a cura di Dalila D'Amico
ALDES, sotto la direzione di Roberto Castello, ha “scannerizzato” nell’arco di oltre un ventennio un’umanità brutale e venale che si nutre dell’eccesso per far saltare ad uno ad uno miti e cliché dell’ideologia contemporanea. Idiosincrasia, lussuria, debolezza, spazio, tempo, economia, diventano nelle coreografie della compagnia escrescenze del corpo, oggetto ultimo di ogni scrittura. Il corpo negli spettacoli di ALDES si riversa sulla scena non solo come figura plastica, ma anche come attestazione di una soggettività fortemente legata alle coordinate spazio-temporali che lo spettatore condivide. La danza di ALDES si manifesta nelle gestualità brusche, nei respiri affannati, passa per le posture, si dilata nella voce, si impossessa delle espressioni facciali.
Le sequenze selezionate dagli spettacoli del gruppo e montate nel video” Le tante facce di Aldes” provano a raccontare queste soggettività animali attraverso un assemblaggio dei loro volti per portare in luce l’attenzione di Aldes all’eloquenza della faccia, della smorfia, del ghigno. La faccia, negli spettacoli selezionati, si configura come paesaggio eterogeneo del presente. Le bocche spalancate diventano realtà bucate, canali di accesso ad un altrove oscuro. I nasi arricciati sono storture del presente, gli sguardi ammiccanti parodie del desiderio, le lingue estroflesse disgusto di narrazioni da invertire.
Le sequenze di cui si compone il video “Le tante facce di Aldes” sono tratte dai seguenti spettacoli.
Biosculture (1990)
Biosculture è un progetto modulare, di coreografie, video, e animazioni 3D collocate all’interno di un contesto espositivo. Biosculture fa sì che sia ciascuno spettatore ad incontrare le ‘opere’, a creare la propria personale drammaturgia. Le Biosculture sono non spettacolari, discrete, imperfette, lente; un gioco di idee e sensi legati al corpo. E’ un percorso di azioni che non hanno fine, di oggetti esistenti al di là della presenza dello spettatore che spostano la percezione della danza dal piano dello spettacolo a quello della contemplazione e dell’osservazione.
Stanze (2004/2007)
Stanze è una panoramica di piccole opere della compagnia nate tra il 2003 e il 2005. Lavori che partono da un’idea di coreografia come arte plastica, che quindi utilizzano i corpi per dare forma a idee senza mai costruire narrazioni e senza mai porsi come fine l’intrattenimento. Sono sculture mobili, spesso divertenti e assurde, che strapazzano la percezione del tempo e si propongono come se ognuna di esse dovesse durare all’infinito. Giacomo Verde crea un secondo piano di visione agendo con una telecamera e un pc – dalla regia collocata sulla scena – rimandando in tempo reale su un fondale immagini e dettagli rielaborati dell’azione.
Il Duca Delle Prugne (2007)
Il titolo dello spettacolo prende spunto da un famoso brano di Frank Zappa dal contenuto fortemente erotico. Classico varietà, Il Duca delle Prugne offre agli spettatori una pausa piacevole: due presentatori si alternano nell’introdurre balletti, numeri comici e strip tease. Il pubblico viene accolto dagli artisti in eleganti abiti da sera in un night club disseminato di sedie e tavolini. Su ciascuno di essi gli spettatori trovano un menù dal quale è possibile scegliere buoni vini, superalcolici, piatti raffinati e una vasta gamma di servizi che vanno da massaggi di varia natura, alla possibilità di essere rinfrescati gentilmente da una o più graziose sventagliatrici, al servizio di messaggeria fra gli spettatori, alla polaroid ricordo, a diverse tipologie di baci. Il Duca delle Prugne, più che uno spettacolo, è una godibile e lussuosa esperienza che gli spettatori sono messi in condizione di condividere con gli interpreti, pretesto e occasione per riflettere sul proprio rapporto con il piacere, il denaro e il superfluo.
Nel Disastro (2009)
Lo spettacolo costituisce l’ottavo capitolo de “Il migliore dei mondi possibili”, (Premio Ubu 2003, Miglior spettacolo sezione Danza) progetto pluriennale composto da dieci spettacoli che indagano il presente. Nel Disastro è dedicato alle vite degli individui, uno spettacolo corale che attraverso la danza, la voce e la parola da vita ad una surreale e grottesca rappresentazione delle tragedia individuale e del disastro collettivo di un tempo e di un paese sconcertanti. Con autoironia feroce Nel disastro deride la fallocentricità dei rapporti. Attraverso un meccanismo di amplificazione di dati autobiografici e intimità svelate, gli interpreti danno vita, non a personaggi, ma alle ansie, inquietudini, fragilità, debolezze, desideri, inadeguatezze, dolore e nevrosi di questo tempo.
Una riflessione sul senso del vivere contemporaneo, o forse più esattamente, sulla sua assenza, strutturata in una sequenza di assoli intervallati da brevi scene collettive.
Carne trita (2011)
Carne trita è un concerto – una composizione di movimenti, visi, gesti e voci – che utilizza la figura umana per uno stralunato, e tutto sommato divertito, inno all’insensatezza del destino; un omaggio alla bellezza, alla pazienza, alla mitezza, alla fatica, alla tenacia e all’indignazione delle moltitudini di chi non ha motivi per credere nella possibilità di un futuro desiderabile.
In girum imus nocte et consumimur igni (2015)
Uno scabro bianco e nero e una musica ipnotica sono l’ambiente nel quale si inanellano le micro narrazioni di questo peripatetico spettacolo notturno a cavallo fra cinema, danza e teatro.
Illuminato dalla fredda luce di un video proiettore che scandisce spazi, tempi e geometrie, il nero profondo dei costumi rende diafani i personaggi e li proietta in un passato senza tempo abitato da un’umanità allo sbando che avanza e si dibatte con una gestualità brusca, emotiva e scomposta, oltre lo sfinimento e fino al limite della trance. ”In girum imus nocte et consumimur igni” , “Andiamo in giro la notte e siamo consumati dal fuoco”, enigmatico palindromo latino dalle origini incerte, che già fu scelto come titolo da Guy Debord per un famoso film del 1978, va così oltre la sua possibile interpretazione di metafora del vivere come infinito consumarsi nei desideri, per diventare un’esperienza catartica della sua, anche comica, grottesca fatica.