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n. 7 - aprile 20, Teatro

Performance Art: appendice sugli anni zero

VestAndPage, Foto di VestAndPage, foto di Sérgio Prucoli, Wikimedia Commons.

ABSTRACT

Dall’antropocentrismo e collettivismo della body-art degli anni ‘70, alla profonda crisi culturale e biologica degli anni ‘80 e ‘90, quando virus pandemici, yuppismi rapaci, muri in caduta libera e sogni libertari in rapida rotta di collisione con bolle economiche esplosive portano alla disintegrazione delle certezze sociali, economiche e biologiche dell’Occidente, attraversiamo la grande stagione infantile/virile del post-human, e arriviamo infine agli Anni Zero, dove una generazione decapitata delle sue guide spirituali e dei suoi movimenti culturali reinventa se stessa, autarchicamente, cercando strade alternative e personali, penetrando ecosistemi nuovi e nuove infezioni, nella frammentazione metafisica della rete e dei linguaggi.

In un certo senso le profezie del cyberpunk degli anni ‘80 e ‘90 non si sono avverate. Non ci siamo trasformati in macchine alla Tetsuo, acquisendo esoscheletri metallici che hanno divorato la nostra pelle, arti artificiali aggiuntivi alla Stelarc, antenne e occhi bionici da supereroi. Il futuro sta andando in una direzione diversa, quella della nanotecnologia, della miniaturizzazione delle macchine, dell’amplificazione dei nostri sensi nel cloud digitale. La tecnologia ci sta colonizzando dall’interno, come un batterio, come un virus. Ma anche grazie a una connessione sempre più fitta alla rete, il nuovo inconscio/conscio collettivo cui potremmo accedere in futuro letteralmente battendo le ciglia, grazie a microchip impiantati nella corteccia cerebrale. Attraverso la realtà aumentata e virtuale, al mondo fisico si sovrapporranno nuovi strati di segni, significati e informazioni digitali, fino a quando la materia diventerà il freddo segnaposto di una realtà altra, persino più viva e urgente, perché in continuo aggiornamento, in un processo di amplificazione esponenziale dei nostri sensi. Gli scenari sono molteplici, anticipati dall’arte e dalla cultura pop, e appaiono tutti spaventosi e nello stesso tempo affascinanti.

Gli anni ‘90 si chiudono proprio con l’idea di Donna Haraway del cosiddetto pensiero tentacolare, che si muove insieme alla sua teoria del Chthulucene1. Il termine viene dal greco khthon, e indica il mondo del sottosuolo e le energie oscure e misteriose che lo abitano, che comunicano attraverso i percorsi intelligenti degli insetti, la chimica della decomposizione e del nutrimento, le invisibili connessioni elettriche tra le radici delle piante. L’era dello khthon è quindi quella delle connessioni impercettibili e sotterranee, che spingono in superficie la loro solare punta dell’iceberg, la loro parte fruttifera. La realtà si trova al di sotto, nel compost, nella rete infinita di relazioni e collaborazioni organiche silenti, nella stratificazione di viscerali alleanze geologiche e biologiche tra animali, vegetali e minerali, vertebrati e invertebrati, chimica e fisica, in un sistema olistico di cui l’uomo è solo una piccola parte. Direbbe Nietzsche che l’apollineo è scomparso negli anni ’90, e che ora è il tempo del dionisiaco. Interessante come in questo contesto si siano diffuse le pratiche performatiche legate alla bio arte. Il termine bio arte è stato coniato dall’artista brasiliano Eduardo Kac, il primo ad integrare l’osservazione e la manipolazione dei processi biologici all’interno delle sue opere. Si tratta naturalmente di uno step ulteriore, che mette in crisi il nostro senso estetico e anche etico, perché ci costringe a rinegoziare il concetto di limite, di confine tra il mondo animato e quello inanimato, tra soggetto e oggetto.

Eduardo Kac, Genesis, Ars Electronica 1999, foto di Dave Pape, Wikimedia Commons.
Eduardo Kac, Genesis, Ars Electronica 1999, foto di Dave Pape, Wikimedia Commons.

Ho letto molto su una sua complessa performance partecipativa intitolata Genesis (1999), perché ci riporta all’idea del Chthulucene della Haraway attraverso la genetica. Kac prende la famosa frase della Bibbia «E Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza: e lasciamo che abbia il dominio sui pesci del mare, sugli uccelli dell’aria, sul bestiame, su tutta la terra e su ogni cosa strisciante che si insinua in essa», e la traduce nelle coppie di base della genetica, producendo un vero e proprio gene sintetico in laboratorio. Un gene che poi fu inserito dentro alcuni batteri, con cui il pubblico della mostra poteva interagire tramite una luce ultravioletta che però avrebbe modificato la struttura del batterio e quindi il passo biblico contenuto nel suo dna artificiale. Quindi alla fine era l’uomo, rappresentato dal pubblico della performance, che avrebbe modificato la parola di dio, manipolando il vivente che custodiva il passo biblico nel suo patrimonio genetico. Cito solamente un’altra opera, che si ricollega in un certo senso al lavoro di Orlan degli anni ‘90, ma con quel tocco di ironia e di disincanto tipica della nuova era. Si tratta di Savon de Corps (2004), dell’artista argentina Nicola Costantino. Nicola si sottopone ad un’operazione di liposuzione performatica e poi raccoglie il grasso ottenuto dal suo corpo per farne delle eleganti saponette a forma di busto femminile. L’opera però, a differenza di Orlan, va oltre la performance chirurgica e diventa operazione di marketing. Il lavoro prende la forma del lancio di un prodotto cosmetico di lusso, e comprende una foto retroilluminata e molto glamour dell’artista, una vetrina in acrilico e marmo di Carrara e l’esposizione della saponetta accompagnata da uno spot pubblicitario di 40 secondi.

Nicola Costantino, foto di Silvina Frydlewsky, Wikimedia Commons.
Nicola Costantino, foto di Silvina Frydlewsky, Wikimedia Commons.

Proprio in questo humus culturale rinnovato si manifestano i contributi più interessanti degli artisti italiani che, come nel luogo comune distillato da qualche saggio leopardiano o da qualche film neorealista, sembra che ci regalino il loro genio soprattutto nei momenti di grande crisi economica e culturale. Quello che ho sempre notato è la mancanza di un vero contesto della Performance Art nel nostro paese, e di spazi organizzati e con un progetto lungimirante dedicato alla ricerca e alla promozione di questo linguaggio, in grado di lavorare con le istituzioni, acquisire potere contrattuale, generare fondi e far girare l’economia. E nonostante tutto questo, proliferano però esperienze interessanti, a volte addirittura innovative, quasi sempre sostenute dall’iniziativa dei singoli artisti e curatori, dei collettivi sparsi sul territorio a macchia di leopardo, degli eventi e dei festival spesso autoprodotti e autofinanziati. Boe arancioni in un mare in tempesta. Cito alcuni artisti che mi hanno particolarmente colpita in questi anni, che per comodità divido in tre filoni interessanti del pensiero performatico, partendo da quello post-organico e concettuale. E cito subito Marcello Maloberti, con la sua poetica che mi sembra celebrare la fragilità dell’esistenza e il suo carattere effimero, in particolare con la sua spettacolare Blitz (2012), in cui 25 performer entrano in scena, sollevano sopra la testa 25 pantere nere di ceramica a grandezza naturale e poi, dopo un’attesa che pare interminabile e in cui il pubblico si immedesima nella tensione fisica e nello sforzo dei performer, le pantere vengono gettate a terra, rompendosi in mille pezzi. A quel punto i performer lasciano la sala e il campo è lasciato al pubblico, che si getta sui cocci, sulle reliquie dell’azione. La pulizia e il rigore di Maloberti, e l’elemento ludico che si trasforma subito in qualcosa di inquietante e distruttivo, mi fanno pensare ad un altro artista, questa volta giovanissimo, che negli ultimi anni sta facendo molto parlare di sé, Filippo Berta. Nella sua Istruzioni d’uso (2012), vediamo un gruppo di alpini – che poi scopriamo essere veri alpini in congedo – che tentano di tenere in equilibrio i loro fucili sul palmo della mano. Un’azione difficile, estenuante, che mette a prova la resistenza fisica e la concentrazione militaresca degli alpini. Una dopo l’altra le armi cadono a terra, e la performance termina quando l’ultimo alpino fa cadere il suo fucile. Altra performance interessante, in questo contesto, è secondo me Dai all’artista una tua banconota (valore minimo 50 euro); egli la trasformerà con acido solforico e te la restituirà, corredata di un certificato (2013), di Cesare Pietroiusti. Il lungo titolo coincide con un’azione iconica dal vivo che sottrae alla banconota il suo valore nominale, oramai completamente sganciato da quello aureo, caricandola però di un valore altro, superiore, che è quello dell’oggetto che si trasforma in opera d’arte, attraverso l’alchimia del gesto performatico. Questo elemento ricorrente, in cui l’energia del gesto e l’intenzione della performance si condensa in un oggetto, sublimazione o relitto del lavoro, è rintracciabile in molti artisti italiani, tra i quali ad esempio Angelo Pretolani, attivissimo fin dagli anni ‘70, e che oggi produce delle interessantissime performance solitarie di cui rimane solo la descrizione attraverso dei corti e asciutti post su Facebook, che egli diligentemente pubblica come in un bollettino di guerra – accompagnati dalla foto dell’opera pittorica o installativa realizzata durante l’azione. Trovo inoltre molto interessante il lavoro sulla voce che fa Francesca Grilli, una delle performer più interessanti in Italia. Una ricerca che credo sia iniziata con Moth (2009), una performance dal grande impatto visivo, con una cantante albina che, attraverso la voce, governa l’intensità della luce di una fila di fiamme di un tubo di Ruben, e che prosegue con il recentissimo Dimenticare l’aria, in cui l’artista si confronta con il tema delle migrazioni contemporanee. L’elemento installativo, che si inserisce con prepotenza nella performance contemporanea – tanto che in molti casi, anche per alcuni miei lavori, parlo di installazione vivente – caratterizza il lavoro del duo VestAndPage (Verena Stenke e Andrea Pagnes), noti anche come co-direttori artistici della Venice International Performance Art Week. Nelle loro performance, come ad esempio Endangered Species (2008), il corpo viene manipolato, trasfigurato, si ricopre di detriti come un sasso di mare divorato dalle alghe e dalle conchiglie, diventa scultura vivente e virale che però, lungi dall’idolatrarsi, rivela la sua disperata fragilità e solitu-
dine, in azioni dove si sprigiona una grande energia fisica, viscerale, eroica ed erotica, spesso accompagnate da elementi di Body Art estrema. VestAndPage, con uno sguardo sempre rivolto alla scena internazionale, sono tra i pochi in Italia a lavorare con il format durazionale della performance, ovvero con azioni il cui detonatore è appunto il tempo: un tempo prolungato, diluito, che carica il gesto di un significato rituale. Sono anche tra i pochi a lavorare con la videoperformance, e hanno prodotto alcuni performance-based art film di straordinaria bellezza. E qui mi viene in mente un altro duo artistico che lavora con il video, Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, che hanno prodotto dei bellissimi cortometraggi videoperformativi, come Preson-A, in cui i due performer si fronteggiano contro uno sfondo nerissimo, i loro volti coperti da una sottilissima e invisibile maschera di lattice color carne che i due cominciano a staccarsi dalla faccia reciprocamente, come fosse pelle viva.

Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, Person-A, still frame da video.
Francesca Leoni e Davide Mastrangelo, Person-A, still frame da video.

Il secondo filone di successo della Performance Art italiana degli anni zero è sicuramente quello legato alla tecnologia, ma con uno sguardo disincantato, apocalittico e quasi tragico, come nel caso di Marco Donnarumma. Nella sua Corpus Nil (2016), ad esempio, il corpo è completamente trasfigurato, decentrato, quasi assoggettato in un dialogo fittissimo e direi unico nel panorama della Performance Art, tra i suoi dati biometrici rilevati da sensori e una intelligenza artificiale che opera sul palco, elaborando i dati che provengono dal corpo, influenzando, in base a complessi algoritmi, gli elementi scenici, come la luce e la saturazione del suono, e condizionando i movimenti del corpo. Il duo, attivo dalla metà degli anni ‘90, costituito da Eva e Franco Mattes (0100101110101101.org), sono un esempio di estrema sintesi tra genio mediatico, spirito dissacratorio e ironia. Nei loro progetti, che sollevano sempre feroci polemiche, mettono in atto complessi processi di guerriglia marketing e manipolazione digitale per alterare film, pubblicità, videogiochi, producendo
poi dei “falsi d’artista” che danno in pasto al pubblico e alla stampa, mettendo in crisi il sistema della comunicazione contemporanea. Famosa in tal senso è la beffa di Darko Maver, un artista serbo solitario e maledetto, morto prematuramente nella prigione di Podgorica, ma in realtà frutto della fantasia dei Mattes, così abili nel gestire la sua comunicazione da farlo invitare alla 48sima Biennale di Venezia, per poi svelare l’inganno. Ma se i Mattes sono riusciti a creare un artista dal nulla, grazie alla loro sapiente macchina di comunicazione, è possibile che ciò accada anche con gli artisti veri? Naturalmente questo episodio ci ricorda il famoso fenomeno di Luther Blissett, l’identità fittizia collettiva comparsa per la prima volta a Bologna nel 1994, quando alcuni attivisti culturali iniziarono a usarlo per denunciare le falle del sistema mass-mediatico, con sabotaggi, azioni di guerriglia artistica e culturale, performance, libri e apparizioni.

Eva e Franco Mattes (0100101110101101.org), La Grande Truffa dell’Arte, Darko Maver.
Eva e Franco Mattes (0100101110101101.org), La Grande Truffa dell’Arte, Darko Maver.

Gli anni zero sono anche quelli in cui all’artista performativo si affianca la figura dell’hacker, proprio per le contaminazioni profonde che si sviluppano con la tecnologia informatica e la biotecnologia. Disinnescare il sistema dall’interno significa conoscere il funzionamento e le falle, e l’intenzione può essere tutt’altro che distruttiva, decodificando il linguaggio per elaborare una nuova visione e nuove interpretazioni. In questo senso si configura
il lavoro di AOS (Art is Open Source / l’arte è un sistema open source), il duo composto da Salvatore Iaconesi e Oriana Persico e il loro lavoro che trasforma i dati, hackerati e manipolati, in oggetti performativi. In un progetto in particolare, a cui ho partecipato, la Cura (2012), Salvatore Iaconesi, a cui venne diagnosticato un cancro al cervello, parte dall’hackeraggio della sua stessa cartella clinica, criptata in un formato leggibile solo da strumenti medicali professionali. Salvatore pubblica i dati, finalmente decodificati, sul suo sito web, che diventa “l’ecosistema della Cura”, insieme alle radiografie del suo cervello, e invita medici, artisti, filosofi e poeti a elaborare per lui una cura alternativa. Il sito viene inondato da milioni di ricette, trattati medici, poesie, video, brani musicali e performance, dimostrando l’assunto del lavoro, ovvero che non c’è cura se non nella società, e rendendolo evidente in maniera plastica, il potere della rete nel diffondere conoscenza e risolvere problemi in un sistema di collaborazione globale neurale.

Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, La cura
Salvatore Iaconesi e Oriana Persico, La cura.

Altro importante filone italiano è quello della Performance Art al femminile. Si tratta davvero di un fenomeno vasto e importante che considero un vero e proprio movimento, ricchissimo di sfaccettature e di tensioni che vanno dall’installazione vivente piena di rigore estetico alla performance partecipativa e interattiva, dalla Body Art con incursioni pittoriche e scultoree alla tecnologia lo-fi. Per rendersi conto della portata del fenomeno basterebbe scorrere le pagine del magnifico saggio/memoriale Il Corpo delle donne (2018, InsideArt), della curatrice Lori Adragna, che passa in rassegna le sue collaborazioni negli anni e i profili delle artiste con cui ha lavorato (sono onorata di essere tra queste). Tra le figure più interessanti quelle di Silvia Giambrone, Francesca Lolli, Chiara Mu, Tiziana Cera Rosco, Paola Romoli Venturi, Silvia Stucky, Ginevra Napoleoni, Mona Lisa Tina e Francesca Romana Pinzari.

Di Francesca Romana Pinzari ricordo una bellissima performance che ho trasmesso qualche anno fa sul mio canale Performance Art TV (la prima tv social in Italia dedicata allo streaming della Performance Art, che ho prodotto insieme ad un’altra artista performativa di grande talento, Paola Michela Mineo)2. In questa performance Francesca, ieratica e completamente vestita di bianco, invita il pubblico presso il suo tavolo, uno dopo l’altro, e chiede loro di confessarle all’orecchio un segreto inconfessabile, che lei trascrive con cura su strisce di carta bianca. Quindi si alza, lasciando i foglietti incustoditi sul tavolo, ed esce di scena senza dare ulteriori istruzioni. Dopo un iniziale imbarazzo, il pubblico si alza e si precipita a leggere i segreti abbandonati sul tavolo, cosa che mi ha fatto pensare ad una specie di bacheca di Facebook analogica.

  1. D. Haraway, Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press, Durham (North Carolina) 2016 (trad. it. C. Durastanti, C. Ciccioni, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019).
  2. Cfr. www.performancearttv.com/ (ultimo accesso 30 marzo 2020).
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Francesca Fini è un’artista interdisciplinare che da anni si muove in quel territorio di confine dove le arti si ibridano, cercando di distillare una sintesi personale proprio nel linguaggio performativo e videoperformativo contemporaneo. Negli anni ha presentato il suo lavoro al Museo MACRO e MAXXI di Roma, al Guggenheim di Bilbao, al Schusev State Museum of Architecture di Mosca, alle Tese dell'Arsenale di Venezia, al Georgia Institute of Technology e in numerosi ambiti accademici nazionali e internazionali. Ha performato a Toronto per FADO Performance Art Festival, a Chicago per Rapid Pulse Festival, a Belo Horizonte per FAD Festival De Arte Digital, a San Paolo e a Rio per FILE Electronic Language International Festival, a Madrid per IVHAM e Proyector Festival, a Mumbai per Kala Ghoda e a Tokyo per il Japan Media Arts Festival. A Venezia ha preso parte alla prima Venice International Performance Art Week, nei suggestivi spazi di Palazzo Bembo. Nel 2014 e nel 2016 è stata selezionata da Bob Wilson per partecipare alla residenza artistica presso il Watermill Center di New York, e successivamente invitata alla Triennale di Milano per un evento del Watermill presso l’Illy Art Lab. Ha la sua base in Italia, ma espone, ricerca e lavora in tutto il mondo. Nel 2016 ha ultimato il film sperimentale Ofelia non annega (con Istituto Luce Cinecittà), inserito da Adriano Aprà tra i migliori film italiani degli ultimi 10 anni. La Treccani cita Francesca Fini alla nuovissima voce cyber-performance, come una degli artisti più significativi di questo linguaggio in Italia.