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n. 4 – ottobre 18, Teatro

EXODUCTION

Camaleonte, sciamano, imbroglione, artista, super-esperto, regista, leader, Grotowski

per citare questo articolo usa

https://doi.org/10.47109/0102240102

Ryszard Cieślak, Jerzy Grotowski e Aleksander Lidtke durante il viaggio verso l’Australia nella primavera del 1974. Foto di Andrzej Paluchiewicz.

Exoduction è stato pubblicato per la prima volta nel 1997, nel volume The Grotowski Sourcebook, a cura di Richard Schechner e Lisa Wolford (Routledge, New York). Con qualche variazione, il testo inglese è stato poi ripubblicato nel 2001 e trasferito in una edizione digitale nel 2006. Quella che qui pubblichiamo è la versione “finale” del testo, fornita dallo studioso e non modificata per la pubblicazione in italiano in Sciami/Ricerche n. 4.
Le immagini che accompagnano il testo sono presenti nell'archivio de The Grotowski Institute e sono state concesse dall'autore, il fotografo Andrzej Paluchiewicz. Si ringrazia l'Istituto Polacco di Roma e in particolare Anja Jagiello.

ABSTRACT

Per la prima volta viene pubblicato qui in italiano – nella versione considerata “finale” dal suo stesso autore – questo saggio di Richard Schechner dedicato a una figura mitica del teatro del secondo Novecento ; un lavoro di ricostruzione critica che ha contribuito in modo decisivo a consolidare il lascito di Grotowski, già pochi mesi dopo la sua scomparsa. Oltre a fissare alcuni termini essenziali del lessico, insieme ai contenuti e alla periodizzazione dell’opera grotowskiana (aspetti che, Grotowski in vita erano affidati esclusivamente alla trasmissione orale), il saggio ripercorre la formazione di Grotowski, gli aspetti legati al suo carattere, le forme specifiche della sua ricerca e della sua trasmissione del sapere, l’esercizio della leadership, il ruolo dei suoi collaboratori, le fonti, il lato mistico, il suo rapporto con lo spirito del tempo, l’importanza (e la debolezza) della sua opera, nella storia del teatro del Novecento.

1.

Era una volpe, un’aquila, un serpente, una talpa. Un camaleonte, elusivo, abilissimo nel tenere le persone vicine o tenerle a distanza, e comunque abbagliandole con la sua aura. La sua presenza faceva paura ad alcuni, era misteriosa per altri. Le sue apparizioni in pubblico erano in gran parte proprio questo, e lo sono state per un quarto di secolo o più, fino alla morte nel gennaio 1999. Grotowski si esibiva come un’apparizione, completamente padrone di sé, con dosi attentamente calibrate di saggezza ed evasione, intuizioni e ripetizione. Come i canti, le danze e i riti che con i suoi compagni raccoglieva da varie culture, Grotowski mescolava umiltà e arroganza, certezza e scetticismo, semplicità e fasto. Nella cattolica Polonia diceva che era ateo, ma nessuno che conosca il suo lavoro ci crede; non è facile dire esattamente quale fosse la sua fede religiosa. Quelli che lo hanno conosciuto meglio, che hanno lavorato più tempo e condiviso interi giorni e settimane con lui dicono che sapeva essere spiritoso, cordiale, amichevole e accogliente con tutti.

Ludwik Flaszen and Ryszard Cieślak sulla costa danese del Mar Baltico, 1971. Foto di Andrzej Paluchiewicz.
Ludwik Flaszen and Ryszard Cieślak sulla costa danese del Mar Baltico, 1971. Foto di Andrzej Paluchiewicz.

2.

Questo  testo in cui tento di situare Grotowski è stato scritto nel 1997, due anni prima della sua morte, e leggermente rivisto nel 2000. È il risultato di molti anni di contatto con lui, di influenza avuta dal suo lavoro, e di ripensamento e considerazione su di lui e la sua opera. Grotowski è morto il 14 gennaio 1999, all’età di sessantacinque anni. Al pari di Stanislavsky, Meyerhold e Brecht, per alcuni egli è una delle grandi figure del teatro del ventesimo secolo. Per altri rimane praticamente sconosciuto. Uno strano paradosso, per questa figura la cui influenza non deriva da produzioni pubbliche, ma grazie alle centinaia, forse migliaia di individui che ha incontrato, toccato e trasformato.

Dopo una spettacolare e breve carriera, in cui allestiva spettacoli per il pubblico, intorno al 1970 Grotowski decise di lavorare a quattr’occhi o con gruppi molto piccoli. E, anche quando lavorava a  spettacoli per il pubblico, quel pubblico era piccolo, di solito fra quaranta e ottanta spettatori. In queste ambientazioni così intime, una performance era più un incontro che una visione da lontano.

Essendo stato uno di quelli che hanno sentito il calore dello sguardo di Grotowski, e ai quali mancherà moltissimo la sua presenza, sento il bisogno di scrivere del suo lavoro, di quello che lo rende unico e della sua importanza e impatto. Egli è stato  il mio maestro, soprattutto nel 1967, quando stavo formando The Performance Group.

Per tutti quelli che hanno conosciuto Grotowski, incontrarlo è stata una esperienza speciale, uno schiaffo in faccia da parte di un maestro Zen. Io lo avvicinavo sempre con rispetto e con paura biblica. Non che non fosse anche giocoso e ironico, generoso e comprensivo: sapeva passare in un baleno da grande conforto a gelido sarcasmo. Era difficile guardarlo profondamente negli occhi, il convenzionale “specchio dell’anima”, perché o vedevi qualcosa di simile agli occhi, dietro il filtro di occhiali molto spessi, oppure – quando se li toglieva – vedevi uno strabico. Aveva una salute fragile, ma non si curava di sé stesso. Fumava, mangiava in modo irregolare: una volta, in un ristorante in California, ordinò una grande bistecca, chiese che fosse appena scottata, e si gettò sulla carne cruda. “Sono un lupo!” esultò.

Che importanza hanno questi particolari personali? So che altri hanno fatto descrizioni ed esperienze molto diverse: siamo tutti uomini ciechi, che esprimono opinioni sull’ elefante. Grotowski si dava una forma che si adattasse ai suoi incontri con le persone. Nel suo lavoro a quattr’occhi aveva il dono impareggiabile di mettersi in quello che Martin Buber chiamava il rapporto “ich-du”, “io-tu”. Il suo cambiare forma non era inganno o rifiuto; anzi, voleva penetrare meglio fino al nocciolo della questione. Il suo aspetto poteva cambiare radicalmente, d’improvviso, come quando alla fine degli anni Sessanta si tramutò da un uomo paffuto, dal viso liscio, in completo scuro e occhiali da sole, ad un tipo mingherlino, dai capelli lunghi, con una giacca di blue jeans che trascinava uno zaino – un incrocio fra un hippy e un maestro di arti marziali. Dio solo sa quando dormiva; certamente non di notte, quando esultava nel suo lavoro.

Grotowski divenne famoso fuori dalla nativa Polonia per gli scritti, le interviste e una serie di tour, negli anni Sessanta e Settanta, del suo Laboratory Theatre in Europa Occidentale, in Medio Oriente, in Messico, negli Stati Uniti e in Australia; fu durante e appena dopo la fase del Theatre of productions (1957-69). Il gruppo si esibì a New York nel 1969 e a Philadelphia nel 1973: gli allestimenti di The Constant Prince, Akropolis, e Apocalypsis cum Figuris commossero profondamente e indiscriminatamente il teatro americano.

Com’era assistere a uno spettacolo di teatro di Grotowski? Walter Kerr – che certo non amava il teatro sperimentale – sul New York Times del 30 novembre 1969 descrisse la propria esperienza con il Polish Laboratory Theatre:

Successe durante Akropolis, l’opera in cui la storia ebraica e quella greca scorrono insieme a Auschwitz, come una pozza di sangue. Al centro del palcoscenico, una costruzione di tubi del gas, vasche da bagno e carrozzelle arrugginite; in quel momento non c’erano attori. Noi, seduti direttamente sul palcoscenico, eravamo più vicini al centro di quanto lo fossero gli attori. Eravamo consapevoli l’uno dell’altro, e occupati. I performer erano tutti dietro di noi, sparpagliati in un buio non identificato, e facevano rumori veloci e bisbigliati, come se i muri di una casa si affrettassero a incontrarsi in un angolo.
Un improvviso sibilo mi raschiò l’orecchio; il responsabile era vicino alla mia spalla. Non mi girai a vedere chi fosse. Un corpo fu gettato violentemente davanti e sopra di me, atterrando con un tonfo nella carrozzella, a pochi centimetri dalla mia testa; non feci uno scatto né pensai che sarei stato colpito. Guardai le facce del pubblico, davanti e a sinistra: quasi tutti erano a bocca aperta, mentre gli attori riemergevano alla luce, battendo le piante dei piedi, con le palpebre pesanti, bianche e assenti, le spalle spinte in avanti per dare imprevedibilmente colpi agli altri corpi; per il resto, quelle facce erano assolutamente calme.

Però, malgrado la sua eccellenza come regista teatrale, gli interessi più vivi di Grotowski stavano altrove.

Nel 1956, ancora studente, fece un viaggio di due mesi in Asia centrale. Poi viaggiò in molte parti del mondo, in cerca di maestri di performance rituali. Grotowski invitò alcuni di loro a lavorare con lui in California o in Italia. Cercava tecniche di riti di Bali, Haiti e India, arti marziali cinesi, il “Libro dei Morti” egiziano, canti Shaker, e tant’altro. Intrecciò conversazioni con l’antropologa Barbara Myerhoff e con lo studioso diventato guru Carlos Castaneda. Cercava non solo in lungo e in largo, ma indietro nel tempo, sperando di recuperare antichi riti, le cui tracce non erano quasi più visibili.

Negli anni Settanta, il teatro ordinario, anche il più radicale teatro sperimentale come quello del Laboratory Theatre, non soddisfaceva più Grotowski. Proteiforme come sempre, Grotowski sciolse la compagnia (formalmente nel 1984), e cominciò a lavorare nel “para-teatro” (1969-78), sforzandosi di estendere il rapporto fra performer e spettatori. Il para-teatro portò al “teatro delle fonti” (1976-82) – un tentativo di trovare il nucleo, l’essenza del teatro nelle vecchie tradizioni, occidentali e non. Grotowski descrisse il teatro delle fonti come “l’incontro fra il giovane e il vecchio”, in entrambi i sensi, personale e culturale.

Il para-teatro coinvolgeva a volte migliaia di persone di varia ed estesa provenienza, sia concettuale che effettiva. Questa confusione era molto al di sotto delle aspettative del disciplinato Grotowski, che passò all’Objective Drama (1983-86), concentrato su un numero limitato di partecipanti in un programma speciale ideato da e per lui all’Università di California, Irvine. Nell’Objective Drama Grotowski voleva combinare materiali originari con precisi tipi di training, e la sua esplorazione degli strumenti dell’attore che aveva sviluppato nei suoi primi anni di regista. Questo tipo di ricerca mirata continuò nell’ultima fase di lavoro di Grotowski, Art as Vehicle (1986-fino alla morte, e oltre).

In questa ultima fase, mentre la salute gli veniva a mancare (aveva problemi di cuore, problemi ai reni e leucemia), scelse come successore Thomas Richards, figlio del regista e educatore americano Lloyd Richards. Grotowski gli ha trasmesso tutto quello che ha potuto.

L’influenza di Grotowski nel teatro è dappertutto. Qualche volta il segno è esplicito, come con l’Odin Teatret di Eugenio Barba in Danimarca, il Gardzienice di Vladimir Staniewski in Polonia, o il New World Performance Laboratory of Cleveland, Ohio, U. S. A. di James Sloviak e Jairo Cuesta. Altre volte non è facile percepire superficialmente la sua influenza, come con The Performance Group e attraverso esso con il Wooster Group, o Joseph Chaikin, Peter Brook, e Andre Gregory, per citarne solo alcuni.

Gli effetti di Grotowski sul teatro derivano da tre idee che inventò, esplorò e provò a sistematizzare. La prima, l’idea che un teatro eccellente avviene a un punto d’incontro tra il personale e l’archetipico – in questo continuava e approfondiva il lavoro di Stanislavsky. La seconda, l’idea che il teatro più efficace è il “teatro povero” – un teatro con il minimo equipaggiamento, al di là della presenza degli attori. La terza, l’idea che il teatro è interculturale, e differenzia e pone in relazione le “verità” delle performance in molte culture.

Portò avanti queste idee in decenni di lavoro preciso, dettagliato, sistematico, fisico e spirituale. Ma era nel suo lavoro concreto con le persone, nella sua scrupolosa e incisiva attenzione al dettaglio, nel suo inquietante intuito per il processo del performer, che si mostrava più chiaramente. Ai suoi scritti ci si può ispirare o possono sembrare oscuri; ma in realtà lavorare con lui era tutta un’altra cosa. Grotowski appartiene alla tradizione orale.

Stanisław Scierski, Jerzy Grotowski e Ryszard Cieślak a Holstebro,1971. Foto di Andrzej Paluchiewicz.
Stanisław Scierski (attore Teatr Laboratorium), Jerzy Grotowski e Ryszard Cieślak a Holstebro,1971. Foto di Andrzej Paluchiewicz.

3.

L’ultima volta che ho visto Grotowski è stato a Copenaghen, nel 1996. Eravamo seduti in un angolo di una stanza affollata, a bere caffè. Anche se avevo quasi la sua età, mi sentivo come fossi suo figlio. Quando ho saputo della sua morte, ho pianto.

Ci sono stati tempi più felici. Mi ricordo il suo quarantanovesimo compleanno, l’11 agosto 1982, nell’appartamento di Andre e Chiquita Gregory a Central Park West: c’erano delle persone, ma non tantissime. L’11 agosto è anche il compleanno di Carol Martin, quindi festeggiavamo insieme, bevendo e mangiando. Grot fece fuori un sacco di vodka e champagne, io meno, Carol solo champagne. Improvvisamente Grotowski si mise a cantare “Fottuti auguri a te, fottuti auguri a te, fottuti auguri, fottuti auguri, fottuti auguri a te!” Poi prese una bottiglia di champagne, la scosse e ci spruzzò addosso il contenuto. Io ricambiai con la stessa moneta; presto alla festa molti si spruzzavano a vicenda, cantavano e ridevano.

Suppongo che non sia affatto strano che una persona abbia molti aspetti, molte facce, molte presenze, molti caratteri (come nel teatro). Questa molteplicità di ruoli è qualcosa che Grotowski trovava in Gurdjieff, un ricercatore dello spirito, della mente e del corpo con molte affinità con Grotowski. “Recitiamo sempre un personaggio, un ruolo; è quello che Jung definiva persona” (Grotowski 1996: 100). Ed è in questo concetto pressoché indecifrabile, la presenza, che la supremazia di Grotowski si manifesta meglio. Più di qualunque suo attore, incluso il grande tragico Ryszard Cieslak, Grotowski era e continua a essere una presenza. Che cosa vuol dire, come funziona e che conseguenze ha per il teatro e oltre, è l’argomento di questo scritto.

Zbigniew Kozłowski e Jerzy Grotowski, probabilmente in Australia nella primavera del 1974. Foto di Andrzej Paluchiewicz
Zbigniew Kozłowski (attore Teatr Laboratorium) e Jerzy Grotowski, probabilmente in Australia nella primavera del 1974. Foto di Andrzej Paluchiewicz

4.

I dati biografici dei primi anni di vita di Grotowski, fin quando iniziò la scuola di teatro nel 1951, sono noti, ma striminziti (vedi Osinski 1986: 13-14 e Kumiega1985: 4). Kumiega li riassume così:

Grotowski nacque a Rzeszow, vicino al confine orientale della Polonia, l’11 agosto 1933. Suo padre era una guardia forestale e sua madre una maestra. Il suo unico fratello (Kazimierz), di tre anni maggiore di lui, sarebbe diventato professore di fisica teorica […]. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, all’età di sei anni, Grotowski si stabilì con la madre e il fratello nel villaggio di Nienadowka, circa venti chilometri a nord di Rzeszow (suo padre aveva lasciato la Polonia per stabilirsi in Paraguay, dove visse fino alla morte nel 1968). La piccola famiglia Grotowski passò tutto il periodo dell’occupazione in questo ambiente rurale […]. Nel 1950 la famiglia si spostò di nuovo, a Cracovia, dove Grotowski completò la sua educazione secondaria (anche se aveva perso un anno per una grave malattia). Nel luglio 1951 fece domanda per essere ammesso al Dipartimento di Recitazione della Scuola Statale di Teatro a Cracovia […].

Nessun altro lavoro in inglese ci dice di più1.

Il Grotowski che il mondo conosce comincia a Opole, con la fondazione – nel 1959 – del Theatre of 13 Rows. Comincia, di fatto, quando Grotowski può razionare ciò che è noto. Osinski fa un breve resoconto del primo lavoro teatrale di Grotowski, del suo attivismo negli anni di studente, delle sue lezioni sulla “filosofia orientale” e del viaggio in “Asia Centrale” nel 1956 (Osinski 1986: 18). Ma questi resoconti sono fatti privi di sangue, non sono vita2.

E quali sono state le esperienze del ragazzo Grotowski prima e durante la Seconda guerra mondiale? Quali sono stati gli episodi formativi della sua infanzia? Nel 1996 ho parlato con lui di questo periodo della sua vita. Non ho registrato su nastro quell’incontro, perciò quello che segue sono parafrasi di quello che mi ha detto. Le condizioni economiche della famiglia Grotowski negli anni precedenti alla Seconda guerra mondiale “scesero al livello dei contadini polacchi”. Durante la guerra, Grotowski e sua madre vissero in un villaggio vicino a un bosco. Suo padre andò a Parigi, per unirsi all’esercito polacco in esilio. Jerzy non lo avrebbe più rivisto: dopo la guerra, suo padre emigrò in Argentina e poi in Paraguay, dove morì nel 1968, avendo lavorato prima al porto e più tardi per il consolato britannico. Diceva che non avrebbe mai vissuto in una Polonia dominata dall’Unione Sovietica. “Era uno scultore e una guardia forestale”, mi disse Grotowski. Ma è sua madre che ha dato forma alla mente e al lavoro del giovane artista; Grotowski parlava sempre di lei con amore e rispetto profondi. Sto parafrasando (non ho registrato la nostra conversazione):

La mamma era una donna molto saggia. Lavorava come maestra quando poteva, ma faceva anche le pulizie nelle case, e faceva lavori manuali – qualsiasi cosa per provvedere alla sua piccola famiglia [Jerzy e Kazimierz]. Teneva sempre libri di religioni diverse sullo scaffale [dove il giovane Jerzy sarebbe arrivato facilmente]. Cristiana, ebraica, hindu, buddista: diceva che erano religioni tutte diverse, ma anche davvero tutte la medesima; parlavano tutte delle stesse verità fondamentali […].
Una volta, durante la guerra, i tedeschi diedero sapone alle persone. Mia madre disse di non usarlo, perché era fatto con corpi di ebrei. In realtà, avevamo pochissime notizie di quello che succedeva. C’erano dicerie, sentivamo dicerie.

Più che dicerie. Grotowski mi disse che aveva visto cadaveri nel bosco. I tedeschi entravano nelle case dei villaggi, aveva sentito spari. Aveva sei anni quando la guerra cominciò, dodici quando finì. Akropolis – apparentemente un lavoro su Auschwitz – riguarda anche quello che Grotowski aveva visto e sentito; anche quello cui aveva reagito durante la guerra, compreso il fatto di leggere testi classici, in un mondo che ignorava o parodiava brutalmente quello che questi libri dicevano e significavano.

L’occupazione genocida nazista ebbe un seguito con la complessa danza di oppressione-autorizzazione-oppressione degli anni del comunismo, culminando nel movimento di Solidarnosc, nella legge marziale e, alla fine, nel crollo del comunismo. Dopo l’imposizione della legge marziale nel dicembre 1981, Grotowski stette lontano dalla Polonia per circa dieci anni. Vi tornò nell’aprile 1991, per accettare un dottorato onorario dall’Università di Wroclaw e per condividere il suo recente lavoro con giovani e vecchi amici, proiettando il film di Mercedes Gregory Downstairs Action3. Nel dicembre 1996 e nel febbraio-marzo 1997, Grotowski andò a Varsavia e a Wroclaw, a discutere il suo lavoro Art as Vehicle e a ricevere due riconoscimenti, il Premio Konrad Swinarski e il Gran Premio della Fondazione della Cultura Polacca. Ma, nonostante questi viaggi, fin dal Theatre of Sources Grotowski ha quasi sempre lavorato fuori dalla Polonia. Qualcuno si è chiesto perché Grotowski non si fosse impegnato direttamente e profondamente in Solidarnosc. In realtà, il giovane Grotowski era politicamente attivo durante l’“Ottobre polacco”, nella metà degli anni Cinquanta. Ma quando si unì al Theatre of the 13 Rows a Opole nel 1959, questo impegno diretto in politica calò. In verità, Grotowski non era un essere politico nel senso di Solidarnosc, più di quanto fosse un essere di teatro nel senso di Broadway. Evitava azioni che lo legassero a gruppi al di fuori del suo cerchio; quando interagiva fuori da quel cerchio, lo faceva interamente a modo suo, dettando come dovevano essergli poste le domande, le ore degli incontri, le persone che avrebbe incontrato. Quelli che volevano apprendere di più su quello che stava facendo si riversavano nel suo laboratorio a Pontedera, dove partecipavano a incontri scrupolosamente regolati.

Non è facile scoprire che cosa pensasse il giovane Grotowski dal 1945 fino alla metà degli anni Cinquanta. Le sue tracce, prima che emergesse come un autore-regista giovane e brillante, sono nascoste o distrutte dalla guerra, dal suo esito, dall’occupazione russa e dalla Guerra Fredda. L’uomo non era desideroso di svelare la storia della sua vita. Come Georges Ivanovič Gurdjieff – una figura che assomiglia a Grotowski in tratti  fondamentali, e di cui scriverò più tardi – Grotowski ha viaggiato in Asia Centrale, India e Cina, incontrato “persone notevoli”, acquisito conoscenza esoterica, praticato lo yoga, sviluppato le sue opinioni sulla vita degli esseri umani. Più avanti nella sua vita, diverse volte Grotowski ha lasciato i colleghi, sparito dalla vista e viaggiato in Asia o in America. Quando riemergeva a New York, a Varsavia o Wroclaw, era cambiato; ma il processo che aveva determinato i cambiamenti non si spiegava del tutto. La sua era una vita costruita, un’autobiografia scritta con atti e risultati, piuttosto che con parole e esplorazioni.

Grotowski non si apriva facilmente. E non mi sembra giusto essere troppo personale su di lui. Aveva una vita sessuale? Se sì, chi erano i suoi partner? Il suo “orientamento” (che strana parola giroscopica) era “normale”, “gay”, “bisessuale”, o qualcos’altro? Aveva a che fare con il suo lavoro? È stato giusto che io rivelassi la sua birichinata, sui fottuti auguri di compleanno? Fino a dove il privato di una persona famosa dove essere tenuto nascosto? Perché mi preoccupo? Perché mai Grotowski avrebbe dovuto controllare minuziosamente quello che si poteva venire a sapere di lui? Questo controllo era importante per il suo lavoro? Il suo controllo orientava tutte le ricerche su di lui e sul suo lavoro, dando l’impressione – che potrebbe corrispondere sorprendentemente a verità – che il lavoro fosse tutto quello che c’era dell’uomo. Come un maestro Noh, Grotowski viveva una vita rigidamente limitata, e misurava attentamente perfino i viaggi, le uscite che faceva. Ma se la sua vita privata e i più intimi processi creativi restano più o meno segreti, “il lavoro di Grotowski”, se mi posso permettere di chiamarlo così, è stato divulgato ampiamente. Questo è tanto più sorprendente, in quanto Grotowski non è autore e regista delle sue opere (come era Brecht), né autore, attore, regista e maestro di attori (come era Stanislavsky), e nemmeno regista di produzioni enormemente popolari, come è Brook.

Zbigniew Kozłowski in Brzezinka area, primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.
Zbigniew Kozłowski (attore Teatr Laboratorium) in Brzezinka area, primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.

5.

Il lavoro di Grotowski è fondamentalmente spirituale. La gente dice che Grotowski “ha lasciato il teatro”, ma in realtà non è mai stato “nel teatro”. Anche nelle sue prime produzioni per il palcoscenico, il teatro era la sua via, non la sua destinazione. Quando doveva iniziare l’università, Grotowski aveva tre possibilità: formazione teatrale, studi hindu, scuola medica (“non per guarire i malati”, mi disse, “ma per diventare uno psichiatra che aiuti le persone sane a sviluppare le loro intuizioni sulla vita”). Scelse il teatro perché concluse che lì avrebbe incontrato la minor censura e il minor controllo della mente. I censori leggevano le parole, le sceneggiature che venivano  presentate. Non erano interessati alle messe in scena. Ai censori importava quello che veniva messo davanti al pubblico, quello che poteva essere citato e che poteva circolare, non quello che succedeva durante i laboratori o le prove. Perciò, erano gli aspetti non verbali del teatro che Grotowski sviluppava più approfonditamente. Era nella parte pre-pubblica o non-pubblica del teatro, nel lungo processo di preparazione, che Grotowski affrontava i maggiori rischi, esponeva sé stesso e i suoi collaboratori. E raccoglieva intorno a sé nel Laboratory Theatre persone come lui.

Per il mondo esterno [mi disse Grotowski nel 1996] il Lab presentava un’immagine di unità e di  solidità. Invece, le persone erano molto “a rischio” e spesso marginali, cariche di energia, inclini ad assumere rischi. Il Lab era un gruppo incredibilmente anarchico. Spesso il lavoro rasentava il caos, era intenso, con molta passione e battaglia all’interno. Ciò era naturale, perché quel tipo di lavoro, in quel momento, in quella società polacca, avrebbe sicuramente attratto persone inclini a prendere rischi, che andavano fino al fondo, fino all’estremo.

Le performance pubbliche del Lab erano presentate a pubblici minuscoli. Gli spettacoli erano fatti di gesti e di musica, pronunciati e cantati piuttosto che parlati, personali fino al punto di essere intimi, non facilmente decifrabili da un grande pubblico. Testi di parole tratte da classici venivano frammentati, rimodellati, in un montaggio di suoni e complesse vocalizzazioni difficili da seguire, che non era molto probabile attraessero grandi folle o il fuoco dei censori.

Ma, aldilà di questi spettacoli pubblici, Grotowski e i suoi “colleghi” (una parola che preferiva, una sorta di “compagni” non comunisti) usavano il teatro per portare avanti interessi spirituali, mistici e di yoga. Grotowski, lui, non avrebbe usato la parola “spirituale”, avrebbe più probabilmente ridicolizzato l’idea. Ma io non so quale altra parola possa riassumere la sua ricerca, i suoi metodi, i suoi viaggi e il suo vocabolario, nelle interviste e negli scritti. Il suo non era un misticismo oscurantista, ma uno connesso all’antica tradizione della gnosi e alla figura hasidica dell’esule, vagabondo Shekhinah: una ricerca della “verità sparpagliata”, di scintille nascoste in posti lontani, a mala pena discernibili, bisognose di essere raccolte, rimontate, riconnesse. Lo scopo di Grotowski era, e resta, quello di affrontare – ma non di afferrare, tenere, possedere, o in alcun modo schiacciare fino alla morte – un tipo di conoscenza spirituale definito e particolare. Questa conoscenza, sebbene concreta e esprimibile in suono e movimento, è ineffabile, non traducibile in parole: ecco perché così spesso prende la forma di canto, “azioni” o “movimenti”. Eugenio Barba – il primo e più fedele divulgatore del lavoro di Grotowski, e probabilmente il discepolo più vicino alle sue teorie – ha codificato gli aspetti teatrali più comuni del lavoro del maestro. Nel 1991, Barba ha pubblicato con Nicola Savarese A Dictionary of Theatre Anthropology, un libro le cui teorie non sono esattamente quelle di Grotowski, ma sono strettamente collegate alle sue, sono frutti dello stesso albero. Quello che Grotowski avrebbe permesso di scrivere sul suo più recente modo di lavorare, la fase dell’Art as Vehicle, sta in At Work with Grotowski on Physical Actions di Richards (1995). Molte annotazioni nel Grotowski Sourcebook (1997 [2001]) dicono com’era partecipare o assistere a questo o a quel progetto di Grotowski. Ma, per quanto se ne parli, si sa poco dei processi interiori della mente di Grotowski. E neanche avrebbe lasciato dopo di sé una serie di testi e una biografia, come fece Stanislavsky; o lavori teatrali riproducibili, come fece Brecht. I processi di Grotowski sono molto più coerenti di quelli di Artaud; e lui ha formato, o almeno profondamente toccato, molte persone. Ma il suo retaggio è in qualche grado equivalente a quello di Artaud: elusivo ma forte, aperto a molte interpretazioni, una “storia” forse ancor più che un “sistema”. Grotowski sparirà come un sasso gettato in un lago. Sarà conosciuto solo dalle increspature.

Zygmunt Molik, Elizabeth Albahaca, Teresa Nawrot, e persona non riconosciuta in Brzezinka, primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.
Zygmunt Molik (attore Teatr Laboratorium), Elizabeth Albahaca (attrice e regista venezuelana), Teresa Nawrot (assistene di Grotowski), e persona non riconosciuta in Brzezinka, primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.

6. La tradizione orale

Grotowski ha trasmesso quello che conosceva attraverso una tradizione orale: i suoi modi più profondi di lavorare non possono essere ridotti a discorsi scritti. La sua “via” era proprio il suo processo di lavoro, che non era condiviso con molte persone nello stesso momento. Ogni volta, Grotowski lavorava con meno di una dozzina di persone, e quelle con cui davvero condivideva il lavoro potevano essere solo una o due. A Pontedera andavano e venivano visitatori, ma non in numeri grandissimi. Prima, in termini di numeri, il Laboratory Theatre era una piccola impresa, ed era impedito al pubblico di accedere ai metodi di lavoro; e anche gli spettatori non raggiungevano i cento per ogni spettacolo. Solo negli anni Settanta del Novecento, durante la fase del para-teatro, Grotowski ha aperto il suo lavoro a un gran numero di persone; e, anche allora, quello che giudicava il “vero” lavoro di quel periodo era svolto da un gruppo piccolo e chiuso, quelli che Grotowski considerava le “guide” degli altri.

Grotowski pensava nell’azione o nella riflessione attiva, un intenso processo a quattr’occhi. È un metodo che non è cambiato molto nei diversi periodi del suo lavoro, dal Theatre of Productions al Paratheatre e al Theatre of Sources”, fino all’Objective Drama e all’Art as Vehicle. Quello che unisce tutti questi periodi, malgrado i loro diversi obiettivi, i differenti stili e le fluttuazioni nel numero dei partecipanti, è l’insistenza di Grotowski sul fatto che quello che aveva da offrire si poteva acquisire soltanto attraverso il contatto diretto, l’interazione da persona a persona, l’“ich und du” di Martin Buber: la tradizione orale.

Grotowski non ha scritto libri: quasi tutto quello che è pubblicato sotto il suo nome sono resoconti di incontri o interviste. Dei quattordici articoli in Towards a Poor Theatre, solo quattro sono stati scritti da Grotowski. Sono sicuro che se si cercassero più a fondo le fonti di questi quattro articoli, si troverebbe che anch’essi hanno origine da colloqui o laboratori. Delle cinque grandi forze nel teatro europeo del ventesimo secolo – Stanislavsky, Meyerhold, Brecht, Artaud e Grotowski – Grotowski è quello che ha scritto di meno. Diffidava delle parole come tali, privilegiando il lavoro del corpo-mente, concentrato all’interno di sé, un lavoro psico-fisico, un contatto personale diretto che operava “come un bisturi” sulla psiche (che nell’originale greco significava “anima”), come egli stesso ha notato in più di un’occasione, tagliando l’effimero e arrivando all’essenziale – rivelandolo e realizzandolo. Qui di nuovo la nozione di “spirituale” rinvia al suo senso etimologico di “respiro”: espressione, voce, canto. Naturalmente, il presupposto che ci sia qualcosa di essenziale deve essere esaminato criticamente. Ma per ora, giudichiamo Grotowski dalle apparenze.

Molti maestri, da Budda a Socrate a Gesù e ai maestri Sufi, hanno vissuto la tradizione orale, anche se in seguito i loro insegnamenti sono stati scritti4. In Meetings with Remarkable Men (1963: 36), Gurdjieff spiega come il suo “intero destino futuro” dipenda dal riconoscimento di come la tradizione orale possa riportare avanti nel tempo materiali antichissimi. Ricorda che nelle rovine di quella che era stata l’antica Babilonia si sono trovate tavole incise, con la storia di Gilgamesh.

Quando ho capito che questa era la stessa leggenda che da bambino avevo ascoltato tante volte da mio padre, e in particolare quando ho letto in questo testo il ventunesimo canto della leggenda, esposto quasi nello stesso modo dei canti e delle storie di mio padre, ho provato una tale eccitazione interiore che era come se tutto il mio successivo destino fosse dipeso da questo. E mi ha colpito il fatto, all’inizio per me inspiegabile, che questa leggenda era stata tramandata dagli ashokhs [bardi locali, asiatici e balcanici] da generazioni e generazioni per migliaia di anni, eppure era arrivata ai giorni nostri pressoché immutata. (1963: 36).

Per diffondere il suo lavoro, Gurdjieff dipendeva dalla “oralità”5 piuttosto che dalla “letteratura”. Ha lasciato istruzioni perché il suo testo fondamentale, Beelzebub’s Tales to his Grandson, fosse letto a voce alta agli studenti.

Grotowski credeva che diverse tradizioni orali attuali fossero legate a pratiche antiche. Mandò alcuni colleghi a ricercare elementi di queste tradizioni, e allo stesso tempo fece venire maestri che sapessero eseguirli. Questo era il suo lavoro, specialmente durante il Theatre of Sources e l’Objective Drama. Cercava modelli archetipici o essenziali di movimento, gesti, espressione e canto. Questi modelli essenziali non venivano soltanto appresi dal suo gruppo; erano anche usati come strumenti per attivare processi interiori. L’incontro tra modelli essenziali e processi interiori portò a Downstairs Action e Action, le due performance realizzate nella fase Art as Vehicle del lavoro di Grotowski6. Cercare l’essenziale ci porta ai viaggi di Grotowski in Asia centrale, Cina e India. La convinzione che i modelli essenziali riportati nel tempo alla luce dalle tradizioni orali potessero convergere con materiali scoperti all’interno dei singoli performer, attraverso un rigoroso processo interiore, si collega alla credenza Hindu dell’identificazione tra il Brahman (il supremo Sé universale) e l’atman (il sé individuale). Ognuno, se ben addestrato, può sperimentare che il Brahman e l’atman sono identici: se ti sei formato, hai toccato, hai trovato, ti sei liberato, hai provato (qual’ è la parola giusta? nessuna parola è giusta), svaniscono tutti i confini fra l’individuale e il supremo. Le varie religioni hanno termini diversi per questo: moksha, illuminazione, estasi, nirvana – le parole cambiano così come cambia l’enfasi, dal conseguire il tutto all’unirsi al divino, fino a raggiungere la fine del sentiero che è nessun-sentiero.

Antoni Jahołkowski, primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.
Antoni Jahołkowski (attore Teatr Laboratorium), primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.

All’incontro del più intimo-personale con il più oggettivo-archetipico, i personaggi di Grotowski costruiscono azioni che, nella vita, si presume siano l’essenza distillata di quello che è duraturo, antico e vero. Mettendo in guardia contro “l’auto-indulgenza”, come ha fatto durante tutta la sua carriera, Grotowski causticamente negava che le persone potessero trovare l’essenziale, senza seguire la più rigorosa e impegnata formazione. L’atman non si raggiunge facilmente o casualmente. L’essenziale si può ricercare solo attraverso un processo disciplinato, mettendo insieme quello che si impara da coloro che sanno con quello che si trova all’interno del sé individuale. Questo sé, come ho notato, è il Sé impersonale atman-Brhaman hindu, non il sé narcisista, guidato dall’io della vita quotidiana. Sto qui delineando il processo di Grotowski come io lo capisco, e i presupposti su cui si fonda quel processo. Per ora, devo mettere da parte la questione se questi profondi modelli o archetipici esistano o no.

Grotowski viveva e lavorava dentro la tradizione orale: questa è una delle ragioni per cui è difficile capirlo. Grotowski non si trova in una collana di testi, una sala cinematografica, o in nessun’altra parte, se non nelle persone con cui era impegnato e di cui si imbeveva. E queste persone cambiavano o morivano, proprio nel momento in cui trasmettevano “il lavoro”, come lo ricevevano e interpretavano. In ogni fase della sua carriera professionale, Grotowski impegnava in profondità solo qualche persona, spesso confidandosi in particolare con una figura chiave, designata in quel particolare momento a ricevere gli insegnamenti. Per un periodo, nel Theatre of Productions toccò a Zbigniew Cynkutis, poi a Ryszard Cieslak. Durante il Paratheatre toccò a Jacek Zmyslowski, fino alla morte nel 1982. Al momento di Art as Vehicle toccò a Thomas Richards, di cui Grotowski scrisse:

Il mio lavoro con Thomas Richards ha il carattere della “trasmissione”, nel senso tradizionale – nel corso di un apprendistato, con sforzi e prove, l’apprendista conquista la conoscenza, pratica e precisa, da un’altra persona, il suo maestro. Un vero apprendistato è un periodo lungo: finora io ho lavorato otto anni con Thomas Richards [1993] (Richards 1995: x).

Questo è il modo della tradizione orale.

Fra coloro che lavoravano con Grotowski c’erano conflitti, riguardo a chi sarebbe stato il designato. Mi ricordo di aver parlato con Cynkutis nel 1985, circa due anni prima che egli morisse in un incidente automobilistico, che secondo alcuni fu un suicidio. Cynkutis parlò con eccitazione del Drugie Studio Wroclawskie (il Secondo Studio di Wroclaw – il “primo studio” era il Laboratory Theatre di Grotowski). Il Drugie Studio stava a Rynek-Ratusz 27, la ex sede del Laboratory Theatre. Cynkutis intendeva il suo lavoro come il fatto di portare avanti la tradizione del Theatre of Productions di Grotowski. In piedi, nel freddo gelido del balcone del suo appartamento a Wroclaw, guardando attraverso una pioggerella ghiacciata il traffico che scorreva sotto di noi, Cynkutis insisteva che era lui il giusto erede dei metodi e dell’aura del Laboratory Theatre, che Grotowski avrebbe scelto.

L’11 febbraio 1986 Cynkutis mi scrisse una lettera in inglese, esponendo come intendeva continuare il lavoro di Grotowski:

Dopo tre mesi di prove con il gruppo polacco e internazionale, abbiamo varato una serie di prime del progetto Fedra-Seneca. Se dovessi valutare che cosa è successo in seguito a questa inaugurazione, dovrei sottolineare il superamento della barriera della paura psicologica. Per me e per i miei colleghi, per molte persone del centro artistico di Wroclaw, il tempo delle speculazioni e dell’incertezza era finito. Le speculazioni oscillavano fra desideri rispettosi e commossi di mummificare un mito, trasformando il precedente edificio del teatro di Grotowski in un museo e in un monumento delle sue realizzazioni.

Attualmente, nello stesso palazzo, per quanto con una funzione completamente cambiata, una giovane  generazione di attori presenta ogni sera il suo lavoro. Persone sotto i venticinque anni cercano ancora una volta la loro maniera di esprimere quei sentimenti che sono tipici della realtà di oggi, senza distruggere le conquiste degli altri.

Io servo loro come una vecchia barca, nella quale loro possono ignorare tutti i rifiuti delle routine e delle abitudini che impregnano facilmente ogni nuova impresa. Servo loro con la mia conoscenza, impongo loro di andare avanti, di non riposare dove qualcun altro ha già utilizzato la sua energia. Perciò, non sono né un bravo e amato papà, né un romantico leader che indica una direzione. Sono un testimone difficile e li stimolo a fuggire da quello per cui non vale la pena [sic]. Li convinco con la disciplina del lavoro, la sincerità delle domande e la conoscenza di sottoporsi a certi compiti usando strumenti noti […].

Vorrei che vedessi quello che abbiamo fatto. Tuttavia, attendo la fase più interessante dopo due o tre anni di lavoro, quando la mia attività avrà stimolato l’iniziativa di un giovane regista, e lui in persona, prendendo la base e la tradizione teatrale, saprà creare un atto nuovo e importante in questo posto. Io ci credo – questa è la ragione per cui ho deciso di dirigere il Secondo Studio di Wroclaw. […]

L’incidente automobilistico ha impedito a Cynkutis di vivere “la fase più interessante”. Dopo la sua morte nel 1987, il Drugie Studio ha continuato a esistere e esisteva ancora nel 1995 (secondo un articolo nel Polish journal Notalnik Teatralny). Ma mi dicono che il lavoro sia “misero”, non la continuazione di quello che voleva Cynkutis, né tantomeno Grotowski.

Parecchi dei collaboratori più vicini a Grotowski sono stati sfortunati. Cieslak, Zymslowski e Chiquita (Mercedes) Gregory sono morti di cancro, Cynkutis in un incidente automobilistico. Anche Antoni Jaholkowski e Stanislaw Scierski sono morti giovani. Di questi, conoscevo meglio Cieslak e Gregory. Negli anni prima della sua morte, nel 1990, ho capito che Cieslak aveva il cuore spezzato, per la decisione di Grotowski di smetterla con il Theatre of Productions. Mi ricordo cinque minuti con Cieslak, nel 1976, su un pendio erboso fuori Varsavia, nel mezzo dell’unico evento del para-teatro di Grotowski al quale ho partecipato. Eravamo soli. Gli ho rivolto parole di questo tenore: “Grotowski è uno dei grandi registi di teatro, e tu un grande attore. Ma adesso non reciti più, non esplori ruoli come il Principe costante o il Sempliciotto di Apocalypsis cum Figuris. Giri per la campagna, guidando dilettanti che vogliono fare dio solo sa quali esperienze. Come ti senti in questo?” Cieslak mi fissava con i suoi grandi, pesanti, tristi occhi bruni. “Io mi sono dato a Grotowski e lo seguirò dovunque vada”. Fine della domanda, ma non la fine della storia.

Cieslak non ha seguito esattamente Grotowski. Ha tenuto molti seminari, ha recitato, ha provato a dirigere. L’ultima parte in cui l’ho visto recitare è stata il re cieco Dhritarashtra nel Mahabharata di Peter Brook. Gli occhi aperti ma non vedenti di Dhritarashtra nascondevano la tragedia dell’ultima parte della vita di Cieslak. Questo attore era preparato solo per Grotowski. Neanche Brook poteva sostituire il maestro polacco. Privato del Grotowski-regista, Cieslak fumò e bevve fino a morire. Il suo ultimo lavoro, prima che il cancro ai polmoni lo soffocasse, fu come capo del “Cieslak Studio” al dipartimento di teatro del Tish School of the Arts, NYU. La locandina dello studio era:

Ryszard Cieslak, fondatore con Jerzy Grotowski del Polish Laboratory Theatre, resterà con noi per un altro anno, per fare un percorso / atelier annuale, incentrato sulle varie tecniche di training che hanno dato origine al Master Theacher Grotowski/Cieslak [sic], ma che coinvolgerà anche insegnanti della Tradizione dei Mimi Polacchi, o di tecniche acrobatiche, di musica e danza del terzo mondo (africane, brasiliane, asiatiche), di training vocale e di magia. L’ensemble svilupperà e presenterà un progetto o una serie di progetti, molto probabilmente alla fine della primavera 1991.

Il “Master Teacher” era un essere collettivo, un Grotowski-in-Cieslak, che designava la relazione più stretta, quella della “trasmissione”, da Grotowski al suo discepolo. Questa è la ragione per cui Cieslak era annoverato come co-fondatore del Laboratory Theatre, anche se non vi fece parte fino ottobre 1961, all’inizio del terzo anno del Lab. Era assolutamente necessario, per la NYU e per Cieslak, riferirsi al momento originario, al punto cruciale della fondazione.

Allo stesso modo, quando il Lab si sciolse nel 1984, la dichiarazione pubblicata sulla Gazeta Robotnicza fu firmata da Cieslak e da altri tre “soci fondatori”. In nessuno dei due casi si mentì, perché alla fine degli anni Ottanta la tradizione orale aveva fuso Cieslak e Grotowski. I miti della tradizione orale sono più forti dei documenti scritti. Secondo quei documenti, solo Ludwik Flaszen, Rena Mirecka e Zygmunt Molik parteciparono al Laboratory Theatre dall’inizio alla fine, dal 1959 al 1984. Neanche Grotowski era tra i firmatari. Nella loro dichiarazione scrissero: “Ciascuno di noi ricorda che la nostra comune origine è in Jerzy Grotowski, nel suo teatro […] . Dopo venticinque anni, ci sentiamo ancora vicini l’uno all’altro, proprio come eravamo all’inizio, a dispetto di dove siamo adesso – ma siamo anche cambiati”. Cosa importa se Cieslak aveva percorso quel sentiero per ventitré anni e non per venticinque?  E perché mai Cieslak firmò la dichiarazione, e Grotowski no? Cieslak firmò a suo stesso nome e come sostituto: nel tempo, nessuno più di Cieslak fu identificato così strettamente con Grotowski.

Grotowski non firmò per due ragioni. Sotto il profilo pratico, avendo richiesto asilo politico negli Stati Uniti, e non volendo mettere in pericolo i suoi colleghi ancora in Polonia, Grotowski era estremamente attento a contatti diretti con loro. Comunicava con loro principalmente attraverso Flaszen, che viveva a Parigi, dove è tuttora. Ma non firmò, anche perché il suo spirito abitava l’intero progetto, era la prima causa non nominata, troppo necessaria, potente e ovvia, perché il suo nome fosse scritto insieme agli altri. Come nelle sue produzioni, era onnipresente attraverso la sua assenza, come Dio.

Jerzy Grotowski, Teresa Nawrot e Zbigniew Kozłowski in Brzezinka, primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.
Jerzy Grotowski, Teresa Nawrot (assistene di Grotowski) e Zbigniew Kozłowski (attore Teatr Laboratorium) in Brzezinka, primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.

Controllo

Grotowski soffriva di cuore e di altri malanni, che lo mettevano di fronte alla morte. Consapevole della sua fragilità, sorvegliava accuratamente il suo regno e la sua eredità. Non avendo fortune in denaro o in beni, non aveva bisogno di scrivere un testamento complicato. Ma come misurare e distribuire la sua conoscenza e autorevolezza era un’altra questione. Si poteva ereditare il lavoro di Grotowski? E se sì, chi lo avrebbe ereditato? In quella fase del suo lavoro di una vita, in un periodo che sembrava essere definitivo, Grotowski era intensamente preoccupato di come e a chi sarebbe stato trasmesso quello che lui sapeva. La sua relazione con Richards pesava su questa faccenda della trasmissione. Parlando della tradizione orale e di Gurdjieff – un leader spirituale che secondo Grotowski era solo “di una certa importanza” per lui, ma nella cui vita e pratiche io trovo molti affascinanti paralleli – Grotowski rivelava molto del proprio lavoro:

È un affare terribile, perché esiste, da un lato, il pericolo di congelare la cosa, di metterla in frigorifero per mantenerla impeccabile, e dall’altro, se non la si congela, il pericolo di diluirla e semplificarla […]. La domanda scottante è: chi, oggi, assicura la continuità della ricerca? Molto sottile, delicata e difficile (Grotowski 1996: 101).

Ricordo qui le ultime parole pronunciate da Gurdjieff il 27 ottobre 1949, rivolte a Jeanne de Salzmann – la sua più vicina collaboratrice e sua erede designata:

La prima ed essenziale cosa è preparare un gruppo di persone in grado di rispondere alla domanda che sorgerà … finché non ci sarà un gruppo responsabile, l’effetto delle idee non supererà una certa soglia. Ci vorrà del tempo … davvero molto tempo (Moore 1991:315).

Il che mi porta a un lato oscuro di Grotowski, il suo bisogno di controllo. Questo bisogno era guidato dal suo doppio senso di sé stesso, come mortale e come fonte di una potente e utile conoscenza. Dato che c’era molto più su di lui rispetto a quanto ci fosse scritto effettivamente da lui, Grotowski cercava di controllare i materiali che venivano diffusi. Questo Sourcebook è un esempio tipico. Prima di pubblicare suoi testi e interviste, voleva controllare l’indice del libro. Grotowski e Richards volevano essere sicuri che tutto quello che dicevano o scrivevano fosse esattamente come volevano che fosse, anche se di tanto in tanto andava contro la grammatica e l’uso standard delle parole. Praticamente su tutti i punti, Wolford, io e Grotowski eravamo d’accordo. Ma su Two Years Before the Master di Philip Winterbottom Jr. (1991), no. L’articolo in TDR è una versione ridotta (curata quasi totalmente da me) di un diario di cento pagine, che Winterbottom tenne durante la sua partecipazione all’Objective Drama Project di Irvine, dal gennaio 1984 all’aprile 1985. Nel diario, Winterbottom non parlava soltanto del suo lavoro con Grotowski, ma delle sue reazioni emotive col maestro.

Quanto più mi usa, tanto più mi sento soddisfatto. Temo il mio fallimento in questo progetto; questa paura non mi lascia mai […]. Stasera, quando io e Jerzy ci siamo incontrati, tutte le mie paure sono sparite, grazie al suo bellissimo, infantile, fraterno sorriso. Mi sono commosso […] (1991:142, 145, 146).

Non tutto quello che TDR ha pubblicato del diario di Winterbottom era così personale. E Winterbottom non criticava Grotowski, anzi: scriveva come uno che si struggeva dal desiderio di avere un attaccamento emotivo con Grotowski, desiderio senza speranza, perché Winterbottom capiva chiaramente che per Grotowski “l’essenziale era sempre il lavoro” (1991: 154). Grotowski era violento, nella sua opposizione ad ammettere selezioni tratte dal diario di Winterbottom. I suoi resoconti erano imprecisi, ci fu detto. Abbastanza buoni, ma altri resoconti del lavoro di Grotowski, soprattutto quelli che riguardavano eventi para-teatrali, alcuni dei quali inclusi nel Sourcebook, erano soggettivi e “imprecisi”. E Winterbottom non era certo un estraneo, con una esperienza del tutto aleatoria di Objective Drama: partecipava a pieno titolo al lavoro. Penso che Grotowski fosse nauseato dall’adorazione di Winterbottom. La scelta era cruda: usare Winterbottom e perdere Grotowski. Se Wolford e io avessimo deciso di pubblicare “Two Years Before the Master” nel Sourcebook, non avremmo avuto un briciolo di collaborazione da Grotowski e dal suo circolo. Non cedetti subito. Chiesi l’opinione di tre persone che conoscevano bene il lavoro di Grotowski. Uno non rispose. A un altro, che non partecipava a Objective Drama, era piaciuto il resoconto di Winterbottom. La terza persona, che partecipava a Objective Drama, condannò l’articolo, in quanto impreciso e sentimentale. Anche Wolford disse che il diario di Winterbottom non dava una descrizione accurata del lavoro. Fui d’accordo a lasciar perdere Winterbottom. Ma lo facevo nell’interesse della “precisione”, o per la minaccia di Grotowski? In fondo, non volevo sacrificare il Sourcebook sull’altare della mia autorità di curatore. Chi fosse interessato poteva leggere Winterbottom su TDR.

L’episodio di Winterbottom è indicativo della determinazione da leone che aveva Grotowski, nel tenere sotto controllo il modo in cui il suo lavoro veniva ricevuto e interpretato, cosa veniva pubblicato con il suo imprimatur, chi ammettere alla sua presenza, o il lavoro a Pontedera, il film che Chiquita Gregory aveva realizzato sul lavoro Art as Vehicle, come questo era negli anni Ottanta. Ma dire che Grotowski controllava il suo lavoro non vuol dire che il lavoro era chiuso. Nel 1966, già più di centocinquanta gruppi avevano visto l’operazione di Pontedera. Ma erano testimoni del modo di fare di Grotowski. Non c’erano posti disponibili per gli “spettatori comuni”, sulla base di una regola del tipo: chi arriva prima, è servito. Grotowski aveva per caso assorbito l’inclinazione polacca e sovietica a controllare la storia? Oppure, al contrario, avendo sperimentato che cosa può accadere in uno stato totalitario, era destinato a temere per sempre il danno che può causare l’informazione, quanto fragile fosse la sua reputazione e la sua condizione? Il suo bisogno di controllo andava al di là di una risposta a pressioni o modelli esterni. Faceva parte delle tradizioni che egli seguiva: la gerarchica chiesa cattolica romana (versione polacca), il rapporto indiano guru-shishya, il rebbe hasidico, circondato da aderenti che pendevano dalle sue labbra, che discutevano e interpretavano, mettendolo in guardia da intrusioni.

Ryszard Cieślak, Waldemar Graczyk detto ‘Dziadek’ e Aleksander Lidtke in Brzezinka, primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.
Ryszard Cieślak, Waldemar Graczyk detto ‘Dziadek’ e Aleksander Lidtke (attore Teatr Laboratorium) in Brzezinka, primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.

Fonti vicine e lontane

La tradizione orale di Grotowski è legata ad altre tradizioni orali. La tradizione più vicina è quella degli esperimenti nell’ambito del teatro e della danza europea del ventesimo secolo: Stanislavskij, Meyerhold, Vachtangov, Eisenstein e Okhlopkov; Dalcroze, Appia e altri che hanno lavorato a Hellerau negli anni immediatamente precedenti alla Prima Guerra Mondiale; Artaud. Ma il collegamento teatrale più vicino è il teatro Reduta di Juliusz Osterwa in Polonia, tra le due guerre mondiali. Le tradizioni lontane sono più complicate. Includono la gnosi antica ed ermetica7, così come il lavoro strettamente correlato di Gurdjieff. E il chassidismo, soprattutto nell’interpretazione di Buber. C’è anche una connessione americana, che è a sua volta una trasformazione della vita intellettuale ebraico-tedesca e la sua coalescenza con le tendenze utopistiche americane, fino a formare pratiche new age. Qui viene alla ribalta il terapeuta della gestalt Fritz Perls. Nessuno che abbia studiato Grotowski (in inglese) è andato abbastanza a fondo in queste diverse fonti teatrali, mistiche e intellettuali, collegandole tra loro e a Grotowski. Quello che scrivo riguardo alle fonti di Grotowski è solo un passo in questa direzione.

Jerzy Grotowski, Włodzimierz Staniewski e Ryszard Cieślak in Brzezinka, primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.
Jerzy Grotowski, Włodzimierz Staniewski (regista e attore) e Ryszard Cieślak in Brzezinka, primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.

Stanislavsky, Meyerhold, Osterwa

Grotowski assume da Stanislavsky l’assioma che la formazione continua dell’attore è fondamentale, e che questa formazione è prima di ogni altra cosa “lavorare su sé stessi”. Scrive Grotowski: “Questa espressione – questa formula, ‘lavorare su sé stessi’ – è qualcosa che Stanislavsky ripeteva sempre ed è da lui che io la riprendo” (1996: 89). Ciò che cambia nel corso degli anni in Grotowski è il modo di interpretare non solo il lavoro ma il sé; come venga meno “l’attore”, come interprete di un personaggio per un pubblico, sostituito dal “performer” o dal “doer”, una persona che utilizza tecniche tratte dal teatro e da altrove, per scopi trans-teatrali. Durante la fase del teatro delle produzioni, Grotowski ha esplorato le tensioni tra l’attore, lo spazio e il pubblico.

Gli spettatori venivano sparpagliati negli spazi del teatro in modo che potessero assistere nel modo migliore alle celebrazioni e alle agonie degli attori (nel senso dell’antica Grecia). Lo spazio  scenico, lungi dal favorire l’empatia o la partecipazione del pubblico, aveva fino ad allora contribuito a separare radicalmente gli spettatori dagli artisti. Come in un recinto, i testimoni avevano potuto sbirciare il sacrificio del Principe costante, sedere al tavolo del banchetto del dottor Faustus, vedere i prigionieri costruire il loro crematorio nell’Acropoli. Ma gli spettatori non erano mai stati coinvolti direttamente nell’opera; e la prossimità fisica generava una distanza metafisica. Gli attori di Grotowski erano così intensi, così coinvolti in quello che stavano facendo, che anche quando erano a un soffio da te, erano in verità in un altro mondo. Solo nello spazio estremamente semplice di Apocalypsis cum Figuris – l’ultimo lavoro del Laboratorio a cui è stato ammesso un pubblico generico – gli spettatori hanno assunto il ruolo di partecipanti. Durante le performance di New York, i presenti erano seduti per terra, ai margini di una grande sala: la Methodist Church di Washington Square, svuotata da ogni mobile. Gli attori erano al centro, allo stesso livello degli astanti. L’illuminazione era costituita da un enorme fresnel, che – come un sole caduto – giaceva sul pavimento. Ad un certo punto, Grotowski cominciava a invitare alcuni spettatori a rimanere, dopo lo spettacolo. Quando il resto del pubblico se n’era andato, gli attori del Laboratorio e gli ospiti iniziavano esplorazioni performative reciproche. In questo modo, Grotowski passò dal Theatre of Productions al Paratheatre. A mio parere, questa trasformazione è stata stimolata dall’incontro di Grotowski con la cultura giovanile americana, con la terapia della gestalt e con le religioni new age. Ma sto andando troppo avanti nella storia.

Gli interrogativi che Grotowski si era posto in ogni spettacolo prima di Apocalypsis erano i seguenti: a chi erano rivolte le performance? Come poteva essere realizzato un testo fatto di gesti? Come far sì che gli spazi della performance contenessero ed esprimessero la vita complessiva dell’evento? Nel rispondere a queste domande, Grotowski seguì e poi superò Stanislavskij. Stanislavsky aveva sempre lavorato sulla centralità dell’attore, considerando come dati lo spazio scenico del proscenio e i testi dei drammaturghi. Grotowski, consapevole di ciò che Meyerhold, Vakhtangov e Okhlopkov avevano tentato di fare, prese qualcosa da questi sperimentatori senza abbandonare la ricerca principale di Stanislavskij: il lavoro dell’attore su sé stesso. Il “metodo delle azioni fisiche” di Stanislavsky, sviluppato negli anni Trenta, fu probabilmente influenzato dal lavoro bio-meccanico di Meyerhold degli anni Venti. Meyerhold aveva enfatizzato i movimenti acrobatici simili a danza, eseguiti con l’efficienza di una (allora ammirata) catena di montaggio. L’adattamento di Grotowski – rispetto a Stanislavsky e Meyerhold, e ad altre influenze ancora da discutere – furono gli “esercizi di associazione” e “plastici” (lavori di movimento). Erano esercizi più liberi di quelli bio-meccanici di Meyerhold; più influenzati degli studi di recitazione di Stanislavsky o Vakhtangov. Gli esercizi consistevano in specifici movimenti – rotazioni, elevazioni e stiramenti di arti, busto, testa, viso e occhi – che assumevano intensità, ritmo e colorazione emotiva da qualsivoglia “associazione” – sentimenti, ricordi, sogni a occhi aperti – che una persona poteva avere durante l’esecuzione dei movimenti8.

Ma, pur continuando a realizzare spettacoli per un pubblico, per quanto minuscolo, Grotowski puntava a obiettivi diversi dal teatro. Verso un Teatro Povero è pieno di allusioni al percorso spirituale. Il teatro era il suo mezzo, non un fine. L’obiettivo non era politico, come per Brecht; non era artistico, come per Stanislavsky; e nemmeno rivoluzionario, come per Artaud. L’obiettivo di Grotowski era spirituale: la ricerca e l’educazione dell’anima di ogni attore. La contraddizione, la potenza e la bellezza del lavoro del Laboratory Theatre negli anni Cinquanta e Sessanta scaturivano da circostanze polacche. Grotowski e il suo gruppo dovevano fare teatro, questo è ciò che le sovvenzioni del governo imponevano di fare. Questo è esattamente quello che fecero lui e i suoi colleghi a Opole e in seguito a Wroclaw. Ma, come già notato, Grotowski scelse il teatro rispetto alla medicina e agli studi Hindu solo perché la pratica delle prove gli offriva la possibilità di lavorare in relativa libertà, a porte chiuse. Ciò gli andava benissimo: i suoi interessi andavano comunque all’esoterico e all’ermetico. Grotowski mi disse a Copenaghen:

Perché il teatro era in quel momento l’unica possibilità per non essere censurato. I censori avrebbero potuto calpestare i copioni, avrebbero potuto censurare i costumi anche alla prova generale. Ma la maggior parte del vero lavoro in teatro si svolge durante le prove; e gesti e musica e cose del genere non possiedono un “significato” che i censori possano cogliere, possano censurare. I censori non partecipavano alle prove. Venivano solo quando una performance era pronta per il pubblico. Quindi il teatro era un posto dove si poteva lavorare più o meno liberamente, per il lungo periodo della preparazione.

Una considerazione molto accorta. Un argomento forte, per enfatizzare il processo rispetto al prodotto. Ma c’è di più, ovviamente. Con Grotowski ci sono sempre strati diversi di significato, significati doppi o quadrupli, contraddizioni.

Nel fare un “teatro laboratorio”, Grotowski ha coscientemente emulato Neils Bohr, il fisico nucleare con cui aveva lavorato suo fratello. Ma gli esperimenti di questo laboratorio teatrale avevano più in comune con il più vicino predecessore polacco di Grotowski, Osterwa. Osterwa credeva che recitare fosse una “chiamata”, e che gli attori recitassero di fronte agli spettatori, ma mai per gli spettatori. Kazimierz Braun ha rintracciato l’importanza della compagnia Reduta di Osterwa in Grotowski:

Chi era Osterwa? Un attore, un regista, un insegnante, un riformatore […]. Reduta […] era un teatro, ma allo stesso tempo era un laboratorio di recitazione e una scuola. Tutti gli eventi della vita e dell’attività artistica erano condivisi, con una cucina e denaro in comune. Specialisti di diversi profili venivano chiamati alle prove come consulenti e insegnanti. Attori e spettatori si incontravano dopo le performance per discutere del lavoro. Tutto ciò era basato sulla convinzione di Osterwa che il teatro fosse un processo, un processo interumano artisticamente condizionato.

L’approccio di Osterwa al teatro era basato sulla tesi che la sua missione fosse soprattutto spirituale, educativa e morale. Il lavoro nel teatro dovrebbe basarsi sull’etica individuale degli attori e dei registi, di tutte le persone coinvolte nella creazione teatrale, inclusi gli spettatori […].

Osterwa sperimentò metodi particolari di prova. Fu tra i primi in Europa a introdurre una formazione degli attori separata dalle prove. Sperimentò anche la partecipazione del pubblico. Era solito portare gli attori e gli spettatori a un più stretto contatto, persino fondendoli […]. Lo spettacolo  più acclamato di Osterwa è stata The Constant Prince […]. Osterwa stesso, interpretando il ruolo del protagonista, fece di questo dramma un sacrificio rituale, paragonando ovviamente il Principe costante a Gesù Cristo (come anche Grotowski fece più avanti). Lo spettacolo  The Constant Prince realizzata da Osterwa era all’aperto, parzialmente illuminata da un fuoco libero […].

Grotowski ha tratto molto da Osterwa: l’idea che l’attore dovesse sacrificarsi per gli spettatori, il modo di paragonare lo studio/teatro ad un monastero, i tentativi di includere gli spettatori nell’azione teatrale. Anche a livello superficiale, per quanto significativo, Grotowski prese un vecchio emblema Reduta per il Laboratory Theatre (1986: 235-36).

Grotowski seguì e assorbì Osterwa; era come il suo predecessore e andò oltre di lui; fece un nuovo teatro sotto il vecchio segno di Reduta.

Dalcroze e Gurdjieff

Più intriganti, perché meno noti, sono i paralleli tra le ricerche di Grotowski e quelle di Emile Jaques Dalcroze, Martin Buber e Gurdjieff. Questi e molti altri, tra cui Shaw, Appia, Stanislavsky e Nijinsky, hanno partecipato o visto lavori a Hellerau, vicino a Dresda. Il progetto Hellerau durò solo dal 1911 al 1914, prima di essere fatto fuori dalla Prima Guerra Mondiale. Hellerau tornò a guardare l’opera d’arte totale [gesamtkunstwerk] di Wagner e si indirizzò verso il Bauhaus e il Black Mountain College. A Hellerau, l’idea di arte, salute e formazione convergevano. Gli euritmici di Dalcroze sono stati rimodellati sotto l’influenza di Adolph Appia, in un’arte integrata danza-musica-teatro. Buber ha partecipato al teatro di Hellerau9; e la planimetria fisica era così affascinante da indurre Gurdjieff a considerarlo nel 1922 per il suo quartier generale. Ma il legame che unisce Dalcroze, Gurdjieff e Grotowski va decisamente al di là di un fatto di natura immobiliare.

Qual era dunque Hellerau – un “prato raggiante” – il lavoro di Dalcroze? Hellerau era più di un teatro, era una comunità modello, per vivere in armonia con la natura e con l’arte. Nell’edificio del teatro, l’intero spazio era il risultato di un progetto. Spettatori e performer, illuminati da luci diffuse, osservavano e effettuavano movimenti che non esprimevano narrazione ma sentimenti. Dalcroze non lavorava con gli individui, ma con i gruppi, le folle. L’obiettivo era un’integrazione di musica, danza, teatro, illuminazione e scenografia. Dalcroze ha detto che “solo una comprensione intima delle sinergie e delle forze conflittuali dei nostri corpi può fornire l’indizio della futura arte di esprimere emozioni attraverso una folla; mentre la musica otterrà il miracolo di guidare i movimenti di quest’ultima – raggruppandola, separandola, eccitandola, deprimendola, in breve ‘orchestrandola’, secondo i dettami della naturale euritmia” (1976 [1921]: x). Dalcroze non indagò l’“ich und du” di Buber, la diade intima così importante per Grotowski. Né Dalcroze si spinse così lontano come Gurdjieff e Grotowski, affermando che il movimento e il canto “oggettivi” siano la verità incarnata, sentita e eseguita. Ma il lavoro di Dalcroze è un passo importante in questa strada.

Per Gurdjieff il movimento sacro della danza era il cuore della saggezza ricevuta dalla tradizione orale. Gurdjieff si descriveva come un “maestro di danza”, allineandosi con maestri Sufi, le cui danze rotanti incarnavano la loro comprensione del mondo10. Durante la maggior parte della sua vita di insegnante, Gurdjieff organizzò danze, a volte per grandi pubblici a pagamento – come a Parigi nel 1923 e a New York nel 1924 – a volte privatamente, per mecenati o discepoli. Gurdjieff pensava che il movimento avvicinasse le persone alla verità delle cose. Secondo James Moore:

L’interfaccia tra l’euritmica di Dalcroze e la Danza Sacra di Gurdjieff’s risale al periodo Tblisi, quando Jeanne [de] Salzmann mise gli alunni di Dalcroze a disposizione di Gurdjieff, per la dimostrazione all’Opera House del 22 giugno 1919. Nell’inverno del 1921, quando Gurdjieff arrivò a Hellerau più o meno sotto il patrocinio di Dalcroze, presentò evidentemente un programma analogo. […]. Jessmin Howarth e Rose Mary Nott – studenti di Dalcroze che abbandonarono l’euritmia e si unirono a Gurdjieff proprio in quel periodo – divennero più tardi insegnanti rispettati delle danze di Gurdjieff. Quando Gurdjieff arrivò per la prima volta a Parigi nel luglio del 1922, si stabilì nell’Institut Jacques Dalcroze, in Rue de Vaugirard (1991: 362).

Moore afferma che “la questione del contatto personale diretto tra Gurdjieff e Dalcroze non è chiara”. Ma a prescindere dal fatto che i due uomini abbiano interagito personalmente o meno, erano collegati da Jeanne de Salzmann che, più che mettere i suoi ballerini a “disposizione” di Gurdjieff, divenne il discepolo più vicino a Gurdjieff, l’erede della sua conoscenza, il raccoglitore della sua tradizione orale. Nella persona di de Salzmann, Dalcroze e Gurdjieff si incontrarono. Ma che dire di Grotowski?

Quando Grotowski incontrò per la prima volta Peter Brook, un gurdjieviano del rango più alto, l’inglese pensò che il polacco

fosse l’emissario di un ramo perduto della scuola di Gurdjieff, sopravvissuto in Polonia dopo l’emigrazione di Gurdjieff e dei suoi principali collaboratori in occidente, durante la Rivoluzione russa. Grotowski ipotizza che la conclusione di Brook fosse basata su certe accentuate somiglianze tra gli obiettivi di Grotowski e la retorica e la terminologia peculiare dell’insegnamento gurdjieviano, così come l’attenzione riposta da Gurdjieff sulla pratica del corpo, come mezzo per ricordare sé stessi […]. Ciò che poteva costituire una sorpresa per Brook, tuttavia, era il fatto che Grotowski non avessa mai sentito il nome del maestro armeno, prima di quel giorno (Wolford 1996: 225)

Grotowski ripete il diniego in un’intervista del 1991 (Grotowski 1996). L’imbroglione Grotowski è credibile? I viaggi giovanili di Grotowski lo portarono in molte delle regioni che Gurdjieff aveva esplorato all’inizio del secolo: l’Asia centrale interna, la Cina, l’India, il Tibet – imboccando l’antica via della seta, in aree dove danzavano i Sufi, dove Buddismo, Lamaismo, Induismo e Islam si nutrivano l’uno dell’altro. Anche all’inizio del Theatre of 13 Rows, Grotowski, così come Gurdjieff, lavorava in un circolo ristretto, trasmettendo la conoscenza direttamente per mezzo della danza, del canto, dell’espressione e dell’incontro intimo. Posto che Grotowski avesse appena 30 anni quando incontrò Brook, può mai darsi che nel suo perseguimento di una conoscenza esoterica – nella sua ricerca intorno a vecchie forme di cristianesimo, nei suoi studi sul Tao, il Vedismo, lo yoga, il Sufismo, la gnosi e lo sciamanesimo – Grotowski non abbia mai sentito il nome “Gurdjieff”?

O magari è possibile che una volta Grotowski abbia saputo di Gurdjieff e abbia capito quanto fosse vicina l’impostazione del loro lavoro, o abbia tratto alcuni elementi da lui. Discutendo di Objective Drama negli anni Ottanta, Grotowski usa termini molto simili a quelli usati da Gurdjieff, nel discutere delle leggi oggettive dell’arte. “Nella vera arte”, diceva Gurdjieff, “non c’è nulla di accidentale. È matematica. Tutto in essa può essere calcolato, tutto può essere conosciuto in anticipo […]. Produrrà sempre, e con certezza matematica, la stessa impressione […]. Questa è l’arte reale, oggettiva” (Ouspensky 1949: 26-27). Ouspensky chiese a Gurdjieff se quest’arte esistesse realmente. “Di certo. La grande Sfinge in Egitto è una opera d’arte del genere”. Ma ai nostri giorni? Gurdjieff raccontò di ciò che aveva visto “nel deserto, ai piedi dell’Hindu Kush”, un antico dio o demone. “Quell’immagine conteneva molte cose, un grande, completo e complesso sistema cosmologico. E lentamente, passo dopo passo, abbiamo iniziato a decifrare questo sistema […]. In tutta la statua non c’era nulla di accidentale, nulla senza significato” (27). Il desiderio di Gurdjieff di produrre la sua “arte oggettiva” lo portò a sintetizzare da diverse fonti ciò che lui chiamava The Movements. Secondo Ouspensky, “abbiamo iniziato esercizi ritmici con la musica, danze dervisce, diversi tipi di esercizi mentali, lo studio di diversi modi di respirare, e così via” (372). Col tempo, Gurdjieff mise tutto questo insieme in un “balletto”, o “rivista”, eseguito a Tiflis, a Parigi e a New York, laddove “erano comprese […] danze, esercizi e cerimonie di diversi dervisci [soprattutto Mevlevi], così come molte danze orientali poco conosciute” (382). Michel de Salzmann, figlio di Jeanne e importante gurdjieviano, scrive che “l’obiettivo di Gurdjieff era mostrare i principi dimenticati di una ‘scienza dei movimenti’ oggettiva e dimostrare il suo ruolo specifico, nel lavoro di maturazione spirituale” (1987: 139). i Movements mostrano anche come Dalcroze entri nel lavoro, attraverso Jeanne de Salzmann. Inoltre, i Movements sono simili ai Motions di Grotowski, esercizi di base sviluppati durante la fase dell’Objective Drama. Nei Motions, come nei Movements, i dettagli fisici sono codificati in modo molto preciso, ripetuti esattamente nello stesso modo.

Non avendo eseguito Movements o Motions, né assistito alla loro esecuzione, non pretendo di confrontarli tra loro. Tuttavia, fotografie e descrizioni mostrano ciò che io ritengo essere qualcosa di più di una mera coincidenza. Le somiglianze possono essere spiegate in due modi. O Grotowski ha preso qualcosa da Gurdjieff, oppure entrambi hanno tratto dalle stesse fonti. Comunque, ciò che a me interessa è la sollecitazione alla base del loro lavoro.

Speeth dice che i Movements “sono una specie di meditazione in azione, che ha anche le proprietà di una forma d’arte e di un linguaggio” (1989: 83, 88). Questo potrebbe anche essere detto di Downstairs Action e di Action. Grotowski, in un’intervista pubblicata su Encounters with Gurdjieff, osserva:

I Movements: sono qualcosa di fondamentale. Gurdjieff ha le sue radici in una tradizione antichissima e allo stesso tempo è un contemporaneo. Sapeva, con una competenza effettiva, come agire in accordo col mondo moderno. È un caso molto raro […]. Nel momento in cui ho iniziato a studiare il lavoro di Gurdjieff, i confronti pratici non dovevano solo corroborare, ma anche toccarmi, è ovvio. Altrimenti, sarebbe difficile analizzare: quali dettagli, quali elementi? Perché c’è anche un pericolo nel chiedersi: “Da dove viene questo elemento, e da dove quest’altro?”. Ciò che è importante non è che provengano da qualche parte, ma che funzionino. È chiaro questo criterio? Questo significa: c’è un elemento che funziona, ed è corroborato qua e là. Nel caso di Gurdjieff, l’impatto è qualcosa di molto antico e di contemporaneo. Sia la tradizione che la ricerca sono forti. E, allo stesso tempo, c’è un modo di porre alcune domande di fondo. Qui non siamo più nei dati tecnici, ma nelle profondità delle idee, con tutti i pericoli che ciò comporta (1996: 93-94).

Non sta forse Grotowski descrivendo sé stesso, mentre descrive Gurdjieff? Le convergenze sono altrettanto chiare quando parla del suo lavoro degli anni Novanta a Pontedera:

Attualmente il mio lavoro è molto legato al canto antico, al canto “vibratorio”. In un periodo del mio Laboratory Theatre, ad esempio in The Constant Prince, la ricerca era focalizzata meno sul canto, sebbene in un certo modo fosse già un’azione cantata. Ho sempre considerato molto strano voler lavorare su voce o canto, o anche sulle parole pronunciate, mentre li escludevo dalle reazioni corporee. I due aspetti sono molto legati; passano l’uno attraverso l’altro […]. Presso il mio Workcenter di Pontedera, in Italia, per quanto riguarda gli elementi tecnici, tutto è come è nelle arti performative; lavoriamo sul canto, sulle qualità vibratorie del canto, sugli impulsi e le azioni fisiche, sulle forme del movimento; e possono apparire anche motivi narrativi. Tutto questo viene filtrato e strutturato fino al punto di creare una struttura compiuta, un’Azione, precisa e ripetibile come una produzione scenica. Tuttavia, non è una produzione. Si può chiamarla arte come veicolo, o anche oggettività del rituale […]. Quando mi riferisco al rituale, parlo della sua oggettività: vale a dire che gli elementi dell’Azione sono, attraverso il loro impatto diretto, gli strumenti del lavoro sul corpo, il cuore e la testa dei doers (Grotowski 1996: 87-88).

Ironia della sorte, il regista Grotowski si fa in quattro per negare il teatro, mentre il maestro spirituale Gurdjieff si è comportato molto spesso come impresario.

Ciò che lega l’uno all’altro, in definitiva, è la loro ricerca della gnosi, un’antica pratica religiosa del Medio Oriente interno, dell’Asia centrale, dell’Iran, dell’Afghanistan.

Jerzy Grotowski, Antoni Jahołkowski e Wiesław Hoszowski in Brzezinka, primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.
Jerzy Grotowski, Antoni Jahołkowski (attore Teatr Laboratorium) e Wiesław Hoszowski in Brzezinka, primi anni Settanta. Foto di Andrzej Paluchiewicz.

Sufi e Hasidi

La gnosi è una parola greca che significa, approssimativamente, “conoscere”. È affine all’inglese “know” e al sanscrito jnana, lo yoga della saggezza o del sapere. La gnosi è una tradizione “sotterranea”, a volte eretica, nel giudaismo, nel cristianesimo e nell’islam. La gnosi è affine al sufismo e alla religione ermetica dell’Egitto e della Grecia. Le precise fonti della gnosi sono dibattute. Alcuni le riferiscono alla cultura egiziana, alcuni a quella ebraica, alcuni a quella iraniana. Probabilmente sono tutte queste, mescolate dinamicamente durante i due millenni che precedono Cristo. La gnosi ha resistito a lungo all’ortodossia, sia ebraica, cristiana o islamica. In alcune manifestazioni – negli insegnamenti di Mani (216-77), per esempio – la gnosi fu condannata come eresia. La fonte greca-egiziana della gnosi è Ermete Trismegisto, “l’Ermete tre volte grande”, che proclamò: “chi conosce sé stesso, sa tutto”. Questa conoscenza può essere tragica, come nell’Edipo a Sofocle. Questo “sé” non è la persona, ma l’identità del brahman e dell’atman: ciò che in ciascuno è Tutto. È quel sé impersonale che Edipo vede dopo essersi pugnalato negli occhi. È la visione del cieco che Krishna conferisce ad Arjuna nella Bhagavad-Gita.

KRISHNA:

Ma non puoi vedermi

con il tuo occhio;

Ti darò l’occhio per vedere

la maestà del mio yoga

SANJAYA:

O re, dicendo questo, Krishna

il grande signore dello yoga,

ha rivelato ad Arjuna

la vera maestà di sé stesso […]

La luminosità di mille soli

che bruciano insieme nel cielo

è la luce di quel grande sé.

E Arjuna ha visto l’intero universo

convergere in un unico corpo […]

ARJUNA

O Dio! […]

Tu sei l’imperituro.

Inizio, intermezzo e fine

non conosci.

Le tue braccia, infinite.

I tuoi occhi il sole e la luna,

la tua bocca fuoco fiammeggiante

che brucia tutto quello che c’è11.

Arjuna ha il coraggio di chiedere: “Chi sei in questo essere terrificante essere che io vedo?”. “Sono il tempo, ciò che ingoia tutto”, dice Krishna. La gnosi sa che l’atman-brahman è un assoluto del quale si può fare esperienza, ma che non può essere ridotto a discorso. La gnosi si esprime in metafore e pratiche. La gnosi è un viaggio verso l’alto lungo il sentiero dei chakra, le antiche ruote yogiche di energia all’interno di ogni essere umano, dal centro più basso alla base della spina dorsale fino all’alto nel centro del cranio. La gnosi è la scintilla sparsa del fuoco originale, braci che possono essere raccolte in centri di luce più grandi e più luminosi. Per cercare queste braci miracolose, queste “fonti”, Gurdjieff e Grotowski intrapresero i loro viaggi geografici, mistici e teatrali.

Nell’intervista del 1991 citata precedentemente, Grotowski dice che il suo lavoro

è come una sorta di ascensore, ma un ascensore di tempi molto antichi, come nelle cosiddette società primitive: un grande cesto con una corda, per mezzo del quale la persona che è dentro, con il suo sforzo, deve spostarsi da un livello ad un altro. La questione della verticalità significa passare da un livello per così dire grossolano – in un certo senso, si potrebbe dire il livello “di tutti i giorni” – a un livello di energia molto più sottile, o addirittura verso la connessione superiore [corsivo di Grotowski]. A questo punto, dire di più non sarebbe giusto (88-89).

Ma poi Grotowski, a riguardo, ci dice di più. Descrive come, in Action, i canti siano il modo di elevarsi verso il sottile e di fare si che il sottile discenda “al livello più ordinario”. Questi canti sono “molto antichi […] legati all’approccio rituale, perché questo è il materiale del nostro lavoro” (90-91).

Grotowski sa che culture diverse, in periodi diversi, hanno termini diversi per il medesimo sistema. Per il flusso ascendente e discendente dell’energia trova teorie e pratiche analoghe in Gurdjieff, nella teoria dei chakra, in India, Cina ed Europa. Tuttavia, resiste a “nominare”, a ridurre a discorso.

In generale, si può dire che noi cerchiamo di non congelare il linguaggio. Viene usato un linguaggio “intenzionale”, cioè un linguaggio che funziona solo tra le persone che partecipano al lavoro. Lì, dove ci si avvicina alle questioni più complesse, al cosiddetto lavoro interiore, evito il più possibile ogni verbalizzazione (92).

Poi, esasperato dall’insistenza dell’intervistatore, “Ma se mi stai spingendo verso la lingua delle religioni allora … O.K. … mi lascio andare” (105). In un’esplosione di riferimenti, Grotowski spazia sulle figure metaforiche che sono tipiche delle leggende: la scala di Giacobbe, Kali, la Shekhinah, la jnana, la gnosi. “Nelle tradizioni, esistono diverse versioni delle due correnti del mondo: quella discendente e quella ascendente. Ciò può assumere forme di spiegazione quasi gnostiche […], ma si dà anche nelle scienze. L’apparire della vita e della coscienza potrebbero essere fenomeni un po’ controcorrente, perché – in senso scientifico – il mondo è stato creato tra l’entropia e nell’entropia: l’apparire della vita è un tipo di processo opposto […]” (105-6). Qui l’intervista termina bruscamente.

Quando i Sufi dervisci della confraternita Mevlevi danzano, la palma destra è rivolta verso l’alto e riceve l’energia solare divina; la sinistra trasmette l’energia alla terra, alla gente. Come nella gnosi, il lavoro consiste nel raccogliere energia, focalizzarla e ridirigerla. Funziona in modo simile a quello degli hasidi, che cercano la Shekhinah, o degli yogin, che addestrano il loro serpente kundalini a risalire la scala dei chakra. Ognuno fa parte della “piccola controcorrente” che agisce contro l’entropia universale. I sufi possono essere di qualsiasi religione, o (come Grotowski) di nessuna. Sono “nascosti più profondamente dei praticanti di qualunque scuola segreta, ma è noto che gli individui sufi siano migliaia […] nelle terre degli arabi, dei turchi, dei persiani, degli afghani, degli indiani, dei malesi” (Shah 1971: 18). La conoscenza sufica è varia e complessa12, e risale in origine a Toth / Hermes13, a fonti gnostiche, ebraiche, egiziane, greche e islamiche. Il Sufismo è una pratica incarnata, che esiste nelle sue danze e nei canti. Le cerimonie dell’Ordine Mevlevi – fondato nel XIII secolo a Konya (l’odierna Turchia) dal poeta e mistico Mevlana Celaleddin Rumi – furono studiate a fondo da Gurdjieff.

Nel 1920 Gurdjieff portò il suo Istituto in esilio in Turchia e studiò le tecniche dei rituali Rufai e Mevlevi […]. Più tardi, la sua troupe viaggiò attraverso l’Europa e gli Stati Uniti, incorporando di continuo qualche elemento dei movimenti dei Dervisci Rotanti, combinati con altre danze dervisce dell’Asia centrale, con rituali assiro-cristiani, e con danze popolari e contadine della Turchia e della Transcaspia. I membri maschili della sua compagnia erano generalmente vestiti esattamente come i Dervisci Rotanti (Halman e And 1983: 73-74).

I dervisci, i Movements, i Motions, Downstairs Action, Action sono collegati dal tipo di movimento utilizzato, dalle fonti di quel movimento, dallo scopo e dalla funzione. Non per ridurre Grotowski al Sufismo, ma per indicare il Sufismo come un’altra forte presenza all’interno del corpo grotowskiano (non il suo in particolare, ma di quelli che Grotowski guidò più intensamente: Cynkutis, Cieslak, Richards).

Se il Sufismo (e tutto ciò cui si riferisce e sintetizza) è un ingrediente chiave nel lavoro di Grotowski, il suo modo di lavorare è quello Hasidico. Per trovare sufi, yogi e altri sapienti asiatici, Grotowski doveva viaggiare. Gli Hasidi erano tutti intorno a lui in Polonia, proprio mentre salivano al cielo nel fumo dell’Olocausto (una sparizione rappresentata in Akropolis). Il moderno chassidismo è sorto nell’Europa orientale a metà del XVIII secolo, tra i seguaci di Yisrael ben Eliezer, il Baal Shem Tov (“Maestro del buon nome”) noto con il suo acronimo, Besht. Prima di Besht – nel 1665, durante un periodo di sofferenza ebraica senza eguali in Europa prima dell’Olocausto – fu Shabbetai Tsevi ad autoproclamarsi Messia e ad “essere venerato come ‘nostro signore e re’ dal Cairo ad Amburgo, da Salonicco ad Amsterdam, dal Marocco allo Yemen, dalla Polonia alla Persia” (Werblowsky 1987: 193). Poi, quando nel 1666, imprigionato dagli Ottomani e pressato a convertirsi o morire per tortura, Shabbetai cambiò la sua yamulka con un turbante, una grande delusione strinse d’angoscia le comunità ebraiche, preparando la strada per Besht e per il Chassidismo. Gli Hasidi ricusarono Shabbetai. Piuttosto, accentuarono le pratiche connesse al Kaballah e allo Zohar. Come nella gnosi, ma in termini che accolgono il monismo ebraico (contrapposto al dualismo gnostico), gli Hasidi credono che Dio si sia “ritirato dal mondo, lasciando libero lo spazio nel quale il cosmo è stato quindi creato, grazie alla luce sacra della divinità, primo esilio di Dio” (Dan 1987: 207). O, come dice Martin Buber:

L’insegnamento cabalistico, che il chassidismo ha inserito nel suo stesso sistema, […] insegna che il fuoco della grazia creativa si è riversato in tutta la sua pienezza nei “vasi” [Kelim], le prime forme primitive create; ma i vasii non potevano sopportarlo, “si spezzarono” – e il flusso balenò in una infinità di “scintille”, i “gusci” [Qelipot] crebbero intorno a loro, il desiderio, la contaminazione e il male entrarono nel mondo. Ma Egli non lascia che il mondo si trovi da solo, nell’abisso delle sue proprie lotte; la sua stessa Gloria discende nel mondo, dietro alle scintille della sua passione creativa; la sua Shekhinah vi penetra, entra in questo “Esilio”, vive in esso; vive con le cose dolorose, sofferenti, create in mezzo alle loro deturpazioni – desideroso di riscattarle (1948: 105-06).

[…]

La Shekhinah di Dio scese da una sfera all’altra, vagò da un mondo all’altro, avvolse sé stessa con guscio su guscio, finché arrivò nel suo esilio più lontano – in noi. Nel nostro mondo si compie il destino di Dio (1948: 64 67).

Gli Hasidi cercano la Shekhinah – che i Greci chiamano Sophia, la luce della saggezza – per spezzare i “gusci” e raccogliere le sue “scintille”. Nei termini di Grotowski, questa ricerca della Shekhinah è il suo Theatre of Sources, il suo Objective Drama, il suo Art as Vehicle.

Grotowski dice che Buber – “l’ultimo grande hasida” – lo colpì più di Gurdjieff. “Conoscevo lo Zohar da quando avevo 10 anni”, mi disse Grotowski, “e Buber quando ne avevo 18”. Ma che tipo di impatto ha avuto l’hasidismo di Buber? Certamente il metodo di Grotowski di lavorare con coloro che un tempo chiamava attori e ora definisce “performer”, o “doer”, ha la qualità dell’“ich und du”, un dialogo intimo, unico e irripetibile. Ma c’è di più. Gli hasidi adorano Dio direttamente, sottolineando il “contatto mistico con Dio attraverso il devekut, di solito raggiunto pregando, ma anche quando una persona lavora per il suo sostentamento, o è impegnata in qualsiasi altra attività fisica” (Dan 1987: 207). Gli hasidi credono nello zaddiq, la persona giusta, di cui ci sono pochi esemplari preziosi.

[…] in ogni generazione ci sono alcune persone rette che possono e devono, con la loro eccezionale adorazione mistica, emendare i peccati e le trasgressioni delle persone meno dotate […]. Questa teoria richiede che lo zaddiq sia in costante movimento tra il bene e il male, tra cielo e terra.

[…] Deve essere vicino al male che deve correggere, sottoponendosi al processo di una “caduta” […] (Dan 1987: 208).

“L’ascensore primordiale” di Grotowski, il salire, il precipitare; il ricorrente tema della ricerca e del sacrificio in The Constant Prince, Akropolis, Apocalypsis cum Figuris, riconfigurato ma non abbandonato nelle varie fasi della “ricerca culturale”, dagli esperimenti parateatrali fino a Art as Vehicle, mostrano forti affinità chassidiche.

Ma non è nei sistemi filosofici che chassidismo e Grotowski si avvicinano l’un l’altro. È nel modo che Grotowski aveva di esercitare la leadership, nella sua relazione con la sua cerchia ristretta e con il resto del mondo. Rebbe Grotowski era il centro da cui tutto irradia. La sua autorità era indiscussa, anche se oggetto di pettegolezzi. Le storie su di lui abbondavano. La sua aura lo circondava, proteggeva e illuminava. Il nucleo di ciò che doveva insegnare non può essere tradotto in parole. Lui era sempre alla ricerca.

Nella storia delle religioni, lo stesso Baal Shem appartiene a quelle figure centrali che hanno svolto il loro lavoro vivendo in un certo modo, cioè non partendo da un insegnamento ma puntando a insegnare; e che hanno vissuto in modo tale da trasformare la loro vita in insegnamento, come un insegnamento non ancora tradotto in parole (Buber 1948: 2).

Osservare quelli che assistevano Grotowski nello svolgimento del suo lavoro, equivaleva ad essere testimoni di una comunità chassidica, con il suo rebbe. Grotowski rispondeva all’amore dei suoi discepoli in modo non ipocrita o sentimentale, ma nel tipico stile chassidico: paradossalmente, con arguzia, esigendo un duro incessante lavoro, capace di irradiare luce e energia. Tutto ciò, come sottolinea Buber, ha analogie con lo Zen. “Sia nello [Zen che nel chassidismo], l’uomo non venera la verità umana nella forma di un possesso, ma nella forma di un movimento; non come un fuoco che arde nel focolare, ma – per dirlo con la lingua del nostro tempo – come una scintilla elettrica, che è accesa dal contatto” (1948: 194).

Grotowski era hasida (e non solo) anche in un altro modo: il “posto” delle donne nel suo lavoro. Sì, c’erano alcune forti performer femminili nei progetti di Grotowski, in particolare Rena Mirecka nel Theatre of Productions e Haitian Maud Robert in Objective Drama. Ma i ruoli principali sono sempre stati maschili. Almeno altre due donne sono state molto importanti per Grotowski, ma non nel lavoro in senso stretto. Carla Pollastrelli ha gestito il Pontedera Workcenter. E, fino a quando il cancro non l’ha colta nel 1992, Mercedes Gregory era un’amica molto intima, che curò il documentario su Downstairs Action. Grotowski parla di Chiquita (così era conosciuta) e di suo marito Andre Gregory come della “mia famiglia”. Ma, in genere, le donne sono state una piccola minoranza tra i performer e del tutto assenti come eredi. Qui, Grotowski si differenzia radicalmente da Gurdjieff, il cui erede fu Jeanne de Salzmann. Il “sessismo strutturale” di Grotowski derivava dalla sua convinzione circa l’esistenza di differenze archetipiche tra i generi e dal suo rispetto quasi reverenziale per la madre. Questo atteggiamento si confà al trattamento chassidico delle donne e alla loro considerazione nella Shekhinah. Ma nel trattamento delle donne da parte di Grotowski c’è anche qualcosa di più che una piccola dose di cattolicesimo polacco. Nel suo lavoro artistico, le donne sono espresse nell’opposizione polare della Vergine Maria o della Maddalena.

Jacek Zmysłowski, Zbigniew Kozłowski, Stanisław Scierski e Ryszard Cieślak in Australia nella primavera del 1974. Foto di Andrzej Paluchiewicz.
Jacek Zmysłowski (Membro dell’ Institute of the Actor – Laboratory Theatre), Zbigniew Kozłowski (attore Teatr Laboratorium), Stanisław Scierski e Ryszard Cieślak in Australia nella primavera del 1974. Foto di Andrzej Paluchiewicz.

L’American Connection

Il Grotowski che lasciò l’America nel 1969, dopo le esibizioni del Laboratory Theatre, era una persona; quella che ritornò nel 1970 – per tenere le conferenze che sarebbero diventate Holiday – era un’altra. In mezzo, c’era il terzo viaggio in India e un altro tra le due coste gli Stati Uniti, in autostop. A lasciare New York c’era un intellettuale polacco, grassoccio e pallido, che indossava un abito nero, con gli occhi protetti da occhiali scuri anche al chiuso, i capelli corti ben pettinati, le guance rasate e lisce come quelle di un bambino. Al ritorno, era un uomo magro, in jeans e borsa a tracolla, un’esile barba incolta che gli ricopriva il volto, occhi ben visibili attraverso lenti spesse ma chiare, capelli di seta che ricadevano sulle spalle. Questo Grotowski sembrava sia un hippy che un sapiente cinese senza età. Qualunque cosa gli fosse successo, era sicuramente di più di un incontro in un ashram o di due ore in una merceria di Haight Ashbury. Credo che l’incontro di Grotowski con la cultura giovanile americana sia stato decisivo. Del resto, Grotowski si era precedentemente immerso nelle culture asiatiche, ma l’America che incontrava per la strada era nuova per lui.

Cosa aveva mai visto, fatto e assorbito Grotowski durante il suo viaggio americano? Cosa gli sia davvero successo in viaggio non è noto; ma sicuramente si era imbevuto delle straordinarie energie degli anni Sessanta. In California, in particolare, entrò in contatto con varie correnti importanti: gli hippie in piena fioritura, le idee di Carlos Castaneda e Barbara Myerhoff (entrambi incontrati)14, le culture dei nativi americani, in particolare le pratiche sciamaniche del Messico nord-occidentale (di grande importanza per Artaud, negli anni Trenta e successivi); poi, la forte influenza dell’Istituto Esalen che, come Hellerau più di mezzo secolo prima, fondeva arte, religione, scienza e “lavoro spirituale”.

Grotowski assorbì le cose dall’incipiente new age, allora human potential movement. Grotowski afferma di non aver mai visitato Esalen, né di aver incontrato i terapeuti della Gestalt, Fritz o Laura Perls (marito e moglie), lì o a San Francisco. Ma i legami di Esalen con le religioni e le pratiche orientali (yoga, zen, massaggio, meditazione, musica, danza), il suo programma di integrazione tra il corpo e la mente, le persone forti e carismatiche che erano lì tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, come il lavoro di Gurdjieff, coincidevano fortemente con gli interessi e la ricerca di Grotowski.

Esalen e lo human potential movement, che aveva lì il suo centro, erano storicamente legati al teatro attraverso Fritz e Laura Perls e attraverso il fondatore dello psicodramma, Jacob Moreno. Negli anni Venti, prima di diventare psicoanalista, Fritz Perls aveva studiato teatro a Berlino con Max Reinhardt. Nel corso della sua carriera, Perls “era fortemente interessato a integrare movimento e danza nella sua terapia attiva, come mezzo di auto-espressione” (Gaines 1979: 112). Come co-fondatore della Gestalt Therapy, la scrittrice Perls è anche co-autrice con Ralph F. Hefferline e con il drammaturgo e poeta Paul Goodman dell’influente Gestalt Therapy: Excitement and Growth in the Human Personality (1951). A New York, negli anni Cinquanta e Sessanta, Goodman ha lavorato con il Living Theatre. Gli stessi Perls hanno lavorato brevemente con il Living. Anche i Perl erano influenzati da Buber. Per lo meno, negli anni Venti, quando i Perls vivevano a Francoforte, Laura Perls frequentava le conferenze di Buber. Buber, ovviamente, era stato attivo a Hellerau prima di loro, collaborando a produzioni e scrivendo di teatro. A Esalen e altrove, le sedute di terapia di Fritz Perls, di fronte a un pubblico di diverse centinaia di persone, erano molto teatrali, perché utilizzavano metodi di confronto diretto (il famoso “hot-seat” di Perls) e un intenso dialogo faccia a faccia. Sulla costa, Perls condusse una serie di sessioni di terapia della Gestalt per il San Francisco Dancers’ Workshop di Anna Halprin. Dalla metà degli anni Sessanta in poi, Halprin si stava allontanando dalla “art dance”, per avvicinarsi a esperimenti molto vicini a quello che Grotowski avrebbe fatto durante i suoi periodi Paratheatre, Theatre of Sources, Objective Drama e Art as Vehicle. Halprin era interessata a scoprire o inventare rituali e a stabilire collegamenti con la conoscenza tradizionale e archetipica. Era anche profondamente impegnata nella guarigione, sia a livello individuale che a livello di comunità. Come coreografo, Halprin si affidava più al movimento e al canto che alle parole pronunciate. Lavorò sull’intimità delle persone, su materiale molto privato, aiutandole a riconnettersi con gli archetipi attraverso gesti, movimenti, canto e danza15. Non dico che Grotowski conoscesse Halprin o Perls, ma che lo zeitgeist nella California della fine degli anni Sessanta e dei primi anni Settanta deve aver colpito Grotowski. Ciò su cui stava lavorando più o meno privatamente, quasi in segreto, era cultura pubblica in California.

Grotowski incontrò Carlos Castaneda. Nei suoi libri di “conoscenza Yaqui”, della collana “Don Juan”, Castaneda aveva coltivato (mietendo una fortuna) un terreno intermedio tra la ricerca sul campo e la narrativa16. Io ho una conoscenza di prima mano degli Yaqui, almeno quelli che vivono vicino a Tucson17; e le persone e le pratiche di cui parla Castaneda non appartengono a questi. Ciò che Castaneda ha fatto è stato intrecciare in un unico tessuto vari filoni di leggende tradizionali, sia nativo-americane che asiatiche. A parte la veridicità dei suoi dati sul campo, il tema di fondo del lavoro di Castaneda è l’idea che i modi di conoscere tradizionali e antichi siano a portata di mano, se solo uno sa come e insieme a chi guardare. Questa conoscenza, potente, orale, pericolosa e bella, era letteralmente al di là del confine messicano, rispetto alla California ultra-moderna. Ma ciò che lo sciamano Yaqui Don Juan poteva offrire era accessibile soltanto attraverso l’iniziazione, dopo aver sopportato parecchie prove. Intenzionalmente o no, Castaneda ha dato il via a un’industria turistica culturale di alto livello: “Conosco uno sciamano che può insegnarti” (a un certo prezzo). Grotowski detestava questo tipo di “dilettantismo”. Ma questo non gli impediva di viaggiare in Messico (come fece Artaud negli anni Trenta). Inoltre, credo che Grotowski abbia scoperto in Castaneda un nucleo di verità esperita. Il Don Juan di Castaneda – chiunque fosse davvero, inventato o coacervo – era un “uomo straordinario” nel senso di e Grotowski: qualcuno da cui imparare. E Grotowski riconobbe molte delle fonti indù e sufi che Castaneda, nei suoi ultimi libri, rappresenta come Yaqui.

Le fonti dell’americano human potential movement e dello sciamanismo new age includono esuli della Scuola di Francoforte, neo-hasidi buberiani “ich-du”, figli dei fiori psichedelici eredi di Timothy Leary e di Allan Watts, persone che cercavano modi di conoscere asiatici e nativo americani (dallo yoga allo Zen a Castaneda) e innovatori in psicoanalisi come Moreno e Perls. Queste forze fluivano insieme, sotto l’egida della tipica inclinazione californiana per l’ibridazione. Lo human potential movement e lo sciamanismo new age riuscirono ad attecchire così fortemente negli anni Sessanta e nei primi anni Settanta, perché l’America sembrava allora aperta al cambiamento. L’African American Freedom Movement e il movimento studentesco contro la guerra del Vietnam condividevano strategie, persone e obiettivi a lungo termine. Attraverso sit-in, marce e dimostrazioni, o esprimendo nelle forme di vita i propri valori, vivendoli, i seguaci dei Movimenti (una toccante coincidenza di denominazione [con i Movements di Gurdjieff]) agirono da un fondamento morale ed etico, sfidando efficacemente sia l’autorità ufficiale che la cultura dominante. Raramente, nella storia americana, intellettuali, studenti, artisti e persone ordinarie di diverso colore, classe ed etnia hanno realizzato un tale concerto. Fu un periodo di speranze utopiche. In autostop attraverso questa America, che termina in California, cosa deve aver sentito e pensato Grotowski – un uomo della monolitica Polonia comunista? Scambiando il suo abito scuro con i blue-jeans, la sua valigia con uno zaino, il suo viso rasato con una barba, la sua obesità con la magrezza, quell’uomo stava affermando qualcosa.

Grotowski non era una persona le cui “fonti” possono essere ridotte a un semplice “da questo deriva”. Era persona che accumulava conoscenze, integrava ciò che apprendeva e si impegnava ad un continuo processo di ricerca. Nessuna catena causale semplice può essere costruita per spiegare il suo lavoro o la sua personalità. Ma, dal mio punto di vista, il suo viaggio attraverso l’America, le persone che ha incontrato, la cultura giovanile che ha visto e alla quale molto probabilmente ha partecipato, le interazioni che forse ha avuto con lo human potential movement, hanno rafforzato i cambiamenti che erano impliciti nel suo programma europeo – la connessione con Gurdjieff, Dalcroze, sufi e chassidismo. In effetti, la cultura americana di quell’epoca era alimentata da questo flusso europeo. La fuga dal nazismo di intellettuali e artisti, soprattutto ebrei, portò in America un pacchetto di semi per lo human potential movement; l’altro pacchetto proveniva dall’altra parte dell’Oceano Pacifico. Presto iniziarono collaborazioni tra le due coste, tra le idee e pratiche asiatiche, nativo- americane e quelle europee. Non a caso, l’area del Pacifico della Seconda Guerra Mondiale, l’occupazione del Giappone, la guerra di Corea e la guerra del Vietnam hanno alimentato l’interesse americano per quello che sarebbe diventato noto come il “Pacific Rim”. La politica anticomunista impose che negli anni Cinquanta e Sessanta la Cina fosse esclusa da questo interesse. La connessione cinese è iniziata in modo più profondo dopo il famoso viaggio di Nixon a Pechino, del 1972.

Ciò che Grotowski vide nell’America tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta rafforzò le tendenze già operanti nel suo lavoro: un senso esteso del teatro, il ponte tra “produzioni” e “fonti”; un’enfasi sul processo rispetto al prodotto; una ricerca sistematica sulle pratiche tradizionali di performance; un ricorso alla danza e al canto, piuttosto che al dialogo parlato; la possibilità di integrare la conoscenza della performance tra culture diverse. Nel modificare il suo aspetto, Grotowski si alleò con una cultura giovanile utopica, che credeva nella possibilità di cambiare il mondo cambiando sé stessi; e che i “viaggi interiori” fossero forieri di trasformazioni, così come quelli esteriori. Ovviamente, Grotowski ha interpretato nei suoi termini ciò che vedeva. Rifiutò ciò che sentiva essere “auto-indulgente”, oppure debole. Ma portò via con sé l’idea che la performance, piuttosto che il teatro, fosse la strada che avrebbe dovuto percorrere. Un poster di Grotowski apparve un poco più tardi, nel 1979, in occasione del ventesimo anniversario del Laboratory Theatre. Grotowski è raffigurato come due persone, che stanno camminando l’una verso l’altra, l’una andando e l’altra venendo, rispetto all’osservatore: è magro, con i capelli lunghi, con una giacca di blu jeans e la borsa a tracolla, camminando per strada. Il Grotowski di questo periodo, con la sua barba corta e un lieve sorriso, assomiglia più a Bob Dylan che a un regista teatrale europeo.

Importanza di Grotowski, debolezza di Grotowski

Grotowski è importante, perché porta avanti il contributo principale di Stanislavsky e Meyerhold: focalizzare l’arte teatrale sull’attore, piuttosto che sul drammaturgo. È importante, perché aiuta i performer a connettere le esperienze e i ricordi del loro corpo-mente con gli elementi più “oggettivi” dell’espressione teatrale – movimenti, danze e canti – desunti da culture “antiche” o “tradizionali” (le virgolette saranno spiegate più avanti). È importante, perché persegue un processo di montaggio in cui i performer cuciono con rigore questi frammenti antichi e tradizionali della performance, in interi coerenti. Ed è importante, perché il suo lavoro, incarnato nei successori da lui designati e in una rete complessa e estesa di persone e gruppi, ha diffuso la sua saggezza e la sua pratica: l’influenza di Grotowski crescerà, negli anni che seguono la sua morte.

Grotowski ha ricercato, utilizzato e articolato un sistema coerente (e pensato a fondo) di recitazione, di formazione degli attori, di messa in scena, di scenografia e di montaggio testuale. Certamente, dalla fine degli anni Sessanta, non ha lavorato in modo esclusivo su questi problemi; ma le sue idee hanno completamente permeato la pratica teatrale, nell’Occidente e oltre. Grotowski conosceva la storia del teatro europeo e, sebbene non lo abbia detto in modo esplicito, le tendenze del suo lavoro indicano che egli cercava un posto importante per sé stesso, in quella storia. Un certo numero di gruppi influenzati da Grotowski e un numero molto maggiore di individui da influenzati lavorano oggi nel teatro. Queste “propaggini” sono arrivate a ondate, provenienti dai diversi periodi del lavoro di Grotowski. Di questi, solo alcuni possono essere qui citati. Dal Theatre of Productions c’è, ovviamente, Barba e il suo Odin Theatre; ma anche il Performance Group e il Manhattan Project di Andre Gregory. Da Paratheatre e Theatre of Sources c’è Gardzienice, o il lavoro di Nicholas Nunez e Helena Guardia in Messico. Da Objective Drama c’è il New World Theatre Laboratory.

Il lavoro di Grotowski ha influenzato campi diversi, rispetto al mero teatro: danza, performance art e guarigione. La pratica di Grotowski a partire dal Theatre of Productions – per lo più tutto ciò che ha fatto dopo il 1970 – lo ha portato a una ricerca le cui ramificazioni non sono ancora chiare. La prima fase di questo lavoro, Paratheatre, si rivelerà probabilmente poco importante (tranne per coloro che desiderano comprendere la traiettoria di Grotowski, e per coloro le cui vite sono state cambiate da queste esperienze). Ma le fasi successive, in particolare Objective Drama e Art as Vehicle, hanno richiamato Grotowski – ancora una volta – sul teatro come teatro. Art as Vehicle chiude il cerchio – spirale o il vortice sarebbero figure migliori – con il Theatre of Productions. In Downstairs Action e Action ci sono montaggi scenici, ruoli, e almeno l’accenno di una narrazione.

Action non era una performance pianificata regolarmente per un pubblico pagante. Veniva mostrata a un pubblico invitato, per lo più persone strettamente associate a Grotowski, gruppi invitati di giovani performer e studiosi. Non descriverò Action qui: Lisa Wolford lo ha fatto, nel capitolo 41 di The Grotowski Sourcebook. Per coloro che conoscono il lavoro del “teatro povero” di Grotowski, Action non è una sorpresa. Canto, danza, coro: intensità imbottigliata in uno spazio ristretto, che ammette solo pochi spettatori; nessun palcoscenico in quanto tale, ma movimento in tutto lo spazio; gli spettatori-testimoni “affrontati”, ma non invitati a partecipare. I performer sono ben addestrati e altamente disciplinati nel corpo e nella voce. Ancora più impressionante, incarnano e comunicano tra loro e ai testimoni una realtà spirituale, una realtà in cui si crede, che supera di gran lunga il “come se” di Stanislavskij. Eppure, questi protagonisti non sono in trance, non sono posseduti. Al contrario, hanno trovato sé stessi. Quando Wolford ne ha parlato, non ha concluso con la descrizione, ma con il rapimento.

Non posso dire col linguaggio cosa sia Action; penso che sarebbe una monumentale arroganza fingere di poter cogliere in pochi giorni, in poche ore, seduti in questa stanza, il mistero che queste persone hanno scoperto / creato, alcune di loro nel corso di molti anni […]. Il canto è un seme di luce che trova il suo radicamento nel cuore del doer, e che si irradia verso l’esterno, verso l’alto, brucia la materia morta e lascia dietro di sé una traccia visibile – nel corpo, sì, ma non solo e nemmeno prima di tutto nel corpo. In una certa misura, percepisco e rispondo alla presenza del canto come forza, del canto come entità vivente, ma la mia percezione non è la stessa di chi prende il canto dentro di sé e le permette di salire attraverso il suo corpo, voce e essere. (Ch 41: 418-19).

Dubito che l’Action visto da Wolford, decisivo com’è – forse la concreta eredità vivente di Grotowski – possa essere considerato come qualcosa di conclusivo o definitivo. Grazie alla ricerca irrequieta e implacabile di Grotowski, Action è soltanto un altro passo, in un percorso senza fine.

Ciononostante, ci sono carenze nel lavoro di Grotowski e nelle ipotesi che guidano il suo lavoro. Queste carenze devono essere esplicitate e discusse. Il suo metodo – derivato da fonti gnostiche ed ermetiche e modellato in una certa misura sulle ristrette comunità hasidiche e gurdjieviane – elude una discussione aperta. Come nella relazione hindu insegnante-allievo [guru-shishya], la conoscenza viene trasferita dall’insegnante allo studente con scarsa possibilità di trasparenza, discussione e contestazione. Sebbene un tempo si chiamasse Laboratory, poi Grotowski Workcenter e ora Grotowski-Richards Workcenter, c’era poco metodo scientifico nella proposta, nella sperimentazione e nella ricerca condivisa di verità provvisorie. Il metodo scientifico può essere stato seguito da Grotowski e da quelli che sono stati al Workcenter. O potrebbe essere l’indirizzo di un particolare gruppo di grotowskiani. Ma non vi è alcun dibattito aperto tra diversi individui e gruppi influenzati da Grotowski; nessuna discussione aperta al pubblico accademico o quello generale. Grotowski presumeva che esistano “verità” che devono essere “scoperte” o “recuperate”. Come per Gurdjieff, queste verità sarebbero obiettive. Inoltre, ci sarebbe una singola persona, o una piccola cerchia, più vicina a queste verità rispetto ad altri. Come nella linea di trasmissione di una famiglia giapponese noh, il capo famiglia possiede i “segreti” e li consegna al suo erede designato; in questo momento, a Thomas Richards.

Inoltre, le nozioni stesse di “verità”, “antico”, “obiettivo” e “tradizionale” possono essere contestate. La convinzione fondamentale di Grotowski stava in una sorta di archeologia della performance, per cui lo strato moderno, le pratiche presenti, possono essere raschiate via o scavate al di sotto, in modo che gli strati più vecchi, più autentici e più profondi delle performance possano essere recuperati e praticati. Remando contro la richiesta odierna di specificità culturale, e la negazione di tratti culturali “universali” degli esseri umani, il metodo di Grotowski, dal Theatre of Sources in poi, è stato quello di vagliare le pratiche di diverse culture per selezionare ciò che è simile tra loro, alla ricerca del “primo”, “originale”, “essenziale” e “universale”. Era sua convinzione che le pratiche di performance sopravvissute nel tempo portino, o in realtà siano, verità trans-culturali “profonde” o “antiche” dell’umanità. Queste verità “incontrano” quindi ciò che è più intimo e personale, nei singoli performer. Grotowski ha chiarito il suo obiettivo:

Ri-evocare una forma d’arte molto antica, dove la creazione rituale e artistica non avevano soluzioni di continuità. Dove la poesia era un canto, il canto era incantesimo, il movimento era danza […]. Si potrebbe dire – ma è solo una metafora – che stiamo cercando di tornare a prima della Torre di Babele, e scoprire cosa c’era prima. Scoprire prima le differenze, poi scoprire cosa c’era prima della differenza (in Sullivan 1983).

Per “tornare indietro”, Grotowski crea un tempo / spazio liminale, i cui riferimenti fisici ed esperienziali sono costruiti per l’opera stessa; cioè: per ciò che Grotowski sceglie di instillare. E presume che le antiche pratiche siano superiori a quelle moderne; che attraverso un’attenta ricerca e un lavoro comune le antiche pratiche possano essere recuperate o ricostruite; e che, nella sua personale versione della teoria degli archetipi di Jung, gli attori opportunamente addestrati possano trovare nelle memorie individuali e collettive – nel lavoro effettivo di performance, eseguito insieme – elementi paralleli, o persino identici, a quelle antiche pratiche. Quindi, ciò che è più oggettivo è anche il più intimo; il brahman è identico all’atman.

In Art as Vehicle, Grotowski si distacca dalle avanguardie di cui è stata una parte così determinante negli anni Sessanta, chiarendo al tempo stesso i suoi forti legami con quel movimento:

Quando parlo di “compagnia teatrale”, intendo il teatro dell’ensemble, il lavoro a lungo termine di un gruppo. Lavoro che non è legato in modo particolare ai concetti di avanguardia; e che costituisce la base per il teatro professionale del nostro secolo, i cui inizi risalgono alla fine del diciannovesimo secolo. […]. In Art as Vehicle, dal punto di vista degli elementi tecnici, tutto è quasi come nelle arti performative; lavoriamo sul canto, sugli impulsi, sulle forme del movimento, compaiono anche i motivi testuali. E tutto viene ridotto allo stretto necessario, finché non appare una struttura, una struttura precisa e elaborata come in una performance: l’Action (Grotowski 1995: 115, 122).

E ciò cui questa struttura si avvicina è “l’essenziale”: “È necessario, attraverso le azioni stesse, scoprire come avvicinarsi passo dopo passo all’essenziale” (1995: 125). Il lavoro passo dopo passo è disciplinato, preciso, ripetibile. Questa insistenza sulla precisione e il duro lavoro ha sempre distinto Grotowski da quelli che con disprezzo egli liquida come “dilettanti” o “auto-indulgenti”. Per Grotowski, ciò che è universale sono gli atti fattibili del corpo, che possono essere appresi senza conoscere le ideologie e le storie di cui fanno parte o che rappresentano. O, per dirla in altro modo, Grotowski presume che la cultura sia spesso un “guscio” nel senso chassidico, che nasconde le “scintille” della vita umana essenziale. Queste scintille sono presenti in certi canti, danze, cori e altre pratiche, che il suo lavoro recupera.

Questa formulazione non mi soddisfa. Non riesco a riconoscere la saggezza che esiste prima o dietro culture e generi, nei tempi “originali”, nelle “vecchie pratiche”. Perché, per Grotowski, l’antico equivale al bello? L’antico è più vicino all’inizio, una versione dell’Eden. E, per dirla con Darwin, ciò che sopravvive è adatto e robusto. Infine, l’antico è come il vino pregiato, raffinato e profondamente aromatizzato. Ma fino a che punto si può sostenere questo argomento? Lucy, o chiunque fosse il primo essere umano, ballava / cantava / eseguiva in un modo più puro e raffinato di chiunque altro? E chiunque fosse il “primo umano” poteva essere senza cultura, senza modi specifici di fare, specifici del proprio gruppo, della propria tribù e dei suoi? Questa idea della verità che sta dietro ai fenomeni – una versione del platonismo – è riformulata nel “corpo pre-espressivo” di Barba, che esiste dietro e davanti a qualsiasi genere particolare di performance18. La ricerca di Grotowski per l’universale, per l’essenziale, nasconde il desiderio di acquisire poteri e risorse che vengono pensate risiedere in esotici altri (per gli occidentali), in quelli che vissero prima, altrove o ai margini? Cosa succede alle “fonti” africane o asiatiche di Action? Action è universale o è un’appropriazione culturale? E a chi è rivolto Action? È solo per quelli che lo fanno, per i pochi invitati selezionati a vederlo? Come giocherebbe Action nelle culture di origine, da cui le sue parti sono state “distillate”?

Non ci sono parole finali. Finché Grotowski è stato in grado di lavorare, ha cambiato. Nel Theatre of Productions era interessato soprattutto al dialogo buberiano e alla sua difficoltà di realizzazione. A volte, gli attori raggiungevano – insieme ad abilità corporee e vocali raramente o mai viste, su palcoscenici europei – una lucidità e una trasparenza dell’anima (se posso permettermi la parola). Il loro ich und du è stato vissuto da molti di noi, che hanno potuto assistere a quelle performance. Poi in Paratheatre Grotowski ha provato, brevemente ma intensamente, ad aprire il suo lavoro a tutti coloro che erano interessati – sul modello americano, a quanto pare. La cosa fallì: c’erano troppi parassiti [hangers-on], persone che volevano “buoni sentimenti” e risultati, ma che non potevano sopportare un lavoro concentrato, sotto una disciplina severa, lunga a sufficienza da arrivare ovunque. Nel Theatre of Sources, Grotowski ha cercato e trovato persone che nei loro corpi contenevano e esprimevano conoscenza della performance. Questi maestri della performance tradizionale sono serviti da insegnanti e da esempi. Questa tendenza a cercare, unirsi e imparare dagli “altri” è stata sistematizzata in Objective Drama. Nella sua opera più recente, Art as Vehicle, Grotowski sembra più vicino a Gurdjieff che a Buber, a una singolarità piuttosto che a un dialogo. Sembra come se egli desiderasse distillarsi, semplificare, entrare dentro e diventare tutt’uno, con un tono tonico definitivo.

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  1. Mi dicono che Grotowski wytycza trasy: Studia i szkice di Zbigniew Osinski (1993) abbia più informazioni sui primi anni di Grotowski, comprese interviste con amici, colleghi, familiari e via dicendo. Non leggendo il polacco, non posso dire.
  2. Grotowski and His Laboratory di Osinski (1986), così come appare in inglese, è abbreviato. Forse, i traduttori Lillian Vallee e Robert Findlay hanno lasciato fuori parecchie cose, sulla vita di Grotowski. Ma ne dubito. Grotowski voleva dare forma a ciò che si sapeva di lui. Non desiderava portare la gente a fonti che non poteva controllare.
  3. Così chiamato perché l’opera era stata sviluppata nello spazio in fondo alle scale, nel Grotowski Workcenter di Pontedera.
  4. Nella sezione giudaico-cristiana della storia intellettuale dell’Occidente si danno due tradizioni di trasmissione, una scritta e l’altra orale. La tradizione scritta risale ai “cinque libri di Mosè”, al centro dei quali ci sono i Dieci Comandamenti, il documento originale “incastonato nella pietra”. In questa tradizione, il significato principale dell’universo è scritto; ciò che rimane per le generazioni successive è “esegesi” e “interpretazione”. Nulla di nuovo può essere aggiunto o tolto dai testi originali di base. Tuttavia, attraverso l’esegesi brillante, ingegnosa, astuta e cavillosa, questi testi originali possono essere interpretati come se significassero soltanto ciò che i Talmudisti vogliono che essi intendano. La legge è scritta, ma le pratiche che derivano dalla legge sono aperte alla discussione. Non solo il giudaismo talmudico, ma il cristianesimo cattolico romano è erede di questa tradizione scritta. E, ai nostri giorni, nel campo degli studi culturali, le figure dominanti talmudiche sono Jacques Derrida, un ebreo algerino francese ben versato nei giochi di parole, nelle strategie esegetiche e nell’interpretazione; e una persona la cui convinzione di fondo – come quella di Kafka, un altro un ebreo fuori luogo – è nel “testo” scritto, attualmente molto più esteso di qualche parola su pergamena o pietra. La seconda tradizione giudaico-cristiana è il “gesù-ismo” orale. Gesù non ha scritto nulla, non ha portato tavolette di pietra giù dalla montagna. All’opposto di Mosè, che discese con la verità in mano dal temibile Monte Sinai, Gesù predicò su un dolce pendio, il Monte degli Ulivi. Tutto ciò che sappiamo degli insegnamenti di Gesù proviene da ciò che i suoi discepoli ricordavano delle sue espressioni. Gesù operò interamente nella tradizione orale, radunando attorno a sé i discepoli che divennero anche i suoi divulgatori. Gesù non onora alcun testo, non venera alcuna Torah come “libro”, ma piuttosto è appassionato della “Parola”, qualcosa di molto diverso, qualcosa di proferito, detto, praticato. Gesù non ha interpretato, ha cambiato. La legge mosaica è distinta e specifica: “Onora tuo padre e tua madre, non considerare altri Dèi all’infuori di me, non uccidere” e così via. E i Cinque Libri, anche se gli studiosi li considerano storicamente, sono scritti come se fossero loro la storia: in questo luogo, tra queste persone, che hanno vissuto così a lungo, è successo qualcosa del genere. Gesù e i suoi seguaci operano in modo molto diverso. Gesù parla secondo parabole, insegna attraverso l’esempio, presenta il proprio corpo, la vita e la morte come misteri. Gesù è il Messia per i miracoli che compie, per le promesse che fa, per il sacrificio della sua vita e la sua risurrezione.
    Ironia della sorte, il giudaismo chassidico deve molto al gesù-ismo. Persino quando il gesù-ismo fu sistematicamente reso ebraico e romano nella Chiesa irreggimentata, gerarchica, basata sul testo, persistevano forti correnti di gesù-ismo, nel culto spontaneo dei produttori di miracolosi (spesso santificati dalla Chiesa, nel suo bisogno di cooptare ogni specie di culto locale); nelle tradizioni sotterranee della gnosi e dell’ermetica; e nel continuo bisogno per la gente comune, per la povera gente, di credere che la vita avesse qualcosa di meglio da offrire, rispetto a quello che vivevano ogni giorno. Sul versante ebraico – mentre gli ebrei d’Europa guadagnavano e perdevano il loro posto, spinti sempre più verso est dopo l’espulsione dalla Spagna nel 1492, poi espulsi da quasi tutti gli altri paesi dell’Europa occidentale – la fede nel testo di Mosè fu scossa. Nell’Europa orientale, in particolare in Polonia, circondati da cattolici ostili, spesso in estasi e superstiziosi, gli ebrei, vittime di pogrom e di altri orrori, combattevano il fuoco con il fuoco, inventando il loro tipo di adorazione estatica, il chassidismo. Il chassidismo portava nel suo cuore sia le tendenze mosaiche – la passione per l’apprendimento, lo stile argomentativo – sia le inclinazioni anti-strutturali: la celebrazione di buone azioni, fatte contro la lettera della legge, ma in armonia con la sua essenza, con il suo “vero” significato; e un desiderio più che piccolo per il Messia (che ancora deve arrivare).
  5. Il termine usato da Ngugi wa Thiongo per la tradizione orale, specialmente come esso è fiorito nelle culture africane. Vedi in particolare Ngugi wa Thiongo, Decolonizing the Mind (1987) e Okpewho, African Oral Literature (1992).
  6. Grotowski considerava Downstairs Action e Action come opere separate. Ognuna di loro ha i suoi canti, i suoi materiali di testo e la propria narrativa. Altre persone pensano alle due opere come a un singolo lavoro in via di sviluppo, proprio come Apocalypsis aveva vissuto diverse incarnazioni negli anni Sessanta. Ma se Downstairs Action e Action non sono affini, perché dare loro titoli simili? Alla fine degli anni Ottanta, Chiquita Gregory realizzò un film su Downstairs Action. Ma questo film non è stato distribuito; Grotowski consentiva di mostrarlo soltanto quando era lì presente a spiegarlo. Non c’è alcun film per Action, anche se si dice che Grotowski e Richards stessero cercando la persona giusta per farne uno. Né Action era è una performance regolare, realizzata per pubblico pagante regolare.
  7. Durante una nostra conversazione a Copenaghen nel maggio 1996, Grotowski mi ha detto che si sentiva influenzato dalla gnosi, ma non dallo gnosticismo che, a suo dire, era molto diverso. Controllando l’articolo di Gilles Quispel nell’Encyclopedia of Religion, ho scoperto quanto Grotowski avesse ragione nel fare la distinzione. “Fin dal congresso sulle origini dello gnosticismo tenuto a Messina, in Italia, nel 1966, gli studiosi hanno fatto una distinzione tra gnosi e gnosticismo: lo gnosticismo è un termine moderno, non attestato nell’antichità […]. Oggi lo gnosticismo è definito come una religione a sé stante” (1987: 567). La gnosi antica è legata alla religione copta egiziana (cristiana); e a fonti ancora precedenti in Egitto, legate agli insegnamenti di Ermete Trismegisto – “il tre volte grande Ermete” – un essere identificato con il dio egiziano Toth. Gli studiosi attuali ritengono che gli gnostici siano anche legati alle pratiche e al pensiero ebraico-ellenico, specialmente ad Alessandria, dove durante l’antichità si mescolavano culture egiziane, greche ed ebraiche.
  8. Non conosco film o videoregistrazioni di questi esercizi, come gli attori di Grotowski li praticavano negli anni Cinquanta e Sessanta. Ma le videocassette sulla formazione degli attori che Eugenio Barba fece più tardi all’Odin Theatre di Holstebro, in Danimarca, riproducono da vicino gli esercizi di Grotowski. Essendo uno di quelli che hanno imparato gli esercizi di associazione da Grotowski e Ryszard Cieslak nel 1967, posso testimoniare le somiglianze tra questi e ciò che Barba ha registrato su nastro.
  9. Secondo Maurice Friedman, Buber si unì a Emil Straus, Jakob Hegner e Paul Claudel per fondare l’Hellerau Dramatic Union. “Buber partecipò attivamente alla preparazione del festival delle opere che celebrava l’apertura della Hellerau Playhouse” nel 1913 (1969: 16). Durante questo periodo, e specificamente per il lavoro a Hellerau, Buber scrisse diversi saggi sul teatro.
  10. Come ha detto Ouspensky:
    Immagina che nello studio dei movimenti dei corpi celesti, diciamo i pianeti del sistema solare, sia costruito un meccanismo speciale per dare una rappresentazione visiva delle leggi di questi movimenti e per farcele ricordare. In questo meccanismo ogni pianeta, che è rappresentato da una sfera di dimensioni appropriate, è posto a una certa distanza da una sfera centrale che rappresenta il sole. Il meccanismo è messo in moto e tutte le sfere iniziano a ruotare e a muoversi lungo orbite prescritte, riproducendo in forma visiva le leggi che governano i movimenti dei pianeti. Questo meccanismo ti ricorda tutto ciò che sai del sistema solare. C’è qualcosa di simile nel ritmo di certe danze. Nei movimenti e nelle combinazioni rigorosamente definiti dei ballerini, sono visivamente riprodotte alcune leggi che sono comprensibili a coloro che le conoscono. Tali danze sono chiamate “danze sacre”. Nel corso dei miei viaggi in Oriente sono stato testimone molte volte di queste danze sacre, eseguite nel corso di cerimonie sacre in diversi templi antichi (1949: 16).
  11. La mia “interpretazione” di questo passaggio del Gita, capitolo 11, è adattata dalle traduzioni di Barbara Stoller Miller (1986) e R. C. Zaehner (1973). Ascoltarlo dal sanscrito è ancora un’altra cosa.
  12. Come scrive Shah, strizzando l’occhiolino:
    Secondo uno studioso persiano, il sufismo è un’aberrazione cristiana. Un professore di Oxford pensa che sia influenzato dal Vedanta indù. Un professore arabo-americano ne parla come reazione contro l’intellettualismo nell’Islam. Un professore di letteratura semitica ritrova tracce dello sciamanismo centroasiatico. Un tedesco ce lo farà trovare nel cristianesimo, con un’aggiunta buddista. Due grandissimi orientalisti inglesi scommetterebbero i loro soldi su una forte influenza neoplatonica; tuttavia, uno di loro ammetterà che è stato forse generato in modo indipendente. Un arabo, pubblicando le sue opinioni attraverso un’università americana, assicura i suoi lettori che il neoplatonismo (che lui evoca come un ingrediente sufico) è esso stesso greco, più persiano. Uno dei più grandi arabi spagnoli, mentre rivendicava un’iniziazione al monachesimo cristiano, propende per il manicheismo come una fonte sufi. Un altro accademico di non meno rinomanza trova lo gnosticismo tra i sufi; mentre il professore inglese che è il traduttore di un libro sufi preferisce pensarlo come “una piccola setta persiana”. Ma un altro traduttore trova la tradizione mistica dei sufi “nel Corano stesso”. [E il professor R.A. Nicholson scrive] “Sebbene le numerose definizioni del sufismo che si trovano nei libri arabi e persiani sull’argomento siano storicamente interessanti, la loro principale importanza sta nel mostrare che il Sufismo è indefinibile” [1914: 25] (Shah 1971: 41).
  13. Ermete Trismegisto, come lo chiamavano i greci, era anche il dio Toth per gli egiziani. Gli arabi lo chiamavano Idris. Secondo Shah, che cita lo storico arabo-spagnolo Said di Toledo (morto nel 1069):
    I saggi affermano che tutte le scienze antidiluviane hanno origine dal primo Hermes, che visse a Sa’id, nell’Alto Egitto. Gli ebrei lo chiamano Enoch e Idris dei musulmani. Fu il primo a parlare del materiale del mondo superiore e dei movimenti planetari. Costruì templi per adorare Dio […], la medicina e la poesia furono le sue funzioni (in Shah 1971: 220).
  14. Grotowski incontrò Castaneda durante il suo primo viaggio in California. Incontrò Myerhoff più tardi. Il lavoro sul campo di Myerhoff tra il popolo messicano degli Huichol costituì una fonte molto importante per gli scritti di Castaneda. Castaneda e Myerhoff erano stati compagni di studi, nel dipartimento di antropologia dell’Università della California meridionale. Gli Yaqui di Castaneda, se mai sono qualcuno, sono probabilmente gli Huichol di cui scrisse Myerhoff in The Peyote Hunt (1974). Attraverso Myerhoff e me, Grotowski imparò a conoscere gli scritti e il lavoro di Victor Turner, anche se i due non si incontrarono mai.
  15. Per una panoramica / retrospettiva del lavoro di Halprin, si veda il suo Moving Toward Life (1995).
  16. Nel giro di quattro anni, Castaneda pubblicò tre libri popolari e influenti: The Teachings of Don Juan: A Yaqui Way of Knowledge (1968), A Separate Reality (1971) e Journey to Ixtlan (1972).
  17. Vedi il mio “Waehma: Space, Time, Identity, and Theatre at New Pascua, Arizona” in The Future of Ritual (1993). Ho discusso degli Yaqui con antropologi che hanno vissuto con loro in Messico. All’unanimità, credono che i libri di Castaneda siano costruzioni fittizie, probabilmente aiutate da qualche robusta ingestione di peyote o da qualcosa del genere. Naturalmente, come hanno dimostrato Myerhoff e altri, l’ingestione del peyote sotto una guida appropriata è esattamente ciò che fanno gli Huichol e gli altri popoli nativo-americani.
  18. Barba, ovviamente, è uno dei primi seguaci di Grotowski. I due uomini sono rimasti molto vicini per più di trentacinque anni. Per una esposizione completa delle idee di Barba riguardanti la pre-espressività e il corpo deciso, vedi Barba e Savarese A Dictionary of Theatre Anthropology (1991).
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PROFESSOR EMERITO; Direttore di THE DRAMA REVIEW, uno dei fondatori di Performance Studies, è un teorico della performance , regista teatrale, autore, dirige la collana di libri Enactments, Schechner unisce il suo lavoro sulla teoria della performance con approcci innovativi all'ampio spettro della performance , tra cui teatro, gioco, rituale, danza, musica, intrattenimento popolare, sport, politica, performance nella vita di tutti i giorni, ecc. al fine di comprendere il comportamento performativo non solo come un oggetto di studio, ma anche come pratica artistico-intellettuale attiva. Ha fondato The Performance Group e East Coast Artists. Le sue produzioni teatrali includono include Dionysus in 69, Commune, The Tooth of Crime, Mother Courage and Her Children, Seneca's Oedipus, Faust/gastronome, Three Sisters, Hamlet, The Oresteia, YokastaS, Swimming to Spalding, and Imagining O. Fra i suoi libri ricordiamo: Public Domain, Environmental Theater, Performance Theory, The Future of Ritual, Between Theater and Anthropology, Performance Studies: An Introduction, and Performed Imaginaries. A partire dal 2018, i suoi libri sono stati tradotti in 18 lingue. Il suo lavoro teatrale è stato visto in Asia, Africa, Europa e Nord America. Ha diretto workshop di performance e conferenze in tutti i continenti tranne l'Antartide. Ha ricevuto numerose borse di studio tra cui Guggenheim, NEH, ACLS e borse di studio a Dartmouth, Cornell, Yale, Princeton e alla Central School of Speech and Drama di Londra