 ha ultimato il film sperimentale Ofelia non annega (con Istituto Luce Cinecittà), inserito da Adriano Aprà tra i migliori film italiani degli ultimi 10 anni. La Treccani cita Francesca Fini alla nuovissima voce cyber-performance, come una degli artisti più significativi di questo linguaggio in Italia.