L’intervista qui riprodotta è parte del lavoro di tesi magistrale di Lorenzo Diofili, Corpo, Figure e Spazio: la poetica di Gideon Obarzanek nel panorama delle arti performative dalle Avanguardie al XXI secolo (a.a. 2018/2019). Le domande di quest’intervista con Obarzanek prendono spunto dal lavoro del coreografo in seno alla compagnia Chunky Move, da lui stesso fondata a Melbourne nel 1995, ed in particolare dai tre spettacoli portati a termine tra gli anni 2006 e 2011, nei quali movimento e costruzione dello spazio vengono esaltati tramite un dialogo molto stretto tra corpo e dispositivo scenico. Dialogando con l’intervistatore, Obarzanek descrive a grandi linee i punti cardine della sua poetica e del suo approccio alla coreografia, partendo dalla sua posizione di individuo inserito in una società nella quale permangono forme di emarginazione e, al tempo stesso, di pura forma di vita biologica, legata indissolubilmente col divenire evolutivo del mondo di cui fa parte. L’artista scorge nella corporeità danzante l’espressione di un’esistenza in costante oscillazione tra un’identificazione individuale, da una parte, e la pura apparizione come forma astratta dall’altra.
Lorenzo Diofili (da qui in poi L.D.) Vorrei chiederti della relazione esistente tra il tuo mondo e il tuo lavoro: il tuo destino sembrava essere quello di diventare un biologo ma- rino ma alla fine sei diventato un danzatore. C’è una parte del tuo lavoro che ancora si rifà a questo interesse per la biologia e per la scienza o che riflette un interesse per l’essere umano in quanto individuo e parte di una specie? Potresti darci un’idea della tua visione poetica in questo senso?
Gideon Obarzanek (da qui in poi G.O.) Posso provare, onestamente è qualcosa su cui non passo troppo tempo a ragionare. Certamente ho una grande curiosità e sono sem- pre stato interessato, prima come danzatore e poi come coreografo, a molte altre cose e, in qualche modo, quella curiosità ha nutrito il mio lavoro.
Sono stato sempre un po’ sospettoso della danza come medium, perciò, quando coreo- grafavo, mettevo alla prova me stesso e la forma, lavorando con altri media e intorno a tematiche che stanno un po’ al di fuori della danza. Credo che queste diventino veramen- te interessanti solo quando si porta un po’ di se stessi dentro il loro mondo: se il tema è del tutto esteriore, se non vi si accede veramente, esso non diventa particolarmente interessante come opera d’arte. Se esso riguarda solo te, senza alcun tema al di fuori di te, ecco che diventa molto facile. Quindi per me si tratta di questa tensione tra idee, i pensieri esteriori e le impressioni più personali; quando le due cose si combinano bene, qualche volta se ne trae un lavoro molto buono o interessante. Credo che la danza, in un certo senso, sia una forma molto strana poiché non può fare a meno del corpo umano (almeno per me è così, altri converranno che non dev’essere tale). E il corpo umano per me non è mai oggettivo, non è mai astratto, porta sempre con sé un senso di narrazione, perché noi guardiamo corpi e vediamo persone continuamente, ne leggiamo i gesti e leggiamo le relazioni. Quando ero giovane, i danzatori guardavano ai lavori di Merce Cunningham e anche lui diceva che un uomo e una donna che danzano, non sono altro che due corpi nello spazio e ciò è, in fondo, astratto. Io direi che per me non è così astratto, perché in quanto osser- vatore io porto la relazione a quei due corpi.
L.D. Ciò mi fa pensare ad una sorta di dualità del corpo. Se guardo ad alcune delle tue performance, magari Glow (2006), Mortal Engine (2008), Connected (2011), queste riguar- dano di più i corpi, un essere naturale, una forma di vita organica. Poi vengono I want to dance better at parties (2004) o Once upon a time in the Western suburbs (2016): c’è qui più un approccio di tipo sociologico, quindi corpi in relazione con altri, corpi ciascuno avente la sua storia?
G.O. Sì, insomma, credo che la cosa che mi piace della danza è che sembra scorrere, oscillare costantemente tra un’astrazione e un personaggio: il danzatore è ad un certo momento una figura nello spazio e poi una persona che ha la sua personalità o intrattie- ne una particolare relazione con qualcun altro. Puoi andare avanti così continuamente per tutto il tempo.
In certi casi è anche frustrante perché nella narrazione questa non è vera e propria drammaturgia, non è propriamente il modo in cui il personaggio viene sviluppato. Il tea- tro-danza, per esempio, non ha le regole e le costrizioni sulle quali si fonda la narrazione tradizionale e qualche volta non funziona propriamente. Tuttavia, penso che ciò che mi ha trascinato nella danza sia appunto questa capacità di essere simultaneamente un personaggio e un’astrazione, in una sorta di va e vieni. Alcuni dei miei lavori vanno più in un senso che nell’altro, ma sono sempre stato interessato ad entrambi, quindi quando ho lasciato Chunky Move mi sono unito alla Sydney Theatre Company perché in fondo volevo dedicare più tempo allo scrivere e al personaggio, poi mi sono stancato di questo e sono tornato indietro a lavori più astratti.
L.D. Hai parlato di media diversi; hai mai provato altri linguaggi prima del video?
G.O. Ricordo di aver utilizzato delle diapositive, un po’ come Alwin Nikolais in un certo senso: all’inizio usavo diapositive e videoproiezioni proiettate direttamente sui danzatori e non come sfondo, non sempre, ma solo qualche volta. E questo è come una forma di travestimento per il danzatore, che scompare, diventa come una texture e poi ritorna.
Quindi, quando ho cominciato a lavorare con Frieder, con il videomapping, avevo già esperienza nel farlo seppur in modo molto semplice. Anche in I wanna dance better at par- ties (2004) stavo usando interviste di diversi uomini, perciò già usavo immagini e video, ma direi in uno stile molto più documentaristico, che poi i danzatori rappresentavano sul palcoscenico. Quindi, avevo già un po’ di esperienza, ma con il video tracking, o video- mapping, come si voglia chiamarlo, quando ho scoperto il video tracking con Frieder, lui usava una telecamera sul danzatore, dopodiché i dati sulle informazioni del movimento e la telecamera venivano proiettati da un’altra parte, su di uno schermo, però non sul danzatore. In questo modo si rendeva palese il meccanismo di causa-effetto: il danzatore faceva qualcosa e l’effetto di ciò si manifestava sullo schermo. Onestamente questo non mi interessava granché e dissi – perché non riproiettare l’effetto del danzatore diretta- mente sul danzatore? – così la superficie diventa più come una superficie sopra il corpo che lo sta manipolando.
Questo secondo me rendeva l’impressione di rivelare qualcosa di interiore, qualcosa ri- guardo alla persona che normalmente non si vedrebbe, ma che stava fuoriuscendo come una sua estensione. Ciò mi piacque molto perché sentii che dava quest’impressione di rivelare qualcosa che non si potrebbe vedere normalmente. I danzatori non dovevano muoversi nel posto giusto al momento giusto, potevano veramente fare ciò che voleva- no, e la cosa (il dispositivo) rispondeva. All’epoca era qualcosa di piuttosto nuovo e non era una cosa comune.
L.D. Sì, credo che le tue performance fossero tra i primi esempi di questo tipo di danza. Hai parlato a proposito di Alwin Nikolais e intuisco il collegamento, però direi che il tuo lavoro si discosta leggermente, perché in Nikolais, come hai detto, il corpo tende a scom- parire e diventa una forma unita allo spazio che lo circonda. Nei tuoi lavori invece il corpo è come se venisse amplificato, intensificato, si può vedere persino ciò che avviene dentro il performer.
G.O. Sì e la coreografia di luce comincia ad emergere in questo tipo di lavoro, perciò il movimento diventa espanso nella luce e nel modo in cui i danzatori possono rivelarsi, scomparire e riapparire a seconda del movimento. Si può anche creare un paesaggio intorno, una sorta di mondo immaginario.
È interessante perché tenni una conferenza in proposito e quando Rueben Margolin vide la conferenza… – lui è quello che lavora con i fili, corde, molti fili, e fa sculture cinetiche – insieme a lui poi feci lo spettacolo Connected. Mi disse – Tu prendi le informazioni dai danzatori e le dai ad un computer, creando poi questa rappresentazione visiva di nuovo sul danzatore. Io prendo le informazioni da ingranaggi e diversi oggetti che si muovono e, attraverso le corde che sono attaccate a qualche altra cosa, faccio queste sculture ci- netiche – usando una tecnologia che ricorda qualcosa del tardo XVIII, primo XIX secolo. Concettualmente in un certo senso è molto simile al video, perciò decidemmo di attac- care le corde al danzatore e usare le informazioni del movimento per informare questa rappresentazione cinetica. Va veramente indietro nel tempo come tecnologia.
L.D. Sì, però il punto è sempre lo stesso: costruire qualcosa per rivelare il movimento.
G.O. Io penso che riveli il movimento, ma penso che riveli anche, che poi non è del tutto vero, ma è l’impressione che ha il pubblico, che riveli qualcosa di psicologico. Perciò, in Connected, con le corde, c’è un uomo attaccato a 220 corde che sta innanzi a questa donna e fanno una certa cosa. Egli si muove e al di sopra si trova questa sorta di scultu- ra origami, come una nuvola, che risponde al suo movimento insieme a lei che guarda verso l’alto. Se lei lo guarda direttamente emerge un qualche tipo di messaggio che nor- malmente non si vedrebbe su di lui. È poetico e dona l’impressione che lei stia dicendo qualcosa che colpisce lui nel profondo. Però non è vero, è solo una specie di trucco, una connessione visiva che io credo riveli qualcosa ma nei fatti non lo fa.
L.D. Per me ciò che la Nebula, la scultura, rivela è un genere di movimento che ognuno può vedere accadere in natura.
G.O. Questo è vero. Io credo che mostri una connessione: che noi possiamo esserne consci oppure no, che noi possiamo sentirlo o no, noi siamo realmente connessi con tutto intorno a noi e ogni cosa intorno è riconnessa a noi. E quindi, possiamo usare la tecnologia, che siano fili e carta o che sia un computer e video e telecamere per mostrare queste connessioni: cioè come le cose si influenzano a vicenda.
L.D. Direi che è una via di conoscenza che esiste in ognuno in quanto siamo in grado di vedere i fenomeni in natura e riconoscerli, per esempio attraverso l’arte. Ti chiederei quindi: pensi che ci sia una relazione tra i diversi modi di conoscere il mondo quali sono l’arte, la scienza e la filosofia?
G.O. Wow, non saprei (ride).
L.D. Provo a spiegarmi meglio. Nebula, o le altre sculture cinetiche di Rueben Margolin, o il lavoro di Frieder Weiß, tutte usano la matematica e la scienza per riprodurre qualcosa che gli occhi possono vedere e la matematica può spiegare. L’arte riutilizza questi feno- meni per dare vita a modi di comprensione che non siano matematici. La filosofia non può che parlare di queste relazioni tra l’osservatore e il mondo esterno.
G.O. Guarda, non è un’area che abbia particolarmente studiato, però posso dire che in un certo senso, se si guarda agli atti religiosi e direi, forse, alle cattedrali, all’uso degli odori e della luce e della musica per creare il senso di qualcosa che sta oltre il mondano, e sono in fondo elementi della natura, quindi se vediamo, per esempio, un tramonto in- credibile, so che è banale, ma c’è sempre questo senso di grandezza magica. Le cattedrali del Medioevo investivano sulla tecnologia del vetro, del colore e della luce per creare certi toni, per cui si tratta dell’idea di usare certi tipi di tecnologia, che, in un certo senso, sono sempre stati usati, per creare situazioni effimere o oggetti artefatti; che donano un senso di natura e insieme l’impressione di qualcosa di più grande di noi. Credo che il mio lavoro e molti altri lavori contemporanei continuino questa tradizione di manifattura ed ingegneria, utilizzando alta tecnologia o molto lavoro per creare semplici situazioni o simulacri di esseri viventi come in natura. Quindi, quello che vediamo è davvero qualcosa che ci è molto famigliare perché, in qualche modo, lo riferiamo alla natura. Non so quale sia la filosofia al proposito, però so che abbiamo la capacità di creare questo eccesso per brevi periodi di tempo e credo che la mia danza cerchi di creare questo.
L.D. Sì. E questo è infatti qualcosa che ho potuto rintracciare. Questa tensione a rivelare qualcosa che sta oltre il mondano, i processi della natura stessa. L’ho trovato anche in certi autori tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo e, in particolare ad un autore, ho po- tuto rapportare il tuo lavoro, si tratta di Oskar Schlemmer. Non so se tu lo conosci.
G.O. Lo conosco di nome, ma non conosco il suo lavoro.
L.D. Era un coreografo, un pittore anche, costruì dei costumi bizzarri il cui scopo era di rivelare il movimento e unire il movimento del corpo alla scena attraverso l’architettura. Sono stato lieto di trovare questa linea di sviluppo comune lungo il XX secolo e l’inizio del XXI a proposito di questa indagine sulla natura.
G.O. Sì, giusto. È molto affascinante.
L.D. Anche nell’arte delle marionette si trova una somiglianza con il tuo lavoro, per esem- pio in Connected, sei d’accordo?
G.O. Sì, assolutamente.
L.D. La marionetta è qualcosa che rivela il movimento al di là del corpo, in quanto essa non ha alcuna coscienza di sé, solamente si muove seguendo delle regole, perciò può dire qualcosa a proposito di come il movimento funziona.
G.O. Sì, credo che le marionette siano qualcosa di interessante. Io creo lavorando su di un immaginario di marionette, qualche volta. La scultura diviene una marionetta, in un certo modo, e il danzatore il marionettista.
L.D. Puoi dirmi qualcosa a proposito del modo in cui il danzatore si rapporta alla macchi- na che cattura le sue istanze di movimento?
G.O. Nel primo periodo di sperimentazione multimediale, quando cominciammo a met- tere le mani su questa tecnologia, il danzatore assomigliava moltissimo a uno strumen- tista, un musicista: loro fanno un movimento e la macchina risponde e fa qualcosa, e loro ancora rispondono alla macchina, si crea un loop di feedback. Come un musicista che ascolta quale suono sta facendo e dopodiché continua a suonare. Nel mio lavoro i danzatori non sono davvero consapevoli di quello che stanno provocando attorno a loro, quindi fondamentalmente eseguono la coreografia o eseguono il compito senza badare al risultato nel video. Ti ho risposto?
L.D. Sì, assolutamente.
G.O. Voglio dire, in un certo senso sono consapevoli; perché hanno bisogno di essere in qualche modo consapevoli delle loro azioni e di sapere quello che stanno facendo, però, per il pubblico, essi non sembrano essere consci di quali siano le loro azioni.
L.D. E io credo che questo sia un punto importante del lavoro: il danzatore non è com- pletamente consapevole di cosa sta succedendo, vede soltanto della luce. E così il suo movimento può essere più naturale, forse.
G.O. Non so se loro possano vedere l’immagine, poiché è sul pavimento e loro non la stanno guardando. Questo per me è importante, è una scelta importante. Nei primi lavo- ri di questo tipo, loro osservavano quello che facevano e di conseguenza influenzavano il movimento seguente, alla maniera di pittori, in un certo senso: fanno qualcosa che influisce sul movimento successivo. Nel mio lavoro invece i danzatori non sono pittori, essi sono quello che stanno facendo, fanno la loro cosa e solo il pubblico vede, comincia a vedere, ciò che viene creato, però il danzatore non ne è consapevole. Questo per me è importante.
L.D. Qualcosa di simile accade, correggimi se sbaglio, anche in Assembly (2011) e One Infinity (2018) a cui collabora una moltitudine di persone.
G.O. Cielo! Hai guardato sul serio il mio lavoro!
L.D. Sì. (ride) Ma solo quello che sono riuscito a trovare online, cercando di venirne a capo.
G.O. Ti posso dire che per quanto riguarda Assembly mi ricordo molto distintamente quando ho cominciato. Avevo lavorato con la tecnologia per un po’ di anni ed era molto frustrante; c’è sempre qualche problema tecnico e bisogna ogni volta fermarsi mentre i tecnici lavorano su qualcosa; era sempre stressante e noioso al tempo stesso. Mi ricordo, dopo qualche anno di lavoro con Frieder e altre persone, che mi dissi – vorrei davvero lavorare solo con persone e nessuna tecnologia. Voglio dire Assembly non ha nemmeno un’amplificazione: non ci sono strumenti o microfoni, è a cappella, con l’amplificazione naturale di una stanza circolare, su di una gradinata di legno. Per cui credo che quello che mi è piaciuto e di cui ho voluto fare tesoro da Mortal Engine era questo senso di dimen- sione. Credo che la grande proiezione che si poteva creare potesse essere costituita da questa grande gestualità di movimento, non solo con i corpi ma anche con luce e video. Quando ho cominciato a lavorare su Assembly, ho cominciato a vedere un utilizzo delle persone quasi alla stregua di pixel ed anche qui abbiamo usato una grande tela, è grande come in Mortal Engine; se guardi alla gradinata è della stessa dimensione, è un po’ più verticale e più alta. In un certo senso, mi sono concentrato sui corpi, ma l’influenza che ho avuto dalla tecnologia era data da questi pattern e algoritmi. Interessante secondo me, è stato quando lavoravo con 60-70 persone: non potevo permettermi un gran numero di danzatori con formazione e non potevo permettermi prove. Perciò le regole per la coreografia erano più che altro regole matematiche, non era palese per i partecipanti, però noi sapevamo che erano matematiche; «devi seguire una certa persona e a quel punto fai questa cosa da quella parte» e abbiamo scoperto che, in fondo, se si prova ad insegnare una danza a qualcuno senza un background in danza, può al massimo ricordarsi tre pas- si, però se gli insegni una serie di regole puoi creare cose veramente complesse e sofisti- cate che possono avere degli esiti eleganti e fanno sentire a proprio agio i non-danzatori. Per cui Assembly è davvero costruito su delle istruzioni collettive su come muoversi, cosa ripetere, per cui penso che, in un certo senso, la scrittura di codici e con il computer ha molto influenzato Assembly.
L.D. Quindi c’è un organismo vivente composto da tanti singoli individui, che rivelano intensità.
G.O. Prima che mi dimentichi, uno dei motivi di interesse ricorrenti per me è il fatto di essere soli in un mondo con moltissime persone e in qualche modo Assembly rivela, in certi momenti, quest’idea che siamo praticamente sempre soli, anche quando siamo cir- condati da persone. Questo è qualcosa che generalmente emerge nel mio lavoro.
L.D. Ok, puoi darci un altro esempio di questo?
G.O. Non saprei, è in tutti i miei lavori e non riesco a pensarne uno in particolare.
L.D. Forse è quello che stavo cercando di dire prima, e cioè che ho visto un certo interes- se sociologico in alcuni dei tuoi lavori.
G.O. Credo che si tratti del desiderio di connettere, sempre, e il livello della connessione è limitato. Questa è la mia esperienza del mondo. Sono in ultima istanza solo nel mondo, praticamente solo con un desiderio di connettere, ma la mia connessione è limitata.
L.D. C’è sempre un dualismo.
G.O. Sì, credo che vi sia, e a tal riguardo ho creato lo spettacolo con Lucy Guerin, Two faced bastard (2008).
L.D. Sì, volevo chiederti qualcosa a proposito del lavoro con Lucy Guerin, dimmi per fa- vore.
G.O. Abbiamo fatto tre spettacoli insieme. Tense Dave (2003), con il palcoscenico girevole, è molto difficile trovare materiale in merito, poi abbiamo fatto Two faced Bastard, e poi più recentemente Attractor (2017) con Senyawa, il gruppo indonesiano. Lucy ed io ci co- nosciamo da più di vent’anni, siamo compagni, viviamo insieme, dormiamo insieme ma non lavoriamo spesso insieme. Ogni sei anni, credo, facciamo uno spettacolo insieme. Lei è molto indipendente quindi non vuole più di tanto lavorare con me. Io credo che ciò che mi piace sia lavorare sul progetto dell’opera, sulle idee concettuali d’insieme, lei ama molto il dettaglio della coreografia, in qualche modo funziona molto bene per noi perché siamo interessati ad aspetti diversi della coreografia e della creazione.
L.D. Avete la stessa formazione in danza?
G.O. No, abbiamo formazioni molto diverse. Io vengo da un’accademia di balletto molto conservatrice e dopodiché ho danzato con la Sydney Dance Company che anche è molto conservatrice. E Lucy ha lavorato molto nella danza moderna a Sydney, a New York e molto nella scena indipendente; quindi, i background sono diversi.
L.D. Entrambi venite da Melbourne.G.O. Sì, veramente lei è originaria di Adelaide e poi ha vissuto a New York. Ha deciso di trasferirsi a Melbourne, mentre io sono nato a Melbourne e poi sono andato via per tor- narvi, però entrambi abbiamo vissuto a Melbourne per più di vent’anni.
L.D. Hai una qualche relazione con il luogo, l’ambiente nel quale vivi?
G.O. L’amo e l’odio. Quando sono via mi manca. Cioè, non mi manca Melbourne, però mi manca la natura, so che è una sorta di cliché. Quando guidi fuori dalla città la natura qui è vasta, a volte puoi guidare per ore e non incontrare nessuno. Ho vissuto in Europa per un po’ e mi è veramente mancata, mi mancava quel grande spazio vuoto. Non mi rendevo conto che mi potesse mancare finché non sono partito.
L.D. Dove hai vissuto in Europa?
G.O. Amsterdam. Per circa un anno, è stato tanto tempo fa.
L.D. Negli anni Novanta?
G.O. Sì. Negli anni Novanta (ride). Mi piace viaggiare e incontro tante persone interes- santi, ma, ad essere sincero, non ho mai avuto nessuna idea interessante in altri posti: il luogo dove le mie idee vengono alla luce sembra essere qui. Non so perché, non capisco davvero questo aspetto.
L.D. Come ti rapporti alle tue origini nel tuo lavoro? Ho visto che i tuoi genitori sono en- trambi polacchi.
G.O. Sì. Ebrei polacchi.
L.D. Sì. Senti qualche legame con le tue origini europee o ebraiche?G.O. Credo di sentirmi un po’ un outsider, perché i miei genitori sono immigrati qui negli anni Cinquanta per poi emigrare nuovamente in Israele e io sono cresciuto in Israele fino agli otto anni. Poi sono venuto in Australia, a otto anni, non parlavo una parola di inglese e mangiavo cibo diverso, per cui ero davvero un immigrato. A scuola mi sentivo un out- sider che guardava dal di fuori; non mi sono mai sentito davvero accettato, non mi sono mai sentito parte della cultura australiana. Ed essendo ebreo, dato che non ci sono molti ebrei qui, facevo parte di un gruppo minoritario, credo che ciò che mi ha influenzato sia stato vedere e osservare le cose un po’ come un outsider. So di altri che sono un po’ degli outsider laggiù, hanno un bagaglio che differisce dalle persone attorno a loro ma credo che questo essere un migrante che arriva con una cultura e con una lingua diverse, credo permetta di poter guardare la società e vedere tutto da una prospettiva esterna; penso che tutto ciò certamente abbia influenzato il mio senso di osservare.
L.D. Invece riguardo al posto dove vivi adesso? Voglio dire, in Attractor lavori con musicisti
e danzatori indonesiani: c’è qualcosa che appartiene a quella specifica parte della Terra?
G.O. Il sud est asiatico, l’Asia meridionale, mi ci è voluto parecchio tempo… credo che quando cresci qui è come se stessi a guardare una cultura. Come bambino o adolescente ti senti, in qualche modo, un po’ come se il mondo stesse accadendo da un’altra parte, che sia l’Europa occidentale o gli Stati Uniti, e dopodiché occorre molto tempo per ren- dersi conto che questo è veramente il Nuovo Mondo e ha un’energia distinta, un senso di sé distinto, non si conosce ancora. L’Australia bianca, la Melbourne bianca ha solo due- cento anni e si è costruita sull’immigrazione dalla febbre dell’oro del 1850. Vi è un’enorme quantità di gruppi culturali, tutti che vivono in città con massimo centosettant’anni e pen- so che ciò crei un senso di società contemporanea fluida, con molti influssi asiatici, india- ni, europei e da ovunque. In un certo senso è un aspetto liberatorio, mi fa pensare a tutti i luoghi dei pionieri: fa sembrare che si possa scalare o costruire la propria storia, che ogni possibilità è aperta se si vuole qualcosa. Questo mi piace davvero molto. Mi ricordo che quando ho passato del tempo nel Regno Unito mi sentivo diverso; qui forse assomiglia di più alla costa occidentale degli Stati Uniti, mi sembra, non so, come se qui potessi definire te stesso, probabilmente non è realmente così, ma si ha un senso di possibilità, credo.
L.D. Intendi dire che tutto deve ancora essere scritto?
G.O. Sì, penso di si.
L.D. E quindi se scorgessi un senso di primitivismo in lavori come Attractor, per esempio, dovrei pensare che ci sia un bisogno di trovare delle origini, o una storia antica?
G.O. Non credo che sia peculiare dell’Australia, però penso che in una condizione sociale secolarizzata ci sia ugualmente il desiderio di connettersi a qualche forma di alterità, a qualcosa di più grande di te e anche di unirsi in qualche atto, non intellettuale, ma, al con- trario, un atto fisico che aiuti a trascendere questa specie di stato razionale. Si possono anche assumere sostanze per farlo, però penso di aver provato questo continuamente, a prescinderne, quando ho viaggiato in Indonesia. Ci sono un mondo spirituale e un mondo quotidiano, o tangibile direi, sempre presenti insieme. Mi ricordo che assistetti a qualche tipo di danza tradizionale molto estatica e chiesi al mio collega cosa sarebbe successo se avessi detto a queste persone che non credevo in Dio e che non credevo nel sovrannaturale e non credevo negli spiriti. Direbbero che dovrei pentirmi e che sono cieco da un occhio, che potevo vedere solo metà del mondo, la parte tangibile. Il mondo spirituale è equivalente ed è lì da sempre, ma non può essere visto se si è mezzi ciechi. Dissi che ciò era interessante, perché io non potevo vederlo, ma avrei voluto se qualcu- no mi avesse mostrato come. È interessante essere in un paese che è molto religioso, come l’Indonesia, e cercare di capire. Mi viene in mente anche di quando parlavamo delle proiezioni video e di come queste diano l’impressione di essere in grado di vedere qualcosa… Un altro mio amico si occupa molto di sinestesia, che è la visualizzazione del suono: Robert Fox, ha compiuto molti studi sul senso di cosa sia nella musica, o nella musica religiosa, che fa sentire qualcosa di speciale, e crede nella scienza per fare ciò. Ho cominciato a pensare ai cicli estatici ripetitivi indonesiani delle loro danze: credo che sia proprio il processo fisico, l’azione fisica che, eventualmente, muti il modo in cui il cervello funziona; l’ho visto accadere, non mi ha reso spirituale o religioso, solamente mi ha fatto intuire come la connessione umana cambi il modo in cui funzionano.
L.D. Perciò il corpo è lo strumento per connettersi con questa alterità. È interessante perché questo è proprio l’aspetto sul quale ho cercato di concentrarmi durante la mia ricerca e ciò che ho potuto intuire guardando il tuo lavoro. È anche qualcosa che trovo sia avvenuto durante il XX secolo. Al giorno d’oggi, ci si concentra più sulla scienza, in un certo senso la scienza sembra essere in grado di spiegare tutto e, magari, tende in certi casi a oggettificare ogni cosa, d’altra parte, rivela, secondo me, che la natura è sempre più vasta e profonda di quello che pensavamo, ciò le dona, in qualche modo, un senso mi- stico, mentre all’inizio del secolo scorso la scienza non aveva questo ruolo, ogni cosa era lasciata al puro misticismo. È importante che in questo periodo non perdiamo la volontà di sentire come l’universo funziona e vive. Ci sono delle immagini che crei nel tuo lavoro nelle quali penso che la tua passione per la biologia marina emerga ancora; per esempio in Mortal Engine, c’è una parte in cui emergono delle forme di vita come dei coralli o esem- pi di creature sottomarine che esplorano con i tentacoli.
G.O. Infatti uno dei miei libri preferiti dell’età della formazione è Kunstformen der Natur1 di Ernst Haeckel. Fece tutte queste litografie, credo nel XIX secolo, di forme di vita marine. Dovresti vedere questo libro; è una serie di litografie, mi sembra, o incisioni. In qualche modo, ho sempre avuto questo libro nella libreria e mi fa pensare: in biologia marina ci sono queste creature semplici, e tuttavia complesse, che possono essere più astratte; delle specie di esseri che sono come pattern; esse formano queste specie di pattern che creano e il modo in cui li dispongono. Creature e organismi che si sviluppano dando for- ma a diversi pattern.
L.D. Sono incredibili.
G.O. Sì, lo sono.
L.D. Sembrano dei frattali.
G.O. Sì. Ha più di cent’anni. È un’opera meravigliosa.
L.D. Conosci il concetto di autosomiglianza a proposito dei frattali?
G.O. Sì.
L.D. Il solito schema si ripete su scale differenti. Questo è qualcosa che ho trovato anche nei tuoi lavori per questa complessità di scale che va dalla profonda individualità fino alla più ampia collettività, molteplicità di esseri umani, come in Attractor o One Infinity.
G.O. Sì. Sono interessanti i frattali perché quando si parla di frattali si parla di matema- tica e dell’insieme di Mandelbrot. Quando Mandelbrot formulò la sua teoria del siste- ma numerico non c’erano computer sufficientemente potenti per provare o mostrare lo schema; ed ora, che li abbiamo, questi pattern, questo tipo di matematica, ci sono molto famigliari, ma all’epoca, non c’era un computer abbastanza potente per mostrarlo.
È una teoria molto interessante: se si chiede: «qual è la circonferenza di un’isola», penso che Mandelbrot guardò al Regno Unito, giusto? disse che era infinita. Si direbbe che è un’affermazione ridicola perché deve essere di un numero finito: se si misura, si finisce con l’avere un numero. Però lui diceva che se si ingrandisce il bordo e si ottengono maggiori dettagli, tutti gli angoli diventano più lunghi, e se si ingrandisce ancora si trova sempre più complessità. Quindi la figura che si ottiene, se si misura la circonferenza di un’isola, continua a crescere via via che si è in grado di trovare più dettagli; teoricamente è infinita. È un’idea bizzarra che io trovo molto affascinante. Capisci cosa voglio dire?
L.D. Sì, sì, assolutamente. Mi sono interessato ai frattali anni fa e hanno molto influenza- to il modo in cui guardo alla natura. Cosa puoi dirmi a proposito del tuo percorso artisti- co? In questi giorni, mi hai detto, sei diventato direttore artistico del Melbourne Festival: congratulazioni!
G.O. Grazie. Non ho più fatto coreografia da un po’ di tempo ormai. Onestamente credo di essere un po’ troppo sensibile, non tollero molto bene le critiche. Ho momenti in cui non ho fiducia in me stesso. Credo che presentare i lavori di altre persone mi sia più facile. Però c’è anche il fatto che per un po’ volevo raccontare la mia storia. Un tempo avevo una connessione molto fisica con la danza, sai, ho iniziato come un danzatore; poi diventando più anziano, sto perdendo quella connessione, perché non posso più farlo fisicamente: non posso ballare così tanto e non sono più così capace. Ho iniziato ad essere sospettoso di tutte le coreografie alle quali lavoro e non saprei se siano migliori adesso rispetto a quando ero giovane. Quindi non so, ho meno fiducia per continuare come coreografo.
L.D. Mi spiace sentirtelo dire.
G.O. Si però è così che mi sento. Sono anche felice di provare a fare altre cose.
L.D. Che cos’è che ti ha fatto passare dalla danza alla coreografia?
G.O. Ho iniziato a danzare tardi però ho frequentato un’accademia molto rigida, una scuola di balletto accademico, e fu uno dei miei insegnanti che mi propose di provare a fare delle coreografie, nell’ora di pranzo, o in altri momenti. Era un corso che non pre- parava veramente per la coreografia, però mi fece rendere conto che mi piaceva come studente, e mi fece essere più sicuro di me riguardo alla mia danza. Il fatto di costruire semplicemente delle cose, e, non so… mi è anche sempre piaciuto disegnare.
L.D. Disegnare?
G.O. Sì, disegnare. Sai come dipingere, però con la penna. Sono molto incline alla vi- sualità e anche alla matematica, ero abbastanza bravo in matematica e visualizzazione matematica, per cui in qualche modo la coreografia è venuta abbastanza naturalmente, mi è piaciuta, ed ho avuto apprezzamenti molto presto. Sai, fai queste cose a scuola e la gente dice “bene questo è molto buono” “Oh davvero lo pensi?”. Mi piaceva essere bravo in qualcosa, perciò ho continuato. Ho smesso di danzare come professionista abbastan- za presto, lo sono stato per 4 o 5 anni, e poi semplicemente ho preferito stare dietro le quinte più che sul palcoscenico.
L.D. Grazie per il tuo tempo.
G.O. Prego, Lorenzo.
13 agosto 2019, Skype (La spezia-Melbourne)
Riferimenti agli spettacoli:
- Glow, coreografia di Gideon Obarzanek, proiezioni di Frieder Weiß, produzione di Chunky Move. Première Settembre 2006, presso Chunky Move Studio, Melbourne. Disponibile online: www.youtube.com/watch?v=2AautwIOON8 consultato il 20/03/2020.
- Mortal Engine, coreografia di Gideon Obarzanek, proiezioni di Frieder Weiß, produ- zione di Chunky Move. Première Gennaio 2008, Sydney Festival. Estratto: www.youtube.com/watch?v=sbjOMualLVs&t=38s consultato il 20/03/2020.
- Connected, coreografia di Gideon Obarzanek, scultura cinetica di Rueben Margolin, produzione di Chunky Move. Première Marzo 2011, presso Merlyn Theatre, Melbour- ne. Estratto: www.youtube.com/watch?v=VgKxTcds2V8 consultato il 20/03/2020.
- I want to dance better at parties, coreografia e regia di Gideon Obarzanek, proiezioni di Michaela French, produzione Chunky Move. Première Novembre 2004, presso Chunky Move Studio, Melbourne. Estratto: www.artfilms.com.au/item/chunky-move-i-want-to-dance-better-at-parties consultato il 20/03/2020.
- Once upon a time in the Western suburbs, documentario in realtà virtuale, regia di Gideon Obarzanek e Matthew Bate, sceneggiatura di Gideon Obarzanek. Data di uscita 26 Gennaio 2017. Disponibile online: www.youtube.com/watch?v=m0M3y-crN1k consultato il 20/03/2020.
- Assembly, coreografia di Gideon Obarzanek, produzione Chunky Move. Première Ottobre 2011, presso Melbourne Recital Centre. Trailer vimeo.com/82358295 consultato il 20/03/2020.
- One Infinity, coreografia di Gideon Obarzanek e Amber Haines, produzione Danche- north e Beijin Dance Theatre. Première Ottobre 2018, Melbourne International Arts Festival. Trailer: vimeo.com/301598526 consultato il 20/03/2020.
- Tense Dave, coreografia e regia di Gideon Obarzanek, Lucy Guerin e Michael Kantor, produzione Chunky Move. Première Ottobre 2003, presso Malthouse Theatre, Mel- bourne.
- Two Faced Bastard, coreografia e regia di Gideon Obarzanek e Lucy Guerin, produ- zione Chunky Move. Première Ottobre 2008, Melbourne International Arts Festival. Estratto: www.youtube.com/watch?v=tCiLLc1n6y8&feature=emb_title consultato il 20/03/2020.
- Attractor, coreografia di Gideon Obarzanek e Lucy Guerin, produzione Dancenorth. Première Febbraio 2017, Asia TOPA, Melbourne. Trailer: vimeo.com/202416256 consultato il 20/03/2020.
- Ernst Haeckel, Kunstformen der Natur, Lepizig, Verlag des Bibliographischen Instituts, 1899, pubblicato in 10 edizioni da 10 tavole ciascuna tra il 1899 e il 1904, è la raccolta di un centinaio di litografie di forme di organismi realizzate da Haeckel stesso. Cfr. archive.org/details/KunstformenderN00Haec/ page/n33/mode/2up ↩