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n. 11 – aprile 22, Teatro

Arti della resistenza al tempo dei Big Data: Ryoji Ikeda e Hito Steyerl

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https://doi.org/10.47109/0102310105

Ryoji Ikeda, data-verse 1, 2019, audiovisual installation.

ABSTRACT

Nell'era computazionale, le attività umane e persino le capacità cognitive sono state ristrutturate attraverso algoritmi decisionali. Il linguaggio dei computer riduce la complessità della vita a una logica binaria per rendere le scelte individuali operabili attraverso procedure automatiche. Quasi ogni aspetto della nostra vita emotiva e sociale tende ad essere assorbito in un flusso infinito di dati. Gli artisti digitali hanno cercato di sfidare la logica del controllo alla base di queste tecnologie. L'articolo mette in luce le strategie di resistenza messe in atto da artisti come Ryoji Ikeda e Hito Steyerl attraverso un'analisi critica delle loro recenti installazioni, performance, dichiarazioni e scritti. Attraverso l'iperestetizzazione dei big data, da cui Ikeda estrae modelli visivi e sonori, l'artista esprime una visione olistica del presente. Le installazioni immersive di Steyerl, invece, ci rendono consapevoli dell'impatto delle tecnologie computazionali sui fenomeni sociali di massa e nella sfera pubblica.

Cosa hanno in comune le immagini di un presente governato dalla velocità inafferrabile del flusso dei dati informatici, i capitali deterritorializzati, l’emergenza climatica e le ultime stagioni movimentiste di Occupy Wall Street e del movimento degli ombrelli di Hong Kong? Lo scenario, nient’affatto futuribile, è quello attuale: in una condizione ibrida, che trova applicazione sia nella dimensione dell’informazione e dei Big Data che nella vita di ciascuno, rinnovata costantemente da piattaforme che gestiscono e controllano con sistemi di intelligenza artificiale il lavoro, la precarizzazione del lavoro ha assunto caratteristiche globali e le città sono i luoghi principali della trasformazione dell’apparato tecnologico in una macchina di controllo e consumo. Tutto ciò avviene in un sistema economico deterritorializzato che tende al monopolio. Tale condizione, negli ultimi due anni di pandemia, di isolamento sociale e “smart working”, ha solo mostrato agli occhi dei più increduli quanto nella realtà quotidiana i sistemi automatici esercitino un’azione pervasiva1.

Secondo i teorici del cosiddetto accelerazionismo2, che rivendicano la possibilità di una dimensione politica e di lotta nell’attuale condizione sociale ed economica governata dal connubio tra capitalismo e sviluppo tecnologico, i due aspetti più pervasivi del mondo d’oggi, capitale e tecnologia, possono essere «ridisegnati in senso rivoluzionario»3. Questa ipotesi propone il legame tra le due sfere, dell’accumulo di capitale e della tecnologia, non in una funzione statutaria, bensì strumentale. La tecnologia e il suo avanzamento, quindi, possono essere ripensati e ridisegnati nella loro relazione, attraverso lo sviluppo della produttività latente, in una direzione anticapitalista.

Ci sarebbe per gli accelerazionisti un varco, da allargare progressivamente, per la rivendicazione dei diritti sociali e personali in uno scenario, quello dominato dalla tecnologia al servizio del capitalismo che vede l’uomo schiacciato dalla relazione con l’automazione. L’arte, a cui storicamente pertiene il ruolo di alimentare – e in alcuni casi educare – l’immaginario collettivo, negli anni recenti si è misurata non solo con gli strumenti dell’automazione per elaborare nuove forme aggiornate alle innovazioni tecnologiche4, ma anche con le novità radicali che sono apparse nella società contemporanea in risposta alla pervasività di tali sistemi5. Con il riferimento alla recente teoria sociologica e culturologica e alle voci radicali della riflessione sul presente, intendo proporre il lavoro degli artisti Ryoji Ikeda, visual e sound artist che usa il coding e il flusso di dati e tecniche di data visualization in termini artistici, e Hito Stereyl, artista, filmaker e teorica che negli ultimi anni ha indirizzato la sua ricerca verso una serrata critica dei sistemi di intelligenza artificiale al servizio dei nuovi capitali, come modelli differenti in cui l’aggiornamento formale e tecnologico conducono a un’esperienza radicalmente inedita – iperestetica in un caso, critica nell’altro – delle logiche degli apparati tecnologici.

La scelta di studiare il lavoro degli artisti Ikeda e Stereyl, noto in Italia per la partecipazione a grandi mostre ma che non è stato ancora oggetto di uno studio generale e dall’altro la scelta di attingere a un ambito di riflessione che, seppur frequentato da alcuni studiosi di media in Italia, è poco battuto nell’ambito storico-artistico, è sviluppata in una più ampia linea di ricerca su cui sto lavorando negli ultimi anni a partire dall’indagine sui metodi della storia dell’arte in relazione agli archivi interoperabili e ai Big Data. Da un lato il filone della Digital Art History e dall’altro le ricognizioni storico-critiche dell’arte che adotta la tecnologia come linguaggio appaiono, in particolare in Italia, come campi disciplinari separati dagli esiti della storia dell’arte contemporanea. Aggiornare la riflessione sul lavoro di alcuni artisti – in questo saggio ho scelto l’opera di Ikeda e Stereyl a modello di un’attitudine che trascende la dimensione analitico-mediale – al di fuori degli studi specialistici di Arte digitale che ormai hanno assunto una specificità disciplinare, in una pratica di generale segmentazione della storia dell’arte che risponde alla necessità di decostruire il canone storico-critico in storie plurali ma che a volte rischia di chiudersi in specialismi autoreferenziali, con le riflessioni teoriche interdisciplinari della sociologia più attenta alle questioni attuali6, offre a mio avviso un’occasione produttiva anche nell’ambito della storia e critica dell’arte contemporanea che si è interrogata a lungo sulle logiche mediali e post-mediali7. Pertanto ho individuato nella proposta di Hito Stereyl, lontana dai modi antagonisti artivisti di alcune esperienze degli anni 2000 che avevano adottato come forma artistica i linguaggi e i dispositivi dell’attivismo politico, una pratica alternativa della tecnologia e nel lavoro di Ryoji Ikeda, che costruisce spazi performativi restituendo la dovuta centralità alla dimensione percettiva individuale, due modalità esemplari dell’uso di tecnologie mediali in termini alternativi alle logiche strutturali della computazione tanto da offrirne un’esperienza radicalmente diversa da quella a cui abitualmente siamo esposti.

Per comprendere la specificità dell’esperienza offerta dai due artisti al loro pubblico, è utile partire dalle tesi di quei teorici che criticamente hanno analizzato la svolta computazionale e riflettere sulla natura dei cambiamenti avviati dall’uso massiccio dell’automazione delle funzioni strutturali su cui è fondata la società contemporanea, e sulla soggettività specifica, autonoma, della macchina, così come proposto per esempio da Luciana Parisi, teorica dei nuovi media e ricercatrice presso la Goldsmiths University di Londra. La posizione teorica di Parisi non è affatto vicina alla visionarietà fantascientifica a cui potremmo alludere parlando di una soggettività dell’automa di cui la letteratura è piena, ma invece attraverso un’analisi rigorosa la studiosa afferma la necessità che gli individui si emancipino dal modello servo-macchinico8. Secondo tale modello gli individui si rappresentano in relazione alla dimensione automatica dell’esistente e del pensiero o come demiurghi della sfera tecnologica o come intrappolati dalla struttura di controllo e monitoraggio che essi stessi hanno messo in piedi. L’automazione, che non solo ha sostituito molte funzioni umane, con lo sviluppo delle reti neuronali di intelligenza artificiale si è costituita come sistema autopoietico, capace di imparare a pensare. A partire da questa considerazione e dallo studio delle tesi sull’incomputabilità alla base dello sviluppo degli algoritmi, secondo Luciana Parisi, non basta considerare gli assiomi della computazione come verità o postulati autoimposti, ma è necessario tenere nella giusta considerazione l’indeterminatezza centrale nella «divergenza tra informazione, casualità e modellazione algoritmica»9. Tale consapevolezza è importante perché chiarisce gli aspetti specifici che legano la logica computazionale della “discretizzazione” alla realtà dove il modello di pensiero prova-verità è sostituito da un modello, quello della logica computazionale, non deduttivo.

Tali logiche, divenute pervasive per l’applicazione di sistemi algoritmici a svariati aspetti della vita reale, contribuiscono alla diffusione di una logica che non pertiene all’individuo ma esclusivamente alla computazione. Nel 2013 a partire dalla teoria di Althusser sull’ideologia, con riferimento anche alle idee sostenute da Judith Butler riguardo all’agency del linguaggio, con molta chiarezza Geoff Cox dedica la sua riflessione al coding, un’azione che ha un legame stretto con il linguaggio e che, in quanto pratica diffusa in modo capillare nella nostra vita, produce degli effetti estetici e politici10.

La rappresentazione dei dati e del reale attraverso l’uso massiccio delle infrastrutture digitali a cui quasi acriticamente abbiamo delegato la gestione di molti aspetti della vita quotidiana, nonché la produzione della conoscenza e la conservazione della memoria, viene automatizzata secondo una tassonomia rigida che non solo non tiene conto a livello logico di alcuni aspetti specifici della conoscenza umana, per esempio dell’attitudine enattiva ed esperienziale che contraddistingue l’essere umano e il suo mondo, aspetti, questi, che risultano assolutamente intraducibili nel linguaggio della macchina, ma soprattutto produce a partire dalla logica specifica della codificazione e della computazione degli effetti inediti. Seguendo queste analisi appare urgente riflettere sulla qualità delle informazioni che vengono raccolte, sulle modalità di organizzazione dei dati e addirittura sui “significati inconsci” di cui le tecnologie sono portatrici. Se inoltre pensiamo al fatto che la connessione costante delle persone ai device tecnologici genera una quantità enorme di dati da cui è possibile – e praticato lungamente11 – estrarre informazioni che hanno esiti ed effetti concreti sulle politiche reali, appare necessario che i temi legati all’organizzazione dei dati, alla struttura mediale delle interfacce e dei sistemi di produzione e gestioni dei cosiddetti Big Data siano discussi in modo approfondito rispetto ai singoli ambiti disciplinari.

La storia dell’arte e la critica d’arte non possono restare estranee a tale riflessione, lo suggeriscono gli artisti che si misurano con l’esistente anche rispetto alla dimensione tecnologica e lo suggerisce la centralità delle istituzioni espositive e di formazione artistica nel dibattito contemporaneo. In un paesaggio culturale rinnovato dalla trasposizione dall’ambito del continuum della vita materiale all’ambito del discreto prodotto dalla digitalizzazione di materiali e delle funzioni centrali per il nostro vivere sociale, come per esempio la memoria, la relazione con l’enorme produzione di dati informatici non può essere delegata totalmente all’automazione. È necessario interrogarsi sui nuovi paradigmi, in una condizione in cui l’eccedenza sensoriale e l’esperienza empatica dell’individuo con l’oggetto vengono ridotte, mentre occupa una parte cospicua della nostra esistenza l’esperienza mediata da interfacce tecnologiche e viene a verificarsi una reale sussunzione del paradigma culturale ereditato dalla modernità, così come Alexander Galloway ha interpretato questo passaggio12.

Il passaggio dalle logiche deduttive a nuove modalità predittive su cui sono sviluppati per esempio i sistemi di data analytics con lo scopo di costruire modelli di predizione di comportamenti individuali o di gruppo ha effetti nell’organizzazione della vita quotidiana e, si può supporre, produrrà cambiamenti anche a livello cognitivo13. Se condividiamo l’idea sostenuta da Luciana Parisi che l’uso e la replicazione della struttura computazionale censura a monte qualunque critica al capitalismo, poiché il linguaggio stesso delle macchine e le logiche su cui sono costruiti gli algoritmi che organizzano e gestiscono l’esistente contribuiscono a ristrutturare «il nostro potenziale di socializzazione, di comprensione, creazione e interazione e addirittura di sviluppo di nuove capacità cognitive»14, condividiamo anche l’idea che è divenuto necessario sperimentare modi alternativi nell’utilizzo di tali sistemi. La strada che suggerisce Parisi è quella di una “filosofia computazionale” che permetta di arginare il monopolio delle logiche computazionali anche rispetto alla dimensione affettiva e alla rappresentazione simbolica del mondo. A partire proprio dalla necessità di sottrarre la dimensione cognitiva, simbolica e affettiva alle logiche computazionali possiamo rivolgerci all’arte contemporanea che adotta il tecnologico come linguaggio attivando procedure di resistenza e azioni volte a sollecitare un uso critico degli strumenti digitali. E poiché il rischio maggiore a cui siamo esposti è rappresentato dalla riduzione della complessità dell’esistente alla logica binaria e della rappresentazione digitale della sfera emotiva con cui il sistema capitalistico ingloba le risposte individuali, la ricerca artistica che contribuisce a creare uno spazio di sovversione delle stesse tecnologie su un piano immaginifico offre una risposta efficace a questa situazione. Infatti, proprio l’arte che storicamente ha utilizzato in termini antiproduttivi i sistemi di produzione – si pensi per esempio all’esperienza situazionista e a Pinot Gallizio in particolare – oggi può sperimentare modalità radicalmente alternative dei sistemi tecnologici attraverso la produzione di un’esperienza individuale, irriducibile al linguaggio della macchina, e attraverso un utilizzo creativo e non spersonalizzante di tali sistemi. A mio avviso le opere di Ryoji Ikeda, artista che vive e lavora tra Parigi e Tokyo, conosciuto in particolare per la musica elettronica prodotta dalla metà degli anni ’90 attraverso l’iper-estetizzazione dei dati, di cui l’artista analizza pattern visuali e sonori, interrogandosi su qual è il «suono dei dati o i dati del suono» – espressione questa che ricorre come uno slogan in ogni presentazione e pubblicità delle performance dell’artista a prova dell’intraducibilità dell’esperienza che l’arte offre – aprono quel varco nel sistema tecnologico istituendo uno spazio di percezione dei dati e della loro complessità, oggettivandoli, e ristabilendo attraverso i sensi il limite tra ciò che è digitale e ciò che è analogico15. L’artista presenta progetti non facilmente catalogabili tra i generi performativi dell’arte contemporanea16.

Molto vicine alle visual e sound live performance, per l’uso dell’immagine digitale in movimento, per le sonorità elettroniche, per il light design, Ryoji Ikeda costruisce installazioni e live set che mutano nel tempo, anche perché spesso sono composte da contenuti prodotti in tempo reale. L’artista si serve spesso della collaborazione di programmatori esperti per la gestione dei dati manipolati, altre volte, le installazioni sono più semplicemente ripartite in una parte visuale e una sonora. Nel progetto superposition (2012)l’artista presenta una sovrapposizione di immagini ed esperienze con una performance sonora, un live set, con la restituzione di un flusso dati, con degli interventi definiti sculture digitali sonore a cui si aggiungono le azioni dei due performer seduti al lungo tavolo sottostante allo schermo di proiezione. Con il risultato di una sovrapposizione impressionante di informazioni, immagini, suoni e sollecitazioni percettive l’artista dal 2012, con le successive presentazioni del progetto, si è interrogato sull’elemento basilare dell’informazione, il BIT, e sulla sua evoluzione, per sovrapposizione, in QuBIT, e cioè bit quantici. Nello stesso anno però l’artista incide e pubblica l’album supercodex, di cui realizza anche live set in giro per l’Europa, che chiude la trilogia dei lavori iniziati nel 2005 e che costituisce il preludio del progetto sui bit quantici.

Analogamente al lavoro sul suono, che assume una posizione da protagonista negli album, anche la luce, la luce bianca accecante, è la protagonista di una serie di installazioni di grandi dimensioni che dal 2001 l’artista realizza nello spazio pubblico (per esempio l’intervento sulla Tour Montparnasse a Parigi in occasione della Nuit Blanche nel 2008 che proiettava un fascio luminoso verticale in cielo visibile da tutta la città) e negli spazi espositivi con Spectra III (Biennale di Venezia, 2019). La luce bianca, assoluta, astratta, accecante, afferma perentoriamente l’irreversibilità di una condizione percettiva. Lo spettatore attraversa il corridoio di luce e avverte una sensazione di incontrollabile spaesamento, non del tutto piacevole, che però mette al centro della sua attenzione la singolare esperienza sensoriale e percettiva17.

A differenza dei progetti supercodex e superposition, in cui la visione e l’ascolto sono frontali,le opere che compongono la trilogia data-verse sono immersive. Presentata integralmente quest’estate a Londra presso il centro espositivo 180 The Strand, insieme a una vasta selezione di opere dello stesso artista, la trilogia bene interpreta la possibilità di un uso alternativo delle tecnologie, non necessariamente in termini antagonisti, ma che attraverso la visualizzazione e il riconoscimento del flusso di dati produce uno scarto, a mio avviso, significativo rispetto all’acritica abitudine nei confronti del sistema dell’automazione che modifica e interviene costantemente nelle nostre vite. Ryoji Ikeda utilizza dei meccanismi e software molto semplici o molto complessi. Test-pattern è la prima installazione della trilogia e dal 2008 ha trovato svariate configurazioni ed elaborazioni. In gran parte dei casi in cui è stata riproposta è consistita in un tappeto percorribile di immagini proiettate dall’alto che ripropongono dei dataset tradotti nel sistema binario (0-1, bianco-nero). La quantità di dati viene svolta nella successione fondamentale dell’elemento più piccolo che la compone.  I dati così rappresentati e trasmessi nell’immagine proiettata offrono allo spettatore un’esperienza ipnotica fatta di flash sincopati. L’esperienza immersiva e sensoriale dei dati che nell’installazione assumono la “materia immateriale” della luce e agiscono sul piano percettivo del singolo visitatore nello spazio abitabile dell’installazione è un aspetto che caratterizza la ricerca di Ikeda e che produce nello spettatore una sorta di consapevolezza percettiva della natura binaria dei dati.

Data-verse è l’episodio complesso della trilogia: l’installazione è stata presentata in Italia in occasione della Biennale di Venezia del 2019. Con l’utilizzo di dati provenienti dal CERN – istituto con cui ha collaborato in molte occasioni e che lo ha insignito del premio dedicato all’arte elettronica nel 2018 – dalla NASA e dal progetto sul genoma umano, da coordinate spaziali, immagini di proteine e molecole, l’artista costruisce un percorso percettivo con una proiezione multipla interrogando le dimensione del macro e del micro.

Ryoji Ikeda, data-verse 1, 2019, audiovisual installation.
Ryoji Ikeda, data-verse 1, 2019, audiovisual installation.

In comune con data-verse le opere datamatics e V≠L sebbene di genere diverso, sono frutto di un’analoga ispirazione per temi teorici, come l’infinito e i numeri trascendenti e l’interesse verso il linguaggio della matematica alla base degli algoritmi, dei programmi informatici e delle teorie che hanno l’obiettivo di spiegare e rappresentare il mondo. Il tema dei dati, del loro utilizzo e dell’immagine che generano, è centrale nella serie datamatics dove sequenze in 2D si alternano a sequenze in 3D e ad altre immagini che derivano da errori sul disco rigido o da stringhe di software. Il suono, sempre ipnotico e incalzante, rispecchia la stessa logica compositiva dell’immagine che proietta paesaggi digitali che evocano sistemi cosmologici di dati.

Infine, Point of no return chiude la trilogia18. Rappresenta letteralmente il punto – the event horizon – individuato dagli astrofisici oltre il quale per la forza di gravità persino la luce collassa all’interno del buco nero. Come le recenti scoperte astronomiche mostrano il vortice dei campi magnetici prodotti da ciò che sta per varcare il punto di non ritorno, così la video installazione è realizzata con una proiezione di luce intorno a un cerchio nero opaco. Il continuo passaggio di scala di dataverse, dal bit al flusso di dati, dal micro al macro, si conclude nella contrapposizione tra l’opacità del centro del buco nero e la brillantezza stroboscopica del bianco.

L’iper-estetizzazione del flusso di dati con cui Ikeda esprime una visione olistica del reale ben descrive, pur senza alcuna critica evidente, il paesaggio informatizzato in cui viviamo, e certamente la sua proposta artistica prende una posizione eccentrica – come quella di artisti e ricercatori come Lev Manovich e Benjamin Fry – rispetto al panorama internazionale artistico che si occupa in modo spettacolare di data visualization19.

Di segno differente, pur riferendosi ai Big Data e intervenendo in termini teorici, oltre che con proposizioni artistiche, nel dibattito sulle nuove tecnologie del controllo delle informazioni, Hito Steyerl di recente si è rivolta a quello che definisce “ammasso” di dati, detriti digitali20 – rovine contemporanee –  e allo spazio sociale che li contiene, con lucido e visionario acume.

Hito Steyerl accompagna il corpus di opere visive, performative e digitali con scritti densi e con un’attività teorica intensa offrendo, in questo modo, un’esperienza della dimensione digitale radicalmente critica. Con l’uso di tecnologie di intelligenza artificiale e sfruttando tutti i canali offerti dall’avanzamento tecnologico, senza risparmiare critiche ai fenomeni sociali di massa, dalla moda allo star system, l’artista realizza una critica serrata alla condizione dell’automazione proponendo un uso realmente alternativo dei simboli e dei mezzi di comunicazione che scardina le logiche che tali sistemi esprimono. Esempi efficaci della sua pratica sono la mostra realizzata presso la Serpentine Gallery di Londra e l’opera This is the future esposta alla Biennale di Venezia del 201921. Realizzate attraverso l’uso di tecnologie di intelligenza artificiale, l’installazione video-ambientale e il percorso espositivo londinese propongono una riflessione ampia sulla società contemporanea, sul rapporto cognitivo con il presente e il futuro. “Ma se il futuro è stato predetto”, la voce artificiale declama all’inizio del video ricordandoci che la predizione del futuro è un topos culturale di tutte le società storiche, “il presente è imprevedibile”. Nell’epoca in cui ogni scelta sembra essere, in termini neoliberistici, governata da un algoritmo predittivo, il presente in sé, come accadimento diventa il luogo della libertà, out of control.

Il percorso espositivo si articola in una visione del video This is the future, in cui la voce femminile dichiara di essere una rete neuronale e racconta il futuro, e in un percorso labirintico fatto di schermi e strutture di metallo che costituisce un giardino psichedelico dove i testi descrivono piante con poteri trasformativi e la musica contribuisce a creare un’atmosfera avvolgente22. Sebbene le notizie che ci raggiungono negli ultimi anni, legate alle devastazioni della guerra, degli incendi su scala globale e dei cataclismi originati dall’emergenza climatica non permettano di immaginare un futuro di colori vividi e piante rigogliose, This is the future/Power Plant offre un’immagine fulgida e psichedelica di un futuro predetto dalla macchina. In occasione della mostra alla Serpentine Gallery insieme a un team composto da designer e sviluppatori, l’artista ha realizzato un’applicazione per la realtà aumentata che rimodellava lo spazio esterno della galleria attraverso un sistema di Data Visualization. Context-specific, perché orientata all’area limitrofa alla galleria e indirizzata a sottolineare le disparità sociali e a testimoniare gli effetti delle politiche di austerità sulle vite dei lavoratori, l’applicazione Actual Reality OS progettata da Ayham Ghraowi e sviluppata da Ivaylo Getov raccoglieva dati prodotti da alcuni gruppi come Architects for Social Housing e collettivi di lavoratori domestici e del personale degli hotel.  L’artista spesso fa riferimento nelle sue opere al training dell’intelligenza artificiale: nel video The City of Broken Windows (video installazione realizzata per la manica lunga del Castello di Rivoli, novembre 2018-settembre 2019) i ricercatori provano invano ad addestrare l’intelligenza artificiale a riconoscere il rumore delle finestre rotte.

Hito Steyerl, Power Plants, 2019.
Hito Steyerl, Power Plants, 2019.

Il sistema tecnologico utilizzato dall’industria della sorveglianza restituisce frasi mal rielaborate, tintinnii e scampanellii23.

Nella complessità dei linguaggi e dei media presenti nell’installazione, sperimentando in termini educativi e antagonisti l’uso delle tecnologie informatiche (algoritmi predittivi, intelligenza artificiale e realtà aumentata) l’artista propone un modo radicalmente alternativo di utilizzo degli strumenti del sistema neoliberista. In occasione della mostra personale Hito Steyerl. I Will Survive, a cura di Florian Ebner, Susanne Gaensheimer, Dpris Krystof e Marcella Lista, coprodotta da Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen di Düsseldorf e Centre George Pompidou di Parigi nel 2020, l’artista presenta Dance ManiaXR. A Social Choreography, un’installazione video e un adattamento per lo spazio virtuale, basato su un modello di simulazione attraverso parametri (tra cui figurano symptomatic social distance, viral tenacity, sympthom tenacity, time to death) modificabili, nella versione online, dall’utente. Avatar poliziotti e agenti di forze speciali si scatenano in una danza compulsiva. La relazione tra crisi sociale e sanitaria, la violenza di sistema che i movimenti di protesta a Hong Kong e in Occidente Black Live Matters hanno evidenziato, sono alla base della simulazione che realizza l’artista. La danza compulsiva rimanda simbolicamente, secondo il graphic designer e critico Ayham Ghraowi, al legame tra la struttura stessa del video-game e i sistemi di sorveglianza che estraggono dati dai comportamenti delle persone in internet e ne sfruttano le informazioni24.

Persino il celebre saggio dell’artista In Defence of the Poor Image25, pubblicato sulla rivista e-flux nel 2009, è una sovversione della scala di valore del sistema vigente attraverso l’appropriazione dello scarto, dell’immagine scadente, dei detriti, delle immagini povere in un processo che a mio avviso è peculiare della teoria e della pratica artistica di Hito Steyerl che in termini radicali, avvicinandosi – forse inconsapevolmente26 – alla proposta accelerazionista, apre in modo dirompente un varco nell’uso e nella replicazione acritica dei processi e delle logiche di controllo attuali.Con marcata ironia, il lavoro di Steyerl ha un gusto didattico: lo afferma l’artista stessa nell’opera How Not to Be Seen. A Fucking Didactic Educational.MOV File (2013) in cui attraverso 5 lezioni offerte con la modalità popolare del tutorial insegna come raggiungere la propria invisibilità. Il video che documenta i target su cui erano tarati i sistemi di registrazione fotografici e video aerei a partire da quelli – oggi in rovina – installati negli anni ’50 nel deserto della California, fino alle odierne evoluzioni, a prova dell’importanza dell’asserzione ripetuta molteplici volte dalla voce narrante del video: «Resolution determs visibility». L’immagine, la visione e l’informazione sono i punti di una triangolazione ricorrente negli scritti e nelle opere di Hito Steyerl, ma la critica alla dimensione dell’immagine non è avulsa da quella al sistema capitalistico di controllo e ai sistemi tecnologici dell’automazione.

Ritornando così agli interrogativi da cui siamo partiti, dalla possibilità o meno, come suggeriva Luciana Parisi di sottrarci alla logica servo-padrone e, allo stesso tempo, condividendo la necessità di aprire un varco nella struttura della cosiddetta età dell’algoritmo, pur stando bene attenti alle inquietanti derive che alcune teorie accelerazioniste hanno preso, c’è da chiedersi quali siano il luogo e i linguaggi per sperimentare un’alternativa. Il contributo dell’arte contemporanea, lo documentano le ricerche di artisti come Ryoji Ikeda e Hito Steyerl, è determinante. Per quanto riguarda il luogo, invece, si può ipotizzare che il museo, in quanto istituzione pubblica, possa ancora essere uno spazio critico. Se la fabbrica è stata il luogo emblematico della società capitalistico-industriale, nel momento in cui il cognitariato, la classe sociale precaria per eccellenza oggi, non frequenta la fabbrica ma ambisce a installarsi nel museo – benché siano continui gli annunci del suo tramonto se non della sua fine irreversibile – e negli hub della creatività, va da sé che il museo e gli spazi pubblici dell’esposizione, che negli ultimi anni hanno accolto la linea di produzione più avanzata, sono i luoghi in cui sperimentare pratiche di resistenza27. Già nel 1995 Tony Bennett metteva in stretta relazione le logiche della sorveglianza e il museo28, quindi, c’è da aspettarsi che, se nel museo potranno essere sperimentate forme di resistenza, ciò accadrà non senza guerriglia.

  1. Tale condizione, già in seguito alla crisi economica del 2008, era apparsa a Franco Berardi “Bifo” problematica, infatti nel volume The soul at work in cui analizza il carattere del neocapitalismo, aveva ripensato i temi della natura del lavoro, dello statuto del lavoratore e della lotta di classe per descrivere la nuova classe sociale del cognitariato – crasi di cognitive e proletariato – e cioè il lavoratore della conoscenza che si identifica con il suo lavoro, che assorbe tutto il tempo che ha a disposizione ma di cui gli viene pagato e riconosciuto solo una parte esigua. Il radicalizzarsi delle forme di sfruttamento del cognitariato è strettamente legato allo sviluppo tecnologico e credo che ricostruire lo scenario raccontato precocemente da Bifo sia utile per capire in che senso oggi è necessario attivare pratiche di resistenza per le quali l’arte può offrire modelli effettivi piuttosto che suggestioni formali. Cfr. Franco Berardi “Bifo”, The soul at work. From Alienation to Autonomy, Semiotext(e) Foreign Agents Series, Los Angeles 2009. È indicativa, per esempio, la riflessione che negli ultimi anni è stata condotta a proposito del lavoro dei corrieri impiegati nell’industria della consegna del cibo che occupano uno degli scalini più bassi dell’organizzazione del lavoro, nei termini di diritti, ma allo stesso tempo rappresentano l’incrocio di alcune delle tendenze più evidenti nella società neocapitalista che prevede l’organizzazione dell’esistente attraverso sistemi tecnologicamente avanzati e automatici volti all’accumulazione di capitale e produzione deterritorializzata. Tali temi sono oggi centrali nel dibattito che impegna tutte le discipline dello spazio sociale. Sebbene la tecnologia, in termini marxiani sia pensata come non neutrale e addirittura strumento per la lotta di classe, adattando il concetto di Subordinazione macchinica di Deleuze e Guattari è evidente che si sia ribaltato il rapporto tra soggetto e macchinico, come evidenziato da Benjamin Herr in Delivering Food on Bikes: Between Machinic Subordination and Autonomy in the Algorithmic Workplace, in Augmented Exploitation. Artificial Intelligence, Automation and Work, a cura di Phoebe V. Moore e Jamie Woodcock, Pluto Press, London 2021.
  2. Secondo il Manifesto per una politica Accelerazionista di Alex Williams e Nick Srnicek pubblicato per la prima volta nel 2013 è necessario rispondere alla «nuova progenie di cataclismi», come per esempio il collasso del sistema climatico del pianeta e le continue crisi finanziarie, e in generale la condizione di totale sfacelo in cui versiamo dopo decenni di neoliberismo, con una «politica accelerazionista, a proprio agio con una modernità fatta di astrazione, complessità, globalità e tecnologia». Cfr. Alex Williams e Nick Srnicek, Manifesto per una politica accelerazionista, in Gli algoritmi del capitale. Accelerazionismo, macchine della conoscenza e autonomia del comune, a cura di Matteo Pasquinelli, Ombre corte, Verona 2014, pp. 17-28.
  3. Ivi, p. 8.
  4. Si veda per esempio l’automa di Goshka Macuga presentato in Italia alla Fondazione Prada nel 2016 che sembra interloquire con il suo pubblico trasmettendo oralmente, senza sosta, un discorso – il discorso dei discorsi – composto dai frammenti estratti da testi di importanti pensatori di tutte le epoche. L’opera sviluppa, in collaborazione con il laboratorio giapponese A Lab, la ricerca sulla condizione post-umana già avviata dall’artista in The Somnambulist (2006), un manichino dalle fattezze di Cesare il sonnambulo del film Il gabinetto del Dr. Caligari di Robert Wiene (1920).
  5. Massimo Mazzotti intervistato da Caterina Riva di recente mette in evidenza quanto la crisi originatasi dall’11 settembre abbia spostato la necessità del controllo verso il controllo massivo dell’informazione e come a seguito di quella crisi si sia abbassata la soglia di tolleranza dei singoli rispetto all’uso dei dati personali. Un territorio ambiguo su cui dovremmo interrogarci oggi per stabilire delle regole inderogabili riguarda l’uso delle immagini e il riconoscimento facciale. Goshka Macuga presentato nell’installazione presso la Fondazione Prada di Milano mostrano il processo di addestramento di sistemi AI per il riconoscimento dell’immagine e la categorizzazione dell’informazione. Cfr. Caterina Riva, L’età dell’algoritmo. Intervista a Massimo Mazzotti e Shreerharsh Kelkar dell’Università di Berkeley, in «Antinomie», 12 aprile 2021, [ultimo accesso  01.IV.2022]. Kate Crowford ritorna di recente sulla questione della classificazione e di come i dataset su cui si addestra l’intelligenza artificiale introducano categorie di razza, genere, disabilità e così introiettano «schemas of social ordering» che «naturalize hierarchies and magnify inequalities». La studiosa chiarisce che «Classification is an act of power, be it labeling images in AI training sets, tracking people with facial recognition, or pouing lead shot into skulls». Kate Crowford, Atlas of AI Power, Politics, and the Planetary Costs of Artificial Intelligence, Yale University Press, New Haven 2021, p. 128.
  6. Si veda la ricerca di Tiziana Terranova che nel 2014 dedica un saggio all’automazione del comune in cui avverte la necessità di attivare «a process of re-coding of network architectures and information technologies based on values others than exchange and speculation, but also of acknowledging the wide process of technosocial literacy that has recently affected large swathes of the world population». Tiziana Terranova, Red Stack Attack! Algorithms, Capital and Automation of Common, in «EuroNomade», 8 marzo 2014, [ultimo accesso 20.IV.2022].
  7. Nella direzione produrre una visione complessa degli studi di storia dell’arti contemporanee che integrano gli esiti più recenti della media art, arte digitale, computazionale, robotica oppure Time-based o interattiva con un approccio teorico ampio si veda in particolare in Italia Valentino Catricalà, Media Art Prospettive delle arti verso il XXI secolo, Mimesis, Torino 2016, di recente tradotto per Rowman &Littlefield (London 2021).
  8. Luciana Parisi, The alien subject of AI, in «Subjectivity», vol 12, 2019, pp. 27-48.
  9. Ibidem.
  10. «The common declaration “Hello world” interpellates in this way too, not least in the dogged insistence on the use of English as the default “ mother tongue ” of program languages. To Louis Althusser, the speech act constitutes the subject; it recruits subjects by hailing them, “Hey, you there!”, as a policeman (sic) might speak to a passerby. Through the act of recognition the subject begins to exist in ideology, in parallel to the way that program code can be seen to exist in ideology too». Geoff Cox, Speaking Code. Coding as Aesthetic and Political Expression, The MIT Press, London-Cambridge 2013, p. 3.
  11. Con lo scandalo Cambridge Analytica nel 2018, grazie alla soffiata al giornale inglese Observer, è stato rivelato il meccanismo di controllo e sorveglianza che si serve della profilazione degli utenti di Facebook per manipolare l’opinione pubblica. [ultimo accesso 20.IV.2022].
  12. Edito nel 2007 insieme a Eugene Thacker il saggio The Exploit. A theory of networks  è una lucida analisi dei processi di controllo della comunicazione e del network che a dispetto dell’idea comune per cui si intende il network multiagentrizomatico, aperto e inclusivo più libero e meno controllato di forme gerarchiche verticali o verticistiche, dà prova di quanto i protocolli  alla base dei network sono inclusivi anziché esclusivi, sono universali e totali anziché parziali ma che in virtù di ciò operano un’esclusione interna al sistema, e sono fondati su “principi di politica liberista” (Alexander R. Galloway e Eugene Thacker, The Exploit. A Theory of Networks, 2007, p. 30). Intendendo lo studio del network come indiscernibile relazione tra «an informatic view of life» e la nozione di “life itself” gli studiosi adottano l’analisi biopolitica foucaultiana affermando che se il controllo in una prospettiva biopolitica si esercitava sul corpo di un individuo o di un organismo, il network nella sua accezione “protocollare” esercita il suo controllo su «massified biological species-population».
  13. Cfr. Luciana Parisi, Critical Computation: Digital Automata and General Artificial Thinking, in «Theory, Culture & Society», Vol 36, issue 2, 2019.
  14. Luciana Parisi, Automation and Critique, in «Reinventing Horizons», a cura di Dustin Breitling, Vìt Bohal e Václav eds. Janoščík, Vice Versa Art Books, 2016, pp. 99-122.
  15. Ikeda ha inoltre collaborato con Carsten Nicolai, l’artista musicista conosciuto anche come Alva Noto, al progetto sonotectures-cyclo. Unspun come «risposta alla qualità visuale dei suoni particolarmente nei termini di forme geometriche». Ryoji Ikeda e Carsten Nicolai, ‘sonotectures’ — cyclo. Unspun, in «AA files», Winter 2002, No. 48, Winter 2002, pp. 47-51.
  16. Il sito internet dell’artista è costruito come un ricco archivio consultabile che raccoglie la documentazione di tutte le opere e dei numerosi reenactment di ciascun progetto. [ultimo accesso  20.IV.2022].
  17. È interessante come in questa direzione il lavoro di Ryoji Ikeda, che si è misurato con la dimensione architettonica, in particolare nell’installazione Spectra del 2004, un corridoio di luce bianca che interviene negli spazi progettati da Eero Saarinen del Terminal 5 – JFK Airport di New York –, incontri la riflessione degli architetti a proposito di hypersurfaced artifact. Cfr. Andrew Payne, Surfacing the New Sensorium, in «PRAXIS: Journal of Writing + Building», 2007, no. 9, pp. 5-13.
  18. Una rara intervista all’artista appare sul magazine della casa di produzione The Vinyl Factory con cui Ikeda collabora. Henry Bruce-Jones, Ryoji Ikeda Presents: Point of no return, in «FACT MAG», [ultimo accesso 20.IV.2022].
  19. Marco Mancuso, che da anni si occupa di New Media Art e ne segue tutte le evoluzioni e aggiornamenti tecnologici, mette in evidenza, citando Matt Woolman, il carattere formalista di molte esperienze di questo genere. Appare significativo il campo che Mancuso contribuisce a segnare ricostruendo esperienze artistiche che si servono della collaborazione di società tecnologiche, famosi laboratori come Google Creative Lab, oppure il MIT Senseable City Lab, in cui il gruppo fondato nel 2004 dall’architetto Carlo Ratti lavora nei termini del design avanzato all’interfaccia tra tecnologia, città e pubblico. Marco Mancuso, Arte, Tecnologia e Scienza. Le Art Industries e i nuovi paradigmi di produzione nella New Media Art contemporanea, Mimesis, Milano 2018, p. 99.
  20. Hito Steyerl, Detriti digitali, in Id., Duty Free Art. L’arte nell’epoca della guerra civile planetaria, trad. it., Johan & Levi Editore, Milano 2018, pp. 97-108.
  21. Marcella Lista, This is the future, 2019, in Hito Steyerl. I Will Survive, a cura di Florian Ebner, Susanne Gaensheimer et al., Spector book, Leipzig 2021, pp.116-117.
  22. Doris Krystof dà un interessante contributo critico all’installazione leggendola come momento cruciale nella produzione dell’artista e come esplicitazione di una «metamorfosi del film nello schermo trasparente» esito dell’indagine dell’artista sulle proprietà strutturali dei media e delle tecnologie avanzate. Doris Krystof, Smart screen, in Hito Steyerl. I Will Survive, cit., p. 105.
  23. Marianna Vecellio nel saggio pubblicato in occasione della mostra al Castello di Rivoli ricostruisce il portato simbolico e filosofico che costituisce il senso del progetto site-specific facendo riferimento al concetto di “distribuzione del sensibile” di Jacques Rancière citato dalla stessa artista nel saggio Documentary Uncertainty. Il filosofo ha sottolineato che nell’arte moderna si è venuto a separare il valore formale dal valore simbolico per cui il significato politico e sociale di un’opera non è nel contenuto ma piuttosto nei modi (della conoscenza, della politica e nelle gerarchie) che veicola al di là dei contenuti che comunica, e cioè, ogni oggetto estetico attiva la visibilità di certe categorie di pensiero e ne disabilita delle altre. Tale passaggio appare particolarmente efficace se si pensa alla domanda ricorrente che Hito Steyerl sollecita nel suo pubblico e che si addensa intorno alla questione della “verità delle immagini”. Maria Lind riconosce nella pratica documentaria di Hito Steyerl la condivisione profonda della teoria del filosofo: «A suo parere, la pratica documentaria sperimentale contemporanea non produce soltanto opere, ma anche collegamenti e connessioni tra lavoratori digitali dispersi». The Greenroom: Reconsidering the Documentary and Contemporary Art #1,  a cura di Maria Lind e Hito Steyerl, trad. it. in Hito Steyerl. The City of Broken Windows, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev e Marianna Vecellio, Skira editore, Milano 2018, p. 125.
  24. Ayham Ghraowi, Dance Dance Rebellion, in Hito Steyerl. I Will Survive, cit., pp. 6-17.
  25. Hito Steyerl, In Defence of the Poor Image, in «e-flux», #10, November 2009, [ultimo accesso 20.IV.2022]
  26. Nel 2015 Artforum commissiona e pubblica una conversazione tra l’artista e Laura Poitras regista del film Citizenfour premiato agli Academy Award come Miglior documentario, che documenta la storia di Edward Snowden e lo scandalo sull’uso delle informazioni sensibili. Non solo Hito Steyerl solleva già nel 2013, in particolare nell’opera How Not to Be Seen. A Fucking Didactic Educational.MOV File, questioni legate alla sorveglianza, ma poi ritorna sulla questione dell’informazione e del controllo dei Big Data, con riferimento esplicito a Snowden nel saggio Un mare di dati: apofenia e (non) riconoscimento di pattern. L’artista con svariati esempi racconta un uso assolutamente distante dall’idea di precisione e affidabilità che abbiamo dei sistemi di gestione e controllo dei dati. A dispetto dei processi di controllo e sorveglianza, estrazione forzata di dati, a cui siamo sottoposti, Steyerl parla di apofenia di dati «e cioè la percezione di forme a partire da dati casuali», un neolitico di dati in cui vi sono – scrive – «per lo più proiezioni probabilistiche, i decisori di ogni sorta hanno invece tutto l’interesse a ignorare questo messaggio che invita alla cautela». Hito Steyerl, Duty Free Art. L’arte nell’epoca della guerra civile planetaria, cit., pp. 51-64.
  27. Nel 2009 presso il Berliner Kunstverein Hito Steyerl partecipa alla tavola rotonda Is a Museum a Factor? con Sabine Breitwieser, Thomas Elsaesser e Rebhandl; successivamente il suo intervento è stato pubblicato sulla rivista digitale e-flux. Hito Steyerl, Is the Museum a Factory, in «e-flux», Journal #07-June 2009, [ultimo accesso 20.IV.2022]. La stessa artista nell’opera-lezione Is the Museum a Battlefield? (2013) discute del ruolo del museo nella condizione sociopolitica attuale in cui il dominio dell’economia e una cultura militare permeano le istituzioni pubbliche.
  28. Tony Bennet,The birth of the museum. History, theory, politics, Routledge, London-New York 1995.
Author

Maria Giovanna Mancini è Ricercatore di tipo b, ssd L-ART 03 e insegna Storia dell’arte contemporanea all’Università di Bari. Ha ottenuto il titolo di dottore di ricerca all’Università degli studi di Salerno con un progetto volto a ricostruire la svolta post-strutturalista della critica d’arte animata dalla rivista October (monografia pubblicata da Luciano editore 2014). Dal 2016 al 2019 è stata assegnista di ricerca presso l’Università di Salerno con un progetto sulla Storia dell’arte globale. Più di recente si è occupata dei metodi della storia dell’arte in relazione ai Big Data e ai grandi archivi interoperabili. Suoi articoli sono stati pubblicati, tra le altre, sulle riviste Elephant & Castle and Annali di critica d’arte. Ha collaborato alla rubrica Critics’ Picks di Artforum, con Flash Art ed altre riviste. È membro della Società Italiana di Storia della Critica d’Arte (SISCA) e nell’ottobre 2018 ha ottenuto l’abilitazione scientifica nazionale per il settore 10/B1 alla funzione di professore di II fascia. È membro del board del Forum dell’arte contemporanea italiana.