Nel quadro di una estetica patica – che pone al centro la “capacità” di abbandonarsi a ciò che accade e specialmente la percezione dei sentimenti atmosferici, intesi non come qualità interiori ma come quasi-cose che pervadono lo spazio vissuto e sono esperite con una autorità cui è difficile resistere – lo studio mira a dimostrare che la luce (naturale e artificiale) – in quanto tale potente generatrice quasi-cosale di emozioni in grado di teatralizzare affettivamente lo spazio in cui viviamo e gli oggetti con cui abbiamo a che fare – sviluppa tutta la sua potenzialità atmosferica non quando è abbagliante ma quando è attenuata, contaminata da ombre e oscurità. Il crepuscolare, ossia il nebuloso e il vago, lo sfumato e la luce di candela, erodendo le rigide distinzioni tra soggetto e suo ambiente e instaurando una intercorporeità particolarmente dinamica, si rivela l’atmosferico per eccellenza, in grado tra l’altro di generare comunità culturali atmosferiche.
Dalle atmosfere alle quasi-cose
Pur non avendo un nome sintetico per spiegarne la differenza, chiunque distingue facilmente, sul piano pubblico, la luminosità anonima dei non-luoghi da quella poetica e personalizzante dei luoghi storicamente e artisticamente densi, come pure, sul piano privato, la luce-da-lavoro utile alla messa a fuoco da quella accogliente o luce-da-relax che produce intimità e meditazione. E chiunque sa anche (o quanto meno crede di sapere) come orchestrare e differenziare gli effetti della luce a seconda delle esigenze e delle condizioni orarie e climatiche, potendo affidarsi a pratiche cui è consustanziale l’iterabilità e che si risolvono spesso banalmente nella “dimmerabilità” o nella trasferibilità (come nel caso emblematico della lampada a pavimento che “segue” la persona e le sue attività). Chiunque cioè, pur ignorando l’armamentario a disposizione del light designer (specificità delle fonti luminose, filtri, regole ottiche, angolazioni, temperatura e livelli di luce, ecc.), sa che, non appena si accende una luce, questa crea tutta una sequenza di spazi microgeografici e, in forza della sua immanente pervasività, “contagia” gli spazi e gli oggetti limitrofi. Chiunque è dunque ben consapevole del fatto che la luce (naturale e non) – e correlativamente anche il buio, ovviamente – altera infallibilmente la nostra esperienza dello spazio e, proprio per questa ragione, da sempre gioca un ruolo del tutto essenziale nella messa in scena e gestione degli affetti (cinema, teatro, arte, architettura, ecc.).
Detto in breve: la luce ci istruisce, ancorché (va precisato fin dall’inizio) in modo non del tutto deterministico, su come vivere questa o quella situazione, derivarne valutazioni assiologiche e comportamenti di vario genere (fisici, politici e perfino morali1), ad esempio su come e con quale ritmo muoverci nello spazio illuminato2 e dar così vita a un flow esperienziale che in certi casi è indotto quasi esclusivamente da progetti luminotecnici3. Spetta dunque in gran parte alla luce addestrarci a percepire paticamente-atmosfericamente il mondo o, più precisamente, la sua realtà effettiva, per come cioè viene vissuta e non per quello che ne sappiamo epistemicamente. Nel caso che qui ci interessa quel che conta è come ci si sente “nella” luce, in quale modo e con quale tonalità si è “affetti” da fasci luminosi di per sé ondivaghi e onnipresenti nella “traità” ambientale – da fasci, quindi, e non da raggi lineari emessi da una fonte precisa –, ossia quel che si prova nella luce indipendentemente da ciò che le scienze dicono delle sue precondizioni fisiche (raggi, onde, fotoni, fotoricettori della retina, ecc.)4.
Si tratta dunque di interrogarsi sulla percezione atmosferica della luce. Non prima però di aver premesso le basi essenziali del paradigma atmosferico (o atmosferologia) su cui lavoriamo da qualche anno. Ma che cosa significa, propriamente, percepire atmosfericamente il mondo? Significa, anzitutto, non decifrarlo, come se ci fosse un codice relativo a dei segni che supponiamo (erroneamente) muti, né interpretarlo, come se il suo senso fosse altrove e (erroneamente) inseguito in un differimento incessante anziché esserci già dato tramite quelle che Husserl chiama le “sintesi passive”. E neppure significa cercarne faticosamente una via d’accesso, come se noi non fossimo già sempre al-mondo e avessimo pertanto assolutamente bisogno di un qualche medium che renda possibile tale accesso5. Comunicare atmosfericamente col mondo, e nel nostro caso specifico con le potenzialità affettive della luce, significa invece – facendo attenzione a non disgiungere mai le valenze affettive da quelle strettamente meteorologiche ovviamente implicate dalla nozione stessa di “atmosfera”6 – abbandonarsi (cum grano salis) a quello che, in una percezione non distale-sperimentale ma deambulatoria e sinestetica, costituisce il prius qualitativo-sentimentale di qualsiasi nostro incontro col mondo, a un sentimento cioè che, lungi dall’essere una proprietà celata nell’interiorità e pertanto ritenuta largamente ineffabile, pervade i nostri spazi (non geometrici ma vissuti). Ma questo concetto specifico di “atmosfera”, cui si rifà il nostro progetto atmosferologico7, riferendosi più a uno stato “spaziale” del mondo che non a uno stato psichico privato, non può che irritare l’ontologia tradizionale. Anzitutto per la sua inevitabile vaghezza, peraltro stigmatizzabile solo quando non si sappia coglierne la ricchezza nel “mondo della vita”, si idealizzi viceversa quel pathos naturalistico della certezza la cui petulante pretesa di messa a fuoco dell’esperienza quotidiana risulta quasi patologica e si sottovaluti la giusta esigenza che tale vaghezza venga esaminata con la massima precisione (possibile).
Alla luce (è il caso di dirlo) di questo approccio atmosferologico, poi sviluppatosi in una ontologia delle quasi-cose8 e più di recente in una estetica patica9, dare il giusto peso alle atmosfere dei nostri “intorni” vuol dire valorizzarne l’apparire qua talis e la (solitamente stigmatizzata) “prima impressione”, la quale, nel suo carattere inter-soggettivo e olistico, precede qualsiasi tentativo di analisi e influenza fin da principio la situazione emozionale del percipiente, nei suoi casi più significativi (che ho altrove chiamato “prototipici”)10 addirittura resistendo a suo nostro conscio tentativo di correzione proiettiva. Nella sua qualità di “presenza” dotata di una indiscutibile influenza, un’atmosfera è inoltre inestricabilmente connessa a dei processi di risonanza proprio-corporea (nel senso del corpo vissuto, Leib, e non di quello fisico-anatomico), è caratterizzata da una microgranularità in quanto tale inaccessibile alla prospettiva naturalistica ed epistemica, le cui più fini precisazioni oggettuali ne sarebbero semmai una diminutio, e manifesta una “autorità” che “pretende” di espandersi e dominare una certa porzione di realtà (un po’ sul modello delle potenze “numinose” cui Rudolf Otto riconduceva il sentimento del sacro)11. Ma se le atmosfere esercitano una loro specifica e più o meno intensa autorità, un’estetica patica non può sottovalutarne il ruolo-guida all’interno di una tanto scioccante quanto fertile rivalutazione del “soffrire” quale modo di vita patico (in senso estetico e non certo doloristico e/o patetico): una rivalutazione ovviamente controintuitiva dopo due secoli abbondanti di presunto e presuntuoso illuminismo.
Anche da questi brevi cenni al progetto atmosferologico, inquadrabile oggi in un ben più vasto e mutidisciplinare atmospheric turn12, è facile capire che esso ambisce a rovesciare almeno in parte quella metafisica introiezionistica (“invenzione” della psiche) che ha dominato in lungo e in largo la cultura occidentale, e di conseguenza a confrontarsi, alla ricerca di un anacronismo produttivo, con una prospettiva arcaica anteriore a quella onnipervasiva psichicizzazione riduzionistica che nel quinto secolo a.C., indottavi da imperativi sia epistemici sia (e forse soprattutto) pedagogici, ha esiliato (da Platone e Democrito innanzi) la dimensione demonica extrapersonale dell’affettivo (thymos) in una sfera psichica privata in larga parte finzionale (psyché)13: un confronto, questo, che permetta se non un regresso (ovviamente impossibile) quanto meno un salutare ridimensionamento dell’ontologia psichica predominante. Tutto questo sulla scorta dell’aggressiva “campagna” anti-introiezionistica avviata negli anni Sessanta del secolo scorso dalla Nuova Fenomenologia di Hermann Schmitz14, al centro della quale troviamo infatti sia una radicale de-psicologizzazione della sfera emozionale sia una (perfino provocatoria) esternalizzazione dei sentimenti15, da noi poi concepiti come dei vincoli situazionali – le situazioni essendo esattamente degli stati di cose atmosfericamente connotati – e degli insiemi di “affordances”16 che, secondo il modello inaggirabile delle condizioni climatiche, modulano e tonalizzano lo spazio vissuto-predimensionale, determinando “come” ci sentiamo e di conseguenza la nostra più o meno provvisoria Stimmung. Non sarà superfluo ricordare inoltre che, in quanto situazioni ambientali impressive, le atmosfere non si limitano a stimolare processi affettivi e cognitivo-pragmatici nel percipiente, ma forniscono anche una solida struttura a stati affettivi altrimenti impossibili, o comunque destinati a rimanere allo stato embrionale: esse agiscono cioè come “strumenti per sentire” o, se si vuole, come affetti embodied ed estesi da cui dipende la biografia affettiva degli individui e perfino delle culture.
In quanto impressioni pervasive, e nei casi più prototipici anteriori alla distinzione stessa soggetto/oggetto, la loro “autorità” dipende dal modo in cui esse risuonano nelle “isole” (non negli organi) del nostro corpo vissuto17, in un corpo cioè che è animato da una sua specifica dinamica, i cui assi sono l’espansione (scorporazione) e la contrazione (incorporazione). Ma quello che qui bisogna ribadire è che, per fare un esempio, in una gioiosa atmosfera olistica la gioia avvertita “nell’aria” non è tanto (e certo non anzitutto) la “mia” gioia (neppure in senso proprio-corporeo), bensì e innanzitutto una situazione gioiosa nella quale il soggetto e l’oggetto – volendo per ragioni di semplificazione utilizzare ancora una distinzione estranea all’affective turn – non sono “ancora” componenti indipendenti e isolabili rispetto a un “tra” che, tuttavia, non va inteso come un terzo elemento connettivo, donde una ricaduta nel dualismo cui si vorrebbe ovviare, bensì come una relazione anteriore ai suoi relata (è l’ipotesi ontologicamente più eversiva) o quanto meno come una relazione in quanto tale, piuttosto che una relazione “in” cui ci si trova. L’atmosfera triste cui accedo, ad esempio, non è soltanto la mia tristezza né il semplice esito della relazione tra me e l’ambiente, bensì una tristezza che aleggia in quello spazio vissuto (e non in altri) e la cui anteriorità rispetto al polo soggettivo e oggettivo è arduo esprimere a causa dell’impossibilità di verbalizzare stati tanto pre-soggettivi quanto pre-oggettivi.
Sintetizzando brutalmente la nostra fenomenologia atmosferologica, vale a dire i “giochi” atmosferici di cui possiamo quotidianamente fare esperienza, si può ipotizzare che un’atmosfera dissonante rispetto al nostro stato d’animo pregresso può aggredirci fino ad impossessarsi di noi, e questo in forza di un’autorità che ha la meglio su ogni perplessità critica che il percipiente possa mobilitare attingendo ai suoi livelli intellettuali superiori (si potrebbe infatti giustamente parlare di “impenetrabilità cognitiva” di questo tipo di atmosfere); può essere in sintonia col nostro stato d’animo, e quindi risultare magari inavvertita; può essere riconosciuta, senza essere personalmente “sentita” (donde l’ennesima prova della sua almeno relativa oggettività); può suscitare una resistenza che spinge il percipiente a tentare di sfuggirvi e/o modificarla (ovviamente senza alcuna garanzia di successo); può per varie ragioni (che qui è impossibile dettagliare) essere percepita diversamente nel corso del tempo; può, infine, dipendere a tal punto dalla forma soggettiva-percettiva, inclusiva della eventualmente diversa disposizione proprio-corporea e del differente grado di emancipazione personale del percipiente, da concretizzarsi perfino in materiali e situazioni che normalmente esprimono stati affettivi del tutto diversi (l’orrore che una splendida giornata suscita in chi soffre!), oppure da non essere minimamente percepita, con esiti socialmente imbarazzanti per sé e per gli altri, come quando ci si muove disordinatamente in chiesa, in modo troppo formale durante un party tra amici o in maniera euforica tra persone pervase da un sentimento tragico.
Questa concezione estetico-fenomenologica dei sentimenti come atmosfere, ossia come entità esterne o quanto meno non principalmente soggettive, mira, in definitiva, a correggere il dualismo dominante e a sfidare la concezione vulgata ma prevalente anche negli approcci naturalistici secondo cui ogni qualità sentimentale percepita come presente nel mondo esterno non sarebbe altro che l’esito di una (magari inconscia) proiezione “da dentro a fuori”. Ma nel far questo la nostra atmosferologia – ed è il passo ulteriore – ambisce anche a registrare le atmosfere nella più vasta (e altrettanto eterodossa) categoria ontologica delle “quasi-cose” (introdotta da Hermann Schmitz dagli anni Settanta del secolo scorso), cioè di entità che irradiano effetti ampiamente condivisi (quanto meno in culture omogenee) e che non possono pertanto essere ascritti a vibrazioni soggettive puramente occasionali.
In quanto quasi-cose le atmosfere, nel nostro caso la luce, risultano ovviamente misconosciute dall’ontologia cosale tradizionale, cieca per tutto ciò che non sia una cosa in senso proprio (conchiusa, contornata, permanente, discreta, coesa, solida, impenetrabile), una proprietà (come tale accidentale rispetto alla sostanza da cui in nessun modo fuoriesce) o una costellazione (magari perfino arbitrariamente componibile) di entità singole e quindi atomisticamente concepite. Proviamo invece a prestare attenzione anche a entità effimere e spesso intermittenti come le atmosfere e si vedrà, anzitutto, che esse, a differenza appunto delle cose in senso proprio, in quanto quasi-cose, a) sono vissute come qualcosa di più immediato, intrusivo ed esigente, magari dando vita a un alternarsi di corporizzazione e scorporizzazione la cui qualità dipende dal loro grado di autorità (come resistere a uno sbiadito mattino autunnale?) e dalla disposizione proprio-corporea del fruitore.
Che esse b) compaiono e spariscono, senza che ci si possa sensatamente domandare dove e in che modo siano esistite nel frattempo, avendo quindi una vita, e quindi un effetto, del tutto transitorio, ma anche c) che, in quanto atmosfere dalla vita intermittente, esse non sono tanto le cause dell’influsso quanto l’influsso stesso, sono cioè, nella piena coincidenza di causa e azione − non essendovi propriamente una causa precedente e separabile dall’azione (oggetto esclusivo dell’attività prognostica-manipolativa della scienza sperimentale) – piuttosto delle “estasi” delle cose stesse18.
Inoltre, niente affatto spiegabili come espressione di un interno (una dimensione che in questo approccio ha un limitato diritto di cittadinanza), le atmosfere in quanto quasi-cose d) non sono affatto delle proprietà dell’oggetto (di quale poi?), bensì qualità che le cose o gli eventi non “hanno”, ma nella cui manifestazione in certo qual modo si esauriscono (come il vento coincide col proprio soffiare), ossia dei modi-di-essere pervasivi19 in grado di generare lo spazio affettivo in cui (talvolta letteralmente) entriamo e che va concepito, come si diceva, come una “traità” sovraordinata ai poli che (solo “poi”) separa e connette.
A differenza delle cose in senso proprio, e) le quasi-cose non posseggono delle reali tendenze loro immanenti e, di conseguenza, mancano di una “storia” (non invecchiano), presentandosi piuttosto come qualcosa di radicalmente evenemenziale e di irriducibile a una traccia di altro da sé. E tuttavia, sebbene sia insensato domandarsi da dove vengano e dove vadano quando non le si esperisce, esse occupano uno spazio (ovviamente vissuto, privo di superfici e pre-dimensionale), contando persino su “confini” (ovviamente vaghi) nel senso che un’atmosfera si estende presuntivamente fin dove la sua presenza genera una qualche differenza (qualitativo-affettiva)20.
A differenza però dei fenomeni che una fisica ingenua considera giustamente inemendabili (percettivamente), f) le atmosfere come quasi-cose risultano relativamente correggibili, ma soltanto sul piano del senso comune, ossia sulla base di altre percezioni ordinarie qualitative e non-epistemiche, e, infine, g) sebbene certe volte esse non suscitino l’atmosfera prevista e abituale, come quando l’atmosfera amena di un certo paesaggio naturale cessa di essere tale, a parità delle componenti sensoriali percepite, perché ad esempio la sua origine risulta essere artificiale o dipendere da interventi moralmente stigmatizzabili, esse devono pur avere comunque una qualche identità (fungente tra l’altro anche come traccia mnestica).
Quanto poi all’esigenza ricorrente di una considerazione normativa delle atmosfere, si può aggiungere che, se è inverosimile dire che ci si può sbagliare nel percepirle (non esistendo alcun dover-essere della percezione atmosferica che funga da parametro dell’adaequatio) e pertanto è improprio dire che vi sono atmosfere più o meno autentiche, ci si può invece certamente sbagliare nel generarle: cercando, ad esempio, nell’umbratilità autunnale un’atmosfera euforica, oppure progettando nell’ufficio open space, col suo plumbeo clima di eterocontrollo e di assenza della privacy, un’atmosfera di socializzazione e eguaglianza. Un po’ come l’arcobaleno, fenomenicamente esistente pur senza essere materiale e collocabile geometricamente nello spazio, un’atmosfera esiste certo solo nel suo apparire e nel suo essere “sentita”, a differenza delle cose propriamente dette, le cui qualità sono invece pensabili anche in astratto e in assenza di percezione. Ragion per cui, se non ha senso parlare di un’atmosfera opprimente che non opprimesse (mai) nessuno, è senz’altro possibile però progettare un certo effetto atmosferico, e quindi pensarlo, perfino con una relativa precisione statistica, sul piano della pianificazione controfattuale.
Ma è giunto il momento, dopo questo indispensabile inquadramento teorico preliminare, di precisare meglio il carattere atmosferico e quasi-cosale della luce (di una “certa”luce soprattutto). Ciò nel quadro della più generale pratica simbolico-culturale con cui da sempre – e massimamente nell’epoca della luce artificiale – l’umanità si impegna a orchestrare gli spazi mediante la luce. Occorre pertanto guardare ora alla luce non come a una cosa tematicamente percepibile, ma come a uno sfondo atmosferogeno spesso inconsapevole. Il che – beninteso – non significa affatto ricadere nel classico errore dell’ontologia soggiacente alle scienze quantitative, le quali esaminano la luce esclusivamente in quanto background secondario di possibili azioni ed eventi, ma portare in primo piano la salienza proprio di questo background quasi-cosale. Non occuparsi cioè di lightscape, se con questo termine s’intende la quantità e distribuzione materiale della luce (in termini di Kelvin, Ra e Lumen) ma di lightness, ossia dello spazio reso esperibile da una certa luce, diversa, ad esempio, in casa quando si pranza e quando si gusta un caffè dopo pranzo, quando si guarda la televisione e quando si legge (e anche in questo caso in modo diverso a seconda del genere di lettura), e così via.
Contro la messa a fuoco!
Indipendentemente ora dal fatto che sia una istanziazione di tutte (o quasi) le caratteristiche attribuite sopra alle quasi-cose (a-g), è proprio in quanto quasi-cosa che la luce può essere considerata la prima «responsabile delle impressioni su di noi»21. Mai la luce si limita, infatti, a rivelare neutralmente le cose, ma, esibendone alcune a scapito di altre e drammatizzando i contrasti tra il chiaro e lo scuro, “tinge” affettivamente e teatralizza l’ambiente su cui insiste, con esiti atmosferici che non saranno magari assolutamente transculturali ma neppure assolutamente idiosincratici, e le cui infinite nuances qualitative sono inaccessibili alle scienze quantitative ma non a un’estetica patica il cui principio22 è non tanto “che cosa” le cose siano ma “come” esse siano. Più precisamente, che sia l’oggetto di una percezione tetica o, più spesso, la condizione olistica e intransitiva di percezioni tetiche e discrete, la luce instaura col percipiente una intensa comunicazione proprio-corporea che – anche a prescindere dagli effetti strettamente fisico-biologici prodotti sui livelli di serotonina, dopamina e vitamina D, ecc. – sviluppa, come si è già ricordato, nello spazio prima intra- e poi anche intercorporeo una gamma di dinamiche tipizzabili nelle forme antagonistiche o dialogiche assunte dalle direzioni, rispettivamente, contrattiva ed espansiva. E che l’arte contemporanea abbia fatto da tempo della luce – ossia di ciò che è privo di qualità aptiche, fugace, tendente all’espansione e normalmente non plasmabile, in breve il meno “cosale” degli enti – un “materiale” del tutto speciale e non solo decorativo è l’ennesima prova della sua quasi-cosale e atmosferica potenza. Ora, prescindendo qui dal privilegio concessole dal regime scopico occidentale quale metafora-guida dell’esistenza (verità, essere, ma anche Dio, e quindi sacralità e potere)23, si tratta di esaminare due idealtipi luminosi (luce abbagliante e crepuscolarità) per valutarne appunto la specifica atmosfericità quasi-cosale.
Poco si sa dell’esperienza luminosa di “rinascita” grazie a cui un giovane calzolaio di nome Jacob Böhme dichiara nel 1600 di essere stato «introdotto nel più intimo fondamento o centro della natura nascosta», tanto da trovarvi l’ispirazione della sua monumentale teosofia. Pare però che questa «luce divina» non fosse che la «vista improvvisa di un recipiente di stagno (del suo amabile e gioviale splendore)»24, e cioè propriamente un riflesso, il luccichio di un oggetto banale normalmente estraneo, per la sua opacità e mera funzionalità, alla bellezza25. Il luccichio è qui dunque solo il lampeggiare effimero (di un oggetto eteroilluminato) presupposto nel medesimo periodo storico sia dall’esperienza mistica sia dalla pittura26. Ma questo significa forse che sono lo splendore accecante, il fulgore e lo scintillio – simboli chiave (oggi invero un po’ “annebbiati”) del lusso nel capitalismo avanzato e oggetti di rêveries27 – la “vera” atmosfera della luce?
Tutt’altro. Nonostante l’indubbio ruolo esercitato nella storia dell’arte e del costume quali simboli della nobiltà (pietre preziose, vetro, metalli nobili, ceramica, decorazione preziosa della parola biblica), del potere (cerimoniali cortesi come feste per gli occhi, splendor imperii) e, più in generale, della trascendenza, sia esterna (raggi di luce penetranti, apparizioni luminose, visioni solari, ecc.) sia interna28 (“illuminazioni” improvvise, l’anima come luce interiore, uomo di luce prelapsario e/o escatologico29, ecc.), i riflessi accecanti non paiono particolarmente favorevoli all’atmosferizzazione. Per quanto sia nostra intenzione de-assiologizzare per quanto possibile la nozione di atmosfera, ed evitare quindi il rischio di identificare, come vuole la vulgata, l’atmosferico con ciò che è armonioso, familiare e facilitante, è però indubbio che, irritando e disorientando il percipiente, privato così della possibilità di localizzare il luogo luminoso e ciò che esso illumina, l’abbagliamento induce piuttosto una (quasi) dolorosa contrazione, la quale dura finché non si dia uno spostamento dell’oggetto abbagliante e/o del percipiente. Potrà pure astrattamente affascinare30, sottraendosi per principio allo sguardo, e per questo alludendo aniconicamente al divino e a ogni genere di epifanicità trascendente, ma difficilmente il riflesso accecante favorirà quella medietà emozionale che, come vedremo, meglio caratterizza l’atmosferico e che esperiamo nei fenomeni di luce mitigata.
Una volta fattasi sostenibile, la brillantezza, infatti, non allontana più, ma sollecita l’attenzione, producendo il piacere squisitamente atmosferico tipico dell’ornamento31, il quale potenzia la normale «radioattività della persona, nel senso che intorno ad ognuno si trova per così dire una sfera più grande o più piccola di significato che da questi emana, nella quale si immerge ogni altro che con questi abbia a che fare»: una sfera che «si irradia, cioè va oltre la sua origine [e] costruisce una regione più ampia, che in linea di principio è illimitata», in modo tanto più efficace quanto meno la combinazione di «distanziamento e connivenza»32 ha basi rigorosamente cosali33. Non è pertanto all’inauguralità mistico-epifanica (sovraterrena o interiore che sia) della luce che dovrebbe guardare l’atmosferologia, bensì, al contrario, alla sua contingenza e contaminazione materiale, cioè alla luce come membro del regno intermedio delle qualità che sono sentite soggettivamente senza essere soggettivistiche, come a una quasi-cosa gravemente inibita dalla bulimia luminosa e coloristica del nostro tempo34 come pure dall’apoteosi dell’illuminazione artificiale. Del resto, la luce è un «far-apparire di per sé inapparente»35 non solo quando simboleggia il trascendente, come attraverso le vetrate delle cattedrali, ma anche quando, in modo puramente funzionale, illumina a giorno un banale esercizio commerciale. L’essenziale, atmosferologicamente, non è la luce nell’assoluta purezza (lux) del primo giorno (genesiaco), ma la luce che è percepibile (lumen) grazie al suo essere intorbidata dalle cose su cui cade e che relativamente smaterializza, essendo specifico proprio della luce confondere i piani del materiale e dell’immateriale. Non sono, in fondo, che mere gradazioni tonali della luce perfino la chiarezza e la vivacità cromatica cui ci ha effettivamente abituato il XX secolo, e non segni di una totale esposizione alla luce36.
Ma allora urge “urbanizzare” Heidegger (e i suoi epigoni). Il fascino della Lichtung o “radura”, che risiede infatti notoriamente per lui nell’oscurità assoluta e inilluminabile (l’extrafenomenologica luce scura) che la rende possibile, risiede per noi invece, pena un abbagliamento che porterebbe al mutismo37, nella percepibile oscurità o luminosità relativa (lucus) resa possibile dalla silva, che nasconde la radura (nel caso heideggeriano dell’opera d’arte, nella Terra, inesauribile per il Mondo), ma genera anche «la luce mite di uno slargo nel bosco»38. Per contrastare giustamente l’accecante eccesso di chiarore preteso dalle tradizionali metafisiche della luce non è quindi necessario, salendo in alto, chiamare in causa la (trascendentale ed extrafenemenologica) sovra-luce, ma è sufficiente, indugiando in basso su quanto concretamente appare, rivolgersi alla luce offuscata, e solo così potentemente atmosferogena, dall’interazione con le cose39. Che siano dovute o meno alla metafisica neoplatonica e alla teologia negativa dell’abate Suger40, in quanto «teologia obiettivata da un lato, e dall’altro messa in scena cultuale di una “conversione” (conversio) dei fedeli in vista della loro rigenerazione nella vera luce di Dio»41, le sicuramente atmosferiche architetture di luce delle cattedrali gotiche sono “numinose”, in ultima analisi, solo perché la luce vi è sapientemente inibita, solo perché le cose sono aggredite da una quasi-cosa come la luce – il che vale, in fin dei conti, anche per l’assolutamente non metafisica immaterializzazione e fluidificazione di ogni costrutto architettonico prodotta dalla luce artificiale urbana. Sovraspiritualizzare la luce vuol dire fare (gnosticamente) della natura un’immensa caverna platonicamente pregna di inganni e falsità, vedere in «tutto ciò che esiste un gioco di ombre, una proiezione»42: in breve misconoscere colpevolmente la ricca atmosfericità semiluminosa43 e perfino notturna44 della nostra Lebenswelt.
Elogio del vago e del nebuloso
La luce è in quanto tale certamente vita (come attrattore biologico). Ma è sicuramente nella mezza-luce se non addirittura nelle ombre e negli spazi quasi oscuri, nell’assenza e nell’invisibilità, che viviamo per lo più (atmosfericamente)45. Nell’atmosfericità siamo quindi immersi in modo emozionalmente speciale quando la luce scontorna gli oggetti, conferisce loro un fascino discreto e toglie loro ogni intollerabile vividezza46, impedendo di fatto la riconduzione, come tale sempre iper-razionalizzante, delle cose al genere cui pertengono. E questo indipendentemente dal fatto che la vaghezza luminosa sia tale de dicto (prodotta iconicamente o conseguenza dello stato psicofisico del percipiente) o de re (vaghezza ontologico-climatica). Un primo effetto atmosferico, e quindi quasi-cosale, della vaghezza luminosa consiste nel trasformare la quasi palpabile presenza delle cose in forme auraticamente inavvicinabili, indipendentemente dalla loro effettiva distanza. In pittura tramite un colore filmare che confonde oggetto e sua illuminazione oppure per mezzo della diminuzione del contrasto, e nella percezione ordinaria grazie al calare della luce, le cose si decosalizzano apparendo a distanza47 ed esigendo di conseguenza il contemplare onirico-animico, per eccellenza distanziante (direbbe Ludwig Klages), richiesto dalle “immagini” in senso forte (archetipico)48. Una distanziazione nello spazio (vissuto) che è tale però anche sempre nel tempo. Così come l’usura della cosa ne suggerisce atmosfericamente sempre una presenza differita – a differenza del concetto astratto, ontologicamente e pragmaticamente correlativo solo alla cosa nuova e pertanto (ancora) non “vissuta”49 –, così pure un’immagine o un percetto reso vago nell’indistinzione di figura e sfondo da un qualche offuscamento della luce suscita anche sempre un peculiare eros della distanza (fisico-temporale).
L’incontro ordinario con le cose dipende pertanto meno dalla loro forma e messa a fuoco che non dal loro essere immerse in un involucro eminentemente atmosferico appunto perché formato da una costellazione di qualità rese appunto dall’offuscamento luminoso non focalizzabili e soprattutto effimere. Proprio all’esistenza transitoria e intermittente (come tale quasi-cosale) sembra infatti guardare l’odierno utilizzo artistico della luce: che sia per smaterializzare sostanze specifiche quali (tra le altre) alluminio e plexiglas, oppure per rimaterializzare la luce stessa espandendola nello spazio50, l’arte sempre più spesso genera oggetti che hanno una «presenza ottica, pur senza essere fisicamente tangibili»51, ricreando così forse «nel contesto estetico le ormai perdute qualità dell’esperienza vissuta proprie degli spazi cultuali»52. Ma che cosa affascina, propriamente, in questi casi? Verosimilmente il tremolio decosalizzante delle cose e l’improvviso luccichio di un oggetto, l’ombra gettata transitoriamente attorno a sé dalle cose (ombra propria) come pure quella proiettata su di loro da altre cose circostanti (ombra portata). Delle apparenze effimere, dunque, proprio per questo irriducibili a proprietà cosali. Senza essere traccia di idee (in senso platonico o hegeliano), esse conferiscono una tonalità affettiva profondamente immersiva, proprio per la sua transitorietà colpevolmente sottovalutata dall’estetica e dall’ontologia tradizionali in nome della durata (auspicabilmente addirittura dell’eternità)53. Testimoniando come meglio non si potrebbe l’incessante movimento metamorfico del mondo, l’effimero e il momentaneo possono essere resi, in fin dei conti contraddittoriamente, moltiplicando le immagini fisse54, ma soprattutto, appunto, con l’offuscamento della luce. In questo senso vogliamo leggere sia il monito ottocentesco, poi in parte disatteso dall’effettismo luminoso dell’Impressionismo, a preservare il “poetico” non tentando «scene in piena luce diurna»55, sia la predilezione, stigmatizzata da Constable, per il “tono da galleria” assicurato ai dipinti da vecchie vernici56.
All’atmosfera quasi-cosale della luce contribuisce poi naturalmente anche la nebulosità57. Che sia la “chiarezza nebbiosa”, ossia la luminosità priva di nitidezza specifica per Goethe del paesaggio mediterraneo58, la nebbia in senso strettamente climatico59 o quella prodotta artificialmente (ad esempio tramite lo sfumato), il nebbioso tutto avvolge, scontornando gli oggetti e suggerendo in genere60, anche attraverso l’impalpabile umidità, un sentimento di oppressione illocalizzato ancorché steso su tutto come un velo61. Prive così della salienza indotta dalla messa a fuoco, le cose acquistano una «nuova minacciosità», in ciò analoga alla «totale smaterializzazione del mondo circostante» prodotta da una candida nevicata. Sentirsi “annebbiati” significa allora “patire” l’atmosfera di un mondo rattrappito e nel quale ogni pre-visione diviene impossibile: un mondo in cui ci si ritrova in compagnia dei soli suoni, divenuti per questo a loro volta minacciosamente autonomi, donde «un sentimento di irrealtà, di un fluttuare nello spazio vuoto»62. Non stupisce quindi che, avvolta in non meglio precisati fumi e vapori e soprattutto nella nebbia, anche un’insignificante porzione di spazio divenga, in quanto indeterminata costellazione quasi-cosale, potentemente atmosferica. Capace cioè di suggerire in massimo grado, con effetti ora angoscianti ora rassicuranti, il kantiano libero gioco delle facoltà, e paradossalmente questa volta tramite non la varietà ma la tonalità unitaria conferita al campo ottico a scapito dei dettagli. Immerso nella nebulosità, ad esempio, un albero non è che una massa scura, incombente e come emersa improvvisamente dal nulla: suggerisce proprio quello status nascendi63 che rinveniamo nella transitorietà caratteristica di ogni quasi-cosa.
Crepuscolarità
È noto e letterariamente attestabile quanto siano atmosferici alcuni giorni della settimana e soprattutto alcune fasi del giorno64: dall’irresistibile inauguralità dell’aurora alla paralizzante demonicità meridiana, entrambe di nietzscheana memoria, fino ovviamente ai mille colori e alle mille luci della notte, in specie quelle che illuminano artificialmente il contesto urbano generando fantasmagorie cui non è improprio pensare nei termini di un “perturbante tecnologico” effimero ed etereo65. Primitiva e poetica, l’atmosfera notturna avvolge e dis-orienta reificando l’acustico, de-cosmicizza e dissolve ogni distinzione tra percipiente e percetto, generando un’illibertà motoria e una regressione alla spazialità priva di superfici, animistica e prelogica extraoggettuale66, nella quale tutto è terribilmente possibile, ma al tempo stesso fornendo all’io la testimonianza della propria irriducibile individuazione.
Ma come non è propriamente atmosferogeno il bagliore accecante, non lo è neppure la notte più buia, il cui effetto è talmente contrattivo da sottrarsi a quella paticità su cui si può riflettere fenomenologicamente. Lo è invece, e a maggior ragione nell’epoca dell’illuminazione universale, la luce che emerge faticosamente dal buio o vi resiste67, dando vita a una lotta che scolpisce la materia e fluidifica la rigida distinzione tra interno ed esterno. Lo è, passando alla cultura concreta dell’illuminazione artificiale, la luce calda e regolabile emessa dalle lampade a incandescenza rispetto alla luce fredda emessa dalle lampade a risparmio energetico68, e soprattutto la luce protettiva, “estatica” delle candele, divenuta un topos sia artistico sia di senso comune, e così pure la spugnatura, utilizzata dai primi fotografi69 per sollecitare una percezione più aptica e cinestesica, ma soprattutto la diminutio della luce e della tensione corporea tipica del crepuscolo.
Proprio il crepuscolo, grazie all’erosione dei contorni e alla generazione di una vaga impressione complessiva, risulta molto più favorevole della luce diurna all’insorgere di varie tonalità d’animo70. È per questo cheperfino un brutto “mare di case” diurno può trasformarsi in un architettonicamente affascinante gioco di luci la sera, tanto più se nebbiosa71: perché il crepuscolare, dimensione indistintamente emozionale e climatica, in ultima analisi inanalizzabile72 perché “patita” intermodalmente73 (sinestesicamente) – come si evince dal fatto che lo si possa qualificare come “fresco”, “fioco”, “segreto”, “quieto”, ecc. –, “cala” (non metaforicamente!) da fuori, nella sua quasi-cosalità naturalisticamente irriducibile, su tutto e vi si insinua, rendendo le cose meno discrete74, dissolvendo la distinzione tra identità e differenza richiesta da qualsiasi razionalizzazione75 e costringendo la luce a una affascinante parcellizzazione residuale. I soli punti luminosi che sopravvivono, incrementando il proprio fascino, sono infatti le stelle, le luci delle case, ma anche quegli oggetti dotati di luce propria che, normalmente privi di salienza nella luce diurna, sfavillano magicamente invece nella semi-oscurità e rivelano una loro imprevista autonomia cinetica. Inibita ogni spazialità direzionale, il crepuscolo ci rende estranee anche le cose più familiari riducendole a silhouettes, suggerendo così un’irrinunciabile esperienza smaterializzante sia del percetto sia del percipiente76, un’impressione di numinosità77 e immemorialità78, una vaga tristezza79 generata dal senso minacciosamente incombente della vanità delle cose80 e, talvolta perfino la disperazione, in specie quando il congedo dalla luce simboleggia altri più gravi abbandoni (come nella Blaue Stunde di Gottfried Benn).
Che ci aggredisca come quasi-cosa è evidente anche dal fatto che, così come «la chiarezza degli oggetti sulla terra viene vista fondamentalmente come una proprietà ad essi inerente piuttosto che come l’effetto di un riflesso»81, anche la loro umbratilità è sentita non tanto come un’assenza – di contro all’antica tendenza (dall’Eleatismo innanzi) a deontologizzare l’oscurità – quanto come una qualità positiva e attiva, in breve più come un’enigmatica emissione di oscurità che non come una banale relativizzazione statistica dei valori chiari del campo visivo: una emissione, tra l’altro, che, contrastando relativamente la focalizzazione distale che il chiarore permette e la conseguente tendenza alla rigida differenza di sé dall’ambiente, notoriamente favorisce una talvolta auspicabile apertura extravisiva del percipiente all’alterità, schivando per di più l’eccessiva sorveglianza che caratterizza un’epoca di potere securitario82.
Senza escludere del tutto che il crepuscolare, con la perdita di orientamento cosale, possa suggerire in soggetti diversi stati d’animo relativamente diversi, ad esempio profonda inquietudine e matura autoriflessione, quel che è certo è che a suscitare tale effetto diversificato è pur sempre un’atmosfera intersoggettiva e quasi-cosale, la cui risonanza proprio-corporea, prima di declinarsi in maniera più individuale, è l’«indietreggiare inorriditi nell’angustia del corpo proprio al cospetto di una vastità che ci circonda estranea»83 e l’intensificarsi dell’udito quale (così Nietzsche) organo del timore84. Che poi l’atmosfera crepuscolare sia meno intensa nelle latitudini o stagioni in cui quasi immediata è la transizione dal giorno alla notte, come pure in una vita urbana che oggi ne inibisce l’incanto col semplice gesto di accendere la luce, non toglie che, quando si manifesta, riduca comunque il soggetto «al suo elemento primo e ultimo: un sentire presago»85: una paticità lievemente nostalgica della quale, tra l’altro, si sente sempre e ovunque il bisogno, come si evince sia dalla larga diffusione del dimmer (varialuce) proprio nell’età del lavoro h24 e dell’ubiquità dell’illuminazione artificiale, sia dal rifiuto, per l’atmosfera intima che si vuole dare al proprio soggiorno (per esempio), di lampade a illuminazione naturale, di luci fredde (al neon) e uniformi, in breve di quella luce il cui effetto, intollerabile quando si esuli da prestazioni analitiche sofisticate (un’operazione chirurgica ad esempio), è di far apparire, contrariamente appunto al nebuloso e al crepuscolare, tutti gli oggetti alla medesima distanza dall’osservatore.
Conclusioni (verso Oriente o verso Nord?)
Si può dunque orchestrare il proprio spazio grazie a una sapiente lightness86, a riprova della relativa producibilità intenzionale delle atmosfere (quanto meno di quelle che abbiamo definito “derivate”) e del fatto che le pratiche luminotecniche individuali contribuiscono pienamente al formarsi anche di identità collettive atmosferiche87. Anche una collettività, però, necessita dell’atmosfericità particolarmente intensa, e proprio per questo quasi-cosalmente molto attiva, della crepuscolarità. Del momento in cui cioè, a parte objecti, il percetto è (o è reso) vago e crepuscolare e/o, a parte subjecti, la prestazione attenzionale pragmaticamente orientata nel segno della fitness è (o è resa) meno efficiente: quando, in altri termini, l’abbandono fa della percezione più un patire che non un agire. Vale qui, in ultima analisi, una forma mentis (in senso lato) orientale, radicalmente opposta al privilegio conferito in Occidente alla fulgidezza e all’orgoglio tecnico di aver «saputo ricavare il fenomeno della lucentezza, strappandolo alla roccia opaca, alla terra scura e al metallo grezzo racchiuso in essa»88, e che infatti a ciò che luccica preferisce l’offuscato, il caliginoso e il brunito, non da ultimo per la patina temporale e inintenzionale che suggerisce89. Ma prendiamo (nuovamente) una candela e chiediamoci che cosa ci affascina nella sua luce. Non solo evidentemente l’inafferrabile e ipnotica mobilità del fuoco, ma soprattutto la capacità di rendere visibili alcune cose e di tonalizzarne l’esperienza lasciandone al buio delle altre, di dinamicizzare tutti gli oggetti di cui proietta l’ombra, evidenziandone, di contro alla piattezza cui li costringe la luce elettrica, bellezza e presenzialità90. Detto altrimenti, il suo essere appunto, e in modo esemplare, «luce mitigata e indiretta», «luce senza bagliore»91. Ma grazie a quale specifica comunicazione proprio-corporea?
Si potrebbe parlare, in prima approssimazione, di una risonanza non conflittuale-antagonistica ma complementare-contemplativa, in specie quando l’arte, aggirando la teleologia della nitidezza incorporata nei suoi stessi strumenti rappresentativi, esprime vaghezza grazie non solo al tema prescelto ma anche a vari espedienti artificiali92. Ma forse anche, e più precisamente, di una risonanza esteso-privativa intimamente contrastata: nella quale cioè il corpo proprio è dapprima incoraggiato dalla quasi-cosa chiaroscurale ad abbandonare l’originaria angustia in favore della vastità pericorporea adirezionale che gli si presenta, per poi essere, però, inesorabilmente frenato in tale moto (anche solo interno), stante l’impossibilità di precisare ulteriormente gli oggetti (effettivamente tali solo se “in chiaro”)93, e quindi costretto a cercare ansiosamente dei punti certi (in quanto luminosi), fossero anche solo, per fare un esempio, fari di automobili che fendono la notte94.
Ma che la vaghezza crepuscolare sia la più intensa (e lievemente malinconica) atmosfericità luminosa, è un’esperienza del tutto comune, che viene semplicemente potenziata dal “lavoro estetico”. Per un teorico settecentesco dell’arte del giardino come Hirschfeld, ad esempio, il paesaggio «lievemente malinconico» è una «scena» perfettamente realizzabile. Basta che la veduta in generale sia sbarrata (avvallamenti, alberi ad alto fusto, boscaglia) e che l’acqua sia stagnante oltre che occultata allo sguardo da canneti e cespugli, che tutto sia quieto e paia privo di vita, che le luci siano poche ma non completamente assenti (pena un’atmosfera non più malinconica ma autenticamente terrorizzante), ed ecco che subito si produrrebbe il ricercato stato di «timore reverenziale», privando l’anima «di decisioni premeditate»95. Ma la crepuscolarità dà anche abilmente forma al senso dell’abitare, a dinamiche socioculturali in accordo con le quali diversi tipi di luminosità (alcuni facilitanti e liberatori, altri inibenti e costrittivi) denotano spazi funzionalmente diversi (la luce più intensa nella toilette e in cucina e meno nel soggiorno e in camera da letto) come pure momenti esistenziali diversi (c’è una luce da lavoro e una luce da relax, come si ricordava all’inizio).
Tornando ancora sulla luce delle candele, non sarà superfluo rammentare qui l’uso di collocare delle candele alle finestre da parte dei Danesi, intenzionati così a segnalare ai loro dirimpettai di “esserci” e, con ciò, di aprirsi a (e voler fare parte di) una comunità che eccede la propria abitazione. Questa culturalmente specifica traccia luminosa lasciata dalle persone – una prassi ovviamente estranea a una cultura nutrita da un’intensissima luce naturale come quella mediterranea, abituata semmai a case aperte che danno sulla via e a panni stesi tra una casa e l’altra (questi sì segni di prossimità!) – fa sì che il vicino cessi di essere del tutto un estraneo, o meglio, che senza essere né un estraneo né un amico, diventi così a tutti gli effetti una «persona atmosferica»96. Proprio nell’allestimento di un certo ambiente, fatto anche di cose certamente (un libro, una poltrona, una tazza di tè, da soli o con amici), di pratiche, di aspettative non solo precognitive, ma soprattutto di una luce del tutto particolare (attenuata, diffusa, calda), consiste quello che i Danesi (ancora loro!) chiamano hygge97, intendendo con questo termine a doppia valenza (descrittiva e normativa) una situazione di sicurezza, familiarità, intimità, relax, in genere di benessere vissuto nell’attimo grazie alla temporanea interruzione del normalmente ansiogeno flusso temporale. Di qui l’uso massiccio, dunque normativo (la hygge quasi fosse un dover-essere “nazionale”), di candele anche di giorno per personalizzare e rendere pienamente domestico lo spazio vissuto, e offrire così – che sia una hygge estroversa (implicitamente comunitaria) o introversa (solitaria) – una guida extralinguistica a movimenti fisici ed emozionali entro uno spazio ben definito e, di conseguenza, ai comportamenti ben accetti e a quelli sgradevoli. Non è forse alla luce “calda” e diffusa, del resto, che si pensa normalmente utilizzando l’aggettivo “atmosferico”?
Si può certo guardare con sospetto a questo culto squisitamente nordico per una luminosità che simboleggia comunione ma sempre alla dovuta distanza, che segmenta in termini sociali e di censo (la luce troppo intensa sarebbe quella delle case degli immigrati o di coloro privi di gusto, mentre il buio assoluto genererebbe il sospetto del malaffare), avvicinando individui per altri versi del tutto disinteressati a conoscersi “di persona”. Resta il fatto che il design atmosferizzante della luce, sebbene sia all’opera in varie culture, è sicuramente una peculiarità nordica, assai istruttiva per chiunque si occupi dell’atmosfera luminosa in generale (e di quella crepuscolare in particolare) come principio di una comunità atmosferica.
Va da sé che la nostra elezione del crepuscolare ad atmosfera basilare, e quindi anche a esempio eminente di quasi-cosa, esclude a limine ogni tentativo di identificarne pregiudizialmente la portata atmosferica (quella artistica compresa) con un messaggio critico capace di trasformare l’esistenza del percipiente. La ben nota urgenza utopica suggerita dal rilkiano “tu devi cambiare la tua vita” non è dal nostro punto di vista un accadimento più significativo di quanto lo sia la condizione di raccoglimento, riflessione e intimità, di languore nostalgico, irradiata dalla penombra e dalla crepuscolarità. Fa necessariamente segno tutto ciò a un’anima naturaliter orientalis? Senza dubbio, dal momento che la luminosità armoniosa della ragione, suggerita dal privilegio concesso in Occidente al vedere e da un clima (temperato) rappresentato dall’eterno meriggio nonché da una natura tanto “razionale” e prevedibile da sembrare a occhi orientali perfino un prodotto artistico98, ci appare atmosfericamente inferiore alla luce attenuata, prototipicamente a quella, sempre un po’ crepuscolare, della candela, tra le cui conseguenze vi sono, al di là del prevedibile (e commercialmente sfruttato) effetto romantico, il venir meno del confine io/mondo e una certa predisposizione alla riflessione. Ma questo orientalismo è vero solo in parte, giacché, come si è visto, il culto, quasi l’ossessione, della luminosità attenuata è parte anche delle culture nordiche e scandinave, presentandosi quindi come una vera e propria invariante corporeo-culturale. Anche e proprio in un pianeta nel quale le immagini satellitari notturne mostrano ormai quasi più zone illuminate che zone buie, nel quale l’inquinamento luminoso genera sì effetti estetici ma a discapito di dimensioni esistenziali primarie (a maggior ragione se basato su un’eccessiva standardizzazione della qualità e dei livelli di luminosità), nel quale in città totalmente elettrificate paradossalmente la notte è talvolta addirittura più luminosa del giorno e non ha quindi più alcuna drammaticità, il crepuscolare non ci sembra aver perso nulla del proprio fascino atmosferico. A fronte di un analfabetismo architettonico che pare frustrare il desiderio di diversificazione col «distendersi isotropo della luce su superfici isotrope»99, e ignora il fatto che un edificio è fatto tanto di componenti materiali quanto, se non prevalentemente, di atmosfere suscitate da aria, suoni e appunto luce – un errore analogo a quello di chi pensa di spiegare l’emozione musicale parlando esclusivamente degli strumenti utilizzati100 –, diventano infatti ancora più suggestive le rare ombre101, per nulla degradate dalla scelta antisolipsistica di accendere una luce fosse anche solo per generare una presenza che ci accompagni nelle nostre attività e vinca il nostro senso di solitudine. In fondo, e senza che questo sia una concessione all’oscurantismo, si può ben dire, atmosferologicamente, che «il vero progetto luce è elogio dell’ombra»102. Tutto sta a non cercare nevroticamente la messa a fuoco in ogni cosa: «per cominciare, spegniamo le luci. Poi, si vedrà»103.
- Sul legame sperimentalmente attestato tra luminosità e incremento di salienza dei comportamenti etico-sociali cfr. Wen-Bin Chiou, Ying-Yao Cheng, In broad daylight, we trust in God! Brightness, the salience of morality, and ethical behavior, in «Journal of Environmental Psychology», vol. 36, 2013, pp. 37-42. ↩
- Cfr, Jean-Paul Thibaud, The sensory fabric of urban ambiances, in «The Senses and Society», vol. 6, 2011, p. 209. ↩
- È il caso descritto da Tim Edensor, Illuminated atmospheres: Anticipating and reproducing the flow of affective experience in Blackpool, in «Environment and Planning D: Society and Space», vol. 30, 2012, pp. 1103-1122. ↩
- Cfr. Tim Ingold, Lighting up the atmosphere, in Mikkel Bille, Tim Flohr Sørensen (eds.), Elements of architecture. Assembling archaeology, atmosphere and the performance of building spaces, Routledge, Abingdon 2016, pp. 163-176. ↩
- Su questo punto cfr. Lambert Wiesing, Il Me della percezione. Un’autopsia, a cura di Tonino Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2014. ↩
- Come esige giustamente Tim Ingold, The life of lines, Routledge, London-New York 2015. ↩
- Cfr. Tonino Griffero, Atmosferologia. Estetica degli spazi emozionali, Laterza, Roma-Bari 2010 (trad. ingl., Atmospheres. Aesthetics of emotional spaces, Routledge, London-New York 2014). ↩
- Cfr. Tonino Griffero, Quasi-cose. La realtà delle emozioni, Bruno Mondadori, Milano 2013, (trad. ingl., Quasi-Things. The paradigm of atmospheres, Albany (N. Y.), Suny 2017), dove abbiamo analizzato quasi-cose come il dolore e la vergogna, il volto, la luce crepuscolare, ecc. ↩
- Cfr. Tonino Griffero, Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica patica, Guerini e Associati, Milano 2016, (trad. ingl. ampliata, Places, affordances, atmospheres. A pathic aesthetics, Routledge, London-New York 2019). ↩
- Ritenendo però indispensabile dar conto dei diversi tipi di atmosfere di cui si fa normalmente esperienza, abbiamo usualmente distinto le atmosfere prototipiche (oggettive, esterne, inintenzionali e in senso lato indipendenti dal percipiente) da quelle derivate (oggettive, esterne ma anche prodotte intenzionalmente nella relazione soggetto-oggetto) e da quelle perfino spurie (soggettive, proiettive nel loro derivare da relazioni anche apertamente idiosincratiche). ↩
- Cfr. Rudolf Otto, Il sacro. L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale (1917), a cura di Ernesto Buonaiuti, Feltrinelli, Milano 19893. Sull’autorità delle atmosfere cfr. Tonino Griffero, Who’s afraid of atmospheres (and of their authority)?, in «Lebenswelt», n. 4, 2014, pp. 193-213. ↩
- Abbiamo cercato di offrirne una sintesi altrove: cfr. Tonino Griffero, Isthere such a thing as an “atmospheric turn”? Instead of an introduction, in Tonino Griffero, Marco Tedeschini (ed.), Atmosphere and aesthetics. A plural perspective, Palgrave Macmillan, Basingstoke 2019, pp. 11-62. ↩
- Per una sintesi cfr. Guido Rappe, Archaische Leiberfahrung. Der Leib in der frühgriechischen Philosophie und in außereuropäischen Kulturen, Akademie Verlag, Berlin 1995. ↩
- Cfr. Hermann Schmitz, System der Philosophie, Bouvier, Bonn 1964-1980, 10 voll. ↩
- Per un primo approccio alla filosofia delle atmosfere cfr. almeno Hubertus Tellenbach, L’aroma del mondo. Gusto, olfatto e atmosfere (1968), a cura di Marco Mazzeo, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2013; Hermann Schmitz, System der Philosophie, cit., Band 3, Teil 2, Der Gefühlsraum, 1969; Hermann Schmitz, Atmosphären, Alber, Freiburg/München 2014; Hermann Schmitz, Nuova Fenomenologia. Un’introduzione, a cura di Tonino Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2011; Gernot Böhme, Atmosphäre. Essays zur neuen Ästhetik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1995; Gernot Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena. L’estetica come teoria generale della percezione (2001), a cura di Tonino Griffero, Christian Marinotti Edizioni, Milano 2010; Gernot Böhme, Architektur und Atmosphäre, Fink, München 2006; Michael Hauskeller, Atmosphären erleben. Philosophische Untersuchungen zur Sinneswahrnehmung, Akademie Verlag, Berlin 1995; Andreas Rauh, Die besondere Atmosphäre. Ästhetische Feldforschungen, Transcript Verlag, Bielefeld 2012. ↩
- Cfr. James Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva (1986), trad. Riccardo Luccio, intr. Paolo Bozzi e Riccardo Luccio, Il Mulino, Bologna 1999. ↩
- Sulle “isole proprio-corporee” cfr. soprattutto Hermann Schmitz, Der Leib, De Gruyter, Berlin/Boston 2011; Tonino Griffero, Quasi-cose, cit., pp. 57-73; Tonino Griffero, Atmospheres and felt-bodily resonances, in «Studi di estetica», n. 44, 2016, pp. 1-41; Tonino Griffero, Felt-bodily communication: a neophenomenological approach to embodied affects (Sensibilia 10), in «Studi di estetica», n. 45, 2017, pp. 71-86; Tonino Griffero, Felt-Bodily Resonances. Towards a Pathic Aesthetics, in «Yearbook for Eastern and Western Philosophy» (Embodiment. Phenomenology East/West), vol. 2017, issue 2, pp. 149-164. ↩
- Per questa nozione cfr. Gernot Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena, cit. ↩
- L’espressione è di Wolfgang Metzger, I fondamenti della psicologia della gestalt (1963), trad. Lucia Lumbelli, a cura di Gaetano Kanizsa, Giunti-Barbèra, Firenze 1971. ↩
- Sulla questione degli eventuali confini atmosferici cfr. Tonino Griffero, I confini (atmosferici) del paesaggio, in «Imago», IV, 9, 2014, pp. 11-22. ↩
- Gernot Böhme, Architektur und Atmosphäre, cit., p. 103. ↩
- Cfr. Tonino Griffero, Il pensiero dei sensi, cit.; Tonino Griffero, Places Affordances Atmospheres, cit., e, più sinteticamente, Tonino Griffero, Estetica patica. Appunti per un’atmosferologia neofenomenologica, in «Studi di estetica», anno XLII, IV serie, 1-2, 2014, pp. 161-183. ↩
- Cfr. almeno Hans Blumenberg, Licht als Metapher der Wahrheit, in “Studium Generale”, vol. 10, 1957, pp. 432-447. ↩
- Abraham von Franckenberg, Gründlicher und wahrhafter Bericht von dem Leben und Abscheid… Jacob Böhmens (1730), in Jacob Böhme, Sämtliche Schriften, hrsg. von Will-Erich Peuckert, Frommann-Holzboog, Stuttgart 1955, X, p. 10. ↩
- Per una conferma dell’antico legame tra lucentezza e bellezza, negato da Socrate, si veda quanto afferma il sofista Ippia (Hipp. Ma. 289d sgg.) ↩
- Il periodo della visione böhmiana essendo il medesimo in cui s’impone il genere pittorico della “natura morta”: cfr. Gernot Böhme, Für eine ökologische Naturästhetik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1989, p. 168. ↩
- Cfr. Gaston Bachelard, La terra e le forze. Le immagini della volontà (1948), trad. Anna Chiara Peduzzi e Mariella Citterio, Red Edizioni, Como 1989, pp. 261-289. ↩
- Verosimilmente sulla base dell’antica analogia tra percetto (luce esterna) e percipiente (luce interna): cfr. Gernot Böhme, Hartmut Böhme, Feuer, Wasser, Erde, Luft. Eine Kulturgeschichte der Elemente, Beck, München 2004, p. 150. ↩
- Per una vasta ricerca sugli aspetti (anche luminosi) del corpo spirituale cfr. Tonino Griffero, Il corpo spirituale. Ontologie “sottili” da Paolo di Tarso a Friedrich Christoph Oetinger, Mimesis, Milano-Udine 2006. ↩
- Cfr. Jens Soentgen, Das Unscheinbare. Phänomenologische Beschreibungen von Stoffen, Dingen und fraktalen Gebilden, Akademie Verlag, Berlin 1997, p. 238. ↩
- Attraverso «l’essere-per-l’altro, che ritorna al soggetto come ampliamento della sua sfera di significato»: così Georg Simmel, Sulla psicologia dell’ornamento (1908), in Georg Simmel, Sull’intimità, trad. Marco Sordini, a cura di Vittorio Cotesta, Armando, Roma 1996, p. 109. ↩
- Ivi, pp. 107, 108, 113. ↩
- Donde la superiorità del diamante: «per così dire privo di corpo, il suo effetto consiste solo nelle irradiazioni che scaturiscono da esso, senza che questo possa essere ricondotto ad una variopinta sostanza, già in sé appariscente e affascinante» (ivi, p. 113). ↩
- Cfr. Hans Sedlmayr, La luce nelle sue manifestazioni artistiche (1960), a cura di Andrea Pinotti, Aesthetica Edizioni, Palermo 2020, pp. 47, 60-61 (prima edizione it. a cura di Roberto Masiero e Riccardo Caldura, Aesthetica, Palermo 1989). ↩
- Hans Blumenberg, Licht als Metapher der Wahrheit, cit., p. 433. ↩
- È forse eccessivo sostenere, quindi, che «ci hanno insegnato a guardare la luce senza mettere gli occhiali neri» (Ernst Gombrich, Arte e illusione. Studio sulla psicologia della rappresentazione pittorica (1959), trad. Renzo Federici, Einaudi, Torino 1965, p. 64), a osservare il «gioco della luce scorporata» (Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva (1954), trad. e pref. Gillo Dorfles, Feltrinelli, Milano 1989, p. 247). ↩
- Come osserva sobriamente Erich Rothacker, L’uomo tra dogma e storia. Non tutto è relativo (1954), a cura di Tonino Griffero, Armando, Roma 2009. p. 37, chi è «abbagliato dalla luce del “mondo del senso in quanto tale”, [finisce] per non vedere più chiaramente ciò che è in piena luce». ↩
- Leonardo Amoroso La Lichtung di Heidegger come lucus a (non) lucendo, in Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983, p. 143. ↩
- Forse perfino con la cute, particolarmente sensibile a ogni variazione luminosa. Cfr. Erika Fischer-Lichte, Ästhetik des Performativen, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 2004, p. 207 (trad. it. Tancredi Gusman e Simona Paparelli, Estetica del performativo, Carocci, Roma 2014). ↩
- Un’attribuzione, quella di Erwin Panofsky, Suger abate di Saint-Denis (1946), in Erwin Panofsky, Il significato nelle arti visive, trad. Renzo Federici, intr. Enrico Castelnuovo e Maurizio Ghelardi, Einaudi, Torino 2010, pp. 107-145, oggi quanto meno controversa. ↩
- Gernot Böhme, Hartmut Böhme, Feuer, Wasser, Erde, Luft, cit., p. 157. ↩
- Ivi, p, 153. ↩
- La chiarezza non è affatto «un valore assoluto […] Essa rappresenta solo una forma di vita, una tra le tante. Per nulla al mondo, in nome della chiarezza, rinunceremmo all’oscurità, alla notte, al mistero e alla vita intensa che palpita in questi fenomeni, offrendosi a noi» (Eugène Minkowski, Verso una cosmologia. Frammenti filosofici (1936), trad. Davide Tarizzo, intr. Eugenio Borgna, Einaudi, Torino 2005, pp. 137-138). ↩
- «Appena sopraggiunge la notte, il nostro sentimento delle cose prossime cambia. C’è il vento, che si aggira per vie proibite, sussurrando, come cercando qualcosa, irritato di non trovarlo» (Friedrich Nietzsche, Umano troppo umano, I-II, e scelta di frammenti postumi (1876-78), trad. Sossio Giametta e Mazzino Montinari, a cura di Giorgio Colli e Mazzin Montinari, Mondadori, Milano 1970, p. 128). ↩
- Cfr. Mikkel Bille, Lighting up cosy atmospheres in Denmark, in «Emotion, Space and Society», vol. 15, 2015, pp. 56-63. ↩
- «Nessuno vorrebbe vivere in un posto infinitamente vivido, in cui tutto è chiaramente collegato a tutto il resto […] Non desideriamo vivere in un vaso da pesci rossi; saremmo sopraffatti da una molteplicità di segnali evocativi»: così Kevin Lynch, Progettare la città. La qualità della forma urbana (1981), a cura di Roberto Melai, intr. di Bruno Gabrielli, Etas, Milano 1996, pp. 145 e 146. ↩
- Laddove la tendenza deauratizzante-cosalizzante consisterebbe invece nell’«impadronirsi dell’oggetto da una distanza minima», come afferma Walter Benjamin, Piccola storia della fotografia (1931), in Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, trad. Enrico Filippini, Einaudi, Torino 1966, p. 70. ↩
- «L’osservatore deciso a porre differenze tratta perfino il lontano come se fosse un vicino, e sacrifica l’immagine intuitiva ad una sequela di luoghi che egli misura con lo sguardo uno dopo l’altro, cioè separati, mentre lo sguardo di chi è immerso nell’osservazione, foss’anche di un oggetto vicino, è avvinto, in modo privo di scopi, dall’immagine dell’oggetto, e ciò significa almeno dall’immagine di una forma che non è racchiusa da confini, ma dall’insieme delle immagini all’intorno. Non tanto la distanza dell’oggetto quanto il modo di osservazione decide se esso abbia le caratteristiche del vicino o del lontano; e nessuno disconosce come la vicinanza abbia il carattere della cosa (Ding), e la lontananza quella dell’immagine» (Ludwig Klages, Dell’eros cosmogonico (1922), a cura di Umberto Colla, Multhipla, Milano 1979, pp. 98-99). ↩
- Cfr. Gernot Böhme, Für eine ökologische Naturästhetik, cit., p. 177. ↩
- Cfr. Monika Wagner, Das Material der Kunst. Eine andere Geschichte der Moderne, Beck, München 2001, p. 264. Pensiamo qui, rispettivamente, ad artisti come James Turrell e Dan Flavin, ma anche a Olafur Eliasson. ↩
- Eva Schürmann, So ist es, wie es uns erscheint, in Michael Hauskeller (hrsg.), Die Kunst der Wahrnehmung. Beiträge zu einer Philosophie der sinnlichen Erkenntnis, Die Graue Edition, Kusterdingen 2003, p. 350. ↩
- Monika Wagner, Das Material der Kunst, cit., p. 268. ↩
- Una non irrilevante eccezione è però la sottolineatura da parte di Theodor W. Adorno, Teoria estetica (1970), a cura di Fabrizio Desideri e Giovanni Matteucci, Einaudi, Torino 2009, p. 40, del carattere sovversivo del transitorio (dei fuochi artificiali ad esempio) rispetto all’astratta durata del vero. ↩
- È il caso, intimamente irrisolto, dei venti dipinti di Monet della cattedrale di Rouen raffigurata nelle diverse ore del giorno: cfr. Ziad Mahayni, Atmosphäre als Gegenstand der Kunst. Monets Gemäldegalerie der Kathedrale von Rouen, in Ziad Mahayni (hrsg.), Neue Ästhetik. Das Atmosphärische und die Kunst, Fink, München 2002, pp. 59-69. ↩
- Cfr. Ernst Gombrich, Arte e illusione, cit., p. 59. ↩
- Ivi, p. 64. ↩
- Debitamente distinta tanto dal semplice indebolirsi della luce, adattandosi prontamente al quale l’occhio preserva infatti il precedente mondo ottico, quanto dal cosiddetto crepuscolo oculare, in cui la luce traspare dalle palpebre chiuse. ↩
- Un offuscamento prodotto peraltro addirittura dall’eccessiva intensità luminosa: cfr. Herbert Lehmann, Essays zur Physiognomie der Landschaft, Anneliese Krenzlin, Renate Müller (hrsg.), intr. Renate Müller, Steiner, Wiesbaden-Stuttgart 1986, pp. 155-156, 159, 190 e passim. ↩
- Nel paesaggismo giapponese, ad esempio, la nebbia toglie al campo visivo profondità spaziale, così che «quel che si vede ha un effetto piatto, la nebbia stessa si presenta come una parete sulla quale gli oggetti non risaltano», laddove viceversa le catene montuose appaiono ancora più lontane se interrotte da strati di foschia (Gernot Böhme, Architektur und Atmosphäre, cit., pp. 67, 72). ↩
- A eccezione del solitario, che vi vede stranamente un conforto che «colma l’abisso che lo circonda», secondo Walter Benjamin, I “passages” di Parigi (1982), a cura di Rolf Tiedemann, ed. it. a cura di Enrico Ganni, 2 voll., Einaudi, Torino 2000-2002, p. 367. ↩
- Il primo impulso del malinconico – tradizionale è infatti la raffigurazione dell’acedia come una nuvola (caligo) – consiste notoriamente nel rivolgersi all’oculista. ↩
- Otto Friedrich Bollnow, Mensch und Raum (1963), Kohlhammer, Stuttgart 200410, pp. 219, 221. ↩
- Cfr. Gernot Böhme, Architektur und Atmosphäre, cit., pp. 67 e 70. ↩
- Cfr. Tonino Griffero, Atmosferologia, cit., pp. 62-64. ↩
- Cfr. Jo Collins, John Jervis, Introduction, in Jo Collins, Uncanny modernity: Cultural theories, modern anxieties, John Jervis (ed.), Palgrave, London 2008, p. 1. ↩
- Ne parlano autori già citati, come Hermann Schmitz, System der Philosophie, Band 3, Teil 2, Der Gefühlsraum, cit., pp. 389 sg.; Otto Friedrich Bollnow, Mensch und Raum, cit., pp. 225-226, 229, e soprattutto Eugène Minkowski, Verso una cosmologia. Frammenti filosofici, cit., pp. 117-118, 119, per il quale gli “insegnamenti” forniti dalla notte eccedono quelli diurni. Cfr. anche Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione (1945), trad. Andrea Bonomi, Bompiani, Milano 2003, p. 372. ↩
- Come nell’eclissi di sole, capace di suggerire ex contrario la numinosità di ciò che manca, descritta da Stifter (cfr. Hans Sedlmayr, La luce nelle sue manifestazioni artistiche, cit., pp. 57-63) ma anche splendidamente filmata da Antonioni ne La notte. ↩
- Cfr. Mikkel Bille, Hazy worlds: Atmospheric ontologies in Denmark, in «Anthropological Theory», vol. 15, issue 3, 2015, p. 261. ↩
- Walter Benjamin, Breve storia della fotografia, cit., p. 68. ↩
- Come riconosce anche Otto Friedrich Bollnow, Le tonalità emotive (1941), trad. Daniele Bruzzone, pref. di Eugenio Borgna, Vita & Pensiero, Milano 2009, pp. 144-145. ↩
- Una transitoria veste luminosa cui non si può contrapporre la città “in sé”, visto che l’architettura progetta e costruisce sempre anche “con” la luce, a maggior ragione se artificiale: cfr. Gernot Böhme, Architektur und Atmosphäre, cit., p. 91. ↩
- Per Ludwig Klages, Der Geist als Widersacher der Seele, 3 voll., Barth, Leipzig 1929-32, pp. 176-177, ad esempio, il crepuscolo, come immagine unitaria e non composta da proprietà discrete, consiste nel vertiginoso e circolare coimplicarsi di una bandierina che svolazza, dello svolazzare e del crepuscolo stesso. ↩
- Nel crepuscolo (Tommaso Tuppini, Ludwig Klages. L’immagine e la questione della distanza, Franco Angeli, Milano 2003, p. 150) ci smarriamo «come nel rumore che si attutisce, nella minacciosità d’ombra, in uno di quei fruscii indistinti che acquistano solo di sera tutto il loro carattere di sorpresa e minaccia, in un inavvertito indaffararsi che qualcuno ha svolto nei pressi del molo». ↩
- Nello spazio diurno invece «si percepisc[e] anche l’intervallo tra le cose, cioè questo nulla apparente» (Otto Friedrich Bollnow, Mensch und Raum, cit., p. 216). ↩
- Riduttivo ci pare dunque affermare che «la luce è simile a una cosa quando fende il buio – come quando viene proiettata in un fascio da un faro – o si diffonde nel cielo all’alba», e non quando «la luce […] è qui, in questa stanza» (Kurt Koffka, Principi di psicologia della forma (1935), trad. Carla Sborgi, Boringhieri, Torino 1970, p. 81). ↩
- Cfr. Eugène Minkowski, Per una cosmologia. Frammenti filosofici, cit., pp. 133-134. ↩
- Cfr. Rudolf Otto, Il sacro, cit., pp. 77-78. ↩
- Nella penombra dei boschi, ad esempio, si “sprofonda” come in un mondo illimitato e “sempre” ancestrale, visto che «non vi sono foreste giovani nel regno dell’immaginazione». Così Gaston Bachelard, La poetica dello spazio (1957), trad. Ettore Catalano, rev. Mariachiara Giovannini, Dedalo, Bari 2006, pp. 219, 222. ↩
- Si pensi alle domande capitali cui si viene sollecitati dall’umido e angosciosamente ignoto farsi sera: cfr. Friedrich Nietzsche, Così parlò Zarathustra (1886), a cura di Mazzino Montinari, intr. di Giorgio Colli, Adelphi, Milano 1988, p. 132. ↩
- Si ha «l’impressione di cose che emergono da uno stato di inesistenza a cui probabilmente torneranno […] la vita come un processo di apparizione e sparizione» (Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, cit., p. 266). La spettralità, generata dal venir meno dei confini e dal conseguente possibile inganno sensoriale (Otto Friedrich Bollnow, Mensch und Raum, cit., p. 222), può però anche essere solo un’impressione di vacuità dovuta a una fase del giorno altrettanto vacua perché transitoria e priva di un proprio specifico carattere (cfr. Friedrich Ratzel, Glückinseln und Träume, Grunow, Leipzig 1905, p. 174). ↩
- Rudolf Arnheim, Arte e percezione visiva, cit., p. 248. ↩
- Cfr. Robert Shaw, Controlling darkness: self, dark and the domestic night, in «Cultural geographies», vol. 22, issue 4, 2015, pp. 585–600. ↩
- Hermann Schmitz, System der Philosophie, vol. I, Die Gegenwart, Bouvier, Bonn 1964, p. 157. ↩
- «L’udito, l’organo del timore, soltanto nella notte e nella penombra di cupe selve e caverne ha potuto svilupparsi così largamente come si è sviluppato […] nella chiarità diurna l’udito è meno necessario» (Friedrich Nietzsche, Aurora e frammenti postumi (1979-1981), a cura di Ferruccio Masini e Mazzino Montinari, in Friedrich Nietzsche, Opere, vol. V, tomo I, Adelphi, Milano 1964, p. 170). ↩
- Cfr. Gernot Böhme, Anmutungen. Über das Atmosphärische, Tertium, Ostfildern v. Stuttgart 1998, p. 32. ↩
- Cfr. Gernot Böhme, The aesthetics of atmospheres, a cura di Jean-Paul Thibaud, Routledge, London 2017, cap. 20. ↩
- Se ne occupa soprattutto Mikkel Bille, The Lightness of Atmospheric Communities, in Tonino Griffero, Marco Tedeschini (ed.), Atmosphere and Aesthetics, cit., pp. 241-258. ↩
- Cfr. Hans Sedlmayr, La luce nelle sue manifestazioni artistiche, cit., p. 35. ↩
- «Va definita patina la modulazione specifica di una superficie materiale. La patina deriva da una propria attività materiale stimolata da influssi esterni inintenzionali» (così Jens Soentgen, Das Unscheinbare. Phänomenologische Beschreibungen von Stoffen, Dingen und fraktalen Gebilden, cit., p. 188). ↩
- Cfr. Ziad Mahayni, Feuer, Wasser, Erde, Luft. Eine Phänomenologie der Natur am Beispiel der vier Elemente, Koch, Rostock 2003, pp. 89-94. ↩
- Junichiro Tanizaki, Libro d’ombra (1933), a cura di Giovanni Mariotti, trad. Atsuko Ricca Sugo, Bompiani, Milano 2007, pp. 41, 47. ↩
- Filtri uniformanti o sfocanti, colori tanto intensi da occultare struttura materica e forma, produzione di zone d’ombra anche nel medium fotografico, ecc. ↩
- «È chiaro equivale a dire: ora possiamo vedere, siamo in grado di vedere le cose» (Gernot Böhme, Anmutungen. Über das Atmosphärische, cit., p. 37). ↩
- Cfr. Gernot Böhme, Atmosfere, estasi, messe in scena, cit., p. 190. ↩
- Christian Cay Lorenz Hirschfeld, Theorie der Gartenkunst, M.G. Weidmanns Erbe, Leipzig 1779-1785, 5 voll., pp. 198 sg., 200 sg., 211 sg. ↩
- Alberto Corsín Jiménez, Adolfo Estalella, The atmospheric person: Value, experiment, and “making neighbors” in Madrid’s popular assemblies, in «Journal of ethnographic theory», vol. 3, n. 2, 2013, p. 121. ↩
- Ruota intorno a questa nozione squisitamente atmosferica la ricerca di Mikkel Bille, ora condensata in Homely atmospheres and lighting technologies in Denmark: Living with light, Bloomsbury, London 2019. ↩
- Persino gli alberi mostrerebbero in Europa una «regolarità quale in Giappone si ottiene solo grazie alla mano del giardiniere» (Tetsuro Watsuji, Fudo. Wind und Erde. Der Zusammenhang zwischen Klima und Kultur (1935), a cura di von Dora Fischer-Barnicol, Okochi Ryogi, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1992, p. 66). ↩
- Ruggero Pierantoni, Verità a bassissima definizione. Critica e percezione del quotidiano, Einaudi, Torino 1998, p. 19. ↩
- Cfr. Tim Ingold, Lighting up the Atmosphere, cit., p. 175. ↩
- Come quando «si apre tra le murature rosse un vicolo angusto e sordido che magari le ombre metalliche delle scale di sicurezza renderanno arbitrariamente lirico per un istante» (Ruggero Pierantoni, Verità a bassissima definizione, cit., p. 15). ↩
- Ivi, p. 11. ↩
- Junichiro Tanizaki, Libro d’ombra, cit., p. 90. ↩