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n. 4 – ottobre 18, Teatro

Cos’è il teatro transculturale?

per citare questo articolo usa

https://doi.org/10.47109/0102240104

Morgenland, diretto da Miriam Tscholl. Teatro di Hildeberg, 12-02-2016. Nella foto: Ibrahim Mahamed Quadi, Sami Ramadan, Rouni Mustafa, Tarek Alsalloum, Ashraf Ayash e spettatori. Foto di David Baltzer.

traduzione dal tedesco di Angelica Giammattei

ABSTRACT

Partendo dalla differenza tra teatro interculturale e transculturale, l'articolo descrive gli elementi essenziali che costruiscono una costellazione all'interno dell'idea del teatro transculturale: l'urgenza di un teatro tra stranieri, il bisogno di un teatro della ripetizione e l'energia emotiva di un teatro del gesto. A partire dall'esempio del teatro di marionette contemporaneo, l’articolo riflette sulla pratica del vivere insieme tra estranei.

Il teatro transculturale1 di cui si parla qui è in divenire2. Lo si può trovare negli spettacoli del teatro contemporaneo di quasi tutto il mondo, ma anche forme teatrali precedenti rivelano a una nuova prospettiva scientifica, il divenire di un teatro transculturale. Ciononostante, o proprio per questo, esso non può essere considerato una particolare branca del teatro, e questo distingue l’approccio qui presentato da quello del teatro interculturale. Contro un’oggettivazione del teatro transculturale parla soprattutto il fatto che esso sia il risultato di una riflessione scientifica su ciò che attualmente accade nel teatro e nel mondo. Il teatro transculturale è un’idea nel senso di Gilles Deleuze: non è relegato in un platonico mondo delle idee, ma è prodotto per mezzo di dinamiche spaziotemporali, in movimento tra virtualità e attualità, in divenire, appunto. Nell’idea di teatro transculturale si combinano l’esperienza teatrale e la riflessione teorica. Gilles Deleuze: non è relegato sovratemporalmente al platonico mondo delle idee, ma è prodotto per mezzo di dinamiche spaziotemporali, in movimento tra virtualità e attualità, in divenire, appunto. Nell’idea di teatro transculturale si combinano l’esperienza teatrale e la riflessione teorica. Solo nella confluenza di entrambe, nella sua costruzione satura di esperienza3, il divenire del teatro transculturale si manifesta come un aprirsi del presente verso il futuro.

Il mio contributo analizza a tre elementi essenziali che rientrano nella costellazione dell’idea di teatro transculturale: l’urgenza di un “teatro tra stranieri”, la necessità di un “teatro della ripetizione” e la potenza di un “teatro del gesto”. Alla presentazione di queste tre determinazioni del teatro transculturale seguirà poi la descrizione di una rappresentazione che appartiene allo spazio esperienziale di quest’ultimo.

1. Un teatro degli stranieri.

È tempo di un teatro degli stranieri, e oggigiorno in Germania e in Europa non c’è bisogno di motivarlo espressamente. Stiamo esperendo livelli di xenofobia che nella nostra società moderna e illuminata si credevano in realtà superati. Essi sono una conseguenza della globalizzazione, che ha avvicinato città, paesi, regioni e continenti senza apportare dei miglioramenti nel mondo. Al contrario: la dissoluzione dei confini, gli ineguali sviluppi economici e la mescolanza delle culture hanno annullato i legami tradizionali, messo in discussione abituali norme culturali e comportamentali e portato la situazione sociale a uno stato d’instabilità permanente. Questo fa paura. La paura poi ha condotto a nuove politiche di chiusura e isolamento e alla nascita di movimenti fondamentalisti in tutto il mondo. Iniziative dei cittadini contro rifugiati che cercano asilo e associazioni contro il presunto pericolo incombente di altre religioni e culture hanno prodotto un ritorno della paura dello straniero, spesso sotto forma di odio manifesto.

Tutto ciò sembra anacronistico in tempi così caratterizzati dall’interconnessione culturale e dall’omologazione universale del mondo del lavoro e della vita, eppure è esattamente il loro risultato. La xenofobia e lo sforzo caparbio di mantenere intatta la propria pretesa cultura non sono una ricaduta in tempi arcaici ma il prodotto di una mondializzazione unilaterale e parziale. Il mondo è diventato globale solo nei campi anarchici dell’economia, della finanza e della comunicazione digitale, mentre al contrario è stata trascurata la ricerca di possibilità e forme transculturali di vita collettiva. Manca la concezione e la pratica di una convivenza con lo straniero.

È in questa situazione che entra in gioco il teatro, da sempre strumento cruciale e mezzo per comprendere come vogliamo vivere (e sopravvivere) nel futuro. Ma come deve essere un teatro degli stranieri? Che forma deve assumere? È un teatro politico schierato per gli stranieri? Ma poi, chi sono gli stranieri? Deve promuovere, sulla scia di un teatro inteso come istituzione morale, la sollevazione di tutte le persone perbene contro i riprovevoli manifestanti di Pegida4? Non proprio, poiché tutti questi tentativi riprodurrebbero il fondamentalismo e ripeterebbero la rappresentazione in bianco e nero della realtà. Le persone per bene escluderebbero a loro volta gli altri, stavolta i sostenitori e i dimostranti delle estreme destre. Lo straniero, così, rimarrebbe di nuovo fuori.

La concezione diffusa di uno straniero che dall’esterno si introduce nel nostro abituale ambiente culturale è scaturita dal concetto di interculturalismo. La visione del mondo interculturalista si basa sull’idea di culture reciprocamente isolate e distinguibili: la cultura degli stranieri e la propria (pretesa) cultura, in questo senso, sono mondi diversi e separati. Quando entrano in contatto gli uni con gli altri, per esempio nel caso di esodi e migrazioni, si deve allora promuovere la comprensione della cultura altra, affinché non si giunga allo “scontro delle civiltà5” di cui parla Huntington. Un’importante opera teatrale del recente passato che si inserisce nell’orizzonte dell’interculturalismo è Morgenland (Oriente), della Bürgerbühne di Dresda6. Oriente vuole combattere i pregiudizi, fermare la paura dello straniero e avvicinare gli occidentali alla cultura orientale, eppure, nonostante le migliori intenzioni, conferma e consolida l’idea dell’esistenza di culture in sé conchiuse e la netta separazione tra ciò che è culturalmente proprio e ciò che è straniero. Questo è un approccio essenzialista, che non corrisponde alla realtà empirica né del presente né del passato. I mondi della vita nell’era della globalizzazione sono ibridi. Il tentativo di (ri)stabilire le cosiddette culture guida è destinato a fallire. Esso mira a far rivivere in condizioni diverse il modello delle culture nazionali del 18° secolo, un’impresa spettrale, visto che fin dal principio le culture nazionali erano costrutti mirati a frenare alla meglio la realtà di forze divergenti di movimenti politici, sociali, religiosi e gruppi etnici differenti. In ogni caso, però, l’eterogeneità culturale penetra all’interno dei costrutti delle culture nazionali e delle forme che ne sono eredi. Sforzarsi di sottomettere nuovamente la varietà dei mondi vitali ai dettami di una sola cultura, allora, significa fare di un’idea illusoria la norma dell’azione culturale.

Attenersi alle idee dell’interculturalismo comporta delle conseguenze politiche. Connessa ad esso, infatti, è la localizzazione dello straniero, il concetto di integrazione e di attribuzione di un’identità culturale, tutti principi che rinsaldano l’idea della superiorità della propria (pretesa) cultura rispetto alle altre. Straniero, così, è tutto ciò che viene da fuori; entro la sfera del proprio non c’è nessuno straniero. Con questa extraterritorializzazione dell’altro si finisce inevitabilmente per esotizzarlo. Le barriere che bisogna circumnavigare nell’opera teatrale diventano più visibili in alcune riflessioni drammaturgiche, come quella di inserire nel Woyzeck un nano siriano – non è questo un simbolo della miseria per antonomasia? –oppure, in una messa in scena di Romeo e Giulietta, far coincidere la distinzione tra Montechi e Capuleti con quella tra gente del posto e stranieri. In entrambi i casi lo straniero rimane fuori, ma viene consumato volentieri dalla fantomatica cultura guida come un’attrazione esotica. In generale si può dire che più il lavoro teatrale si focalizza sulla rappresentazione di un gruppo – i rifugiati, i migranti, i post-migranti – tanto più grande è il rischio dell’esotizzazione di quel gruppo. Più essa lavora con le drammaturgie dell’opposizione, più cresce il pericolo che allo straniero venga infilata la camicia di forza dell’identità culturale.

Anche i concetti di identità culturale e integrazione sono derivati dalla visione del mondo interculturale, ma l’idea di un’identità culturale è obsoleta nell’era dell’ibridazione culturale. Se ci si attiene (disperatamente), ad esempio elencando tutto ciò che è presumibilmente tedesco, si opera, intenzionalmente o meno, nel senso dei fondamentalisti. L’attribuzione di un’identità culturale lega saldamente le persone a singole norme e pratiche culturali, siano esse reali o immaginarie. A partire da ciò si può esercitare la loro esclusione, come accade nell’eufemistico “Etno-pluralismo” delle estreme destre. La stessa idea di integrazione – formulata con le migliori intenzioni – risulta, nell’orizzonte dell’interculturalismo, una strada a senso unico: si devono integrare, in sostanza, solo coloro che vengono da fuori. Essi devono adattarsi all’ambiente culturale in cui si inseriscono. Quando nel programma elettorale dell’AfD7 durante le elezioni politiche del 2017 la parola “integrazione” è stata sostituita con “adattamento”, è stata portata involontariamente alla luce l’unilateralità nella concezione comune di tale principio. Ma in una società dell’emigrazione quale è la nostra, l’esigenza di integrarsi – volendosi attenere a questo termine – dovrebbe riguardare in egual misura tutti coloro che ci vivono.

Il teatro transculturale è un medium decisivo per l’apertura verso lo straniero. Bernhard Waldenfels ha definito il teatro come il “palcoscenico dello straniero8” e ha fatto risalire la sua familiarità con l’estraneità fino alle sue origini occidentali, al teatro della tragedia antica. Per i tempi moderni Brecht – l’«Einstein della nuova forma drammatica»9 – non a caso ha designato l’esperienza dell’altro come il compito principale del teatro. Il suo concetto di straniamento, spesso inteso solo in forma riduttiva, intende l’esperienza dell’estraneità come un’estraniazione dell’esperienza stessa. Secondo Brecht, gli spettatori così come gli attori devono «allontanarsi da se stessi»10 e diventare estranei a loro stessi: «[L’artista tratta] se stesso e la propria rappresentazione con estraneità […]»11. Il teatro allora, secondo Waldenfels e Brecht, è estraneo a se stesso e costitutivamente «fuori da sé»12. Questo lo rende un luogo privilegiato di contatto tra estranei e un mezzo di comunicazione transculturale.

Un teatro transculturale non prende le mosse da culture isolate e distinte che cerca di mettere in contatto, piuttosto si sviluppa dall’esperienza dell’estraneità all’interno della propria pretesa – cosiddetta – cultura nazionale. Le culture nazionali, infatti, sono tutte fantasmi, immagini ideali e ingannevoli di purezza, di ciò che è proprio e specifico. In realtà esse non sono mai “pure”, ma sempre contaminate dall’”impuro”, da altri popoli ed etnie, usi e costumi, influssi e trasformazioni culturali ecc. Contaminate, insomma, da corpi estranei che devono essere esclusi, poiché solo sull’esclusione dello straniero può essere fondata la chimera di una cultura propria. Ed è proprio del “contaminato” che si occupa il teatro dello straniero. L’altro che penetra nella propria pretesa cultura, questo “trans” che attraversa e apre la propria sfera ritenuta sicura, è il movente del teatro transculturale.

Il teatro transculturale cerca dunque lo straniero non in luoghi lontani, ma innanzitutto all’interno di ciò che è ritenuto proprio e vicino, ponendolo così sotto una nuova luce. Solo se il confine tra il sé e l’altro è messo in discussione e il proprio viene reso estraneo, diventa possibile una relazione libera con l’estraneità, quella propria come quella altrui. Quest’approccio mira a una “condizione riconciliata”, che Adorno, in riferimento alla poesia omonima di Eichendorff, ha definito come “bella estraneità”. Esso «non annetteva l’estraneità con imperialismo filosofico, piuttosto traeva la sua felicità dal fatto che nella vicinanza concessa rimanessero il lontano e il diverso, al di là dell’eterogeneo così come del proprio»13. Adorno intende lo stato riconciliato tra il proprio e lo straniero come lo spazio di un lontano e diverso, per quanto vicino esso possa essere. È questo lo spazio esperienziale del teatro transculturale, un luogo di mezzo, di transito, tra il proprio e l’altro.

Ma poiché questo luogo di transito è uno spazio esperienziale, lo straniero non può essere rappresentato in modo da poterlo additare. Stranieri non sono i rifugiati, i migranti e i post-migranti. Se essi sono considerati stranieri vengono resi esotici. Ovunque il teatro si metta alla ricerca dello straniero, invece, è fondamentale che non lo esotizzi, che non pretenda di parlare a nome degli altri e che non ricada in drammaturgie dell’opposizione che ripetono l’obsoleto schema amico-nemico dell’azione politica, e nemmeno in quello della battaglia per la presunta buona causa. Lo straniero non è un oggetto e nemmeno un soggetto. Lo straniero è un’esperienza che ci capita, che strania la nostra percezione dell’estraneo cin modo tale da renderci estranea la nostra stessa percezione. L’esperienza dell’estraneità è l’esperienza di un’estraneità nella sfera del proprio. Il teatro può e deve renderla possibile. Solo a partire da quest’esperienza, infatti, diventa possibile una comunicazione transculturale. Un teatro dell’estraneo e degli stranieri, per questo, non è solo degli e per gli stranieri  che vengono dall’esterno, ma per gli stranieri che noi stessi siamo. Esso è un teatro tra stranieri.

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2. Un teatro della ripetizione.

Di importanza centrale per la pratica del teatro transculturale è la relazione con la storia, poiché innanzitutto alla storia si appellano i propagandisti dei fondamentalismi e della restaurazione nella loro battaglia contro la globalizzazione. Origine, continuità e durata; in esse consiste la legittimazione storica di tutti i movimenti e le istituzioni che si oppongono alla globalizzazione come alla possibilità della mondializzazione e intendono tornare a un’età dell’oro che non è mai esistita14. La storia, in quanto sovrastruttura leggittimante del fondamentalismo e della restaurazione, intralcia la nascita del teatro transculturale. Allo stesso tempo le ingombranti costruzioni storiche fungono da depositi materiali della pratica teatrale transculturale. I lavori di smantellamento delle sue strutture non si esauriscono nella distruzione. Lo stesso teatro transculturale ha bisogno del potenziale semantico della storia e della forma temporale della storicità, che si trova nei frammenti e nei resti delle sue strutture progettate per l’eternità. Nella marcia trionfale della globalizzazione che investe tutte le regioni e i paesi, la storia rappresenta un importante criterio di differenziazione. Attualmente infatti, non è dato che lo straniero rimanga anche nella «vicinanza lontano e diverso»15, come immaginava Adorno. La globalizzazione e la digitalizzazione del mondo sono accompagnate da un’universalizzazione e un’omogeneizzazione dei modi della vita. Lavoro, forme di comunicazione e comportamento dei consumatori si somigliano ovunque sempre di più. Alla fine diventano indistinguibili, come i centri commerciali che attraverso i continenti annunciano gli stessi marchi industriali. La storia agisce da antidoto contro il livellamento della globalizzazione. Sono le nostre storie, infatti, quelle dei nostri paesi e delle nostre regioni, persino le storie di vita privata, che ci differenziano gli uni dagli altri. La storia crea le differenze di cui ha bisogno una convivenza transculturale tra stranieri. Dai frammenti e dalle macerie della storia fondamentalista, il teatro transculturale genera senso e differenza nel processo della mondializzazione.

Le concezioni contrastanti della storia si differenziano in riferimento al loro status ontologico e a un’origine che esse attribuiscono o le negano alla storia. Questo comporta delle conseguenze per la costruzione di una peculiarità culturale. Se alla storia viene riconosciuta un’esistenza ontologica e la si fissa ad un’origine, infatti, si può derivare da ciò il principio del “così e non altrimenti” dell’identità culturale. L’idea di una storia delle origini si manifesta nella costruzione delle culture nazionali. Essa si articola in pratiche culturali che garantiscono lo status quo di culture chiuse e impediscono la loro apertura verso l’interno e l’esterno. La pratica teatrale transculturale non può accantonare questa concezione di storia come obsoleta, piuttosto deve lavorare su di essa per estinguerla, sabotarla, e ottenere dai suoi frammenti il potenziale per una storia che superi i confini di ogni pretesa cultura propria.

Decisiva, per la disposizione verso la storia nel teatro transculturale, è la figura della ripetizione: per raggiungere l’estraneo deve essere ripetuta la storia che ha prodotto la chimera della cultura propria. I fantasmi collettivi si basano su miti dell’origine, costruzioni storiche, tradizioni e rituali commemorativi che ancorano ontologicamente la storia e la immobilizzano. La pratica teatrale della ripetizione distrugge la pretesa unità e interezza culturale e salva i resti della storia trasferendoli in altri tempi e spazi, rendendoli così transculturalmente ricettivi. Attraverso la ripetizione si tratta di recuperare per un teatro della mondializzazione ciò che nel corso della globalizzazione è stato eliminato e lasciato indietro, il singolare e materiale che si oppone all’universalizzazione livellante. Distruzione e salvataggio dunque sono i due compiti della ripetizione; la loro azione combinata rende la ripetizione un movimento di superamento e di trasgressione.

La storia, nel teatro della ripetizione, non è più intesa come racconto delle origini e tradizione indiscussa di una nazione, ma piuttosto come genealogia nel senso di Foucault. “La genealogia”, così Foucault,

non risale indietro nel tempo per raggiungere una continuità al di là della dispersione del rimosso. Essa non deve mostrare che il passato è ancora lì, che vive ancora nel presente e lo anima segretamente […] Piuttosto vuole registrare cosa è successo nella sua dispersione: gli incidenti, le minuscole deviazioni o anche i totali capovolgimenti, gli errori, […] che hanno dato luogo a quello che esiste adesso ed ha valore per noi. […] La storia intesa genealogicamente non vuole riscoprire le radici della nostra identità, piuttosto vuole disperderle; essa non vuole scoprire il focolare dal quale proveniamo, quella prima patria in cui ritorneremo secondo quanto promesso dai metafisici; piuttosto vuole rendere visibili tutte le discontinuità che ci attraversano16.

Nella storiografia genealogica la storia ha un’origine ed è strappata alla tradizione; essa è discontinua, contingente e unica, e appare come un teatro. Lo storico deve, per dirla con Foucault, «capire il ritorno di eventi passati, […] e ritrovare le diverse scene sulle quali gli eventi hanno svolto e svolgono ruoli diversi»17. Qui si profila, oltre l’impiego metaforico, l’idea di un teatro della storia. Essa si ricollega al concetto di spettacolo della storia che si propaga con la Rivoluzione francese, all’esposizione delle pose e dei costumi romani nel dramma di Büchner Morte di Danton18, all’analisi di Marx del teatro della Rivoluzione come ripetizione tragica e farsesca della storia, e alla totalizzazione di Nietzsche della metafora teatrale della storia19. Non da ultimo essa si rifà a Kierkegaard e alla sua previsione che il fenomeno della ripetizione giocherà in futuro «un ruolo molto importante nella nuova filosofia»20, e all’analisi di Gilles Deleuze della condizione di reciproca relazione tra storia, ripetizione e teatralità. La storia può dunque essere intesa come teatro della ripetizione, l’azione teatrale come un atto della ripetizione, la ripetizione come un processo della teatralità. Il teatro della ripetizione non significa rappresentazione teatrale di atti della ripetizione che precedono il teatro, ma piuttosto che la ripetizione è essa stessa un atto teatrale. Questo le consente di rompere il dominio dei fantasmi del fondamentalismo, della cultura nazionale, della storia delle origini e della restaurazione, e di rimetterli in gioco.

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3. Un teatro del gesto.

L’agente del teatro transculturale è il gesto. Essendo il teatro transculturale privo di origine, la sua potenzialità non può essere colta attraverso il concetto di azione, poiché questa implica l’intenzionalità e la finalità di un comportamento nella totalità di un intreccio, che già secondo Aristotele aveva un inizio, un centro e una fine21.L’idea di soggetti sovrani che dispongono liberamente del proprio agire è obsoleta, specialmente nei tempi della globalizzazione. I gesti sono forme d’azione conformi al teatro transculturale, poiché nascono da pratiche di interruzione e divisione che determinano allo stesso modo il campo dell’azione, la forma del movimento, la dinamica spazio-temporale e il potenziale emotivo dell’agire nel teatro transculturale. «Otteniamo i gesti quanto più spesso interrompiamo un’azione»22, dice la famosa descrizione del gesto nel teatro epico di Brecht di Walter Benjamin. Partendo dalla concezione di gesto di Benjamin e Brecht, allora, l’interruzione verrà qui presentata come il punto di partenza di una riflessione sull’azione gestuale nel teatro transculturale. Due sono le caratteristiche del gesto che saltano all’occhio: la sua migrazione spaziotemporale e la sua forza affettiva.

I gesti si muovono tra spazio e tempo. A questa dinamica spaziotemporale hanno prestato attenzione prima Walter Benjamin e poi Samuel Weber. I gesti, secondo Benjamin, si distinguono per il fatto che possono essere fissati ma anche citati; in quanto fissabile, il gesto ritaglia un singolare movimento fisico dal continuum del tempo, in quanto citabile, fa sì che il gesto fissato si interrompa da solo. Il gesto con ciò – così lo ha descritto Weber – guarda «contemporaneamente indietro nel passato e avanti nel futuro. La fissabilità del gesto è spezzata […] dalla sua citabilità»23. È, questa, una rottura, che lo conduce in regioni e ambienti sconosciuti: il gesto, detta con ogni cautela, è il migrante par excellence24. In viaggio attraverso territori stranieri esso crea contatto tra tempi e spazi; strappato dal contesto d’azione da cui proviene, porta su di sé, citandoli e mettendolo in scena, i resti e le tracce del passato. Questo però significa anche che i gesti non possono essere decontestualizzati e ricontestualizzati a piacere: essi sono in ogni momento carichi di storia, una storia che gli rimane attaccata, li circonda, nello stato di aggregazione della sopravvivenza25. Essa ritorna nei gesti, si ripete e si moltiplica nella forma spettrale degli involontari frammenti della memoria. In una peculiare relazione di continuità e discontinuità, il gesto unisce così il proprio passato diventato estraneo con il futuro incerto in un luogo straniero. Per questo esso è un mezzo paradigmatico di comunicazione transculturale. La comunicazione gestuale è propria degli stranieri che hanno rinunciato al legame a una tradizione e a una comunità culturale. Essa, allo stesso tempo, li differenzia gli uni dagli altri attraverso le diverse tracce di passato che essi cirtano gestualmente. I gesti, dunque, sono storia abbandonata e storia da costruire. Essi sono aperti e ricettivi verso nuove storie nella costellazione di altri spazi e tempi. Inoltre la comunicazione gestuale, secondo Brecht, è un procedimento della teatralità, poiché la citazione del singolare mette ciò che da essa è fissato in movimento e lo traspone nello spazio virtuale del secondario e dell’improprio, uno spazio della ripetizione con molteplici maschere e travestimenti, uno spazio-tempo libero26.

Una particolare forza affettiva perviene al gesto – paradossalmente – tramite l’esposizione della sua imperfezione. Così esso si differenzia radicalmente da quella manifestazione gestuale delle condizioni sociali che, su imposizione del Gestus fondamentale della scena, è diventata di uso comune nella pratica teatrale di Brecht negli anni Cinquanta. Il gesto che mostra perfettamente qualcosa di cui è a conoscenza dissimula l’imperfezione e la non consapevolezza di sé di colui che lo compie, il quale ormai non è più sovrano delle sue azioni. Il gesto che nasce dall’interruzione, si vede privato della sua intenzionalità e finalità e con ciò della sovranità dell’azione. Questo gli imprime un carattere di incompiutezza e incompletezza: la vergogna è l’effetto dominante che sopraggiunge con la loro rivelazione. Nella vergogna, colui che la prova si vede esposto senza difese agli sguardi altrui. La sospensione pudica è l’altra faccia di quella sospensione che viene indicata come interruzione27. La vergogna è l’effetto del gesto esposto in doppio senso. Senza vergogna, cioè senza occultamento pudico della imperfezione umana28, esso si offre allo straniero scoperto e pronto al contatto29. Nel gesto della vergogna l’orrore dell’abbandono si trasforma in una forza affettiva finalizzata a toccarci; il gesto della vergogna è anche il gesto del contatto con lo straniero30.

4. Un corpo estraneo della comunità nel teatro transculturale.

L’esempio di una rappresentazione può dare un’idea delle ragioni per sperimentare il teatro transculturale senza che teoria e pratica si rispecchiassero perfettamente. Si tratta dello spettacolo Palmer – zur Liebe verdammt fürs Schwabenland31, presentato nel 2015 al Landestheater di Tubinga.

Racconta di Helmut Palmer, una figura di spicco della Remstal sveva nella seconda metà del 20° secolo. Helmut Palmer era “esperto di frutticoltura, commerciante, politico, azionista, esponente del movimento per i diritti civili, pensatore stravagante che sputava nel piatto in cui mangiava, mezzo ebreo, disturbatore dell’ordine pubblico, psicopatico, salvatore, democratico, demagogo, terrore delle autorità, Messia occidentale, intrattenitore politico, burlone, combattente solitario e molto altro”, secondo l’enumerazione delle sue qualità – tutte vere – fatta dalla Dramaturgin della performance. Ricordo ancora perfettamente quale fascinazione, ma anche quale odio per il bandito, suscitasse “Palmer, il ribelle della Remstal” nella mia infanzia e giovinezza (sono originario della stessa regione). Palmer nasce nel 1930 come figlio illegittimo, e già questo fa di lui un outsider nella società di allora. «Egli cresce senza padre e con la consapevolezza che questo suo genitore lontano sia ebreo»32. «All’età di cinque anni», così dice Palmer di sé, «mi fu dato il nome di Mosè invece della stella. Il mio maestro diceva sempre: i sanguemisti sono del diavolo. E la sera pregavo: caro Dio, fa’ che mio padre non sia ebreo. Io mi sento svevo, e bruciato sarà l’ebreo!»33. «Per via del trauma infantile e giovanile di un ambiente e un potere statale che gli erano ostili», scrive Jan Knauer in un saggio su di lui,

Helmut Palmer esplodeva regolarmente se si sentiva trattato anche solo minimamente in modo ingiusto. Allora spesso insultava chi aveva di fronte chiamandolo ‘nazista’ e poteva diventare anche violento. Perlopiù erano funzionari pubblici, le cui denunce in seguito a questi episodi portavano all’apertura di un procedimento giudiziario. […] La conseguenza fu una battaglia decennale di un indomito contro la giustizia della Repubblica federale. […] Palmer condusse almeno 70 processi penali. Trascorse in totale almeno 423 giorni della sua vita in diverse prigioni34,

tra queste anche Stuttgart-Stammheim. I suoi processi erano spettacoli. Durante le udienze appariva in toga da giudice con la croce uncinata cucita sopra o in divisa a strisce da detenuto. Viceversa condusse 289 campagne elettorali in cui partecipò come candidato a sindaco. Una volta nel 1974, a Schwäbisch Hall, così Palmer in persona, «ce l’avrei quasi fatta. Al primo scrutinio ottenni oltre il 40%, solo la cospirazione della stampa e di tutti i partiti, insieme alla vigliaccheria dei cittadini, impedirono la mia vittoria35».

Perché portare un personaggio del genere sulla scena? Non invita certo all’identificazione. Palmer non è un nobile ribelle, non è un Robin Hood di cui ci si potrebbe innamorare o che potrebbe valere come modello politico. Non è nemmeno un eroe tragico dalla fine grandiosa. Egli combatte contro tutto e tutti, ha ragione e torto. Capisce perfettamente le cose e soffre di distorsione paranoica della realtà. Ci attrae e ci ripugna, è allo stesso tempo lontano e vicino, familiare ed estraneo. Egli è una parte della nostra storia, della storia del dopoguerra di un giovane nella Germania Ovest, in Svevia. Ed è un esempio singolare dell’instabilità prodotta da un corpo estraneo della comunità, del disordine che da esso deriva, dell’agitazione che ci coglie se lo incontriamo.

Come avviene quest’incontro con Palmer nel Landestheater di Tubinga? Qui egli non è interpretato da una persona: è un pupazzo di gommapiuma alto circa 120 cm che viene animato da uno o due attori. Gli attori – una donna e tre uomini – conducono i pupazzi per mezzo di una fessura sul dorso e per le braccia e sono sempre visibili, stanno dietro e accanto a loro. Allo stesso tempo pronunciano i discorsi di Palmer, le sue accuse e le sue difese (e cantano, poiché “Palmer” è anche una sorta di musical). Inoltre non c’è solo un Palmer, ma una serie intera di suoi pupazzi che si raddoppiano, si commentano a vicenda, fanno coro o, con pochi movimenti del costume, possono trasformarsi in sua moglie oppure in un giudice.

Che tipo di teatro vediamo qui? “Palmer” è chiaramente ispirato al Bunraku giapponese. Roland Barthes ha descritto l’unicità di questo teatro mettendolo in relazione all’arte teatrale occidentale. Mentre in questa la lingua, l’emozione e il gesto sono uniti e sincronizzati in un unico corpo così che nasca l’impressione di una forma in sé conchiusa e sovrana, nel Bunraku la voce di chi racconta – che è seduto al margine della scena – è separata dall’espressione emotiva delle marionette e, ancora, dai corpi e dai gesti delle tre persone visibili che li conducono. L’interruzione della sincronizzazione tra il parlare, il sentire e l’agire di un personaggio è il segno distintivo del Bunraku. I tre elementi dell’espressione, sono così separati e ogni volta esibiti con un’intensità luminosa. L’effetto è quello di una forte commozione unita alla sensazione di un continuo spostamento dei sensi, di uno stare non dentro ma fuori di sé. Quest’impressione è rafforzata ancora da una seconda interruzione: quella dell’azione viva degli attori da parte dei corpi morti delle marionette. Così l’attenzione si muove tra l’animato e l’inanimato. In tal senso il Bunraku non mira – diversamente che nell’arte teatrale occidentale del 18° secolo e in alcune concezioni del teatro delle marionette – a una rianimazione e rivivificazione di chi è assente, del personaggio del ruolo o del corpo morto della marionetta. A differenza di questo concetto essenzialmente religioso, che vuole garantire l’incolumità e la durata nel tempo dell’individuo, il Bunraku ci fa esperire ciò che è morto e oggettuale in noi stessi, ciò che ci ricorda la nostra mortalità, quell’estraneità fondamentale che invano si cerca di escludere dalla vita.

È questa estraneità che incontriamo non solo nel Bunraku, ma anche nel suo libero adattamento operato da attori e marionette nel “Palmer” proposto a Tubinga. Oltre al divertimento che provoca questa rappresentazione, quello che ci tocca è la compresenza di vitalità e morte che si manifesta ripetutamente, il viso dell’attore a fianco di quello del fantoccio. Ci sentiamo combattuti tra il bisogno di mantenere una distanza da questi inquietanti sosia di noi stessi e redivivi e il desiderio di toccare queste piccole creature fatte di materia morta, come fanno gli attori che li accompagnano. In questo doppio impulso che ci tocca, il teatro risplende nel fulgore di una vita tra stranieri.

  1. Per un’idea generale di teatro transculturale: G. Heeg, Das transkulturelle Theater, Verlag Theater der Zeit, Berlin 2017. Il mio contributo segue in parte questo saggio.
  2. Sul concetto di divenire vedi G. Deleuze, 1. Serie der Paradoxa. Vom reinen Werden, in Id., Logik des Sinns, Frankfurt am Main 1993, pp. 15-18.
  3. ‘Costruzione’ qui nel senso di Benjamin: sul concetto di storia in Id., Gesammelte Schriften, Bd. I.2, ed. da Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Frankfurt am Main 1991, p. 701.
  4. Acronimo di Patriotische Europäer gegen die Islamisierung des Abendlandes (Europei patrioti contro l’islamizzazione dell’Occidente), organizzazione di estrema destra nata a Dresda nel 2014. [N.d.C.].
  5. S. P. Huntington, The Clash of Civilizations and the Remaking of World Order, New York 1996.
  6. Morgenland. بلادالمشرق Ein Abend mit Dresdnerinnen und Dresdnern aus dem Orient, regia di Miriam Tscholl. Prima rappresentazione 29 novembre 2015.
  7. Acronimo di Alternative für Deutschland (Alternativa per la germania), partito tedesco euroscettico di estrema destra, fondato nel 2013 da Bernd Lucke. [N.d.C.].
  8. W. Bernhard, Der Stachel des Fremden, Frankfurt am Main 1990.
  9. H-T. Lehmann, Postdramatisches Theater, Frankfurt am Main 1999, p. 47.
  10. B. Brecht, Dialog über Schauspielkunst, in GBA, vol. 21, pp. 279-282, qui p. 280.
  11. B. Brecht, Verfremdungseffekte in der chinesischen Schauspielkunst, in GBA, vol. 22.1, p. 202.
  12. Cfr. N. Müller-Schöll, Theater außer sich, in Kurzenberger, Hajo/Matzke, Annemarie (ed. da) Theorie Theater Praxis, Berlin 2004, pp. 342-352.
  13. Ibidem.
  14. “Vogliamo indietro la nostra vecchia Austria!” era la richiesta centrale del candidato presidente in Austria nel 2016.
  15. T. W. Adorno, Negative Dialektik, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1966, p. 192.
  16. M. Foucault, Nietzsche, die Genealogie, die Historie, in Id, Von der Subversion des Wissens, aus dem Franz. und Ital. von Walter Seitter, Frankfurt am Main 1991, pp. 69-90, qui pp. 74-86.
  17. Ibidem.
  18. G. Büchner, Dantons Tod, Berlin 2007.
  19. Cfr. G. Heeg, Reenacting History: Das Theater der Wiederholung, in G. Heeg, M. Braun, L. Krüger, H. Schäfer, Reenacting History. Theater & Geschichte, Berlin 2014, pp. 10-39.
  20. S. Kierkegaard, Die Wiederholung, Meiner Felix Verlag Gmbh, Hamburg 2000, p. 7.
  21. Cfr. Aristotele, Poetik, tradotta da Manfred Fuhrmann, Heimeran, München 1976, p. 55.
  22. W. Benjamin, Was ist das epische Theater?, in Id., Gesammelte Schriften, vol. II.2, ed. da Rolf Tiedemann e Hermann Schweppenhäuser, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 1987, pp. 519-531, qui p. 521.
  23. S. Weber, Mitteilbarkeit und ‚Exponierung: Zu Walter Benjamins Auffassung des‚ Mediums, in Zeitschrift der Gesellschaft für Theaterwissenschaft, n. 01/04 Intermedium Theater (2004), Cfr. http://www.theater-wissenschaft.de/mitteilbarkeit-und-exponierung-zu-walter-benjamins-auffassung-des-mediums/, intervento del 08.02.2017.
  24. Questo non è inteso in senso metaforico, ma – in riferimento a Brecht – come il risultato di un’esperienza dolorosa. L’interruzione degli spazi dell’azione è un concetto e un procedimento artistico. In quanto tale, rappresenta il tentativo di una rielaborazione della continua esperienza della delocalizzazione di un’esistenza migratoria e di una vita in transito.
  25. Per il concetto di sopravvivenza, coniato da Aby Warburg, vedi G. Didi-Huberman, Das Nachleben der Bilder. Kunstgeschichte und Phantomzeit nach Aby Warburg, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main 2010.
  26. Cfr. G. Deleuze, Differenz und Wiederholung, I. Uhlich, Poetologien des Ereignisses bei Gilles Deleuze, Königshausen u. Neumann, Würzburg 2008.
  27. Se dunque l’interruzione non è altro che il lampo della vergogna che scuote la forma esposta, allora il gesto significativo, che non può essere interrotto, che si vuole tenere nascosto in ogni modo, per dirla con Léon Wurmser, è la maschera della vergogna. (Vedi L. Wurmser, Die Maske der Scham. Die Psychoanalyse von Schameffekten und Schamkonflikten, Springer, Berlin 1990.) I gesti significano mostrando e indicando qualcosa. In questo modo evitano di mostrare se stessi, di mostrare corpi. L’intenzione di nascondere colui che indica, dietro il gesto che indica, rivela l’origine del gesto dalla vergogna. Ma anche in questo caso il prodotto non può essere restituito all’origine. Non è in sé immaginabile nessun corpo scoperto, nessun gesto denudato, che non minacci di rovesciarsi nella posa melodrammatica e nella maschera della spudoratezza.
  28. Vedi a proposito R. Philipp Der menschliche Makel, Reinbek 2003.
  29. Cfr. G. Heeg, “Die Geste der Scham als Grundgeste des Theaters”, in B. Streck, Die gezeigte und die verborgene Kultur, Harrassowitz, Wiesbaden 2007, pp. 69-80.
  30. Cfr. G. Heeg, Die Berührung der Geste, in Darian: Verhaltene Beredsamkeit?. Cfr. anche H-T. Lehmann, Das Welttheater der Scham. Dreißig Annäherungen an den Entzug der Darstellung, in, Merkur 45, n. 9/10 (1991).
  31. Palmer – Zur Liebe verdammt fürs Schwabenland di Gernot Grünewald e Kerstin Grüb-meyer. Musiche di: Dominik Dittrich. Regia: Gernot Grünewald. Dramaturgia: Kerstin Grübmeyer. Scenografia & costumi: Michael Köpke. Direzione musicale: Dominik Dittrich. Con: Laura Sauer, Patrick Schnicke, Lukas Umlauft, Raphael Westermeier. Prima: 13 febbraio 2015 Landestheater Tübingen.
  32. P. Schwarz, Palmer – eine Heimatgeschichte, in Waiblinger Kreiszeitung, 25 novembre 2003, cit. da: Palmer – Zur Liebe verdammt zum Schwabenland, Programmheft des Landestheaters Tübingen, Tübingen 2015, p. 6.
  33. Ivi, p. 8.
  34. J. Knauer, Helmut Palmer, der “Remstal-Rebell”, in, Aufbruch, Protest und Provokation. Die bewegten 70er und 80er Jahre in Baden-Württemberg, ed. da. Reinhold Weber, Darmstadt 2013, cit. da Palmer – Zur Liebe verdammt, cit. p. 15.
  35. Palmer – Zur Liebe verdammt, cit. p. 11.
Author

Günther Heeg è direttore del Centre of Competence for Theatre (CCT) e professore di Studi Teatrali presso l’Università di Lipsia, in Germania. È stato vice presidente dell’International Brecht Society (IBS) per diversi anni. Tra le principali pubblicazioni più recenti: Das Transkulturelle Theater (2017), pubblicato anche in lingua inglese con il titolo di Transcultural Theatre (2021); Recycling Brecht. Materialwert, Nachleben, Überleben (2018); Fremde spielen. Materialien zur Geschichte von Amateurtheater (co-autore, 2020).