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n. 1 - aprile 17, Suono

Mimo di voci, mimo di corpi: intervocalità in scena

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https://doi.org/10.47109/0102210102

Voix Corp-Helga Finter-W. Klein, The aqueduct in Via del Mandrione and in Via di Porta Furba, Rome, 1957

cura e revisione di Piersandra Di Matteo

ABSTRACT

Il saggio Mime de voix, mime de corps: l’intervocalité sur scène è stato pubblicato in Le corps de l’audible, Écrits français sur la voix 1979–2012, Peter Lang, Frankfurt am Main, 2014, pp. 179-197.

Voci e loro ombre

Dall’esperienza estrema di Antonin Artaud fino alle ricerche condotte da poesia e musica contemporanee, la voce che proferisce parola è indagata sulla scena. Oggi l’ascoltiamo amplificata dal microfono, trasformata e modificata dai sound designer o anche prodotta elettronicamente. Meno di un organo (o di uno strumento) – sebbene le pedagogie della voce la trattino sempre come tale – la voce a teatro appare piuttosto come produttrice di uno spazio sonoro a sorgenti multiple, provenendo sia dai corpi presenti in scena, che da registrazioni o samplers.
Noi che la ascoltiamo nel chiuso dei nostri teatri, assomigliamo spesso ai personaggi di un racconto di Edgar Allan Poe intitolato Shadow. A Parable (“Ombra” nella traduzione italiana1). Perché stupefatti, o addirittura incantati, da quel fenomeno sonoro, a un tempo inquietante ed esaltante, ricordiamo i sopravvissuti a una catastrofe atomica che, chiusi in un rifugio insieme al cadavere di un amico, vedono improvvisamente sorgere un’ombra sovradimensionata che risponde alla loro invocazione con una voce così tratteggiata:

[…] il timbro della voce dell’ombra non era il timbro di un solo individuo, ma quello di una moltitudine di esseri, e questa voce, variando l’inflessione di sillaba in sillaba, penetrava confusamente nelle nostre orecchie imitando gli accenti conosciuti e familiari di migliaia di amici scomparsi2.

Una tale voce, che un tempo era ineluttabilmente sovrannaturale, oggi non ci appare affatto inaudita. Perché, come nel racconto, le nostre voci teatrali convocano spesso le ombre. Proiettano un tessuto polifonico e polilogo, un palinsesto o addirittura un testo vocale fatto di voci venute da fuori: voci di morti, uscite dai testi di un autore che – come il narratore di Shadow – «è già da molto tempo nel regno delle ombre»; voci di un tempo, come quella registrata del giovane Krapp in Krapp’s Last Tape di Samuel Beckett, che dialoga con quella del vecchio personaggio in scena, un dispositivo vocale che permise – come nella regia di Klaus Michael Grüber del 1987 a Francoforte – di accostare il corpo sonoro della voce dell’attore (Bernhard Minetti), registrata a Brema quattordici anni prima, a quella dell’attore invecchiato presente in scena; accostamento anche delle voci registrate o “samplées” (campionate) – come quelle del defunto Heiner Müller o dei cantori ebrei – con le voci emesse in diretta in Schwarz auf Weiß (“Nero su bianco”), spettacolo del 1996 di Heiner Goebbels, realizzato con l’Ensemble Moderne3.
Siamo sbalorditi e incantati da queste voci, perché, pur mettendoci di fronte alla morte, fanno anche rivivere per noi i defunti, li rendono presenti in un corpo sonoro immateriale, moltiplicano l’ombra di questi spettri in corpi molteplici, polifonici e poli-loghi. Ogni volta sono il timbro di queste voci, le loro qualità sonore, anche il loro melos, lo stile personale dell’eloquio, che sono soggetti a una dialettica della presenza e dell’assenza visiva della sorgente sonora. Da esse dipende allora una teatralità che mette in gioco un altrove, aprendo all’ascolto uno spazio sonoro. Ogni volta sono il timbro e il melos individuale che ci suggeriscono la presenza di un corpo fisicamente assente.

Voci fra corpo e linguaggio

Allora, come rendere conto di queste voci che non sono necessariamente legate alla presenza di un corpo univoco, e invece moltiplicano quello presente fisicamente? Sembra un compito difficile. Perché anche senza l’intervento dei media, di amplificatori e registratori, ci sono dei virtuosi o degli attori straordinari già in grado di far vivere una intervocalità tale da suggerire la molteplicità di corpi sonori, che sfida la verosimiglianza sonora convenzionale.
Questa intervocalità consiste nell’enunciazione che caratterizza l’individualità di una voce: il timbro – per un verso l’impronta vocale differenziale – è un dispositivo di armoniche, e dipende da costituenti allo stesso tempo fisici (forma della laringe e spettro ormonale del soggetto) e psichici (modelli psichici e culturali) – e, per un altro, il melos personale dell’eloquio al di fuori dell’intonazione significativa – riconoscibile dalla ‘musica’ della voce, dalla sua melodia e dal suo ritmo specifici. Può trattarsi delle caratteristiche di voci reali, ma anche di voci culturalmente codificate, così come le ha formalizzate il teatro nei suoi inventari di retorica vocale: ad esempio le voci dei tipi della commedia dell’arte, o delle voci sociali come il parigino sbadato e nasale del “parlare di Marie Chantal”, o quello di Ménilmontant, spinto dalla gola e piuttosto smozzicato. Vediamo già che parlare della semplice voce proferita ci mette al centro di un immenso campo epistemologico dove fisica e metafisica, fisiologia e psicologia, socio e psicolinguistica si contrappongono, e dove invece psicanalisi, psico-fonetica e psico-semiotica tendono ad articolarne l’intersezione.
La voce – quest’oggetto a un tempo sensibile e fisico, prodotto dal corpo, ma non completamente controllato e dominabile da esso – è solo in parte afferrabile. Essendo allo stesso tempo sia fisica che psichica, oscilla fra corpo e linguaggio, senza ridursi completamente a uno dei due poli. Questo statuto della voce “entre-deux” (intermedio), sottolineato già nel 1967 dallo psicanalista Guy Rosolato4, implica che la voce possa proiettare uno spazio sonoro fra questi due poli. La voce è intermediaria, non è un medium, né uno strumento, né un semplice organo. È invece un oggetto transizionale5, che permette di esplorare nella psicogenesi un corpo sonoro primario, involucro sonoro costituito in eco, che fornisce una identità già prima dell’immagine speculare dello stadio dello specchio lacaniano, e che sarà a quel punto la condizione affinché si possa stabilire un rapporto affettivo con il linguaggio verbale, il cui avvento rimodellerà la struttura del soggetto nel terzo stadio della psicogenesi6.
La voce si riconnette al corpo primario, materno, affettivo; traccia il proprio rapporto con il corpo della lingua, con il/i corpo/i sonoro/i del testo, prefigurato/i dallo stile e dalla sua propria musica. Così la voce crea uno spazio eterotopico nel senso che Michel Foucault ha dato a questo termine: spazio altro, proiezione di uno spazio u-topico a partire da un luogo reale e che è allo stesso tempo luogo materiale, immaginario della Madre, e luogo simbolico del Padre, contemporaneamente fuori dal tempo – in un tempo mitico – e nel tempo, perché traccia di un sacro privato in uno spazio pubblico. La voce proiettata ci informa due volte: su chi la emette e su ciò che dice. Per quanto riguarda colui che parla, ci informa sul suo rapporto con il corpo e con il linguaggio. Ci dice il suo godimento o la sua impossibilità di godere. Ci fa sapere quello che non vuole o può far sentire quello che vuole tacere. Con la parola proferita la voce modula un’immagine di corpo: corpo artefatto, corpo sociale, corpo etnico, corpo incosciente. Ci propone un’immagine dello stato fisico e psichico di questo corpo, può farla coincidere con il corpo fisico visibile o distanziarla da esso. Può darne un’immagine verosimile, corrispondente alle attese culturali e sociali, può anche proporci dei corpi altri.
Ora la voce può essere verosimilmente quella di un corpo ma può anche essere la voce verosimile di una parola o di un testo. Nella civiltà “logocentrica” la retorica ha da molto tempo regolato il grado di corporalità vocale ammessa negli spazi pubblici. Ne parlano i trattati dell’actio retorica previsti per i pulpiti delle chiese, i seggi dei tribunali, le cattedre delle Università e le tribune dei Parlamenti. Ne parlano i manuali di conversazione e le poetiche della poesia drammatica. In compenso, alla voce del corpo e al suo godimento sono state riservate istituzioni specifiche – come il canto lirico e l’opera7. Solo nel nostro secolo abbiamo potuto vedere – grazie a una teatralizzazione specifica della vita pubblica della società dello spettacolo – delle voci estreme mettersi in mostra sulla scena pubblica: l’attore politico impregna la sua voce di corporeità, e trasgredisce la retorica ammessa pur servendosene. Così il fascino esercitato per esempio da Hitler risiedeva in gran parte nella proiezione vocale di un corpo pulsionale che sembrava aver promesso, a quelli che l’hanno seguito, un godimento indicibile di cui oggi conosciamo l’orribile verità8.
Il teatro e la sua arte vocale non sono uscite indenni dalle esperienze compiute nella scena politica. Artaud già l’aveva compreso proponendo il suo teatro della crudeltà contro «Hitler, l’impuro moldavaccio della razza delle scimmie innate», contro quello

[…] che si è mostrato in scena con un ventre di pomodori rossi, strofinato di immondizia come se fosse un prezzemolo d’aglio che a colpi di segherie rotative ha perforato nell’anatomia umana perché il posto gli era stato lasciato su tutte le scene di un teatro nato morto9.

L’aria che rendeva sospetta un’arte vocale incrollabile, ha contagiato i teatri europei dopo gli Anni Cinquanta, prima in Italia, poi in Germania e dopo il Sessantotto in Francia. Per reazione la voce per un verso è stata messa in disparte, restituita come parlare comune, e per un altro è stata esplicitamente elaborata nelle sue componenti corporali. Limitandomi a quest’ultimo aspetto, dominante in un certo teatro d’arte, prima di tutto vorrei proporre un inventario non esaustivo del lavoro vocale che elabora il rapporto con il corpo e il linguaggio. Vorrei, in seguito, abbordare il problema della specifica intervocalità che si mostra, in diverse regie, come citazione delle caratteristiche sonore e dal melos personale della voce hitleriana, per rendere conto delle poste in gioco in un’intervocalità siffatta.

Voci di teatro e loro corpi

Oggi, dopo anni di ricerche sul corpo della voce sulle orme di Artaud, ma anche della musica contemporanea dopo Arnold Schoenberg e Alban Berg, possiamo elencare per il campo del teatro d’arte cinque modalità, che segnano due tendenze10. La prima dispone la voce dalla parte del corpo, la seconda la mette piuttosto dalla parte del testo, tenendo conto di quello che nel testo crea corpo – l’iscrizione semiotica (Julia Kristeva), vocale e ritmica della sua struttura poetica – e di quello che del corpo vocale produce senso. Così le prime tre modalità dell’eloquio vocale includono l’ancorarsi in un corpo realmente o immaginariamente fisico, dando così un’origine visibile in scena:

  1. La pura realtà fisica della voce – esibita contro il testo in produzioni recenti – proietta il reale di un corpo carnale, manipolandone la voce o sottolineandone i difetti fisici. Ne è un primo esempio il teatro della Socìetas Raffaello Sanzio, diretto da Romeo Castellucci. Nel Giulio Cesare del 1997, il corpo fisico di voci specifiche viene esaminato da una endoscopia della laringe, proiettata su uno schermo durante la declamazione dell’attore; un handicap vocale viene mostrato con la voce fischiante di un attore laringotomizzato che recita a fatica – per lui e per lo spettatore – il lungo monologo di Marco Antonio; anche la voce dell’attore che interpreta Bruto è trasformata da un’inalazione di elio.
    Nello stesso modo opera Jan Fabre quando, per l’assolo Who Shall Speak my Thought, collega il corpo dell’attore Marc van Overmeier a degli elettrodi legati a una sorgente elettrica che gli permette, nascosto sotto un abito da Ku-Klux-Klan, di modificare fisicamente con una tastiera (attraverso la quantità di corrente) sull’eloquio dell’attore in costume da lepre di peluche. L’accettazione o la rimozione di un dolore reale fanno variare l’eloquio della voce; diventano modulazione di un affetto imposto o sublimato da un influsso corporeo diretto11.
  2. Del desiderio di fissare la voce – e quindi il testo – al corpo è testimonianza anche Voyage au bout de la nuit della Socìetas Raffaello Sanzio, presentato al Festival di Avignone nel luglio 1999. In questo concerto scenico, la declamazione futurista delle parole in libertà si combina con il lavoro vocale delle radiofonie di Artaud per rendere presente il paesaggio sonoro della guerra del romanzo di Louis-Ferdinand Céline. L’intonazione ritmica sostituisce l’intonazione semantica: una preminenza assegnata al rumore delle consonanti, alla colorazione delle vocali-timbro, ai salti di altezza della voce oltre l’ottava all’interno delle parole e delle sequenze, un’accelerazione e un rallentamento dei ritmi, un’agglutinazione dei suoni ci propongono altrettante modulazioni dei corpi sonori. Discendono da una simile ambizione gli spettacoli in cui la parola è solo gridata o scandita: in entrambi i casi la voce rivela un corpo-sintomo, un corpo isterico individuale e collettivo, con il quale vuole affermare una realtà fisica immaginaria contro la legge simbolica: la verità del corpo sarà quella del senso e del significato della parola.
  3. Esiste una terza modalità di radicamento della voce al corpo che è allo stesso tempo immaginaria e culturale: sovra-determinando, attraverso l’intonazione, gli accenti e le specificità fonatorie di una prima lingua, quella seconda parlata in scena, la voce non è più messa al profitto della produzione significante del testo, ma la parassita designando un altrove: “questo è il mio vero, autentico corpo vocale”. Si tratta, questa volta di evidenziare un corpo etnico, ponendo l’enfasi sulla lingua madre come origine, come si trovava in certe produzioni degli Anni Ottanta di Peter Brook o di Ariane Mnouchkine. In questo modo si può riconoscere una tendenza in scena attraverso la voce che afferma una verità del corpo – fisica, pulsionale, etnica – contro il testo per modificare il suo dire, per essere, in modo più verosimile, questo dire. La dialettica fra voce personale del corpo e voce del testo si riduce al profitto del corpo. Vi sono altre due modalità di eloquio della voce in scena, molto differenti. La dizione del testo beneficia allora delle ricerche sulla voce intraprese dagli Anni Sessanta. Queste richiedono all’attore di esplorare non solo il rapporto con il suo corpo – come nel caso delle prime tre modalità –, ma anche quello con il linguaggio, che deve assumere nella sua alterità come Altro.
  4. Quando l’eloquio vocale è guidato solo dalla struttura sonora e ritmica del testo – come nel lavoro scenico di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet, di Klaus Michael Grüber o di Jean-Marie Villégier –, si presenta come corpo vocale del testo. Mettere in tal modo l’arte vocale al servizio del testo non giova soltanto al significato testuale, ma è un modo per scoprire le potenzialità significanti delle strutture sonore e ritmiche. Questo lavoro risulta insieme raddoppiato dalla musica delle qualità sonore effettive o mimate degli attori che tessono in quel momento un testo vocale: così Straub-Huillet usano gli accenti stranieri e il modo di parlare degli attori italiani nell’Othon di Corneille come tratto significante, pur rispettando la prosodia del francese: le proprietà singolari di queste voci rinviano allo stesso tempo al rapporto contrastato con una legge simbolica (il francese dell’alessandrino) e alla violenza dell’Impero Romano e delle sue vicissitudini che il testo drammatizza. Nello stesso modo, con la voce, rendono corporalmente sensibile l’alienazione dei personaggi di Sicilia!, facendoli interpretare da attori, immigrati dal Mezzogiorno12, che pronunciano come soffiato l’italiano letterario di Elio Vittorini. Anche l’eloquio asmatico dell’attore di Empedocle, nel film tratto dalla versione hölderliniana della tragedia, fa percepire, con la materialità del corpo vocale, l’affezione indicibile del personaggio.
    Così per Grüber e Villégier, il corpo della voce dell’attore è altrettanto potenzialmente significante. Vi riconosciamo una distribuzione degli attori secondo la qualità del timbro personale e del colore di voce mimata13. Così in Bérénice (1984), Grüber fa colorare le voci dei personaggi secondo il loro rapporto con il corpo presupposto e con il potere: il Titus di Richard Fontana ha la voce di tenore nella prima parte della tragedia di Racine, invece nella seconda parte, quando rinuncia al suo amore e sposa il potere, la sua voce è bianca e senza corpo. La voce di gola della Bérénice di Ludmila Mikaël scende sempre più nella gola e dà una colorazione vocale cupa al dolore della separazione da Titus, e la voce di baritono dell’Antioco di Marcel Bozonnet perde, insieme alla speranza di successo della sua passione, colore e rimane bianca, senza marcatura del corpo, per tutta la tragedia.
  5. Se qui c’è una intervocalità che associa la materialità della voce, il suo corpo, all’immagine di un’affezione corporale attraverso il timbro o il colore, con la quinta modalità troviamo la proiezione di uno spazio vocale ‘fra-due’ (entre-deux) che moltiplica allo stesso tempo i corpi della voce e i corpi del testo: da una parte questa intervocalità mette in gioco i tratti propri della voce dell’attore mentre fa risuonare i toni e il melos di altre voci appartenenti a sfere pubbliche, politiche, teatrali, etc. D’altra parte, questa modalità permette di far comprendere le potenzialità polilogali del testo. Proiettando nella voce un corpo molteplice, polifonico, l’attore realizzerà l’equilibrio precario di un corpo polilogo. È quello a cui sono arrivati grandi attori come Robert Lühr nel 1982 o David Warrilow nel 1985 in The Golden Windows di Robert Wilson14, e oggi Isabelle Huppert nell’Orlando di Robert Wilson15 come anche Wilson stesso nel suo Hamlet16.

Con questa quinta modalità che tende a rendere verosimile il corpo al personaggio attraverso una vocalità che eccede il testo e non si riduce ad esso. Nella materialità della voce modificata, interviene un’intervocalità che propone un dialogo fra corpi vocali carnali, immaginari e testuali grazie a una memoria vocale.
Se la quarta modalità di eloquio della voce può essere intesa come incarnazione di un testo che modula i due poli della voce, essa resta tuttavia ancora tributaria di una concezione dualista del soggetto, che oscilla fra corpo e spirito, inconscio e conscio, voce e testo. Il soggetto che emerge da questa quinta modalità è invece in progress, non localizzabile in un solo corpo, allo stesso tempo familiare e estraneo, inafferrabile ma sensibile come le voci che lo modellano. La performance dell’attore è qui un’incarnazione che fa danzare l’idea di incarnazione. Questa danza è come quella della danzatrice di Mallarmé, la danza di uno scriba che vi traccia una scrittura vocale scenica del testo. La voce lo fa vivere, ma lo fa vivere dentro un geste-avis (Philippe Sollers), un gesto vocale che indica allo stesso tempo l’avviso del corpo e della sua memoria vocale. Questa scrittura vocale ci mette davanti a un fenomeno che decostruisce sia il mito della voce originata in un corpo, sia quello della voce puramente testuale. Si mostra, in effetti, come un tessuto di intervocalità, un dispositivo singolare di voci soffiate che, solamente assunte e lavorate, permettono di avere una voce, e quindi di raggiungere la propria voce.

L’intervocalità nella psicogenesi della voce: l’esperienza di Artaud

Quest’ultima concezione della voce tiene conto della lezione di Artaud, che voleva costruire un corpo nuovo, senza organi, espellendo le voci soffiate che lo costituivano. Ricordiamo brevemente i risultati delle sue ricerche dovuti a un’esperienza dei limiti e che oggi si chiariscono grazie alle ricerche della psico-fonetica e della psico-semiotica17.
La voce non è innata, è soffiata, dalle voci dei genitori e dalle voci sociali. Proietta un corpo sonoro immaginario, determinato allo stesso tempo fisicamente, psichicamente e culturalmente. Il primo corpo è un corpo sonoro, modellato sul timbro e il melos della voce materna, che traducono il rapporto di lei con la lingua e con il suo corpo. L’esplorazione di questa voce viene portata avanti secondo le caratteristiche di intonazione della lingua base – per esempio ecolalie francesi, inglesi, tedesche a partire dall’ottavo mese. Il timbro di questa voce – pur essendo un segno personale come l’impronta digitale – non è tuttavia un semplice segno di origine. È un dispositivo psicosomatico complesso che attiene al fisico (forma della laringe e caratteristiche endocrine del soggetto) e all’immaginario (modellazione sui timbri familiari marcati dal desiderio o dalla sua assenza, scelta del modello sessuale genitoriale di riferimento e di ulteriori modelli sociali ideali). Il melos individuale, lo stile personale di parlare può rivelare uno stesso complesso dispositivo psico-culturale. Allora, i tratti caratteristici e il melos individuali di una voce sono già il risultato di una prima intervocalità che chiamerei, secondo il termine di Julia Kristeva, semiotica.
La voce, oggetto transizionale, è il primo oggetto che permette di sublimare la pressione pulsionale a beneficio di un godimento vocale orale: la produzione di suoni sostituisce il piacere del succhiare, in tutte le lingue, infatti, le consonanti bilabiali formano la prima parola pronunciata indicante la madre; la padronanza della glottide coincide con quella degli sfinteri. La voce e il suo godimento derivano da uno spostamento verso l’alto delle pulsioni che si inscrivono nella produzione vocale. Le ricerche di Ivan Fónagy e di Julia Kristeva mostreranno che il pulsionale s’inscrive nella parola, nel testo attraverso ricorrenze sonore marcate da una specifica forma di godimento (orale, aggressivo-anale ecc.) e la strutturazione ritmica18.
Nella parola, nel testo, il “semiotico” – sémiotique secondo la definizione di Julia Kristeva – coabita con il simbolico. Dei tratti corporei vocali determinano il nostro stile individuale di parlare e anche di scrivere in un modo più o meno marcato, più o meno elaborato e cosciente. Quindi una voce e il suo stile ci informano – oltre alle caratterizzazioni sociali – sul soggetto inconscio del parlante, sul suo corpo immaginario e il suo rapporto con la lingua.
L’esplorazione della voce nella sua scrittura dopo il 1945, come anche le sue radiofonie, mostrano che Artaud fa danzare con le parole le voci e i timbri che costituiscono la propria voce, per proiettare un corpo molteplice di parole e voci soffiate, facendo allo stesso tempo sentire un godimento e percepire il processo di un soggetto che rifiuta la fissazione sull’Uno. L’esperienza di Artaud non è tuttavia riducibile al teatro, ne costituisce il suo limite come esperienza singolare. Sebbene citi anche delle voci sociali che potrebbero derivare da una tipologia sociale in quelle radiofonie – per esempio voce di testa di donna anziana, voce impostata retorica di personaggio ufficiale, voce sottile di giornalista –, il suo lavoro non si limita a una intervocalità semantica, tributaria delle retoriche della vita pubblica e privata che codificano abitudini sociali e stati psicologici. Così chi voleva trarne una retorica della sua voce aveva messo a profitto un malinteso, con risultati più o meno fruttuosi.
Oggi la voce o quella che si ritiene la voce di Artaud visita da spettro il nostro teatro, come lo visita anche quella del suo antipodo nella scena del teatro politico, Adolf Hitler. Due voci estreme che hanno saputo iscrivere un certo godimento – ma per Artaud anche la sua analisi – nel corpo di una voce proferita in pubblico. Che funzione può avere la citazione delle caratteristiche di una tale voce? Che cosa di essa è mimabile? Si tratta di una semplice maschera di voce, o si arriva a penetrare, analizzare ciò che ne fa il nodo più personale? Proporremo qualche ipotesi sulla funzione dell’intervocalità dopo aver analizzato degli esempi di intervocalità in scena – qui, le voci di Artaud e di Hitler.

Le voci di Artaud e di Hitler in scena

Nel 1980 Sandro Lombardi in Artaud, spettacolo dei Magazzini diretto da Federico Tiezzi19, aveva già ben marcato i limiti d’uso della voce di Artaud: ripetendo, parola dopo parola, la conclusione della sua trasmissione radiofonica Pour en finir avec le jugement de Dieu, e partendo dalla registrazione, l’attore dà forma, infatti, a una imitazione quasi perfetta di quella voce, a parte un leggero spostamento di timbro. L’attore sposa il corpo vocale dell’altro, lo aspira e lo fa suo, fagocitandolo. Tuttavia la sua presenza fisica in costume di lamé argentato e la sua parrucca beckettiana denunciano questo gesto come assurdamente teatrale. Assumere l’arte di Artaud e superarla implica quindi l’esplorazione della propria voce attraverso il testo, cosa che i Magazzini faranno da allora, con produzioni spesso ammirevoli tratte da Dante, da Beckett, da Pasolini.
Artaud può indicare la direzione per un’esplorazione vocale, non il metodo: così le riprese attuali della sua voce ne sottolineano una differenza. Il già citato Voyage au bout de la nuit per esempio, confrontava la meno radicale delle esperienze futuriste della voce con quella di Artaud, per liberare la base pulsionale (l’aggressività, la lotta) della musica del testo di Céline. Lo stesso Castellucci riprenderà la voce registrata di Artaud della radiofonia già menzionata in Genesi from the Museum of Sleep del 1999: il loop della frase “voi delirate Signor Artaud, siete matto da legare”, tratta dalla conclusione dell’emissione, informa in contrappunto, semioticamente, la seconda parte muta dello spettacolo che vuole suggerire scenicamente l’esperienza dei campi di concentramento nazisti. La voce di testa di Artaud, stridente e compressa, commenta così la verità pulsionale di un’altra voce estrema, contemporanea di Artaud, propagata appunto attraverso la radio.
Questa voce di Hitler è citata negli ultimi anni in una serie di spettacoli teatrali: Christoph Marthaler fa assumere un eloquio spezzato, scandito ed esplosivo, con sostenuto accento strozzato bavarese al Faust di Josef Bierbichler alla fine dello spettacolo Faust. Racine carrée de 1+2. Faust. Wurzel aus 1+2 (Faust radice di 1+2)20.
Si trattava dell’ultima replica di Faust, nella scena Palast großer Vorhof (“Palazzo, grande vestibolo”), dal quinto atto di Faust II, in cui riassume la quintessenza dell’uomo faustiano – la riuscita del suo sforzo sovrumano e il compimento della sottomissione della terra come anche la soddisfazione finale che provocherà la sua morte.
Se questo esempio si limita ad aggiungere, attraverso la citazione della voce del dittatore, un chiarimento storicamente significativo al passaggio del testo goethiano, una serie di spettacoli con l’attore Martin Wuttke come protagonista, ci consegnano, insieme alla voce di Hitler, un’analisi delle implicazioni inconsce di questa terribile voce. La prima occasione in cui Martin Wuttke esibisce la maschera vocale di Hitler, sarà ancora un Faust, quello di Einar Schleef del 199021.
Wuttke vi recita la parte di un personaggio che pronuncia davanti a una pletora di discepoli le parole di Mefistofele e quelle del direttore del teatro del Prologo al teatro, presente nella parte esordiale della tragedia. Conciato con un tutù e pettinato con la mèche caratteristica di Hitler, pronuncia le parole del direttore alla maniera dell’istrione che anche fu Hitler: gesti da automa, eloquio di un’espressività goffa e banale, timbro compresso, prosodia scandita e spinta da un’energia espulsiva. Dà così una caricatura del cattivo attore, dell’attore sociale in un contesto spettacolare (lo spectaculaire concentré di Guy Debord), caratteristico delle società totalitarie.
Jan Fabre integrerà l’imitazione di questa performance alla scena VII nelle sue Sweet Temptations del 199122 l’attore Markus Danzeisen riprende di fatto il gesto vocale hitleriano di Wuttke – con lo stesso costume di ballerina, la stessa acconciatura e la stessa maschera mimica – non solo per re-citare il primo monologo faustiano della prima parte della tragedia – Habe nun ach (“Filosofia ho studiato…”) della scena Notte – che era stato prununciato in coro nella produzione di Schleef23, ma anche per cantare i versi dello gnomo Rumpelstilz, incarnazione della malignità nelle favole dei Grimm, che esprime la sua gioia malsana danzante intorno al fuoco.
Il contesto e la memoria di questi due ruoli saranno riattivati – sia per l’attore che per lo spettatore – quando Martin Wuttke reciterà Arturo Ui nella messa in scena del 1995 di Heiner Müller24. La resistibile ascesa di Arturo Ui è l’opera in cui Bertolt Brecht commenta l’ascesa al potere di Hitler. Nella sua visione, il dittatore è solo uno strumento del capitale la cui riuscita si deve solamente alle lezioni di teatro prese da un attore della vecchia scuola. Per Bertolt Brecht – come testimoniano anche altri testi25 – la fascinazione di Hitler era dovuta prima di tutto al convincente gioco di un attore che prende in prestito dalla retorica la logica accusatrice di qualcuno che «assume il tono di un uomo accusato ingiustamente per pura cattiveria26 ». Per Brecht il segreto di Hitler doveva cercarsi nei trucchi dell’attore tradizionale trasferiti sulla scena pubblica.
Eppure oggi sappiamo che le lezioni che Hitler prese da Paul Devrient – e non da Basil come pensava Brecht – erano in parte fallite, perché il suo stile personale faceva saltare il quadro verosimile della retorica teatrale dell’epoca. Hitler era incapace di elaborare la sua voce senza testo e senza pubblico. Perché, abituato a produrre i propri testi dettandoli nel bel mezzo dell’azione, faticava molto a rielaborarli27.
I suo discorsi furono delle scariche energetiche con dei tratti vocali specifici: eloquio affrettato, strozzato e teso che si scaricava in isteriche esplosioni urlate. Hitler si sgolava, la voce si arrochiva, l’articolazione diveniva imprecisa. Le lezioni servivano allora a prevenire l’afonia, senza però poter mantenere la condotta della sua voce nei limiti del verosimile e del lecito. Sostenuta da un melos personale che segmentava le frasi contrariamente alle unità di significato, con salti da una a due ottave, senza cambio di registro, ma anche con frequenti alternanze di registro fra voce di testa e voce di petto, corrispondenti a un’alternanza tra un tono citato, ironicamente civile, e il suono aggressivo di un odio esplosivo, sembrava che questa voce fosse continuamente alle prese con un oggetto su cui si fissa una passione negativa, e che tende a espellere, a annientare. La vernice di una organizzazione apparentemente logica del discorso e di una elocuzione con minima intonazione significativa è continuamente bucata da accessi di pulsioni aggressive e piene d’odio, che si traducono in ruggiti, in latrati. La voce di Hitler, come ce la fanno sentire le registrazioni dei suoi discorsi, proietta l’immagine sensibile di un essere che controlla difficilmente le sue pulsioni: prendendo il sopravvento, esse si scaricano in un godimento delirante e osceno. È un corpo di voce che, nella sua rigida tensione in una turgescenza permanentemente, sembra aspirare a costringere le parole, a farne un tutt’uno con questa pulsione e a ridurle a essa. Così, trasmette il modello di un godimento esclusivo che rappresenta quello, inconscio, dei suoi uditori affascinati. Riassumendo, abbiamo in superficie una espressività codificata secondo le regole, resa da un cattivo attore. Ma ostacolata da eruzioni e deragliamenti di timbro, in profondità è il godimento terrificante che trasmette il messaggio di un desiderio di sterminio di ogni altro, dell’Altro.
Heiner Müller tiene conto della complessità contraddittoria di questa voce. Ci mostra Arturo Ui prima con una vocalità pulsionale afasica o con parole appena udibili. In questo modo rende scenicamente presente la metafora attribuita da Thomas Mann a Hitler: per lo scrittore era effettivamente «la voce di un cane da attacco incatenato, cattivo e mordace» («Die Stimme eines bösen, bissingen Kettenhundes»)28. Ui di Martin Wuttke è qui essenzialmente un animale a quattro zampe: ansima, vomita, rutta, biascica, gorgoglia, abbaia; è solo bave e sputi abietti. Questo corpo pulsionale s’innesta nella parola nella VI scena in cui interviene il personaggio dell’attore che gli dà lezioni di contegno e di elocuzione: i gesti e i movimenti caratteristici di Hitler saranno il risultato di un’interpretazione meccanica dei gesti dell’attore e questo nuovo homo erectus plasmerà allora l’eloquio della sua voce seguendo lo stile che conosciamo. Sarà tuttavia leggermente sfasato, perché in scena modellato sulla lezione, sullo stile dell’eloquio del suo professore-attore, interpretato da Bernhard Minetti29.
Attraverso l’interpretazione di Martin Wuttke, il testo di Brecht è doppiato da un altro dramma: quello della nascita di una parola singolare, risultato dell’iscrizione del pulsionale nel corpo del linguaggio. Questa decostruzione della voce hitleriana in corpo di voce pulsionale e corpo di voce elocutoria propone una intervocalità semiotica mimata che diventa significante sulla scena. Si riferisce al verosimile di un anteriore-già-qui – l’immagine della voce di Hitler – e del suo personale melos. Questo mimare un corpo vocale esistente può allora essere integrato nell’orizzonte verosimile delle voci a livello semantico e a livello elocutorio. Rendendola storicamente e socialmente probabile, la citazione di una tale voce estrema sulla scena permette allo stesso tempo di affrancarsi, in un rito liberatorio, da quello che fu una volta, per un’intera Nazione, il modello di godimento vocale: il cattivo attore diventa comico nella sua lotta per padroneggiare un corpo scatenato che esige i suoi diritti.
Con l’interpretazione del personaggio di Danton da parte dello stesso attore, nella messa in scena di Robert Wilson de La Morte di Danton di Georg Büchner (Festival di Salisburgo, 1998), la maschera vocale di Hitler è messa in prospettiva rispetto al contesto teatrale: si riferisce a un’interpretazione storica del personaggio, quella di Fritz Kortner. Associando, attraverso il suo eloquio vocale, il retore della rivoluzione francese a Hitler, nell’ultimo grande discorso pubblico di Danton, Martin Wuttke commenta al contempo il fiasco politico di una certa arte teatrale. Di fatto Fritz Kortner, che aveva recitato nel ruolo di Danton dal 1929, fissandolo poi nel film di Hans Behrendt nel 1931, aveva invano voluto opporre la vera arte oratoria dell’attore all’eloquio vocale di Hitler. Fritz Kortner, attore espressionista eccellente, esempio di un’autenticità di recitazione il cui modello era l’attore della Burg viennese Josef Kainz – apprezzato anche da Hitler che l’aveva potuto vedere nel 1908 – si opponeva agli attori della vecchia scuola. Nell’ultimo discorso di Danton – ascoltato nel film – Kortner rivela, in effetti, qualche caratteristica dell’eloquio che può superficialmente essere associata a quelle di Hitler: scansione ed esplosione della voce alla fine del discorso davanti al Tribunale Rivoluzionario, salto di tono e di gradazione, voce compressa e tesa nei momenti aggressivi, contrasto di registro tra ironia recitata e affermazione urlata. Inoltre la colorazione di un accento austriaco che dà una voce annodata (Knödelstimme), soprattutto nelle consonanti velari, fa percepire una certa parentela. Tuttavia in Kortner i timbri, la colorazione e anche la prosodia seguono e sottolineano il senso del detto, la segmentazione e il melos restano nel quadro degli eloqui al servizio del significato testuale. Pare quindi che Hitler abbia – sembra dirci questa regia – rubato non solo i baffi a Charlie Chaplin, ma anche la voce al teatro tedesco. Come riprenderla? Siamo di fronte a un compito immenso, perché la teatralità vocale del Terzo Reich non si limitava alla semplice voce di Hitler. In effetti, la regia di Robert Wilson rende udibile anche questa intervocalità: nel film di Behrendt, il Danton di Kortner era messo a confronto con il Robespierre di Gustav Gründgens, il contrasto fra i due personaggi e attori era sottolineato anche dall’opposizione dei colori – scuro e chiaro – dei loro costumi e delle loro acconciature. Wilson riprende questa differenza di abbigliamento nella sua regia. Ma non è l’attore di Robespierre (Sylvester Groth), bensì quello di Saint Just (Wolfgang Maria Bauer) che col costume chiaro e la parrucca bianca di Gründgens citerà qualche suo caratteristico tratto vocale, come il suono rotondo, l’eloquio regolare, freddo e distintamente articolato, la parola tagliente. Saint Just è qui la voce del suo maestro Robespierre, del quale sembra esibire, teatralmente, l’eloquio riservato. Così facendo, sorge nello stesso tempo lo spettro sonoro di un’altra voce, quella del Ministro della Propaganda Nazista, Joseph Goebbels. Le voci di Gründgens e di Göebbels, in effetti, contrastano con quelle di Kortner e di Hitler: le prime due hanno in comune il culto del bel suono, un eloquio regolare senza bruschi salti, la coincidenza fra la punteggiatura sintattica e il melos individuale, e un costante registro di testa. Perfino le parti gridate da Goebbels non danno mai la stessa impressione di aggressività, perché la sua voce è sempre distesa, mai strozzata. A loro è anche comune una vicinanza di timbri, colorata da un leggero sospetto di accento renano. Quando Goebbels riprende i modi prosodici di Hitler, conserva però il continuo legato. Anche quando la voce si arrochisce, non è un tratto semiotico, l’articolazione resta chiara e precisa. L’eloquio di Goebbels è recitato a partire da un testo ben preparato, la sua voce cerca l’effetto, imita quella dei suoi nemici – in modo straniato.
Rispetto a Hitler, la voce di Goebbels riprende le caratteristiche vocali dell’eloquio del suo maestro e solo raramente mima quelle semiotiche. La voce di Goebbels è la voce di un attore capace di citare altre voci senza implicarvi il corpo. Il suo modello potrebbe essere il direttore del Teatro Statale della Prussia a Berlino dal 1933 al 1944, Gustav Gründgens. Al contrario di Kortner che non evita i rumori o il fruscio della voce, Gründgens coltivava il suono brillante, facendosi portavoce solo del testo. Così le voci di La morte di Danton, nella regia di Wilson, raccontano, nello spessore significante della loro materialità e dei loro eloqui, la storia del teatro tedesco a partire dagli Anni Trenta. Rendono al teatro le voci rubate dai principali attori nazisti, facendo delle loro voci le voci del teatro: una vocalità semiotica viene da questa intervocalità resa semantica ed elocutoria.

Conclusione: l’intervocalità in otto tesi

Concludo con otto tesi sull’intervocalità in scena:

  1. Come l’intertestualità fa dialogare i testi, l’intervocalità in scena propone un dialogo tra voci presenti e assenti.
  2. Per l’intertestualità, il punto di riferimento è il verosimile di una parola, di un discorso precedente, con i quali si stabilisce una corrispondenza. Questo verosimile si articola su due livelli:
    a) semantico che presuppone una somiglianza con un déjà-là anteriore;
    b) sintattico che lo rende conforme alle leggi retoriche della struttura discorsiva data, e alla legge della grammatica30.
    Dato che l’intervocalità ha delle voci come oggetto, ci troviamo di fronte a un fenomeno più complesso: perché la voce, come abbiamo visto, è essa stessa già situata tra due poli. Da una parte dialoga con il corpo e il linguaggio, e d’altra parte con il somatico e lo psichico. La voce in queste caratteristiche personali (timbro e melos) è già – e questa è la mia seconda tesi – il risultato di una intervocalità semiotica.
  3. A teatro l’intervocalità può essere convocata a due livelli di articolazione:
    (a) a livello semantico sorretto dalla somiglianza e quindi dall’immaginario, dove queste caratteristiche raggiungono l’inventario culturalmente codificato delle voci verosimili. Ne fanno parte le qualità vocali che si presuppone fossero presenti anteriormente ai tipi di voci sociali, teatrali ad esempio, ma anche le voci retoriche delle passioni inventariate e degli stati d’animo probabili;
    (b) le caratteristiche semiotiche di una voce si possono citare a livello elocutorio, che è il suo livello sintattico di concatenamento: esso è regolato dal simbolico, in cui lo stile individuale dell’eloquio è messo a confronto con il verosimile della prosodia di una lingua data allo stesso modo di un idioma linguistico o di un idioletto culturale o sociale. Allora, mimato a teatro, il melos personale di Hitler può diventare un idioletto elocutorio inventariato.
  4. Come l’intertestualità31, – questa è la mia quarta tesi – l’intervocalità può essere strutturante per l’intero eloquio di una voce, può anche avere la funzione di una semplice citazione, di una connotazione occasionale o dipendere da una associazione indotta per l’uditore.
  5. In quinto luogo, l’intervocalità può avere una funzione semantica e/o elocutoria affermativa o analitica rispetto alla voce del testo, e può avere anche una funzione semantica e/o elocutoria affermativa o analitica rispetto al corpo della voce emessa.
  6. Nel caso di una funzione contemporaneamente affermativa e analitica a livello semantico e/o elocutorio, l’intervocalità mette in gioco quella che con Roland Barthes possiamo chiamare la grana della voce32. Secondo la sua definizione, la grana della voce non si riduce al timbro, ma è il punto, reso sensibile, in cui il legame intimo fra corpo e lingua si annoda. Barthes aveva proposto questo concetto complesso per caratterizzare la voce del cantante.
  7. Estesa alla voce della parola – è la mia settima tesi –, la grana della voce sarebbe il nodo esibito in cui si incontrano le voci di corpo, le voci immaginarie e le voci del testo: è il punto sensibile dove il soggetto si costituisce contemporaneamente come effetto del Reale, dell’immaginario e del simbolico.
  8. Nella voce di parola – e questa è la mia ultima tesi – è la flessibilità del legame al corpo di voce immaginario a decidere del suo potenziale di analisi.

Una tale intervocalità è rara, giacché consiste in una riflessione pragmatica sulla voce e sulla lingua. È scrittura vocale. Forse solo Artaud ha potuto realizzarla in scena, con i rischi e le sfide che conosciamo e che hanno messo in gioco contemporaneamente le frontiere stesse del teatro.

  1. Edgar Allan Poe, Ombra, in Nuovi Racconti Straordinari, trad. it. di Rodolfo Arbib, Edizioni Sanzogno, Milano 1885, pp. 122-125.
  2. Ivi., p. 306.
  3. Cfr. Helga Finter, « Théâtres des ombres. Notes sur les arts de la scène et la technologie », in «Puck», n.13, 2000, pp. 103–107.
  4. Cfr. G. Rosolato, La voix, in Essais sur le symbolique, Gallimard, Paris 1967; La voix entre corps et langage, in «Revue française de psychanalyse», XXXVIII, n. 1, 1974, pp. 77-94.
  5. D.W. Winnicott, Play and Reality, Tavistock, London 1971, (trad. it. Gioco e realtà, Armando, Roma 1974).
  6. Cfr. D. Vasse, L’Ombilic et la voix. Deux enfants en analyse, Seuil, Paris 1974 e D. Anzieu, Le moi-peau, Dunod, Paris 1985; per un compendio delle attuali ricerche cfr. M.-F. Castarède, La voix et ses sortilèges, Les Belles Lettres, Paris 1987.
  7. Cfr. M. Poizat, L’Opéra ou le cri de l’ange. Essai sur la jouissance de l’amateur d’Opéra, Métalié, Paris 1986.
  8. Cfr. W. Maser (a cura di), Mein Schüler Hitler. Das Tagebuch seines Lehrers Paul Devrient, Ilmgau Verlag, Pfaffenhofen/Ilm 1975; C. Schnauber, Wie Hitler sprach und schrieb, Atheneum, Frankfurt/Main 1972; H. Finter, Geste de vérité ou vérité du geste?, in «Théâtre/Public», n. 51, 1983, pp. 6-19. Cfr. inoltre Le corps de l’audible, cit., pp. 31-37.
  9. Cfr. A. Artaud, Le théâtre et l’anatomie, in «La Rue», 12 luglio 1947, ripreso in «Art press», n. 18, 1978, p. 11; cfr. A. Artaud, Préambule, in Œuvres complètes, 1, Gallimard, Paris 1986, pp. 7-12; anche H. Finter, Artaud and The Impossible Theatre. The Legacy of the Theatre of Cruelty, in «The Drama Review», n. 41, 4 (T146), 1997, pp. 15-40.
  10. Qui è preso in considerazione essenzialmente il teatro parlato. Malgrado questa distinzione sia stata cancellata dopo il teatro americano degli Anni Settanta (per esempio Robert Wilson, Meredith Monk, Richard Foreman), lasciamo da parte il problema del teatro musicale e il rapporto fra parola cantata e parola detta di cui si è discusso altrove. Cfr. H. Finter, Corps proférés et corps chantés sur scène, in S. Badir – H. Parrett (a cura di), Puissances de la voix. Corps sentant, corde sensible, Presses Universitaires (PULIM), Collection Nouveaux Actes Sémiotiques, Limoges 2001, pp. 173-188. Cfr. inoltre Le corps de l’audible, cit., pp. 163-177.
  11. Theater am Turm (TAT), Francoforte sul Meno, Febbraio 1993.
  12. In italiano nel testo francese (N.d.R.).
  13. Distinguiamo il timbro dal colore della voce: il timbro, individuale per ogni voce, è un insieme di proprietà fisiche (forma della laringe e caratteristiche endocrine del soggetto) e psichiche (rapporto immaginario con la prima voce e con il modello familiare e sociale). Il colore della voce si modula a partire dalle sue proprietà, per esempio dall’apertura e chiusura della laringe che permette di colorare le vocali fra petto, gola e testa.
  14. R. Wilson, The Golden Windows, Kammerspiele Munich, 1982 con Robert Lühr nel 1985; al Brooklyn Academy of Music, con David Warrilow.
  15. Cfr. H. Finter, Der Körper und seine Doubles: Zur (De-)Konstruktion von Weiblichkeit auf der Bühne, in «Forum Modernes Theater», n. 11/1, 1996, pp.15-32; trad. inglese in «Women & Performance», t.9/2, 18, 1997, pp. 119-141, ripreso in Die soufflierte Stimme, Lang, Frankfurt am Main 2014.
  16. Alley Theatre, Houston Texas 1995.
  17. Mi riferisco qui alle ricerche di Julia Kristeva, agli studi di Ivan Fónagy, e ai lavori di Jacques Derrida riguardanti Artaud. Cfr. più modestamente H. Finter, Der Subjektive Raum, t.2, Tubinga, Narr 1990, (trad. spagnolo El espacio subjetivo. “…el lugar donde el pensamiento ha de encontrar su cuerpo”: Antonin Artaud y la utopia del teatro, Buenos Aires 2006). Cfr. anche H. Finter, Artaud and the Impossible Theatre. The Legacy of the Theatre of Cruelty, in «The Drama Review», 41, 4 (T156), 1997, pp. 15-40.
  18. J. Kristeva, La Révolution du langage poétique, Seuil, Paris 1974, (trad. it. La Rivoluzione del linguaggio poetico, Marsilio, Venezia 1979, anche Spirali, Milano 2006); I. Fónagy, La vive voix. Essai de psycho-phonétique, Payot, Paris 1983.
  19. Debutto a Documenta, Kassel 1980.
  20. Schauspielhaus, Amburgo 1993. In merito a questo spettacolo cfr. Corps proféré et corps chanté, in Le corps de l’audible, cit., pp. 163-177.
  21. Bockenheimer Depot, Städtische Bühnen, Francoforte sul Meno 1990.
  22. Theater am Turm, Francoforte sul Meno 1991.
  23. Ringrazio per questa precisazione Miiam Dreysse, autrice di una monografia su Einar Schleef, Szene von dem Palast. Die Theatralisierung des Chors im Theater Einar Schleefs, Francoforte/Berlino/Berna, Peter Lang, coll. Theaomai, Studien zu den performativen Künsten 1, 1999.
  24. Berliner Ensemble, Theater am Schifferbaudamm, Berlino.
  25. Cfr. B. Brecht, Der Messingkauf – 1937-1951, in «Gesammelte Werke», n. 16, tradotto in italiano come “L’acquisto dell’ottone”  (1937-1951), in Id, Scritti teatrali II, Einaudi, Torino 1975) e anche il testo inedito di B. Brecht, Ein fähiger Schauspieler (“Un attore capace”), in «Der Spiegel»,  50, 1996, pp. 234-235.
  26. Cfr. B. Brecht, Ein fähiger Schauspieler, cit.
  27. Cfr. W. Maser (a cura di), Mein Schüler Hitler, cit.; C. Schnauber, Wie Hitler sprach und schrieb, cit.
  28. Cfr. C. Schmölders, Führers Stimme. Das rhetorische Attentat oder: zur auditorischen Seite der Politik, in «Frankfurter Rundschau», n. 271, 20 novembre 1999; la scrittrice Annette Kolb, citata, parla anche di tono “tritacarne” et Kurt Tucholsky, citato, di una voce che “odora del fondo delle mutande”.
  29. Con Heiner Müller sono, alternativamente, due attori che erano stati all’apice della carriera sotto il nazismo – Marianne Hoppe e Bernhard Minetti – che interpretano questo personaggio.
  30. Cfr. J. Kristeva, La productivité dite texte, in Sémeiotikè. Recherches pour une sémanalyse, Seuil, Paris 1969, pp. 208-245, (trad. it. Sémeiotikè. Ricerche per una semanalisi, Milano, Feltrinelli, 1978).
  31. M. Riffaterre, La trace de l’intertexte, in “La Pensée », n. 215, ottobre 1980, pp. 4-18.
  32. R. Barthes, Le grain de la voix [1972], in Œuvres complètes, t.2, Seuil, Paris 1994, pp. 1436-1442, (trad. it. La grana della voce, Einaudi, Torino 1986).
Author

Insegna dal 1991 teoria, estetica e storia del teatro presso l'Institut für Angewandte Theaterwissenschaft che ha diretto fino al 2003. Ha pubblicato libri sul futurismo italiano, sulle utopie teatrali di Mallarmé, Jarry,Roussel e Artaud , ha curato l'opera di Georges Bataille e volumi sul rapporto tra il teatro e le altre arti. Ha lavorato come dramaturg ed è membro della redazione del New Theatre Quarterly; cura per l'editore Peter Lang la collana "Theaomai. Studi sulle arti performative". Nell'insegnamento ha riservato particolare interesse ai problemi relativi alla funzione sociale del teatro, al rapporto del teatro con le altre forme artistiche e i media, così come al cambiamento della concezione dello spazio, della rappresentazione, del corpo e del soggetto. Ha tenuto seminari sul teatro europeo nel Rinascimento e nel periodo Barocco, sul teatro di avanguardia in Francia, Germania, Italia e Stati Uniti, sull'estetica della voce.