Traduzione dal francese di Cristina Grazioli
Se tutto porta a credere che l'opera di Turrell si rivolga ad ogni singolo spettatore, sembra invece possibile un'altra lettura, secondo la quale il suo lavoro fa parte di un'esperienza comune e condivisa della luce che tocca una certa forma di universalità. L'obiettivo qui è guardare alle configurazioni spaziali (scenografiche, architettoniche) messe in atto da Turrell, e basate in particolare sul concetto di collegamento o soglia, per considerare i legami che uniscono questo tipo di dispositivi alle sue origini quacchere, alla sua educazione, alla sua cultura (le esperienze di luce, il silenzio e la comunità). Sembra allora che i dispositivi turrelliani, così esplicitamente legati alla fenomenologia della percezione di Merleau-Ponty, si riferiscano anche, attraverso un’esperienza della luce condivisa, alle condizioni stesse dell'esperienza cosciente della nostra percezione, e quindi a qualcosa di ancora più fondamentale, che è la dimensione intersoggettiva del nostro rapporto con il mondo.
A buon diritto si parla perciò di percezione dell’estraneo e successivamente della percezione del mondo oggettivo, percezione del fatto che l’altro mira allo stesso oggetto di me, ecc., sebbene essa si formi esclusivamente entro la mia sfera di appartenenza1.
Nel corso di quest’anno 2020, il lock down imposto dalla pandemia Covid-19 ha generato in noi reazioni spesso inattese: stupore, panico, incomprensione, rifiuto, claustrofobia, paranoia, sfiducia… Questi sentimenti, vissuti personalmente o dalle persone a noi vicine, hanno accompagnato le restrizioni alla nostra libertà di movimento, ai nostri spazi vitali, l’isolamento fisico, la messa a distanza del corpo dell’altro; tutto questo mi ha spinta a ripensare dal punto di vista della corporeità l’opera dell’artista James Turrell2, il cui oggetto è la percezione e la cui materia è la luce.
Si può pensare la luce come potenza irraggiante e illuminante che attraversa i luoghi diafani e giunge a colpire la materia opaca, per infine raggiungere e stimolare il nostro organo visivo, e in un istante folgorante, fornirci l’accesso allo spettacolo del mondo; ogni aprirsi di palpebre come un aprirsi di sipario che si rinnova miracolosamente sotto i nostri occhi incessantemente e all’infinito. Ma qui vorrei piuttosto provare a pensare la luce considerando ciò che produce, modifica, innerva in noi in modo intimo e durevole, in modo impercettibile e profondo, assumendo il ruolo di collante, rendendo possibile la nostra relazione con lo spazio, la nostra relazione con il mondo, la nostra consapevolezza di noi stessi e dell’altro. Vorrei cogliere questa relazione con la luce come matrice possibile, fondamento basilare di ogni esperienza e di ogni possibile consapevolezza di sé e del mondo esterno. E lo vorrei fare attraverso una rilettura dell’opera di James Turrell.
Mentre tutto porta a credere che l’opera di Turrell si rivolga ad ogni spettatore individualmente, intendo mostrare che è possibile un’altra lettura, secondo la quale la sua opera implica un’esperienza comune e condivisa, che comporta una qualche forma di universalità. A tal fine prenderò in considerazione le configurazioni dello spazio messe in opera da Turrell e di quello che ai miei occhi appare come il principio elementare, “chiave”, dei suoi dispositivi, che si fonda principalmente sulla nozione di collegamento o di soglia (tra interno ed esterno). Strada facendo, e parallelamente all’analisi dei suoi dispositivi, prenderò in considerazione le origini quacchere di Turrell, educazione e cultura che contribuiscono in larghissima misura al fermento estetico del suo lavoro.
L’emozione di percepire
Dobbiamo dapprima constatare che le opere di TurreIl sono in linea di principio comunemente percepite come opere che si vivono e si attraversano individualmente, alla ricerca di un’esperienza percettiva singolare («percepirsi percependo» dice Turrell) che non avrebbe granché a che vedere con la dimensione della condivisione.
Tale impressione largamente diffusa è dovuta a taluni aspetti dei suoi dispositivi: gli spazi, spesso immersi nella penombra, isolano l’osservatore; certe opere sono previste per essere fruite da una sola persona (Perceptual Cells); talvolta è necessario attendere 5, 10, o 15 minuti nel buio e nel silenzio prima che accada qualcosa, o ancora infilare pantofole per addentrarsi nello spazio sacro e immacolato dell’opera; la luminosità molto debole o la quasi penombra degli spazi induce spostamenti rallentati ed esitanti, a tastoni per evitaredi cozzare contro possibili ostacoli, un muro o un altro visitatore; insomma, tutto un insieme di fattori che condizionano l’esperienza dello spettatore, riducono la sua motricità e le sue capacità a qualche cosa di quasi primario e necessariamente solitario. Le installazioni di Turrell si offrono dunque di primo acchito come un insieme di limitazioni — mobilità impedita, visione ristretta, capienza limitata del pubblico — che sembrano invitare lo spettatore ad una esperienza essenzialmente interiore e solitaria della sua stessa percezione in atto. In breve, un’esperienza di “confinamento” apparentemente molto lontana dal vissuto di una condivisione collettiva, così come la si può concepire per il pubblico dello spettacolo dal vivo.
Eppure nulla di tutto ciò, mi sembra, esclude la possibilità che Turrell miri a stabilire le condizioni per l’accesso, da parte di ciascuno e per ognuno con i propri mezzi, cioè individualmente, a dimensioni di percezione e consapevolezza di un ordine universale, in cui sono in gioco la condivisione e le relazioni con gli altri. Per capire questo rovesciamento rispetto alla percezione abituale che si ha della sua opera, dobbiamo riandare agli elementi fondamentali che la costituiscono.
Innanzitutto, per Turrell, non si tratta di rappresentazione. In larga misura, quel che è «esposto» come opera non è altro che ciò che si presenta al nostro sguardo in modo quotidiano. Turrell non “crea” niente di nuovo, ci pone di fronte a ciò che esiste già, alla “banalità” di ciò che è già sotto i nostri occhi. Come dichiara lui stesso facendo riferimento a Cézanne, il pittore non esegue una rappresentazione della montagna Sainte-Victoire, ma ci “pone di fronte” a qualcosa. L’oggetto non è l’interpretazione né la visione dell’artista, ma la nostra stessa esperienza del visibile.
Mentre Robert Irwin crea opere nello spazio pubblico che non mirano a essere localizzate o identificate come opere, Turrell, al contrario, concepisce un’architettura molto visibile ma vuota, senza contenuti, tanto che le sue strutture “scenografate” o le sue architetture scavate potrebbero, a prima vista, essere percepite come gusci vuoti. L’artista spiega che il contenuto è l’emozione. Ma l’emozione non viene da ciò che l’artista è stato in grado di produrre, bensì dalla rivelazione della ricchezza della pura visione: «It has to do with emotions […] and it has to do with the richness of vision. […] I like the qualities that are nearer pure perception, that are there for perception. […] The experience I’m aiming for is something of felt light residing in a space»3. Eppure questa «semplice» idea di «luce sentita che risiede in uno spazio» è molto più complessa di quanto sembri. Con Turrell, la luce non illumina nulla. Ma se la luce viene svuotata della sua funzione presupposta di illuminare, d’altronde la luce in se stessa non diventa oggetto dell’opera. La luce gioca un ruolo decisivo, fondamentale e unico perché costituisce il “mezzo” che permette di fare esperienza della percezione: «By removing the object of perception, perception becomes the objective»4, così che lo spettatore, che non è più uno “spettatore”, diventa l’esecutore, il performer della propria percezione. Questo implica una scenografia (al fine di una “messa in condizione di”), un’architettura (in quanto ricettacolo di eventi), ma anche una riflessione filosofica e fenomenologica; come spiega l’artista:
I am after the nature of perception. I define perception as the action of the self with the event. The event and the self cannot be separated. Perception is only informed by something that is happening. This action of one’s self with the event is the arena in which my work takes place.
In my work you have the experience of seeing yourself see. It is something reflexive. You don’t really know what you are seeing until you see what is between you and what you are seeing. This is part of removing “the log in your own eye”. […] The act of sensing is what is sensuous, not the thing sensed5.
Crediamo che l’obiettivo estetico di Turrell faccia appello a una istanza ‘universale, soprattutto in quanto egli realizza configurazioni spaziali prive di un significato culturale, simbolico o referenziale specifico. I suoi spazi di percezione sono proposte di condivisione di un’esperienza universale, nel senso che si tratta di vivere un’esperienza fenomenologica e di vita che può essere condivisa da tutti e che ci collega agli altri in un corpo collettivo. Per dirla diversamente, Turrell propone un’esperienza individuale della luce, o anche la possibilità di “performare” noi stessi, la nostra percezione della luce, in un contesto in cui essa è necessariamente legata al corpo collettivo.
Perché se il gesto artistico non è dimostrativo, è comunque decisamente “inquadrato”. In effetti, ognuna delle configurazioni spaziali poggia su di una precisa cornice entro la quale l’esperienza può avere luogo. Se non c’è un contenuto dato, c’è un condizionamento visivo e corporeo, identico per tutti, che indica allo stesso tempo il percorso da fare e ciò che si deve guardare − un vuoto dove si manifesta la preoccupazione del disconoscimento di una percezione culturalmente formata. Questa scelta radicale di eliminare ogni contenuto per arrivare all’origine dell’esperienza del visibile è intimamente legata al contesto culturale ed educativo in cui è cresciuto l’artista. In effetti, questo interesse esclusivo per la luce, l’esperienza che se ne fa e il modo in cui viene vissuta e “abitata” nello spazio, ci riportano alle sue origini quacchere e alla sua passione per l’aviazione, trasmessagli dal padre.
Quaccherismo e aviazione: le due fonti della luce turrelliana
Originario della California occidentale, Turrell ha ricevuto dalla madre e dalla nonna irlandese un’educazione quacchera conservatrice, che gli ha lasciato un’impronta profonda e della quale dà testimonianza in diverse interviste. «Lo spirito quacchero è un protestantesimo rigoroso che esclude l’impegno secolare e l’uso della forza; è anche connotato da un ideale di tolleranza molto forte»6, sottolinea, ricordando in varie occasioni come, nella severa educazione dei bambini quaccheri, l’accesso al Meeting (“Riunione”), l’officio in gran parte silenzioso e meditativo della comunità, rappresenti una tappa importante:
It’s something for a child to be introduced to the Meeting7.
My grandmother used to tell me that as you sat in Quaker silence you were to go inside to greet the light. That expression stuck with me8.
And this idea — to go inside to find that light within, literally as well as figuratively—was something that really propelled me at the time. I really thought that that’s what I should do. Of course, I’m still trying to figure out exactly what she meant. But I like that quality9.
Questa idea di andare verso l’interno per accogliere la luce può lasciare perplessi, e Turrell non manca di sottolinearlo: «One thing about Quakers and I think many Friends might laugh about this, is that often people wonder what you’re supposed to do, when you go in there. And it’s kind of hard to say. Telling a child to go inside “to greet the light” is about as much as was ever told to me»10. Comunque, questo rapporto con la luce deriva dall’idea relativamente semplice che in ogni essere, in ogni anima (umana) c’è una luce (divina) che si rivela “individualmente”attraverso l’esperienza e attraverso questo esercizio di “meditazione di gruppo” nel Meeting. L’idea di luce interiore trasmessa da George Fox (1624-1691), fondatore della Religious Society of Friends, viene dal Vangelo secondo Giovanni (1: 9).
Di questo approccio quacchero alla luce, Turrell sembrerebbe aver conservato essenzialmente una disposizione più letterale («I was very interested in this literal look at it — actually greeting this light that you find in meditation, and following that»), ma c’è qualcos’altro («But that’s not its entire meaning»)11. Al di là della semplice percezione visiva della luce, il suo approccio sembra situarsi in un rapporto più profondo e primordiale con il vivente, con il (mondo) sensibile. Molto recentemente, si è espresso a tal riguardo ritornando sull’importanza accordata alla luce interiore:
For me, light is nutrition, almost like food. And I’m concerned with the light inside people. When you close your eyes or dream, you see a different light than with your eyes open. We usually use light to illuminate the things around us. But I am interested in the very personal, inner light12.
Dagli anni Novanta, Turrell parla volentieri del suo rapporto con il quaccherismo e di come questo possa aver influenzato il suo lavoro e persino il suo modo di pensare. Mentre non esita a ricordare che si è allontanato dalla Società degli Amici per quasi vent’anni, nel 1999 dichiara13 «I was a Quaker, and then — for a while — I wasn’t. And now I am again»14. Questo si esplicita in un’intervista del 2005 in cui Almine Rech gli chiede se la pratica religiosa dei suoi genitori l’ha influenzato:
J.T.: There was a time when I was very much involved in it, then I came to think it was ridiculous. Now I can realize that I am influenced by it more than I thought.
A.R.: You mean the ethics?
J.T.: Well, just the whole thing. The way they think. I met a young man in Ireland who is a Quaker, Nicholas Moss. We thought we had the same ways of thinking about things15.
Il pensiero quacchero si distingue per una rinuncia a qualsiasi teologia che porti i suoi membri ad essere tolleranti, dato per assunto che le persone siano sincere. Ci sono tratti etici che li distinguono come la non violenza o l’uguaglianza tra uomini e donne; altri sono meno noti, come una forma di sensibilità per la natura ed elementi di natura sciamanica e animista, senza dubbio legata anche alla scelta di vivere nella sobrietà, tratto che emerge quando Turrell evoca il suo attaccamento a vecchi oggetti:
[Quakers] take in strays, you know, like an old car — well that’s what I do — an old machine. They become stewards of tools, etc. They don’t like the idea of planned obsolescence. They make tools reusable, usable again. […]. In fact, they even to like what’s old better, because it has some strange kind of history, I mean like a tool knows to do what it does. Just like the airplane. An airplane has flown a lot before, so obviously this plane knows how to fly. You assert a certain consciousness to things16.
Analizzando poi lo spirito quacchero, così come il contesto e il protocollo che definivano il Meeting, rivela quanto questo possa aver permeato il suo lavoro. Quando gli si chiede quali sono le caratteristiche principali della religione quacchera, risponde: «Two aspects, first encounter silence in the service, second going inside to greet the light. This idea of group meditation…»17. I primi due aspetti rendono possibile il terzo: la meditazione di gruppo.
L’interno della casa delle riunioni Quaker (Meeting House o Quaker House) è molto sobrio e privo di qualsiasi ornamento. La sala in cui si svolge tradizionalmente il culto è a pianta rettangolare, le pareti sono bianche e finestre a riquadri traslucidi lasciano entrare la luce del giorno senza tuttavia privare i partecipanti di una possibile vista sul mondo esterno. Molto spesso le panche di legno sono disposte in uno schema bifrontale o quadri-frontale, lasciando un vuoto al centro. Il culto «non programmato», che richiede almeno due partecipanti per avere luogo, dura almeno un’ora (meeting for worship) e si svolge in silenzio, con o senza intervento di uno dei membri. Nessun intervento può essere programmato a priori. Gli amici meditano in silenzio, in un’attesa attenta (expectant waiting) o, potremmo dire, in attento ascolto, nel risveglio di sé e simultaneamente connessi allo spazio circostante e agli altri.
È riducendo le informazioni che giungono all’udito e alla vista, rimuovendo le resistenze che impediscono ai sensi di essere sollecitati e stimolati, che si rende possibile l’esperienza della meditazione, che consiste nel chiudere gli occhi per entrare in se stessi, per accogliere la luce interiore mentre si è in comunione con altri Amici. Il silenzio cercato sembra rivestire la stessa importanza e lo stesso ordine dell’atteggiamento che consiste nello svuotare il più possibile ogni contenuto visivo. L’antropologa Josiane Massard-Vincent si è occupata del silenzio di queste assemblee18, ma ha sottolineato che, nella massima semplicità e sobrietà, l’obiettivo è che i sensi siano vigili e che il corpo e la mente siano restituiti a una totale disponibilità ad accogliere l’illuminazione interiore. Nelle opere di Turrell si tratta dello stesso processo di condizionamento psicofisiologico, solo che il contesto religioso è, se non svuotato, almeno facoltativo, messo tra parentesi19.
Turrell trarrà da questa esperienza del Meeting i principi costitutivi della propria opera, ovvero l’importanza del silenzio e lo spazio sprovvisto d’ornamento e d’immagine: «True silence, as John Cage noted, is unattainable. But you can have relative silences that allow you attend to important things that are not generally seen as being important»20.
In una chiesa quacchera, non c’è nessuna croce, nessun altare, nessun ministro, nessuna gerarchia. Non ci sono nemmeno immagini. Così, quando sono andato per la prima volta in una chiesa italiana, non potevo credere ai miei occhi, tutto quell’oro, argento, dipinti, era per me come lo spettacolo di una religione pagana, era stupefacente. Non ho respinto tutto questo. Forse è anche per questo che non uso immagini nel mio lavoro. Allo stesso modo, non vedo la luce come qualcosa che illumina altre cose, come uno strumento di rivelazione. Mi interessa la luce come rivelazione stessa21.
Se il silenzio non può che essere un silenzio relativo, anche lo svuotamento da qualsiasi contenuto visivo ha i suoi limiti. Nel contesto del Meeting, si tratta di ridurre e non di abolire la coscienza del mondo circostante. È persino necessario che sussista un contesto sonoro e visivo, ma attenuato. In Turrell, esiste tutta una gamma di possibili gradi di privazione sensoriale, ed è un esperto nel fare scomparire tutti i confini spaziali, come nei Ganzfeld o camere sensoriali (sensing spaces) delle Space Division Constructions. Questo lo porta a voler far scomparire le pareti:
[…] the only reason that I work so hard on the walls or structures to make them perfect is so that you don’t see them. I don’t care about walls. I just want them to be perfect so that you don’t care either. It has nothing to do with fetish finish because I don’t have any interest in looking at it22.
Quindi, se la Meeting House è certamente pensata come uno «spazio per ascoltare», gli spazi creati da Turrell ne prendono ispirazione, ma mettono l’accento su di una forma di attenzione che non privilegia l’udito ma la vista, per farne degli «spazi per vedere».
Ma la luce interiore quacchera costituisce solo un versante del fascino di Turrell per la luce; l’altro è la luce esterna, l’immensità del cielo e dello spazio. Il padre era un ingegnere aeronautico. Ha diretto il dipartimento di studi tecnici al Pasadena College e ha creato un programma per imparare a costruire aeroplani. Insieme al collega Max Harlow, progettò l’aereo PJC2 (il più conosciuto) e i modelli 1, 3, 4, 5. Fin da giovanissimo, Turrell è stato introdotto all’aeronautica e alla costruzione − ha costruito la prima barca su cui ha navigato all’età di 9 anni23. La sua esperienza del cielo, della luce nel cielo e dei fenomeni meteorologici è decisiva:
To some degree flying becomes the seat in my studio, because the light and colour and the open air, phenomena of weather and the changes of light in the atmosphere is what I have to look at as source material24.
Tutti i diversi colori e texture del cielo sperimentati durante i suoi voli sono sensazioni visive e tattili che Turrell esplora nelle sue opere. Il modo in cui gli occhi e tutto il corpo si immergono nell’immensità di uno spazio pieno di luce, la sensazione che il cielo sia vicinissimo divenendo quasi una membrana palpabile, sono esempi tra i tanti possibili delle sensazioni che l’artista cerca: «So the materialization of light residing in space, not on the wall, plumbs the space like the space I fly in»25. La questione dell’orizzonte e della sua perdita diventa un elemento chiave degli Skyspaces, del Roden Crater et dei Ganzfeld: «The things that interest me the most are some of the choices that are most difficult for a pilot. One is when you have “lost horizons”»26.
Ma è negli Skyspaces che la dimensione dell’esperienza collettiva e universale della luce viene realizzata nel modo più manifesto e più rigoroso.
Dal percorso individuale al collante del rito
Uno Skyspace è una stanza a pianta quadrata, rotonda od ovale con un’apertura sul soffitto di forma identica. Dal 197427, Turrell ne ha costruiti numerosi in tutto il mondo28. Inizialmente installati in luoghi di architetture preesistenti, sono poi divenuti oggetti architettonici autonomi e monumentali.
Nonostante una grande somiglianza formale, l’obiettivo estetico degli Skyspaces non è paragonabile a quello del Pantheon di Roma, dove il disco di luce accarezza le pareti e illumina le statue delle divinità. L’oculo del Pantheon, che misura quasi 9 metri di diametro e 43 metri di altezza, serve a incanalare la luce del sole per produrre un’illuminazione spettacolare all’interno dell’edificio, mentre non è così per lo Skyspace, che è relativamente basso, e in cui lo spazio di chi guarda (viewing space) si affaccia sullo spazio sensibile (sensing space) soprastante29. Il taglio nel soffitto funge da soglia, una giunzione tra uno spazio interno e uno spazio esterno. Ci appare come un pannello, un piano di luce colorata fisicamente presente due o tre metri sopra la nostra testa, quasi a portata di mano. Questa forte sensazione di presenza quasi tattile e di densità di luce-colore è in parte legata alla smussatura molto precisa del bordo dell’oculo, che fa scomparire lo spessore della volta o del soffitto e annulla l’effetto finestra che definirebbe quello che vi si vede come un esterno separato dall’interno da un muro con uno spessore, da un’architettura. Questa collocazione prossima al cielo, che diventa quasi palpabile allo sguardo, e la densità del suo colore, giorno e notte, sono nuove esperienze che sfidano abitudini e «pregiudizi di percezione», a fortiori tanto più quando l’installazione, completata da fonti discrete e programmabili all’interno, produce per contrasto simultaneo effetti di cambiamento del colore del cielo. Questa esperienza, dice Turrell, è un’esperienza interiore, individuale, l’effetto della nostra modalità di percezione sulla realtà percepita:
We create the colour and shape of the sky. It does not exist outside the self. We can enter it and plumb it with vision and we can change the perception of the sky. We can change its colour with the light inside the space. I’m interested in how we form this world outside ourselves or what we believe to be outside ourselves30.
This is why we will change the color of sky when in fact the sky has not been changed in colour31.
E tuttavia l’opera di Turrell implica condizioni, o ispirazioni, che vanno nella direzione della dimensione collettiva, transculturale, o anche universale.
In effetti, il suo lavoro, seppure molto contemporaneo, si inscrive in un ampio respiro temporale e si riferisce a pratiche molto antiche della luce, che risalgono a ben prima della pittura da cavalletto, come lui stesso dice32. Molti dei suoi progetti fanno esplicito riferimento a culture che hanno celebrato la luce attraverso l’architettura, dai siti celtici a quelli precolombiani (Maya, Aztechi), egiziani, sumeri e indiani. «Strutturare la luce è una forma d’arte antica per segnare certi eventi»33, ha affermato, e questa è effettivamente la sua pratica, strutturare la luce, ma per produrre o provocare un evento che è quello della nostra percezione.
Inoltre, come lui stesso sottolinea, l’apertura degli Skyspaces evoca le architetture ipetrali, scoperte, greche e romane come gli oculi del Pantheon di Roma o quelli delle terme romane, o ancora gli atrium delle ville o, su altra scala, la struttura dei teatri o dei circhi romani a cielo aperto: «I am interested in the hypethral space in Greek architecture. There is some controversy about this. I don’t think it was ever intended to be covered by anything other than the sky which is brought down to the top of the space»34. Ora, se da un lato non si può evitare di pensare che la funzione di queste architetture a cielo aperto fosse quella di mantenere un’apertura verso il cielo per focalizzare l’attenzione o per rimanere aperti verso la sua dimensione trascendente come dimora delle divinità, per “accoglierne” la luce, o anche per far fuoriuscire verso di esso i fumi dei sacrifici o delle cerimonie religiose, come nel Kiva degli Hopi, altro grande riferimento turrelliano; d’altra parte, queste architetture ipetrali, fossero esse civili, religiose o private, erano sempre concepite per riunire e raccogliere un corpo collettivo − anche nelle ville private dove l’atrium era uno spazio comune.
A tal riguardo, gli Skyspaces rivelano una configurazione spaziale del tutto simile. L’interno dello Skyspace è dotato lungo tutto il perimetro di panche che fanno tutt’uno con l’architettura. Questa disposizione circolare, ovale o quadri-frontale mette ciascuno a un’uguale distanza dal centro, nella preoccupazione di non creare gerarchie che fa esplicito riferimento alla configurazione spaziale del Meeting quacchero, come testimoniano queste affermazioni di Turrell a proposito dello Skyspace intitolato Meeting, costruito per il MoMA P.S.1 nel 1980:
The piece I have at P.S.1 is called Meeting because of that interest. First of all, there’s this four-square seating that’s inside, seating toward each other — having a space that created some silence, allowing something to develop slowly over time, particularly at sunset. Also, this Meeting had to do with the meeting of the space that you’re in with the space of the sky. So, the sky’s no longer out there anymore, but it seems to be brought close in touch with you and [the] space where you sit»35.
Oltre a questa esperienza ‘verticale’ che consiste nel mettere il cielo a portata di mano, Turrell insiste ugualmente sull’esperienza, sulla sensazione fisica e sensibile che procura l’ingresso in uno spazio di luce:
I look at buildings in terms of the experience of entering them. […] The experience of entering such a space [Monte Alban] is just the experience of the space itself. The way in which light fills the spaces of Gothic cathedrals is also very amazing36.
Entrare in uno spazio concepito perché la luce prenda forma, nel caso di Turrell, può corrispondere a diversi tipi di esperienza, a seconda che ci si trovi nello spazio di osservazione (viewing space) o nello spazio sensibile (sensing space), ma in generale non si tratta di guardare qualcosa, bensì di guardare “dentro” qualcosa. Per questo Turrell è interessato ai luoghi in cui la luce è veicolata: «Air is, as you know, a fluid and has the same sort of essential mechanics as water»37. Da cui Heavy Water (1989), opera esposta al Confort Moderne a Poitiers nel 1991:
Si tratta di un’opera acquatica, un’opera che riguarda la luce nell’acqua al di sotto di noi e la luce nell’aria al di sopra di noi. […]. Due cose mi interessano qui, la qualità della luce nell’acqua e nell’aria. In entrambi i casi si tratta di mostrare la luce nel momento in cui abita lo spazio […]. È raro che si tolga il tetto ad un museo, che vi si costruisca una piscina, e che si invitino i visitatori a cambiarsi d’abito38.
In effetti, per poterne fare esperienza, il pubblico doveva accettare di sottoporsi a un curioso rituale, che consisteva nello spogliarsi e nell’indossare un costume da bagno a larghe strisce disegnato dall’artista. Da una piscina, anch’essa immersa in una luminosa atmosfera “vaporosa” di tonalità turchese, si trattava di immergersi e nuotare sott’acqua in direzione di un’altra luce più intensa, per emergere in un nuovo luogo, chiuso, altro, come separato dal mondo e abitato dalla luce, al fine di fare esperienza di un’emersione, una sorta di rinascita, «into space where light comes forth as in a dream»39.
Come nel caso di Heavy Water, tutti gli Skyspaces presuppongono un condizionamento di tutti i sensi attraverso un percorso imposto più o meno vincolante o predeterminato, essenziale per il buon svolgimento dell’esperienza. Questa preparazione, molto prossima a un rituale40, a volte assimilabile a un rito di passaggio, mette tutti gli spettatori nelle stesse condizioni, fino a imporre loro lo stesso costume da bagno disegnato per l’occasione, come avviene in Heavy Water. Turrell raffina e arricchisce gradualmente il percorso da seguire prima di entrare nel cuore dello Skyspace. Tiene conto del paesaggio, del clima; per la costruzione, impiega le materie prime naturali della regione; in una forte relazione con i quattro elementi, accosta al fuoco (che implica la luce) l’acqua, il vento, la terra, −, come in Second Wind (2005-2009)41 creato per il Parco della Fondazione NMAC a Vejer de la Frontera, nel sud della Spagna.
Second Wind 2005 is an architectural piece, located underground, in which viewers enter an inner pyramid, via a tunnel. Inside is a stone stupa, surrounded by a pool. Stupas are circular domes used in Buddhist architecture, and whose shape and position have the effect of making the cosmos appear closer42.
In questo esempio, l’esperienza del percorso è arricchita da un insieme di spazi che ricordano i labirinti delle chiese, come quello di Chartres, dove tutti i pellegrini percorrono lo stesso cammino, il percorso obbligato dei cristiani per raggiungere la luce al suo centro, più spesso chiamata Paradiso o Gerusalemme Celeste. Lo stupa che contiene lo Skyspace mostra l’interesse di Turrell per l’architettura non abitata, perché «[they] were either ceremonial or even solid like the stupa which symbolises the relationship between body, mind and spirit as well as the relationship to the cosmos»43.
In fin dei conti, tutto è collegato. Aprire «le porte della percezione», come invita a fare Turrell, consiste nel collegare l’esperienza delle sue installazioni alla natura circostante, nel legare lo spazio interiore e lo spazio esteriore, l’io e il cosmo, ma anche, sotto il segno di un’esperienza percettiva individuale, a sottolineare legami essenziali esistenti tra gli spettatori.
Atmosfera, affetto e luce condivisa
Il rapporto della luce con lo spazio, che Turrell magnifica, provoca reazioni diverse: interrogazione, rapimento, incredulità, sensazione di avvolgimento, protezione, estasi, fantasticheria, attesa, distacco. Ma nell’analisi di questa esperienza estetica, bisogna dare tutto lo spazio possibile al corpo, perché quasi tutti i sensi sono sollecitati in questo invito all’ascolto di se stessi, che interroga anche la relazione del sé con il mondo. L’importanza della corporeità è, ancora una volta, da avvicinare all’esperienza del Meeting. Come Turrell stesso sottolinea,
I quaccheri praticano anche una meditazione di gruppo che definiscono come “entrare in se stessi per accogliere la luce” e che corrisponde piuttosto bene al senso di misticismo definito dal filosofo e psicologo americano William James. Secondo lui l’esperienza mistica è una realtà fisica per ognuno di noi. Tutti raggiungono, nel sonno, uno stato che è assolutamente necessario e senza il quale non è possibile riposare, e che è molto vicino in effetti a quel che chiamiamo meditazione. […]. In effetti, c’è un legame essenziale con il corpo che è diventato critico perché in tutte le civiltà la religione istituzionale se ne è appropriata e lo ha regolato. E penso che questo territorio sia sempre stato un oggetto privilegiato dell’esperienza artistica. […]. In particolare, penso che quando si entra in una cattedrale, si sentono lo spazio e la luce creati dagli architetti e dagli artigiani, e questo dà una meravigliosa sensazione di ammirazione e di paura, più potente di qualsiasi cosa possa produrre la retorica dei ministri del culto…44.
Turrell si definisce un costruttore, «I’m a builder»45, e di fatto i suoi Skyspaces sono, a immagine della cattedrale, luoghi che colpiscono il nostro sentire perché producono un’atmosfera. Ora il sociologo, urbanista e addetto alla pianificazione del territorio Jean-Paul Thibaud, che studia la fabbrica sensibile di atmosfere, di ambienti, di clima nei territori urbani e paesaggistici contemporanei, sulla scia di Gaston Bachelard, colloca l’affetto al momento del passaggio tra ambiente e atmosfera46. Infatti, la luce degli Skyspaces non è oggetto di percezione e interpretazione individuale, come un quadro, ma la materia di un’atmosfera, se non la materia atmosferica per eccellenza, il risultato di un’esperienza comune condivisa da tutti, da ognuno qualunque sia la sua cultura, perché ci tocca e quindi si riferisce a fondamenti umani universali47. E questo è il paradosso delle opere di Turrell: se le sue camere di percezione – le cellule individuali delle Perceptual Cells, le camere di percezione del Roden Crater o gli Skyspaces – provocano un’esperienza intima e individuale, cioè interiore e solitaria, ci collocano tutti allo stesso tempo nella stessa atmosfera condivisa e sulla stessa soglia. Come è stato rilevato,
Obviously, a Perceptual Cell can only ever be experienced by one person at a time. After all, the very word “cell” suggests isolation and imprisonment. Nevertheless, an important role is also played by the “collective” element, as we become aware of an elementary “primeval connection” with light48.
After all, light as a medium […] always points to concepts that are outside man and his individual lifespan and thus to something infinite and universal49.
Allo stesso tempo, dovremmo fermarci a questo? Il bene comune rappresentato dalla luce in Turrell si limiterebbe all’instaurazione di un rapporto di comunità sociale all’interno di un gruppo di spettatori in un’architettura centrata, o si limiterebbe a questo rapporto ancestrale universale ma culturale con la luce, con le sue connotazioni transculturali e soteriologiche di divinità, trascendenza, illuminazione e vittoria sulle tenebre? Di fatto, se consideriamo che la luce è il mondo, il cosmo, allora le produzioni artistiche di James Turrell sono piuttosto un’ontologia del mondo della vita, cioè una scienza universale che «studia le strutture generative secondo le quali il mondo è costituito»50. Per questo mi sembra che i dispositivi di Turrell, così esplicitamente legati alla fenomenologia di Merleau-Ponty, rimandino, attraverso la comune esperienza della luce, cioè attraverso l’esperienza cosciente della nostra percezione, a qualcosa di ancora più fondamentale, che è la dimensione intersoggettiva del nostro rapporto con il mondo.
Meeting e intersoggettivià
In effetti, tutto sembra accadere come se gli Skyspaces mettessero in opera un dispositivo di percezione che suscita un’esperienza individuale del cielo, del mondo – o addirittura del cosmo, nel caso del Roden Crater –, ma in contesti e secondo procedure talvolta quasi rituali, rendendola un’esperienza, se non proprio collettiva o condivisa, per lo meno vissuta nell’orizzonte dell’Altro. Un’ulteriore dimensione si aggiunge all’esperienza di «percepire se stessi percependo», così spesso rivendicata da Turrell. Una dimensione fondamentale, nel senso di ciò che, nella fenomenologia di Husserl, permette di andare oltre il solipsismo soggettivo del «mondo primordiale» per raggiungere l’oggettività del «mondo comune», quell’oggettività del mondo di cui l’opera di Turrell potrebbe essere la ricerca. In effetti, come sintetizza Emmanuel Housset,
Lo studio dell’apparire del mondo, cioè lo studio della descrizione di come il soggetto assiste alla manifestazione del mondo, non può essere limitato ad una prospettiva puramente solipsistica. Infatti, un mondo che fosse solo il mio mondo sarebbe ancora un mondo. Inoltre, è anche possibile parlare del “mio” mondo, che si tratti del mio mondo privato o del mondo della mia cultura, senza presupporre un mondo comune51.
È dunque possibile considerare il fatto che Skyspaces e Roden Crater creano una situazione che permette di far emergere un’oggettività del mondo, che integrano nella loro struttura l’esperienza del mondo primordiale e il suo superamento, per andare verso un mondo comune e oggettivo. In effetti, se «il mondo primordiale non è […] ancora “il” mondo che contiene le stesse cose per tutti, ma è da esso, come sottosuolo, che può costituirsi la trascendenza del mondo oggettivo»52, «come può costituirsi il significato di “mondo comune” a partire dal “mio” mondo»53? Interrogandosi sui presupposti della percezione nella loro dimensione intersoggettiva, e cercando di attribuire una sorta di presenza oggettiva alla luce (liberata da ogni contenuto significante), il lavoro di Turrell mira in definitiva a farci sentire l’oggettività del mondo (e dell’universo) confrontandoci con l’oggettività della luce.
Il Meeting quaker può avere luogo in qualsiasi momento, in qualsiasi luogo, purché vi siano almeno due persone. Allo stesso modo, meditare ed «entrare in se stessi per accogliere la luce» è impossibile senza una co-presenza. L’esperienza interiore e individuale è dunque impossibile senza un altro “me”; ora
è costituendo il senso dell’Altro che il soggetto può costituire il mondo comune54.
Solo l’alterità di un altro “io” può giustificare l’alterità del mondo, perché solo un altro “io” può trasgredire la mia sfera. […]. Si può quindi dire che la trascendenza del mondo si fonda sulla trascendenza dell’Altro, e quindi che l’elucidazione della trascendenza degli altri è il presupposto di diritto per qualsiasi dimostrazione della trascendenza del mondo comune55.
Per dirlo con le parole dello stesso Husserl:
Il senso d’essere del mondo oggettivo si costituisce sulla base del mio mondo primordiale in parecchi gradi. Come primo è da rilevare il grado di costituzione dell’altro o degli altri in generale che è il piano escluso dal mio concreto essere proprio (ossia da me come ego primordiale). Unitamente a ciò, e anzi appunto a motivo di ciò, si compie un’elevazione di senso al di sopra del mio mondo primordiale, per cui esso diviene fenomeno di un determinato mondo oggettivo, il mondo uno e medesimo per ognuno, compreso me stesso. Pertanto ciò che prima era in sé estraneo (il primo non-io) è ora l’altro io. E ciò rende possibile la costituzione di un nuovo piano infinito di estraneità, della natura oggettiva e del mondo oggettivo in generale, cui appartengono gli altri e io stesso56.
Abbiamo descritto come l’aspetto collettivo, comunitario e non gerarchico del Meeting evochi in modo molteplice l’esperienza estetica degli Skyspaces proposti da Turrell. Tuttavia, gli Skyspaces, o le camere di percezione del Roden Crater, sono rivolti a ciascuno di noi individualmente per un’esperienza di quiete solitaria, in particolare nel caso del Roden Crater, e Turrell ha potuto dire:
My work is made for one person. I like the solitary experience. Standing alone at night, perceiving the Roden Crater and the moon and stars, you really feel the vastness of the universe and yourself entering into it57.
Ma aggiunge immediatamente questa sorprendente litote: «It’s not an experience that diminishes the self»58. Si capisce allora il posto dell’”altro-io” nei suoi dispositivi. È lì come garante di questo ampliamento del sé, di questa uscita dal solipsismo primordiale verso l’intersoggettività e la costituzione del mondo (e del cosmo) oggettivo. Della luce oggettiva.
In effetti, il viaggio quasi rituale verso la camera della percezione è come un rito di passaggio solitario, ma ogni singola occorrenza del rito ha luogo e ha senso solo in una catena di occorrenze; le panchine possono essere vuote, ma indicano il luogo dello “straniero”, dell’”altro-io”, segnalando che questa è un’esperienza condivisibile per la comunità intersoggettiva degli io. In breve, tutto è fatto per far sentire che si arriva lì per un cammino, solitario o no, ma certamente già percorso (o che sarà percorso) da altri, unendosi così al modo in cui l’intersoggettività, l’alterità e il mondo oggettivo sono collegati nella fenomenologia di Husserl, come Emmanuel Housset riassume:
Da questo punto di vista, il corpo degli altri è il primo oggetto comune e posso quindi dire che il mondo che io costituisco è lo stesso mondo che l’altro laggiù costituisce, perché posso immaginarmi lì al posto degli altri, senza potermi prendere per gli altri. Questo approccio all’inaccessibile, lungi dall’essere un fallimento della comunicazione, è forse ciò che la rende possibile; è perché non sono l’altro, o quando non mi prendo per l’altro, che posso ricevere l’altro come altro. In ogni caso, dobbiamo riconoscere in questa capacità di transfert, e quindi in questa alterità a se stessi, il fondamento stesso di una natura comune. La natura oggettiva è la natura intersoggettiva, cioè la natura costituita da tutti gli strati di significato di questi soggetti che non posso immaginare di essere59. Così, l’opera di Turrell, se appariva inizialmente animata da un semplice interesse per una forma di riflessività percettiva e solipsistica («percepire se stessi percependo»), avrebbe dato luogo, soprattutto negli Skyspaces e nel Roden Crater, a uno sviluppo formale delle sue installazioni ispirate al Meeting dei Quaker dove, mettendo l’accento sul luogo dell’altro-io, non è più in gioco la questione solipsistica della mia percezione, ma piuttosto il modo in cui il mio sé si accresce in quel momento e in quel luogo dove la luce oggettiva viene a me come luce intersoggettiva.
- Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane con l’aggiunta dei Discorsi Parigini, nuova edizione italiana a cura di Filippo Costa, presentazione di Renato Cristin, Bompiani, Milano 1989, § 55, p. 143 (Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, 1950) ↩
- Per tutte le opere citate, cfr. il sito di James Turrell e agli indirizzi internet menzionati nell’articolo. ↩
- James Turrell, Open Space for Perception, an interview by James Lewis, in «Flash Art International», #156, January-February, 1991, p. 111. ↩
- James Turrell, James Turrell, interview by Julia Brown Turrell, trans. Brian Holmes, in «Galeries Magazine», 44, August-September 1991, pp. 68-73: 73. ↩
- Ivi, p. 69. ↩
- James Turrell, James Turrell: l’espace de la perception, entretien par Guy Tortosa, in «Art Press», 157, avril 1991, pp. 16-23: 20. ↩
- James Turrell, Live Oak Friends Meeting House, interview, in «Art21», 2001. ↩
- James Turrell, Greeting the Light, interview by Richard Whittaker, in «Works & Conversations», #2, May 1999, p. 6. ↩
- James Turrell, Live Oak Friends Meeting House, cit. ↩
- James Turrell, Greeting the Light, cit., p. 6. ↩
- James Turrell, Live Oak Friends Meeting House, cit. ↩
- James Turrell, The light inside people, interview by Nina Azzarello, in «designboom», october 2018. ↩
- «You have to also remember that I fell away from all this — and for many years, nearly twenty-five years, had no interest whatsoever in this — but carried on this involvement with light», James Turrell, Live Oak Friends Meeting House, cit. ↩
- James Turrell, Greeting the Light, cit., p. 5. ↩
- James Turrell, Bruxelles-Paris, Thalys, 17h00, 14/09/2004, trad. di Éric Moreau, in James Turrell, James Turrell: Rencontres 9, dirs. Almine Rech, Almine Rech Éditions / Éditions Images Modernes, Paris 2005, p. 14. ↩
- Ibidem. ↩
- Ivi, p. 10 ↩
- Josiane Massard-Vincent, Écouter le silence quaker, in «Anthropologie et Sociétés», vol. 35, n. 3, 2011, pp. 233–250. ↩
- È il caso di Massard-Vincent, quando ha esperienza del Meeting senza la distanza che le davano i suoi “strumenti” di antropologa: «La mia posizione fu quella di una partecipante nella forma ma non nello spirito, con i sensi vigili, e allo stesso tempo vivendo un’esperienza di absorption indotta dall’immobilità e dal silenzio», ibidem. ↩
- James Turrell, James Turrell: Painting with Light and Space, interview by Clare Farrow, in «Art & Design» 8, 5-6, may-june 1993, p. 47. ↩
- James Turrell, James Turrell: l’espace de la perception, cit., p. 22. [corsivi nostri]. ↩
- James Turrell, Interview with James Turrell, by Richard Flood and Carl Stigliano, in «Parkett», vol. 25, 1990, p. 98. ↩
- James Turrell, Bruxelles-Paris, Thalys, 17h00, 14/09/2004, cit., p. 20. ↩
- James Turrell, James Turrell: Painting with Light and Space, cit., p. 46. ↩
- James Turrell, Interview with James Turrell, cit., p. 94. ↩
- Ibidem. ↩
- Skyspace I e Light Space Chapel, di formato quadrato e rotondo, furono commissionati dal collezionista italiano Giuseppe Panza di Biumo. ↩
- Cfr. la localizzazione delle opere di Turrell al sito dell’artista: https://jamesturrell.com/work/location/. ↩
- «I want to make these structures so that the openings to the outside spaces are meaningful. It’s not just a window, a place for a view; when you do it properly, something comes in and does something on the inside that gets your attention and makes the event outside important», James Turrell, James Turrell: Open Space for Perception, cit., p. 113. ↩
- James Turrell, James Turrell: Painting with Light and Space, cit., p. 47. ↩
- James Turrell, Greeting the Light, cit., 12. ↩
- «Artists have had a fascination with light for a long time. I’m not only thinking of paintings which are about light. In certain Celtic, Egyptian and even south-western indian sites there is a working with light events into space. This is something that pre-dates easel painting», James Turrell, James Turrell: Painting with Light and Space, cit., p. 46. ↩
- James Turrell, citato da Almine Rech, in Le regard en suspens, in James Turrell, James Turrell: Rencontres 9, cit., pp. 71-77. ↩
- James Turrell, James Turrell: Painting with Light and Space, cit., p. 46. ↩
- James Turrell, Live Oak Friends Meeting House, cit. ↩
- James Turrell, James Turrell: Painting with Light and Space, cit., p. 46. ↩
- James Turrell, Interview with James Turrell, cit., p. 96. ↩
- James Turrell, James Turrell: l’espace de la perception, cit., p. 17. ↩
- James Turrell, James Turrell, interview by Julia Brown Turrell, cit., p. 114. ↩
- Turrell non nega questo forte rapporto con il rituale: «ASJ: Here two with the cells, we have a waiting room, to reach the Solitary there is a platform with steps, almost suggesting an element of ritual, actions which anticipate the experience inside the work itself. JT: This element is much stronger in my outdoor works such as Roden Crater or Irish Sky Garden, but here, it is true, there is a ritual of the waiting room, and I rather like this», James Turrell, There never is no light… even when all the light is gone, you can still sense light, propos recueillis par Alison Sarah Jacques, in James Turrell. Perceptual Cells, dirs. Jiri Svestka, Alison Sarah Jacques, Brigitte Wontorra, Katje Cantz, Stuttgart und Düsseldorf 1992, p. 59. ↩
- https://fundacionnmac.org/en/collection/james-turrell/secondwind-2005/ | https://jamesturrell.com/work/secondwind/ ↩
- https://fundacionnmac.org/en/collection/james-turrell/secondwind-2005/ ↩
- James Turrell, There never is no light… even when all the light is gone, you can still sense light, cit., p. 63. ↩
- James Turrell, James Turrell: James Turrell: l’espace de la perception, cit., p. 20. ↩
- James Turrell, James Turrell: Open Space for Perception, cit., p. 112. ↩
- Jean-Paul Thibaud, Installer une Atmosphère, Université Saint-Louis, Bruxelles, «Phantasia», vol. 5, Architecture, espace, aisthesis, 2017, pp. 127-135. ↩
- A tal proposito, Thibaud formula l’ipotesi che l’atmosfera impllichi una estetica dei flussi e non più un’estetica delle forme semiotizzabili: «È così che si attua una distinzione tra il contesto e l’atmosfera. Come fa notare Fernando Gil:”Questo [il contesto] è visibile e riducibile ad un insieme di relazioni o di segni. È semiotizzabile, mentre l’atmosfera è infrasemiotica, si sviluppa in un continuum”. Indubbiamente si potrebbe qui formulare l’ipotesi che si passi da una estetica delle forme a una estetica dei flussi», ivi, pp. 130-131. ↩
- Sarah Alison Jacques, Jiri Svestka, Collective Time, James Turrell, Catalogue d’exposition, Fondation «La Caixa» / Cantz Verlag, Madrid-Stuttgart 1992, p. 41. ↩
- Ivi, p. 45. ↩
- Emmanuel Housset, Husserl et l’énigme du monde, Éditions du Seuil, coll. «Essais», Paris 2000, p. 241. ↩
- Ivi, p. 219. ↩
- Ivi, pp. 223-224. ↩
- Ivi, p. 222. ↩
- Ivi, p. 226. ↩
- Ivi, p. 224. ↩
- Edmund Husserl, Meditazioni cartesiane con l’aggiunta dei Discorsi Parigini, cit., §49, pp. 127-128. ↩
- James Turrell, Painting with Light and Space, cit., p. 47. ↩
- Ibidem. ↩
- Emmanuel Housset, Husserl et l’énigme du monde, cit., pp. 230-231. ↩