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n. 11 – aprile 22, Teatro

Luoghi marginali e spazi di soggettivazione artistica, tra corpo sociale e arti performative

Editoriale

Simone Carella. Morte funesta, 1979. Entrata Beat'72. © Archivio Franco Quadri Ubulibri, presso Fondazione Alberto e Arnoldo Mondadori (Milano).

Dopo due anni di una pandemia che ha ridefinito il rapporto tra esperienze e luoghi e alle soglie di una catastrofica guerra che ridisegna equilibri di potere e riscrive i confini di più comunità, abbiamo deciso di dedicare il numero 11 di «Sciami|ricerche» all’intreccio tra luoghi e arti performative. Perché praticare e attraversare il mondo ci sembra essere un’urgenza non più rinviabile.

Si tratta di indagare e assumere gli spazi come una proposta, tra le molteplici possibili, per immaginare traiettorie di ricostruzione storica legate alle arti performative, ragionando per topografie di relazioni e geografie di processi. Una storia dunque che mette tra parentesi le linee del tempo per darsi come linea guida lo spazio, inteso come sorgente trasformativa di pratiche discorsive e istituenti. La proposta sollecitata ai/alle diverse autrici è quella di contribuire a creare una mappatura che faccia emergere forze residuali generate dai luoghi in cui pratiche ed esperienze performative hanno preso vita:  luoghi di produzione, luoghi di fruizione, luoghi transitori di creazione, luoghi di condivisione di pratiche e pensieri, luoghi di soggettivazione espressiva e politica. Luoghi anche oppositivi allo spazio ideologico dominante, sorti come spazio comune in cui ripensare l’arte anche in una prospettiva sociale. In particolare, l’idea che muove il numero intende mettere in luce quei luoghi non istituzionali, indipendenti, “ai margini” delle storie delle arti performative perché non convenzionali, perché luoghi in cui immaginare e praticare il mondo. Il concetto di margine qui preso in considerazione è quello proposto da bell hooks, cui questo numero è dedicato:

[…] queste affermazioni individuano la marginalità come qualcosa di più di un semplice luogo di privazione. Ciò che intendevo sostenere è, infatti, l’esatto contrario, ossia che la marginalità è un luogo di radicale possibilità, uno spazio di resistenza. Questa marginalità, che ho definito spazialmente strategica per la produzione di un discorso contro-egemonico, è presente non solo nelle parole, ma anche nei modi di essere e di vivere. Non mi riferivo, quindi, a una marginalità che si spera di perdere – lasciare o abbandonare – via via che ci si avvicina al centro, ma piuttosto a un luogo in cui abitare, a cui restare attaccati e fedeli, perché di esso si nutre la nostra capacità di resistenza. Un luogo capace di offrirci la possibilità di una prospettiva radicale da cui guardare, creare, immaginare alternative e nuovi mondi. Non si tratta di una nozione mistica di marginalità. È frutto di esperienze vissute1.

E proprio tracciando un percorso frastagliato di voci, esperienze vissute e spazi che inizia a dispiegarsi la nostra mappa, che verrà articolata maggiormente nel prossimo numero. Durante il processo di lavorazione abbiamo visto progressivamente espandersi l’idea di spazio da noi individuata e proposta. E ci siamo affidati alle personali declinazioni del concetto di spazio dei/delle diverse autrici dei contributi. Non solo luogo fisico, ma anche spazio di un pensiero che smargini nella progettazione del nuovo, dell’elaborazione del futuribile, della ricerca del possibile.

I margini della nostra “carta” senza centro iniziano con il contributo di Anna Maria Monteverdi che rievoca non solo un progetto personalmente curato nel 2000, ma anche un’idea dell’artista Giacomo Verde del 1998, Se Stessi video/città, in cui risuona straordinariamente il concetto di marginalità di bell hooks. La proposta di Verde infatti mirava a generare rituali collettivi attraverso un approccio “dal basso” alle tecnologie con l’obiettivo di creare “paesaggi invisibili” di diverse città e far emergere storie ed elementi costitutivi dell’identità di un luogo: il percorso urbano, il tessuto sociale, lo spazio collettivo, la memoria, la natura. Su questa scorta Anna Maria Monteverdi, in collaborazione con la storica dell’arte e curatrice Viviana Gravano, dà vita al progetto Luoghi comuni, in cui un gruppo di artisti, fotografi, performer e videomaker rileggono le periferie della città di La Spezia con installazioni negli spazi pubblici.

Mimma Valentino mette a fuoco la Rassegna “Incontro/Nuove tendenze” curata a Salerno dal giugno del 1973 da Giuseppe Bartolucci, con la collaborazione di Filiberto Menna. Una manifestazione che riveste un ruolo fondamentale per comprendere la trasformazione del teatro di ricerca negli anni Settanta, nonché della nozione di scrittura scenica. Mimma Valentino ripercorre i luoghi della manifestazione (con particolare attenzione alle edizioni del 1973 e del 1976), tentando di comprendere come lo spazio e gli spazi fossero concepiti da Bartolucci come una sorta di dispositivo di scrittura scenica e critica.

Un’eco delle ricerche della Valentino si riverbera nel saggio Memorie di un inizio firmato da Mino Bertoldo e Miriam Leone nel 1981 per la rivista «La Scrittura Scenica/Teatroltre», e appositamente rieditato in questo numero da Daniele Vergni che fornisce anche una breve ricognizione dei rapporti tra riviste di teatro e luoghi di produzione e fruizione – un dialogo con la storia del teatro che affianca così luoghi della critica e luoghi delle pratiche, facendoci incontrare i primi anni di attività dell’Out-Off di Milano, una delle poche “cantine” teatrali del nord Italia.

E proprio sulla “cantina” intesa come spazio polivalente, laboratorio di creazione per il Nuovo Teatro italiano si concentra il contributo di Salvatore Margiotta. Il Leopardo, La Fede, la Comunità, il Meta-Teatro, il Centro Teatro Esse, l’Alfred Jarry sono alcuni dei luoghi che l’autore esamina, esaltandone la funzione di dispositivo che si reinventa e rimodula tanto architettonicamente quanto espressivamente gli ambiti drammaturgici e produttivi delle pratiche teatrali tra la fine degli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta.

Balzando elasticamente dal sud al nord dell’Italia e slittando dalla formula del club privato delle cantine teatrali degli anni Sessanta-Settanta a quella del club occupato degli anni Settanta-Ottanta, Roberto Taroni, in una densa conversazione curata da Daniele Vergni, mette in luce l’esperienza dello spazio in Via San Sisto 6 a Milano, Sixto/Notes, dove sono le logiche del collettivo e la condivisione di prassi come l’autogestione a disegnare nuovi modi di abitare, fruire, produrre e distribuire le pratiche artistiche transdisciplinari in cui si fondono, dialogano e interagiscono installazioni video, performance, concerti e sound performance. Silvia Fanti in una conversazione curata da Valentina Valentini ripercorre la storia del Link Project di Bologna, nato nel ‘93-‘94 quando la città è capitale europea della cultura. Il Link era una realtà solida ー maturata nel corso di cinque, sei anni ー dotata di un profilo di centro culturale indipendente, con una vocazione all’internazionalità e sensibile ai linguaggi del contemporaneo. Un progetto multidisciplinare in cui le attività si muovevano in parallelo, con alcune occasioni di incrocio, superando o espandendo il concetto di crossmedialità e interdisciplinarietà. Si muove tra diversi media e campi disciplinari anche la ricerca di Davide Lucatello, dedicata alla riscoperta di Sirio Luginbüh, protagonista della sperimentazione in area veneta. Lo spazio, il territorio, diventa luogo di attivazione della pratica artistica e elemento di connessione relazionale e affettiva tra artisti che, tra gli anni Sessanta e Settanta, iniziano a interessarsi alla questione ecologica, contestando le politiche di estrazione e sfruttamento dell’area del nord-est.

Infine, il numero si chiude con l’indagine su un altro spazio, compresente e in qualche modo interferente con qualsiasi luogo del nostro attuale quotidiano: quello dei big data. Maria Giovanna Mancini mette in luce le strategie di resistenza proposte da artisti come Ryoji Ikeda e Hito Steyerl attraverso un’analisi critica delle loro recenti installazioni, performance, dichiarazioni e scritti. Il saggio affonda lo sguardo sull’iperestetizzazione dei big data, da cui lkeda estrae modelli visivi e sonori, in una visione olistica del presente e Hito Steyerl, attraverso installazioni immersive, ci rende consapevoli dell’impatto delle tecnologie computazionali sui fenomeni sociali di massa e nella sfera pubblica.

  1. bell hooks, Elogio del margine, in bell hooks e Maria Nadotti, Elogio del margine/Scrivere al buio, Tamu edizioni, Napoli 2020, p. 128.