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n. 11 – aprile 22, Teatro, Video

Luoghi Comuni: fotografia, video e teatro.

Giovani artisti raccontano la città (La Spezia ottobre-novembre 2000). Da un’idea di Giacomo Verde.

per citare questo articolo usa

https://doi.org/10.47109/0102310101

Giuseppe Baresi con Giuseppe Cederna; a destra insieme la curatrice e videomaker Sara Petri. La Spezia, 2000.

ABSTRACT

Il saggio ricostruisce un progetto del 2000 curato da Anna Monteverdi in collaborazione con la critica d'arte Vivana Gravano, dal titolo Luoghi comuni, basato sullo studio delle periferie, in particolare della città di La Spezia, a partire dagli studi e dal libro di l'architetto e urbanista Daniele Virgilio. Un gruppo di artisti, fotografi, performer e videomaker ha riletto il tema delle periferie (i problemi dell'abitare in periferia e nei paesaggi ristretti) con installazioni negli spazi pubblici come forma di denuncia sociale e protesta creativa. I videoartisti erano accompagnati da Giacomo Verde, che nel 1998 aveva appositamente ideato un format intitolato Se Stessi video/città, composto da incursioni e installazioni non convenzionali di opere d'arte in giro per le città. Luoghi comuni nasce da una riflessione sulle criticità dei piani per le periferie, in cui si attribuiva maggiore importanza agli edifici piuttosto che alle relazioni ambientali e sociali.

Nell’ottobre 2000 insieme con un gruppo di artisti della Spezia pensai di organizzare una serie di interventi e installazioni sul tema delle periferie, ispirati a un progetto di Giacomo Verde dal titolo autarchico Se Stessi video/città. Si trattava di un format che, nelle intenzioni dell’autore, poteva essere riproposto e riprodotto nelle diverse città con elementi caratterizzanti e specifici del luogo. Giacomo Verde era coinvolto direttamente e realizzò alcuni video e la documentazione finale1. Viviana Gravano, esperta di fotografia e critica d’arte era stata chiamata come co-curatrice.

Il nostro Se stessi/video città si intitolava Luoghi comuni2 e si ispirava al pensiero di Verde (espresso in vari testi e nelle sue oper’azioni)3 di voler favorire un approccio “orizzontale e disincantato” alle tecnologie – come si leggeva nella descrizione del progetto – e focalizzarsi sui “paesaggi invisibili” della città, nell’intento di far emergere storie ed elementi costitutivi dell’identità di un luogo: il percorso urbano, il tessuto sociale, lo spazio collettivo, la memoria, la natura. Parallelamente si univa un altro tema – che oggi sarebbe proprio di una metodologia attivista e partecipata – di uno sguardo sulla città al servizio della sua crescita e del benessere della comunità. L’arte come strumento indagatore dei punti deboli e critici della città per ispirare una nuova idea di pianificazione territoriale, potenzialmente utile nella programmazione degli interventi e nelle eventuali decisioni relative alla definizione funzionale degli spazi pubblici.

Le suggestioni venivano da più parti, primo tra tutti dall’urbanista e architetto statunitense Kevin Lynch e dal suo storico testo L’immagine della città: l’esperienza collettiva di queste geografie ai margini si orientò sia pur in modo non sistematico, intorno a una possibile mappatura visiva e una localizzazione dei cinque contenuti dell’immagine pubblica della città elencati da Lynch: i percorsi, i margini, i quartieri, i nodi e i riferimenti4. Lynch ricordava anche come questi elementi non possano esistere isolati: «I quartieri sono strutturati da nodi, definiti da margini attraversati da percorsi e costellati di riferimenti»5.

Quello di Luoghi comuni non è stato un percorso casuale: per essere sicuri di un lavoro corretto sul piano scientifico chiamammo l’architetto e fotografo Daniele Virgilio6, ricercatore indipendente che sarebbe diventato, negli anni successivi, il responsabile dell’ufficio del Piano urbanistico del Comune della Spezia: i suoi studi sulla città espansa, le sue importanti riflessioni teoriche sulle periferie che proprio in quegli anni prendevano forma in articoli su riviste specializzate di architettura, ci furono di enorme aiuto come approccio metodologico all’intervento artistico. Con lui gli artisti sono andati alla scoperta della campagna urbanizzata spezzina e delle diverse traiettorie e linee di confine: vecchi tratturi, stagnoni, paludi bonificate, aree industriali mescolate a sopravvivenze agrarie.

La caratteristica delle aree prescelte era sottolineata da una presenza violenta di industrie a stretto legame con il corpo-città, ma contemporaneamente separate da questo, da linee di confine rimarcate da vie della terra e vie dell’acqua.

L’oggetto dell’indagine, seguendo le indicazioni dell’architetto Virgilio, era la periferia come risorsa, non come area “rifiutata”, degradata e subalterna e l’obiettivo era quello di ridisegnare “luoghi comuni” creando opere e performance che implicassero la volontà di raccontare alla città il contesto di vita in quartieri spezzini periferici, storicamente marginalizzati (Piana di Migliarina, quartieri di Melara).

La Spezia, 2000. Foto di Daniele Virgilio organizzate in un pannello espositivo urbano.
La Spezia, 2000. Foto di Daniele Virgilio organizzate in un pannello espositivo urbano.

Il sottotitolo, troppo lungo per essere riportato nelle locandine, era Ritratti dalla periferia al centro. Giovani artisti all’opera tra luoghi nascosti e problematiche urbanistiche, ambientali e sociali. Catturare lo sguardo negli spazi di attraversamento con immagini, eventi e pensieri sulla città. Sui nonluoghi della città. E altri luoghi comuni.

Il testo di Daniele Virgilio dal titolo Perché le periferie – che fu pubblicato negli anni successivi all’interno dei Quaderni di Periferia – ben chiarisce il metodo adottato dall’architetto per fare una “formazione sul campo” ai giovani videoartisti e fotografi, riassumibile nel concetto della periferia come un campo privilegiato per esplorare il rapporto tra le forme possibili della pianificazione e le forme dell’abitare” e dello sguardo “ad altezza d’uomo7:

Scriveva Kevin Lynch che «le terre desolate sono luoghi di disperazione, ma esse danno anche protezione ai relitti e alle prime deboli forme del nuovo […] sono luoghi per i sogni, per gli atti antisociali, per l’esplorazione e la crescita». (Lynch, 1992, 209-210). La periferia è il luogo del rimosso (La Cecla, 2000), dove le esternalità negative e le scorie prodotte dai cicli vitali dell’urbano trovano il loro ambito di confluenza e di materializzazione, dove la vita degli abitanti è spesso esposta a minacce ambientali e in cui, cionondimeno, i comportamenti abitativi di appropriazione e significazione degli spazi si manifestano talvolta con un grado di libertà e di vitalità superiore che altrove. La periferia è in alcuni casi uno dei luoghi privilegiati delle pratiche di forme sociali insorgenti (Paba, 2002), espressione del nuovo statuto migratorio della città, che polverizza l’idea convenzionale di comunità e nei cui confronti i codici tradizionali delle analisi urbanistiche e dello strumentario convenzionale si misurano con esiti spesso fallimentari. Proprio in periferia, dove la presenza dell’urbano e delle sue regole si affievolisce, dove la vita è ridotta alle funzioni elementari (Piroddi, 1999), dove la possibilità di identificare “temi collettivi” è quasi nulla (Romano, 1993) e le forme dell’urbano sembrano rifluire nell’indistinto, le pratiche della quotidianità si manifestano più liberamente e si rendono più evidenti. La lettura – possibile solo a uno sguardo capace di porsi ad altezza d’uomo – dei segni e dei significati che gli abitanti comunque imprimono agli spazi in cui vivono permette di rintracciare i fili di una possibile rete di rapporti tra uomini e luoghi di cui è intessuta la dimensione quotidiana dell’abitare (De Certeau, 2001). È una rete leggibile solo se disposti a osservare e apprendere le razionalità latenti nella dimensione “infraordinaria” della città (Perec, 1994). In essa assumono particolare importanza gli spazi liberi tra il costruito, ricettacolo vitale della socializzazione spontanea, della ruralità residuale, della naturalità di risulta, delle pratiche autocostruttive e adattive, della libera organizzazione dello spazio. Negli spazi aperti della periferia sono spesso più leggibili i microfenomeni dell’abitare e la loro conflittualità e residualità rispetto ai temi della città pianificata: le grandi infrastrutture, le espansioni urbane, le riqualificazioni condotte con approcci funzionalisti. Nonostante la debolezza di cui sono fatti, e «per quanto sembri inverosimile, questi rimasugli urbani sono anche luoghi più liberi», in cui si può sfuggire alla «pressione dello status, del potere, dello scopo esplicito e dello stretto controllo» (Lynch, 1992, 167). Questi fenomeni pulviscolari e pervasivi non sempre sono decifrabili come un progetto, ma permettono di intravedere nuovi significati e nuovi usi dello spazio, forse una nuova forma di città, una città debole e cionondimeno dotata di un proprio codice vitale non riducibile ai paradigmi e agli schemi della città tradizionale. Per questo motivo, oggi, consideriamo la periferia come un campo privilegiato per esplorare il rapporto tra le forme possibili della pianificazione e le forme dell’abitare8.

Si era cercato con l’architetto Virgilio, di individuare alcuni concetti-chiave per una riflessione sulle diverse tematiche legate alla cosiddetta “città diffusa”: identità in continua trasformazione, area sottoposta nel tempo a vari tentativi di riqualificazione, condizione di crisi, di marginalità talora estrema, frontiera tra diversi modi di “abitare” (industriale e agricolo). La ricognizione si estendeva anche sul piano sociale delle comunità che abitavano, e abitano ancora, quei quartieri caratterizzati da una presenza violenta di industrie e centrali elettriche. Gli interventi volevano porre attenzione su come creare le premesse per un miglioramento dei quartieri, con riferimento alla risistemazione ambientale, al recupero di spazi, alla ricomposizione di aree degradate e abbandonate per una possibile loro destinazione pubblica. Le immagini fotografiche e video, infatti, avevano come obiettivo essere una «lente di ingrandimento che oltre a mostrare meglio, modificasse lo sguardo sulle cose»9, come ricordava la studiosa d’arte visiva Viviana Gravano, chiamata a dare indicazioni curatoriali per l’esperienza artistica. Queste le fasi di studio e di allestimento: studio del territorio, incursione fotografica, selezione del materiale, prova di “accoppiamento” delle immagini, stampa delle foto, ricerca dei luoghi dove “incastonarle” nella nuova cornice urbana.

La Spezia, 2000. Viviana Gravano seleziona le foto con Anna Monteverdi e Enrico Amici. A destra Sara Fregoso e Roberta Bazzoli.
La Spezia, 2000. Viviana Gravano seleziona le foto con Anna Monteverdi e Enrico Amici. A destra di Anna Maria Monteverdi: Sara Fregoso e Roberta Bazzoli.

Chiamammo a raccolta una decina di artisti giovani locali e non, videomaker, fotografi e artisti di teatro (tra cui Jacopo Benassi, oggi uno dei protagonisti della nuova scena fotografica e Motus, all’epoca ai loro primi 10 anni di attività) per raccontare le aree periferiche attraverso installazioni cittadine negli spazi di passaggio, di attraversamento (alla stazione, al mercato), per provocare un “corto circuito” e definire delle linee di contatto, attraverso l’arte, con quei territori periferici che risultavano così vicini e così lontani allo stesso tempo, portando l’immagine della periferia nel cuore della città stessa. Tra le fotografie spiccavano quelle di Jacopo Benassi con i ritratti in primo piano degli abitanti delle periferie e la cornice dei “luoghi comuni” vissuti: il bar di periferia, la balera, il locale alternativo, la Casa del popolo.

Luoghi comuni si articolava in un percorso alla riscoperta del territorio della Spezia e delle comunità che la abitavano, delle problematiche urbanistiche, ambientali e sociali attraverso fotografia, video, teatro, quali strumenti non convenzionali per mostrare il disagio abitativo, le minacce ambientali, il degrado per trascuratezza e abbandono. Insediamenti di piccole comunità contadine con tanto di orto e animali da cortile sotto i tralicci della centrale elettrica, o quartieri popolari dalla tipica edilizia a blocco all’ombra delle ciminiere, tra stagni avvelenati di liquami industriali e cemento a coprire antichi corsi d’acqua e brandelli di edilizi storici risparmiati dall’espansione urbana. Intere aree di paesaggio sottratte allo sguardo da cattedrali di container. «Sopravvivenze a prescindere da tutto. Forme abitative di resistenza all’omologazione», come ricordava Daniele Virgilio nella presentazione della brochure. Questo il testo di Giacomo Verde su cui avevamo pensato di organizzare il lavoro anche in una prospettiva espositiva:

SeStessiVideo città è la prima di una nuova serie di video installazioni interattive. Si tratta di una oper’azione in grado di “modificarsi” adattandosi agli ambienti e alla città in cui viene ospitata pur rimanendo uguale a sé stessa.
Si intende creare uno spazio che evidenzi come il valore autoreferenziale della tecnologia video possa essere uno strumento per esperienze ludico-cognitive in grado di far riflettere sui rapporti tra comunicazione, arte, autore, fruitore, riconoscimento delle forme, novità dei segnali, attraverso diversi livelli interpretativi e di fruizione.
Lo spazio comprende 4 videoproiezioni:
La prima proietta sulla parete attorno alla porta di accesso un instant-video realizzato in città durante il giorno precedente l’apertura dell’esposizione. Il video (montato in macchina e della durata massima di 10 minuti) mostra alcuni luoghi “tipici” della città e la “raccolta” di alcuni oggetti-souvenir: è una specie di “diario d’autore”.
Un secondo videoproiettore proietta sulla parete di fronte a quella d’ingresso la ripresa in diretta delle persone che entrano nella sala (che avranno proiettato addosso frammenti del video precedentemente realizzato). La video camera che riprende l’ingresso è a disposizione degli spettatori che possono anche decidere di inquadrare altro.
Altri due videoproiettori proiettano sulle due pareti laterali le immagini realizzate da due diversi video-loop interattivi posti al centro della sala. Ogni video-loop è composto da una videocamera attaccata al soffitto che inquadra un televisore appoggiato sul pavimento e a cui è collegata, generando così delle pulsazioni luminose geometriche che possono essere modificate dai fruitori.
In questo caso i due video-loop potranno essere modificati utilizzando anche gli oggetti-souvenir raccolti in città durante la giornata precedente e “raccontati” nel “video diario”. Gli spettatori così ri-vedranno se stessi e la propria città reinterpretata da un occhio elettronico e inoltre potranno attivare le modificazioni dei video-loop interattivi con le proprie mani-corpo e con gli oggetti-souvenir che in questo contesto rappresentano l’ambiente quotidiano esterno alla mostra d’arte … ecc. ecc. La tecnologia usata, con i suoi cavi di collegamento, è tutta in evidenza e appoggiata a terra (escluse le due video camere dei video-loop attaccate al soffitto) senza piedistallo, in modo da togliere qualsiasi tipo di “aura” e “magia” all’oggetto tecnologico (e alla sua estetica) nell’intento di portare l’attenzione sui processi percettivi e comportamentali attivati dall’oper’azione e di facilitare un approccio “orizzontale e disincantato” che permetta a chiunque di toccare gli oggetti in mostra senza imbarazzo, come senza imbarazzo ci si dovrebbe comportare nei confronti di qualsiasi tecnologia della comunicazione e opera d’arte10.

In realtà trovando più fotografi che “videomaker” disponibili, ci concentrammo sull’aspetto dell’immagine della città in foto, in forma di installazione, dia proiezioni e fotodiari, seguendo però scrupolosamente l’idea di Verde di “trattenere” gli “oggetti” che rappresentassero il cuore del discorso sulla periferia e che divennero le “immagini simbolo” del progetto: la ciminiera dell’Enel nel quartiere Melara, il campo coltivato circondato da cemento, il biliardino del circolo Arci, il laghetto dei cigni nell’area più inquinata della città in località Pianazze; la dimensione quotidiana dell’abitare, insomma, attenta al protagonismo dei piccoli luoghi e delle piccole aggregazioni sociali, alla dimensione minima dei paesaggi abitativi.

Si mantenne del progetto di Verde l’idea del diario della città, dello sguardo insolito su aree poco conosciute, ma anche il videoloop con i piccoli oggetti, le proiezioni sul soffitto e la telecamera a disposizione del pubblico nella sala dell’esposizione. Le opere originali create da giovani artisti furono esposte dal 12 al 30 ottobre 2000 sia in uno spazio fisico (un fondo commerciale svuotato e comprendente vetrine e un piano rialzato), sia all’aperto (affisse ai tabelloni pubblicitari nella Piazza del mercato e dentro le stazioni ferroviarie, nelle sale d’attesa); anche i video furono proiettati in aree pubbliche mentre un quadro di Lorenzo D’Anteo che riproduceva i cigni fu installato proprio nel Parco delle Pianazze con il laghetto (oggi coperto) dove erano collocati i volatili, destando grande interesse e curiosità nei passanti.

Verde era intervenuto sia con una documentazione video che illustrava tutti i diversi luoghi della ricognizione e dell’esposizione pubblica, che con interventi alla mostra: immagini della periferia proiettate a terra o sui corpi del pubblico e oggetti della periferia diventati protagonisti del videoloop. Verde ha testimoniato anche la presenza dei Motus (una conferenza sui primi lavori extrateatrali) e il loro spettacolo in cartellone, Orpheus Glance. Un contributo teorico importante fu dato anche da Viviana Gravano, incaricata di selezionare gli artisti e definire l’impianto progettuale e curatoriale, istruendo sui temi dei “non luoghi” (all’epoca molto dibattuto, anche per la diffusione nell’ambiente artistico, della traduzione del libro di Marc Augé11), ma soprattutto sull’ “attivismo paesaggistico” che poi sarà alla base del suo libro Paesaggi attivi. Saggio contro la contemplazione. L’attivismo paesaggistico nell’arte contemporanea12. In particolare gli artisti lavorarono intorno a un testo critico che la Gravano aveva scritto appositamente per la rassegna dal titolo Vivibilità che portava a interrogarsi, dopo una ricognizione nelle aree periferiche, sui principi che governano una vivibilità sul territorio. Cioè, dopo la ricognizione serve interrogarsi diversamente: «Cosa può fare l’arte. Cosa può fare l’immagine in una situazione come questa? Raccontare? Denunciare? Agire in qualche modo? Solo raccontare sarebbe cronachistico e sarebbe un modo per non ricercare in questo contesto qualcosa in più di una constatazione dello stato delle cose»13.

I tabelloni che da sempre ospitano segnaletiche stradali e immagini pubblicitarie, furono scelti come spazi espositivi urbani dell’arte in funzione straniante, per ospitare le gigantesche fotografie di Enrico Amici, Roberto Buratta, Jacopo Benassi, Sara Fregoso, Mario Commone e Daniele Virgilio. Le opere hanno riportato la periferia dentro la città, catturando l’attenzione negli spazi di passaggio, di attraversamento, rendendola un paesaggio comune, un luogo comune. Nell’evento finale espositivo si sono alternate foto-installazioni e foto-documentazioni (Gianluca Paoletti e Gianfranco Marcuzzi): davanti a un fondale con immagini della periferia ci si poteva scattare la propria cartolina-souvenir della città. Wear Where (proiezione su t-shirt) era invece, un originale invito in video di Roberta Bazzoli a “indossare” le immagini delle periferie.

Tutte le fotografie installate nella città, riunite in un cartellone. La Spezia, 2000.
Tutte le fotografie installate nella città, riunite in un cartellone. La Spezia, 2000.

Il disegnatore Massimo Sembrano e l’editore Omar Martini hanno proposto una mostra di tavole ispirate a temi metropolitani tratte dai romanzi a fumetti Frontiera. La scelta di presentare un fumetto di una casa editrice indipendente come la Black Velvet era legata al tema offerto da Frontiera, romanzo collettivo a fumetti che ruota intorno all’idea di limite, di confine, geografico e di stati d’animo e sul confine di sperimentazione dei generi (letteratura e graphic novel). L’incontro pubblico con il videomaker Giuseppe Baresi14 e con l’attore Giuseppe Cederna era, invece, focalizzato a esplorare i temi dello spazio e del viaggio nelle produzioni video: gli spazi, le aree in sospensione, in attesa di identità, abbandonati. Ma anche i luoghi come elemento di conoscenza attraverso i quali catturare l’attenzione per renderli in qualche modo, più vivibili.

Giuseppe Baresi con Giuseppe Cederna; a destra insieme la curatrice e videomaker Sara Petri. La Spezia, 2000.
Giuseppe Baresi con Giuseppe Cederna; a destra insieme la curatrice e videomaker Sara Petri. La Spezia, 2000.

Il 6 novembre al Teatro Civico chiudeva la manifestazione, uno spettacolo teatrale dei Motus, all’epoca considerato il più trasgressivo gruppo di punta della Generazione 90. Lo spettacolo ospitato era Orpheus Glance, ispirato e dedicato al cantante Nick Cave e a Jean Cocteau, nato da un laboratorio svolto dal gruppo nella città di Sarajevo nell’ambito della Biennale Giovani artisti d’Europa e del Mediterraneo. La scelta della compagnia era coerente con le attività degli inizi degli anni Novanta sempre in rapporto con lo spazio extrateatrale (performance in centri sociali, gallerie d’arte, spazi urbani, nella metropolitana di Milano per Subway nel 1998). I performer di Motus erano rinchiusi in scatole sceniche in plexiglass (Catrame, O.F. Ovvero Orlando Furioso impunemente eseguito da Motus), dentro appartamenti (Orpheus glance), lavanderie a gettone (Blur), celle frigorifere (L’occhio belva) e camere di albergo (Twin rooms, Splendid’s).

Le opere teatrali della compagnia proponevano strutture sceniche come territori esistenziali di confine: Orpheus glance nasceva come installazione muta, i personaggi erano nient’altro che manichini di una favola-mito-fotoromanzo-fiction. Nel lungo lavoro di rifinitura e di riambientazione successiva, i manichini prendono la parola, anzi la voce: Orfeo dio “fonocentrico” secondo Motus è Nick Cave (interpretato dall’attore-cantante Dany Greggio) e abita in un appartamento a New York, ripensa a Euridice che ha perso per sempre e che è un sogno vestito di lurex, lontano come i paesaggi-cartolina. La scena si definisce in funzione del corpo e dei movimenti degli attori all’interno delle singole stanze di cui è composta la struttura scenografica tecno-glamour-costruttivista: bagno, cucina, camera da letto, salotto, un vero ambiente domestico ricreato, incorniciato e raccontato sin nei dettagli15. La struttura a due piani è il regno dell’Ade abitato da un enigmatico Lucifer (ma anche l’angelo Heurtebise del film Orphée di Cocteau). Tutto il progetto Luoghi comuni si organizza intorno a questa parola contenuta nel titolo dello spettacolo di Motus: glance cioè sguardo. Uno sguardo che ha a che fare con la memoria. Euridice che per uno sguardo abiterà per sempre nell’Ade, rimarrà viva nella memoria di Orfeo, diventando così immortale. È proprio Mnemosine, la dea orfica della memoria, a insegnarci che dissetandosi alla sua fonte, si recupera la vera conoscenza del passato e l’origine di tutti i ricordi in una dimensione sottratta al tempo e al divenire umano, e grazie alla quale si rinasce a nuova, immortale vita.

Motus, Orpheus Glance, La Spezia, 2000. Foto di Enrico Amici.
Motus, Orpheus Glance, La Spezia, 2000. Foto di Enrico Amici.
  1. Il video di documentazione è stato inserito nel canale YouTube dell’artista appositamente per questo articolo.[ultimo accesso 22/IV/2022].
  2. L’unica traccia rimasta in rete del progetto è il comunicato stampa pubblicato su Undo.net nell’ottobre 2000.
  3. Cfr. Anna Maria Monteverdi, Flavia Dalila D’Amico, Vincenzo Sansone(a cura di), Giacomo Verde. Attraversamenti tra teatro e video (1992-1986), Milano University Press, Milano 2022; Silvana Vassallo (a cura di), Giacomo Verde videoartista, Ets, Pisa 2018.
  4. Scrive Kevin Lynch: «I percorsi sono i canali lungo i quali l’osservatore si muove abitualmente, occasionalmente o potenzialmente. Essi possono essere strade, video pedonali, linee di trasporto pubblico, canali e ferrovie […] I margini sono gli elementi lineari che non vengono usati o considerati come percorsi dall’osservatore. Essi sono confini tra due diverse fasi, interruzioni lineari di continuità: rive, linee ferroviarie infossate, margini di sviluppo edilizio […] Quartieri sono le zone della città, di grandezza media o ampia, concepite come dotate di un’estensione bidimensionale in cui l’osservatore entra mentalmente “dentro” e che sono riconoscibili in quanto in esse è diffusa qualche caratteristica individuante. Nodi sono i punti, luoghi strategici di una città, nei quali un osservatore può entrare e che sono i fuochi intensivi verso i quali egli si muove. Essi possono essere anzitutto congiunzioni, luoghi di un’interruzione nei trasporti, un attraversamento o una convergenza di percorso momenti di scambio da una struttura a un’altra […] Riferimenti sono un altro tipo di elementi puntiformi ma in questo caso l’osservatore non vi entra, essi rimangono esterni. Sono generalmente costituti da un oggetto fisico piuttosto ben definito: edificio, insegna, negozio o montagna». Kevin Lynch, L’immagine della città, Marsilio Venezia 2006, pp. 65-67.
  5. Ivi, p. 67.
  6. Daniele Virgilio è architetto, Dottore di Ricerca in Tecnica Urbanistica (Univ. di Roma “La Sapienza”). Le sue pubblicazioni e la sua attività di ricerca si concentrano sulla relazione tra uomini e luoghi nei territori di margine.
  7. L’argomento è ovviamente, suscettibile di ben altri approfondimenti. Rimandiamo al saggio di Daniele Virgilio, Alcuni sguardi sul progetto dell’abitare. La periferia dallo sguardo zenitale alla visione ad altezza d’uomo, in «Urbanistica», n.124, 2004, pp. 39-47 e al libro sempre di Daniele Virgilio, In questo luogo distante. Quaderno di una periferia, Cut up edizioni, La Spezia 2015. Il testo è accompagnato da un Dvd con fotografie scattate tra il 2000 e il 2011 e mappe visive dei luoghi periferici.
  8. Daniele Virgilio, In questo luogo distante. Quaderno di una periferia, cit., p. 5.
  9. Cfr. Viviana Gravano, Vivibilità, pubblicato nella brochure e scritto appositamente per la manifestazione, nell’ottobre 2000.
  10. Appunti inediti di Giacomo Verde datati 1998, raccolti per l’elaborazione di questo testo da Anna Monteverdi.
  11. Il volume di Marc Augé viene pubblicato nel 1992 ma arriva in traduzione in Italia l’anno dopo per Eleuthera. Il libro, com’è noto, definisce, il concetto di nonluogo in contrapposizione ai luoghi antropologici e intendendo con questo fortunato neologismo tutti quegli spazi non identitari, non relazionali e non storici che corrisponderebbero alle stazioni, ai centri commerciali, alle sale di attesa, alle stazioni di rifornimento. Si tratta di spazi di attraversamento, caratterizzati dalla provvisorietà, luoghi dal veloce transito e in cui non si possono intrecciare relazioni sociali, storie condivise, memorie. Il libro apriva a un ampio dibattito non solo teorico in Italia: molti artisti e artiste proporranno fotografie, installazioni e operazioni creative ispirate a questo, tra cui Luisa Lambri e Gea Casolaro. Rimandiamo al volume di Viviana Gravano Crossing. progetti fotografici di confine, Costa & Nolan, Genova 1998 e a quello curato da Paolo Desideri e Massimo Ilardi Attraversamenti. I nuovi territori dello spazio pubblico, Costa & Nolan, Genova 1996. Inoltre si veda il primo numero della rivista «Gomorra. Territori e culture della metropoli», n.1, 1998, dedicata agli “spazi di attraversamento”.
  12. Viviana Gravano, Paesaggi attivi. Saggio contro la contemplazione. L’attivismo paesaggistico nell’arte contemporanea, Mimesis, Milano 2008.
  13. Viviana Gravano, Vivibilità, testo pubblicato sulla brochure dell’evento.
  14. Giuseppe Baresi di formazione artistica, lavora dal 1982 sino agli anni ‘90 con il nascente Studio Azzurro, dal 1985 alterna l’attività di direttore della fotografia a quella di filmaker/regista e produttore indipendente. Nei propri lavori approfondisce alcune linee di ricerca personali: il diario di viaggio, film/video da spettacoli teatrali e danza indagati attraverso una personale ricerca formale utilizzando supporti cinematografici e digitali. Con i suoi film/video e documentari ottiene vari premi ed una costante presenza nelle principali rassegne video e cinematografiche internazionali. Tra i suoi lavori: Camera lucida, 2019, foto/video/appunti per gli Esercizi di psicogeografia nel Parco Media Valle del Lambro; Il teatro a disegni di Dario Fo, 2014, progetto speciale di Archivio Fo-Rame in collaborazione con Accademia di Brera – Scalpendi Editore; Blue sofa, 2009, co-regia con Pippo Del Bono e Lara Fremder; In una foto, 2009, co-regia con Simonetta Fadda, fotografie di Uliano Lucas; Gli Album di Marco Paolini 2004, 16 puntate trasmesse da RAI 3 prodotte da JoleFilm, pubblicate da Einaudi Stile libero.
  15. Per una lettura approfondita di Orpheus glance cfr.: Anna Maria Monteverdi, Glance= sguardo, in «Ateatro.it», n.3, 2000, [ultimo accesso 20.04.2022].
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Esperta di Digital Performance, è Professoressa Associata all’Università Statale di Milano (Dipartimento Beni Culturali e Ambientali) e docente di Storia del teatro, Drammaturgia multimediale e Storia della Scenografia. Ha insegnato Digital video, Digital Performance e Storia del teatro in varie Accademie di Belle Arti (Brera, Torino e Lecce). Le sue ricerche si rivolgono al teatro tecnologico e al teatro sperimentale contemporaneo. È fondatrice e direttrice della rivista accademica Connessioni remote dedicata a Arte, Teatro tecnologico e Artivismo. Ha pubblicato (tra gli altri): Scenografe (Dino Audino 2021), Leggere uno spettacolo multimediale (Dino Audino, 2020), Memoria, maschera e macchina nel teatro di Robert Lepage (Meltemi, 2018), Nuovi media, nuovo teatro (FrancoAngeli, 2011), Rimediando il teatro con le ombre, le macchine, i new media (Giacché, 2014) e, con Andrea Balzola, Le arti multimediali digitali (Garzanti, 2004-2019). È ideatrice e co-curatrice della mostra Giacomo Verde. Liberare Arte da Artisti (Sp, Camec, 2022).