Traduzione dal portoghese di Cristina Grazioli
In questo articolo si analizza l’esperienza del Teatro Oficina come spazio ecologico e illuminato, connotato da un’atmosfera di magia, un teatro-strada stretto e allungato che consente alla luce della città di entrare grazie ad un’ampia parete di vetro che occupa uno dei lati longitudinali, e il cui palcoscenico è una “strada” che nell’idea di Bo Bardi intendeva collegare due importanti arterie del quartiere Bixiga a São Paulo. Una grande scatola scenica che comprende la totalità dello spazio, in cui attori, spettatori e tecnici durante gli spettacoli sono a diretto contatto. Nel progetto degli architetti Lina Bo Bardi ed Edson Elito, la muratura spessa e pesante in mattoni pieni racchiude la nozione di Tea-to o "arte che abbraccia lo spettatore", secondo la concezione del celebre regista teatrale brasiliano Zé Celso, direttore del Grupo Oficina dal 1958. Rifletteremo su come lo spazio di questo teatro sia simbolo dell'esistenza, della stessa presenza umana, ed emani significati molteplici attraverso la sua luce naturale e l'atmosfera che metaforicamente e concretamente espandono lo spazio scenico in tutto il quartiere di Bixiga.
Introduzione
Questa riflessione intende esaminare il Teatro Oficina di São Paulo come uno spazio ecologico e illuminato, connotato da un’atmosfera di magia, un “teatro-strada” (“teatro-rua“), stretto e allungato che permette alla luce della città di entrare attraverso un’ampia parete di vetro laterale, e il cui spazio scenico è una vera e propria “strada”. Se per Patrice Pavis, «lo spazio scenico è lo spazio concretamente percepibile dal pubblico sul palcoscenico, o sui palcoscenici, o anche i frammenti di scena di tutte le scenografie immaginabili»1, per Jean-Jacques Roubine si tratta di uno spazio immaginario2. Basandosi sul concetto di Roubine, il teorico brasiliano Eduardo Tudella intende la scena come «un percorso di immagini cinetiche, dove si fa in modo che la comprensione dell’immagine mentale, verbale e fisica si attivi in scena solo in presenza dell’altro, dello spettatore, responsabile del carattere infinitamente mutevole in cui la scena si trasmuta»3. Seguendo questi concetti, abbiamo cercato di analizzare la luce, lo spazio e l’atmosfera di questo teatro singolare, considerando la fenomenologia e l’antropologia dello spazio concepite rispettivamente da Norberg-Schulz4 e da Marc Augé5.
Ispirandosi alla filosofia greco-romana per riflettere sul concetto di luogo, l’architetto Christian Norberg-Schulz sostiene che, così come nell’antichità classica si attribuivano divinità specifiche ad ogni popolo e ad ogni località, esiste una divinità che simboleggia lo “spirito del luogo”, che dota il luogo di personalità e protegge le persone che lo abitano. Questa divinità è il “genius loci”. Per Norberg-Schulz il luogo è qualcosa di più di una posizione geografica, cioè è più di un semplice spazio. «Il luogo è la manifestazione concreta dell’abitare umano»6. Il mondo come “luogo” è un mondo in cui gli elementi ridefiniscono il significato dello spazio, e ci sono cinque modi per comprendere un luogo, sia esso naturale o costruito: da un lato gli elementi e l’ordine cosmico – forniti dall’elemento spazio, cioè la terra; dall’altro il carattere, la luce e il tempo – forniti dall’elemento carattere, cioè il cielo7. Tali elementi devono essere analizzati sulla scorta della fenomenologia.
A supporto dell’analisi fenomenologica si fa ricorso a Marc Augé, che nella contemporaneità differenzia il “luogo antropologico” dal “non luogo”, contrapponendo le interazioni sociali che si praticano nei non luoghi, che egli definisce relazioni di solitudine, e quelle che si praticano nei luoghi antropologici, che sono le relazioni di socialità8. In questa mia riflessione definisco lo spazio del Teatro Oficina un luogo antropologico, considerando la possibilità dei molteplici percorsi che vi si possono fare, dei tanti discorsi che vi si pronunciano e del linguaggio che lo caratterizza, così come definito da Augé9. Per l’antropologo francese «il luogo è necessariamente [storico] dal momento in cui, coniugando identità e relazione, esso si definisce a partire da una stabilità minima»10. E il Teatro Oficina è davvero un luogo, con identità e stabilità.
Costruito negli anni Venti, l’antico Teatro Novos Comediantes [Il Teatro dei Nuovi attori] era attivo in un edificio in via Jaceguai, 520 e fu preso in affitto nel 1958 da un gruppo di studenti di giurisprudenza, tra i quali José Celso Martinez Corrêa (Zé Celso) e Renato Borghi, che vi fondarono una compagnia teatrale. Per adattare lo spazio alla concezione teatrale del nuovo gruppo, si realizzò una ristrutturazione progettata dall’architetto Joaquim Guedes, che creò un teatro dallo spazio simmetrico, con due zone frontali per gli spettatori, separati da un palcoscenico centrale. L’esito di questo progetto durò fino all’incendio che lo distrusse completamente nel 196611. Intellettuali e artisti si misero alla ricerca di risorse per la sua ricostruzione. Nel 1967 gli architetti Flavio Império e Rodrigo Lefèvre progettano un’ampia gradinata in cemento con accessi laterali a mezzo piano e un palcoscenico all’italiana, con una zona circolare centrale che viene messa in movimento da un meccanismo girevole, ispirato al Totaltheater di Walter Gropius. Nel 1983, dichiarato patrimonio culturale da CONDEPHAAT (Conselho de Defesa do Patrimônio histórico arqueológico artístico e turístico) per l’importanza dell’uso architettonico nel processo di trasformazione del teatro brasiliano, l’edificio è stato espropriato dal governo nazionale; Lina Bo Bardi e Marcelo Suzuki avanzarono una prima proposta per una nuova ristrutturazione. Tuttavia questo primo progetto non ebbe seguito.
Studiando l’area e la popolazione del quartiere di Bexiga, un quartiere afro-italiano ricco di diversità culturali, e condividendo le proposte del regista José Celso, l’architetto Lina Bo Bardi avviò un nuovo progetto architettonico nello spazio del Teatro Oficina, con il gruppo teatrale Uzyna Uzona. In collaborazione con l’architetto Edson Elito, Lina sviluppò una nuova architettura per quello stesso teatro. Proprio come avrebbe in seguito concepito il progetto per il Teatro Gregório de Mattos di Salvador, lo spazio scenico prevede una flessibilità che riguarda sia la zona per gli spettatori che il palcoscenico, offrendo molteplici possibilità di messe in scena contemporanee. Per l’architetto, la proposta «riflette la concezione del teatro moderno, il teatro totale degli anni Venti, di Artaud. Un teatro nudo, senza palcoscenico, praticamente solo un luogo di azione, un’entità comunitaria, come lo spazio di una chiesa»12. Riferendosi all’inizio della costruzione del Teatro Oficina Uzyna Ozona, José Celso ricorda che l’obiettivo era quello di ricostruire tutto a vista, alla maniera brechtiana. Lo riferisce Edson Elito:
Quando abbiamo avviato il progetto e durante tutta la sua concezione, Lina e io abbiamo cercato di concretizzare le proposte sceniche e spaziali di Zé Celso. C’è stato un sano e talvolta complesso processo di integrazione delle differenze culturali ed estetiche: da un lato noi architetti e la nostra formazione modernista, i concetti di pulizia formale, la purezza degli elementi, il principio ‘less is more’, il razionalismo costruttivo, l’ascetismo; e dall’altro il teatro di Zé Celso, con il carico simbolico, l’iconoclastia, il barocco, l’antropofagia, i sensi, l’emozione e il desiderio di contatto fisico tra attori e spettatori, il “te-ato”13.
Bo Bardi ed Elito hanno progettato l’Oficina come una strada, partendo da via Jaceguai, aprendo il muro a nord, verso via Japurá, ma questa apertura non fu realizzata. Possiamo considerare il teatro come uno spazio ecologico e illuminato, connotato da un’atmosfera magica, perché, come afferma Cristina Grazioli, «la luce, in tutte le sue sfumature, temperature e cromie, determina le condizioni del nostro stare al mondo così come decide della qualità e del grado di condivisione o separazione tra le presenze negli spazi del teatro (in tutte le sue forme e tipologie)»14. L’intero teatro è un grande palcoscenico, in cui attori, spettatori e tecnici sono a diretto contatto. La muratura in mattoni spessi e pesanti ospita la concezione di Tea-to o ‘arte che abbraccia lo spettatore’, concetto formulato da Zé Celso e così ben interpretato dall’architetto15.
La ragione principale di questa ‘strada’ centrale è l’ingresso all’interno dello spazio dell’aria, della ventilazione, dell’energia eolica, in un approccio ecologico e antropologico, in cui lo spazio è supporto della vita della comunità, e stabilisce relazioni fondamentali tra attori, spettatori e tecnici. Questo rapporto costituisce un’identità e il teatro è il luogo di rappresentazione di questa identità. Per Augé uno spazio complesso e allo stesso tempo identitario, relazionale e storico deve essere un luogo di condivisione, rifugio e reiterazione rituale, caratteristiche che esistono nel Teatro Oficina16. Il confronto nel passaggio da uno spazio esterno a uno spazio interno è costitutivo nella concezione e nell’operazione di manipolazione dello spazio, ed è la più importante attività umana, «fin dai tempi preistorici, quando la società non esisteva nemmeno»17. Condividiamo la convinzione del teorico Eduardo Tudella18, e cioè che gli architetti hanno considerato la nozione di “sensibilità”, stabilendo una corrispondenza tra il “luogo”, tutti gli esseri animati e la loro capacità di interagire con il “sensibile”.
Per una fenomenologia e un’antropologia dello spazio
Nel Teatro Oficina, ricostruito e inaugurato nel 1993, ha prevalso la concezione di uno spazio scenico unitario, basato sui concetti di “strada” e “passaggio”. Per indagare le relazioni tra l’architettura teatrale di Lina Bo Bardi e il contesto urbano, si è fatto ricorso alla già citata nozione di genius loci, concetto greco-romano secondo cui ogni località possiede un genio, uno spirito custode. Soprattutto nell’antichità classica, gli individui riconoscevano l’importanza che rivestiva l’essere in armonia con il genio del luogo in cui vivevano19. Lina Bo Bardi ha capito perfettamente come contestualizzare un uso funzionale del luogo, rendendolo simbolico sulla base del concetto di “spirito del luogo”20. Ciò implica una fenomenologia dello spazio: metodo che richiede un ritorno alle cose, in contrapposizione alle astrazioni e alle costruzioni mentali21.
Il critico Edson Mafuz osserva che nell’opera di Lina Bo Bardi l’«idea forte» appare come un catalizzatore per le interpretazioni e le scelte parziali prese riguardo agli aspetti fondamentali di qualsiasi progetto: il progetto, la costruzione e il luogo22. In teatro e in tutte le ristrutturazioni da lei realizzate in strutture preesistenti, l’architetto ha saputo creare lo “spirito del luogo” nel vero senso della parola, cioè un luogo vissuto, in cui ha concretizzato il genius loci. I suoi progetti hanno sempre implicato la rappresentazione simbolica dell’esistenza o della presenza umana, trasmettendo molteplici significati.
Oltre al focus sul luogo, la fenomenologia implica la tettonica, dato che, come scrive Norberg-Schulz, «il dettaglio spiega l’ambiente e manifesta la sua peculiare qualità»23, ma suscita anche un intenso interesse per le qualità sensoriali dei materiali, della luce, del colore, oltre che per l’importanza simbolica e tattile degli stessi dettagli. È, quindi, una scienza adeguata per indagare i progetti dell’architetto Bo Bardi, che, secondo la ricercatrice Olívia Oliveira, ha lavorato con «sostanze sottili dell’architettura, siano esse la luce, l’acqua, l’opera d’arte»24. Il progetto architettonico di Bo Bardi ed Elito ha come punto di partenza l’idea di strada e di passaggio, cercando di collegare le due strade di Bixiga25. Questa scelta progettuale permette un’esposizione pressoché a tempo pieno di attori e tecnici, e mostra un rapporto con lo spazio che rifiuta «l’eccessiva privatizzazione e la passività dei corpi: l’immersione nello spazio rende la visione di uno spettacolo del gruppo più un’azione che una contemplazione»26.
Luce, spazio e atmosfera
Come auspicava Brecht, anche il retroscena è visibile, rendendo parte integrante dello spettacolo tutti gli elementi esposti. Il pubblico del Teatro Oficina è chiamato a relazionarsi sempre con ciò che sta guardando e con gli eventi reali. I simboli di libertà dei quali è impregnata l’architettura di Lina consentono al gruppo la produzione di una messa in scena che è sempre in relazione diretta con il mondo reale. Con ciò, le loro creazioni assumono un’istanza di presentazione, come dice Zé Celso, perché la rappresentazione del reale non sembra più possibile per la Oficina Uzyna Uzona. Contemporaneamente, il Teatro Oficina permette la totale integrazione dello spettatore con la strada, sebbene egli si trovi in una struttura spaziale fissa. Ricorrendo allo spazio architettonico della navata di una chiesa, cioè uno spazio per le processioni, Bo Bardi dota il luogo di icone di uno spazio pubblico, dislocando lo spettatore dal teatro verso la strada stessa. L’ampia parete di vetro permette infatti a questo spettatore di assistere allo spettacolo nella sua costante articolazione con ciò che si trova all’esterno dell’edificio teatrale, con la realtà. Questa permeabilità tra spazio interno e spazio esterno corrisponde all’affermazione che Hans Thies-Lehmann farà in seguito, secondo cui «nel teatro post-drammatico lo spazio viene portato all’evidenza, tuttavia pensato come parte del mondo, che si mantiene entro il continuum del reale: un segmento spaziotemporale delimitato, ma allo stesso tempo parte in progressione e quindi frammento partecipe della realtà della vita»27.
All’interno, lo spettatore viene invitato a percorrere lo spazio del teatro durante lo spettacolo, suggerendo una ricezione della scena diversa da quella tradizionale, oltre che fornendo diversi punti di vista dello stesso accadere. Come sottolinea Cristina Grazioli, «l’interrogazione sulla natura e sulle manifestazioni della luce si pone inscindibilmente insieme alla questione stessa delle possibilità del vedere, della scelta di un’angolazione del visibile, del nascondere, del rivelare o suggerire, dell’evocare e dello smascherare. Visione e sguardo non ne possono prescindere»28. Nel caso del Teatro Oficina, l’enorme vetrata lascia entrare la luce naturale che inonda gran parte della passerella-palcoscenico nella sua estensione. L’ambiente magico del teatro permette anche l’utilizzo della luce naturale negli spettacoli, persino senza l’intervento di un professionista dell’illuminazione scenica, e senza l’articolazione di una concezione luministica. Ma la luce naturale che entra attraverso l’ampia parete di vetro si può altresì sfruttare facendone un elemento costitutivo del fare teatrale. Offre anche la possibilità di manipolare le modalità secondo le quali questa luce naturale interagisce con la scena, tramite l’uso di filtri e di altri materiali29.
Vale la pena ricordare la testimonianza di Alessandra Rodrigues, light designer che ha lavorato con Cibele Forjaz e che così ha descritto l’uso della luce naturale in un lavoro nel quale ha creato l’illuminazione scenica, la commedia Cacilda!, in scena al Teatro Oficina:
Ho iniziato a creare le luci [‘iluminar’] al Teatro Oficina, uno spazio che ha un’immensa apertura in vetro e un tetto retrattile, cioè uno spazio che dialoga sempre con la luce naturale di una città come San Paolo. Anche la luce della sera invadeva il teatro. Una delle cose che mi piaceva di più era replicare Cacilda! di domenica, perché iniziava alle 18.00 e vi entrava quindi la luce del giorno. Con l’ora legale era ancora più bello. La prima parte dell’opera è più biografica, con scene dell’infanzia, dell’adolescenza e dell’inizio della vita adulta. Uno spazio maggiormente illuminato era dunque molto adeguato30.
Descrivendo il suo processo di lavoro, l’artista rivela l’importanza di verificare altre fonti di luce, oltre a quelle abituali, sottolineando che i suoi progetti partono dallo spazio concreto, dall’architettura e dai suoi aspetti fisici; sono questi a stimolare l’immaginazione. Come ricorda Tudella, quando inizia ad affrontare una proposta di illuminazione scenica l’artista deve indagare principalmente le questioni di forma, colore e struttura del luogo scenico31. Nell’ultima ristrutturazione del Teatro Oficina spiccano la luce naturale e l’atmosfera che essa crea, ma anche i contrasti tra i vecchi muri di mattoni a vista con archi, la presenza di impalcature dalle strutture tubolari, il soffitto retrattile, il palco-passerella realizzato con assi di legno, e il contrasto con la leggerezza dell’enorme parete di vetro.
Al Teatro Oficina si percepisce tale singolarità dell’architettura, che permette allo spettatore la libertà di scegliere di spostarsi durante gli spettacoli. Inoltre, l’architetto decontestualizza le cose portandole fuori dal loro luogo consueto, generando riletture a partire da elementi presenti nella vita. Questa architettura assimila elementi di vita quotidiana e usi popolari che facilitano la consapevolezza della propria percezione dello spazio. Dando priorità alle esigenze emotive dell’individuo, l’architetto infrange i confini tra immaginazione e ragione, come implicato dalla concezione del regista teatrale José Celso, che stimola anche la partecipazione attiva del fruitore nell’opera, così come le relazioni tra mente e corpo. I materiali e le diverse strutture producono magici effetti di luce e ombra quando li colpisce la luce naturale che entra attraverso la grande parete di vetro della facciata nord. Durante gli spettacoli, le scene si svolgono in diversi spazi del teatro: sul palcoscenico, nelle strutture metalliche che sostengono le tre impalcature laterali, nei piani situati nella parte superiore dell’edificio, nelle estremità del palcoscenico, nei trapezi o corde che scendono dal soffitto − per citare solo alcune delle possibilità − permettendo diversi punti di vista sia agli spettatori che agli attori.
Questa idea di far fluire lo sguardo verso il paesaggio era già presente in numerose opere di Lina Bo Bardi, sia tramite grandi superfici in vetro, come nella propria residenza, la Casa de Vidro (Casa di Vetro) di Morumbi, che, in dimensioni ridotte, nei buracos da caverna, “buchi di grotta”, che utilizzò nel quartiere sportivo del SESC Pompéia e che lei stessa descrisse come “buchi preistorici” aperti nella parete della «caverna sportiva», tutta in cemento con piccole aperture irregolari come finestre. La sua etica architettonica in relazione all’ambiente e all’ecologia è evidente non solo negli spazi che ha creato, ma anche nelle sue parole, quando mette in contrapposizione il rispetto per la natura nelle culture orientali e il progresso a qualsiasi costo che distrugge l’ambiente nei paesi occidentali:
Ciò che gli uomini hanno conquistato nel corso del tempo è il progresso; la civiltà è sopravvissuta sotto minaccia. La civiltà è l’incessante presenza della Realtà Naturale, l’attenzione, il rispetto dei più piccoli dettagli naturali – e in questo senso è primordiale – dell’essere umano. […] Ciò che l’Occidente ha fatto, fino a oggi, è separare rigorosamente il Progresso dalla Civiltà, cosa che non avviene in Oriente. Il Giappone custodisce ferocemente la sua civiltà profondamente legata all’osservazione rispettosa della natura parallelamente all’incedere del “progresso”. […] Chi attraversa le Americhe verso l’Estremo Oriente sente nei grandi orizzonti, nella calma della Natura, […] che l’opzione del progresso adottata in Occidente non era necessariamente l’unica, sente che altre opzioni avrebbero potuto essere scelte con gli stessi risultati. L’opzione scelta dall’Occidente ha dato risultati potenti, ma il costo è stato enorme32.
In linea con le sue convinzioni marxiste, Bo Bardi si opponeva alla massificazione prodotta dalla società dei consumi e valorizzava ciò che emanava dalle radici culturali di un popolo. Gli studi antropologici che l’architetto ha condotto nel Nordest del Brasile le hanno permesso di esplorare una nuova poetica dello spazio in cui la dimensione ‘surreale’ è stata ottenuta attraverso un elementare ed essenziale coinvolgimento del pubblico, a partire dall’esplorazione dell’inconscio e dall’uso in tal senso di elementi di artigianato locale. Come anticipato, attraverso la propria immaginazione e gli elementi a sua disposizione, individuati nell’arte popolare, l’architetto critica la società sempre più impregnata del vizio del consumismo33.
Nel progetto con Edson Elito, Bo Bardi ha fatto entrare il paesaggio esterno nel teatro-corridoio dell’Oficina, come se fosse un’estensione dello spazio interiore profondo. Come se il linguaggio di questo spazio teatrale fosse trasparente e vero, come se non volesse nascondere nulla a chi lo frequenta. La sua proposta conteneva la possibilità futura della creazione di un teatro-stadio, simile ad un’agorà greca, dove tutti gli individui si sarebbero potuti esprimere nella piazza pubblica.
La ristrutturazione del teatro comportò la demolizione di tutti i muri interni dell’edificio, utilizzando elementi di cemento per sostenere e rinforzare le alte pareti di mattoni, nelle quali rimangono gli archi pieni che costituiscono la struttura muraria del vecchio edificio degli anni Venti. Componenti di metallo sostengono la nuova copertura del tetto così come i mezzanini (mezzaninos) sovrapposti sul fondo. Metallica è anche la struttura che garantisce la stabilità delle gallerie laterali per mezzo di tubi smontabili. Una volta (abóbada) d’acciaio scorrevole è stata progettata sopra la struttura metallica, che permette la comunicazione con un’area verde. Una striscia di terra coperta da assi di legno laminato costituisce la zona del “palco-passerella”, dando la sensazione di una “strada” e del “passaggio”; e a metà percorso tra l’accesso e il fondo del terreno, gli architetti hanno progettato una cachoeira (cascata), composta da sette tubi a vista che scorrono in uno specchio acqueo, riempito grazie ad un meccanismo di ricircolo dell’acqua. Vale la pena ricordare che l’acqua è un elemento ampiamente utilizzato nelle architetture di Lina, forse riferendosi agli orixás del candomblé, come afferma l’etnografo Pierre Verger, che l’architetto aveva incontrato a Bahia.
Nell’architettura di questo teatro si riflettono la vegetazione lussureggiante del nostro paese, l’aria, la luce, i suoni che rappresentano la natura, il mondo naturale che lei tanto ammirava nell’opera dell’architetto catalano Antoni Gaudi34. Bo Bardi applica anche la concezione elaborata da Teixeira Coelho, che, come gli orientali, comprende che «quella manciata di ghiaia, le due o tre pietre del suo giardino e questa o quella pianta non sono “campioni” di natura (cioè riduzioni in scala del naturale) con i quali cercano in qualche modo di consolarsi, ma sono piuttosto la natura stessa, capaci di trasmettere tutte le sensazioni delle quali si sente il bisogno nella relazione con lo spazio naturale»35.
Secondo Bo Bardi, «dal punto di vista dell’architettura, l’Oficina renderà l’autentico significato del teatro – la sua struttura fisica e tattile, la sua non-astrazione – ciò che lo differenzia profondamente dal cinema e dalla TV, consentendo allo stesso tempo la possibilità di sfruttare pienamente questi mezzi [all’interno del linguaggio scenico]»36. Il progetto da lei concepito è brechtiano e non illusionistico, rivelando al pubblico tutte le risorse tecniche a disposizione per la messa in scena. Riteniamo che l’ubicazione delle apparecchiature di illuminazione di scena, delle apparecchiature audio, dei controlli elettronici sullo sfondo della ‘scena’ in uno dei livelli del mezzanino siano debitori della profonda conoscenza delle teorie di Artaud. Allo stesso tempo, si è prevista la possibilità di proiettare e diffondere in tutto lo spazio del teatro immagini video, nella volontà di consentire azioni simultanee in diversi luoghi dello spazio scenico. Sia Artaud che Brecht – nelle loro convinzioni pur molto diverse – volevano che il pubblico partecipasse alla vita presentata in scena37. Si è detto che lo spazio dell’Oficina permette allo spettatore la libertà di spostarsi durante gli spettacoli e che, nello stesso senso, la decontestualizzazione di elementi consueti genera riletture del quotidiano. Ogni elemento consente di notare come Bo Bardi ed Elito abbiano creato un ambiente giocoso e stimolante per favorire l’interazione del pubblico con gli attori.
Nell’analizzare lo spazio scenico del Teatro Oficina ci si rende conto che l’atmosfera è stata concepita a partire da un’immagine dello spazio scenico. Roubine afferma che [a partire dal teatro del Simbolismo] «le persone diventano consapevoli che ciò che lo spazio scenico ci fa vedere è un’immagine […]. Si scopre che questa immagine può essere composta con la stessa modalità artistica di un dipinto, cioè la preoccupazione dominante non è più la fedeltà alla realtà, ma l’organizzazione delle forme, la relazione reciproca dei colori, il gioco dei pieni e dei vuoti, delle ombre e delle luci»38. Figlia del pittore Enrico Bo ed essendo lei stessa un’artista visiva, autrice di innumerevoli acquerelli e disegni, Lina Bo Bardi ha impresso nell’atmosfera che ha creato per Teatro Oficina un’immagine giocosa e densa di significati.
Le impalcature d’acciaio che fungono da gallerie laterali denotano il concetto secondo cui il teatro è un’opera in fieri, effimera e in costruzione, proprio come lo spettacolo che fu messo in scena nel 1972 con Zé Celso, Gracias Señor. La passerella lungo tutta la lunghezza dell’edificio scardina il rapporto frontale implicato dal palcoscenico all’italiana e l’enorme vetrata lascia entrare all’interno del teatro la luce e la città stessa, permettendo che l’illuminazione sia naturale negli spettacoli diurni. Il tutto pensato per valorizzare i corpi in azione nella concezione spaziale di Bo Bardi ed Elito.
Trasparenza, acqua, vetro, natura: alcune considerazioni
Come ricorda Olivia de Oiveira, «oltre che degli spazi, Lina ha una percezione sensibile e approfondita dell’architettura e dei materiali che “vivono e vibrano” nello spazio, ma anche di altre sostanze più sottili – l’aria, la luce, la natura dei colori nei materiali utilizzati»39.
Si vede come la concezione dello spazio nel Teatro Oficina non riguardi solo l’architettura, in virtù della vita che si sviluppa in esso, con particolare attenzione all’aria, alla luce e al tempo, senza dimenticare che Bo Bardi nelle sue opere usa anche l’elemento acqua come associazione di purezza e vita; nel Teatro Oficina non è diverso. All’interno del teatro sono stati introdotti vegetazione, luce e suoni del mondo naturale, incluso un enorme albero accanto alla vasta apertura di vetro, simbolo della religione africana del Candomblé. Come si è detto, lungo la passerella del palcoscenico, a metà strada circa tra l’ingresso e la parete retrostante del teatro è stata progettata una cascata meccanica composta da sette tubi e un piccolo specchio d’acqua, con riferimento agli Orixás della religione africana, seguita da numerosi brasiliani40. L’appropriazione delle pratiche quotidiane è una costante nelle opere di Bo Bardi e lascia aperte diverse interpretazioni.
Oliveira afferma che gli edifici di Bo Bardi sono come macchine del tempo: si muovono solo quando qualcuno sollecita lo spazio, in altre parole, «quando qualcuno li esplora, li invade, li penetra, li attraversa e, nel loro camminare, inventa il luogo»41. E, nell’atmosfera giocosa e insolita concepita da questi architetti, l’illuminazione scenica può creare grande impatto e produrre immagini sensibili.
Permettendo allo spettatore una visione simultanea dello spettacolo e della città, il vetro della parete del teatro che si affaccia su parte di una delle tribune rivela il viadotto del Minhocão, provocando nello spettatore la sensazione di essere fuori dallo spazio del teatro, pur rimanendo al suo interno. Pertanto, lo spazio dell’Oficina si oppone al tradizionale spazio drammatico, caratterizzato dalla funzione metaforica. L’architetto induce lo spettatore a interagire contemporaneamente con la realtà urbana e con la scena attraverso la parete di vetro. Questa epidermide cristallina permette alla città di penetrare nel teatro, avvicinando quest’ultimo allo spazio quotidiano.
In tal senso, lo spettatore non può dimenticare che sta assistendo ad un evento fittizio, in virtù di un’architettura che distrugge l’illusione della realtà, sottolineando che lo spettacolo che egli sta guardando lo integra con il mondo che sta fuori. Lo spazio simile a una strada e le tribune laterali fanno riferimento al Sambódromo progettato a Rio de Janeiro da Oscar Niemeyer – con la sua forma “di passaggio” longitudinale, mettendo in evidenza alcuni dei canoni della cultura brasiliana: la parata, le processioni e le sfilate, riti che hanno permeato la vita urbana in Brasile fin dai tempi coloniali. La permanenza della vecchia facciata è certamente dovuta all’intenzione di invitare lo spettatore a solcare un vero e proprio rito di passaggio quando attraversa la strada per entrare nel magico interno.
Il progetto per il Teatro Oficina avrebbe dovuto letteralmente spazzare via i muri sul fondo posteriore dell’edificio, sfociando in una piazza pubblica che lo avrebbe collegato all’altro lato della strada, alla valle di Anhangabaú. L’idea era di creare un percorso di passaggio principale considerando la predominanza di vicoli nel quartiere di Bexiga, uno dei più antichi della città di San Paolo. Bo Bardi cerca di integrare questo piccolo teatro alla scala, alle caratteristiche e alla diversità di quel quartiere operaio. La sua intenzione per il futuro sarebbe stata di espandere il teatro a tutto l’isolato. Prevedeva l’abbattimento della parete di fondo così come quello dell’area vetrata, perché intravedeva un’esperienza inedita nel progetto, che si sarebbe integrato nella forma di un teatro-stadio pubblico. Credeva nella trasformazione di un mondo in cui l’essere umano agisce storicamente in modo non lineare e con continue possibilità di cambiamento, nella prospettiva di accrescere sempre più la partecipazione delle classi lavoratrici.
Molto ben contestualizzato nell’ambiente circostante, l’edificio teatrale, inserito in un’area aperta accanto a un terreno esteso, incorpora l’albero secolare che può essere contemplato dall’apertura dell’enorme parete di vetro sul fianco laterale. La sua insolita architettura con un teatro-strada e impalcature è trasgressiva e inedita, mettendo in atto un’intensa partecipazione condivisa tra attori e spettatori. La gigantesca cortina di vetro permette alla città di entrare a teatro e al teatro di espandersi nella città. Inoltre, la sua atmosfera magica e illuminata ha proposto, dal 1993, spettacoli emblematici nella storia del teatro brasiliano.
- Patrice Pavis, Espace scénique, in Dictionnaire du théâtre, Dunod, Paris 1996, p. 121. ↩
- Cfr. Jean-Jacques Roubine, Théatre et mise en scène 1880-1980, Presses Universitaires de France, Paris 1980, pp. 30-31; trad. portoghese di Ian Michalski A linguagem da encenação teatral 1880-1980, Zahar Editores, Rio de Janeiro 1998, p. 32. ↩
- Eduardo Augusto da Silva Tudella, Iluminação cênica e estudos acadêmicos: teoria, práxis e imagem, in «Urdimento», v. 1, n. 31, Abril 2018, pp. 78-94: 93 ↩
- Christian Norberg-Schulz, O fenômeno do lugar, in Kate Nesbitt (ed.), Uma nova agenda para a arquitetura. Antologia teórica (1965-1995), Cosac Naify, São Paulo 2006, pp. 444-461. ↩
- Marc Augé, Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, Éditions du Seuil, Paris 1992 (Non-luoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, trad. di Dominique Rolland, Carlo Milani, Eléuthera, Milano 2009); Não-Lugares. Introdução a uma antropologia da sobremodernidade, Editora Letra Livre, Lisboa 2012. ↩
- Christian Norberg-Schulz, O fenômeno do lugar, cit., p. 454. ↩
- Ibidem. ↩
- Marc Augé discute la questione nel capitolo Le lieu anthropologique, in Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, cit., pp. 57-95; Il luogo antropológico in Non-luoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, cit., pp. 43-69. ↩
- Marc Augé, Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, cit., pp. 100-101; Non-luoghi […], pp. 73-74. ↩
- Ivi, p. 71; ed. It. p. 53. ↩
- Cfr. Lina Bo Bardi, Edson Elito & Jose Celso Martinez Corrêa, Teatro Oficina, Blau, Lisboa 1999, p. 5. ↩
- Ivi, p. 6. ↩
- Ibidem. ↩
- Cristina Grazioli, dal progetto inviato per questo numero di Sciami|ricerche, luglio 2020. ↩
- All’epoca della concezione dell’edificio teatrale del Grupo Oficina, José Celso elaborò il concetto di te-ato la cui istanza era una interazione totale tra spettatori e scena. ↩
- Cfr. Marc Augé, Non-lieux. Introduction à une anthropologie de la surmodernité, cit., p. 69; Nonluoghi […], p. 52. ↩
- José Teixeira Coelho Netto, A construção do sentido na arquitetura, Perspectiva, São Paulo 1984, p. 30. ↩
- Eduardo Augusto da Silva Tudella, Iluminação cênica e estudos acadêmicos: teoria, práxis e imagem, cit., p. 82. ↩
- Christian Norberg-Schulz, O fenômeno do lugar, cit., p. 454. ↩
- Nella concezione di Aristotele (ma anche di Heidegger), oltre al suo attributo di essere spazio chiuso o finito, il “luogo” ha l’importante ruolo simbolico e politico di rappresentare la struttura delle relazioni sociali, o la res publica. ↩
- Christian Norberg-Schulz, O fenômeno do lugar, cit., 2006, p. 444-461, p. 454. ↩
- Cfr. Edson Mafuz, Traços de uma arquitetura consistente, in «Arquitextos», n. 16, São Paulo setembro 2001. ↩
- Christian Norberg-Schulz, O fenômeno do lugar, cit., p. 443. ↩
- Olívia Oliveira, Sutis substâncias de arquitetura, Romano Guerra, São Paulo / Gustavo Gili, Barcelona 2006, pp. 283-289. ↩
- Evelyn Furquim Werneck Lima, Factory, Street and Theatre: Two theatres by Lina Bo Bardi in Andrew Filmer, Juliet Rufford (ed.), Performing Architectures. Projects, Practices, Pedagogies, 1st ed. Bloomsbury Methuen, London 2018, vol. 1, pp. 35-48. ↩
- Maria Angélica R. de Sousa, Quando corpos se fazem arte: uma etnografia sobre o Teatro Oficina, Dissertação de Mestrado/UFSCar, [São Carlos] 2013, p. 24. ↩
- Hans-Thies Lehmann, Postdramatisches Theater, Verlag der Autoren, Frankfurt am Main 1999, p. 288 [trad. nostra]; cfr. Il teatro post-drammatico, trad. di Sonia Antinori, Cue Press, Imola 2019, p. 174; Hans-Thies Lehmann. Teatro pós-dramático, trad. Pedro Süssekind. Cosac Naify, São Paulo 2007, p. 268. ↩
- Cristina Grazioli, Inspirar luz, animar figuras/Insufflare luce, animare figure, Urdimento, Florianópolis, vol. 1, n. 37, pp. 54-84, mar/abr 2020, p. 56. ↩
- Cfr. Guilherme Bonfanti, A Luz Natural e o Teatro. ↩
- Dichiarazione di Alessandra Domingues apud Guilherme Bonfanti. A Luz Natural e o Teatro, ibidem. ↩
- Eduardo Augusto da Silva Tudella, Iluminação cênica e estudos acadêmicos, cit., p. 86. ↩
- Lina Bo Bardi, apud Marcelo Ferraz, Lina Bo Bardi, Instituto Lina Bo e Pietro Maria Bardi, São Paulo 1993, p. 209. ↩
- Cfr. Evelyn Furquim Werner Lima, Estudo das relações simbólicas entre os espaços teatrais e os contextos urbanos e sociais com base em documentos gráficos de Lina Bo Bardi, Junho 2009. ↩
- La relazione dell’opera di Bo Bardi con l’opera di Gaudi è esplicitata dalla stessa architetta, colpita dalle forme naturali utilizzate in modo espressionistico. ↩
- José Teixeira Coelho Netto, A construção do sentido na arquitetura, cit., p. 57. ↩
- Lina Bo Bardi, Edson Elito & Jose Celso Martinez Corrêa, Teatro Oficina, cit., p. 3. ↩
- Cfr. Evelyn Furquim Werneck Lima, Factory, Street and Theatre, cit. ↩
- Jean-Jacques Roubine, Théatre et mise en scène 1880-1980, cit., p. 30. ↩
- Olivia de Oliveira, Sutis substâncias de arquitetura, cit., p. 73. ↩
- Descrivendo le cerimonie in omaggio a Xangô celebrate da determinate società in città africane, Pierre Verger riferisce di una processione verso il torrente sacro, dove si manifesta lo spirito della virilità e della giocosità di Xangô; Verger citato in Oliveira, Sutis substâncias de arquitetura, cit., p. 172. Si capisce che la cascata e la vasca del teatro Oficina possono essere stati pensati in relazione agli omaggi a Xangô. ↩
- Olivia de Oliveira, Sutis substâncias de arquitetura, cit., p. 172. ↩