cura e revisione di Piersandra Di Matteo
Originariamente pubblicato in francese in: «Revue française de psychanalyse», Parigi, 1974, pp. 76-94
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All’incrocio tra psicanalisi e musicologia, il saggio di Rosolato studia la voce in riferimento all’importanza assunta nell’opera, e a partire dalla sua genesi: i primi suoni percepiti dal bambino e il grido come prima espressione di potere della voce. «Nell’opera il grido, esplosione di passione, ricorre a una comunicazione grezza e eccezionale, costituisce l’estremo straripamento della voce». Dal bambino «allucinato nella solitudine della culla, grazie ai suoi giochi vocali», al compositore di genio in preda «ad allucinazioni musicali», si snoda questo percorso di esplorazione della voce tra corpo e linguaggio.
È certamente nell’opera che la voce raggiunge un’ampiezza che la porta ai suoi limiti. Così è con l’opera lirica, a partire da ciò che la differenzia dalla musica strumentale (noi diremmo pura?), che osserviamo, al massimo grado, le sue caratteristiche. Se certi difetti prevalgono, per esempio l’indugiare compiacente sulle grandi arie, o una schematizzazione dell’azione talvolta insopportabile, è il caso di interrogarsi sull’ambiguità delle convenzioni che rendono possibile e sostengono tale arte. Possiamo pensare evidentemente di dover riabilitare l’opera, come lo si fa attualmente con spettacoli irrisori, basandosi sul solo argomento che basta ritrovare la nostra anima di bambino. Si ritrova la spontaneità, la freschezza di pensiero. Addirittura! Ci si può appassionare anche al valore psicologico e documentario dell’opera e constatare che corrisponde perfettamente ai tratti caratteriali, alla biografia del compositore, o ancora riconoscere i rapporti stretti che annoda con gli interessi di una società. Ci proponiamo, invece, di partire dalla constatazione che l’opera resta spesso contrassegnata da un carattere fittizio. L’artificio, lungi dal farsi dimenticare, si manifesta con una costanza tale da permettere di esaminare questa peculiarità,1 senza farne una qualità o un difetto, ma come un dato determinato dai fattori che sono proprio imposti dalla voce.2
Anche se trattiamo l’opera come un film di serie B, o come le hit commerciali, rispondenti ai bisogni del consumismo, bisognerebbe ancora spiegarne il potere. Supporremo piuttosto che le opere più riuscite, più sottili, dall’inizio alla fine, custodiscono più o meno questo indice artificioso, al fine di mantenere uno scarto, una distanziazione. Questo comune denominatore, qualunque siano le qualità in campo, attiene alla preminenza della voce, trattata in un certo modo, cioè nella sua più grande efflorescenza, e, pertanto, al ruolo del linguaggio nell’esprimere l’azione drammatica. Così l’opera lotta e vince, si sostenta e si svolge tra due potenzialità che la squartano e che sono proprie della voce: tra corpo e linguaggio.
Queste rive che racchiudono un fiume aprono spesso a un paesaggio, un’iconografia che altro non è che il fantasmatico, spesso inconscio, centrato sul corpo. Descrivendolo, potremo forse trovarvi il motivo di una fascinazione che ha a che fare, a margine del sacro, col meraviglioso, e, inversamente, rischiarare certe repulsioni più o meno confessate. Strada facendo apparirà, incidentalmente, un raffronto con lo sbigottimento delle allucinazioni acustico-verbali che si organizzano nello stesso campo di corpo e linguaggio.
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L’importanza assunta dalla voce nell’opera evoca per chiunque, artista e non, e più della musica strumentale, delle esperienze dinamiche del corpo che hanno le loro radici nelle acquisizioni della tenera infanzia. Si sottolineerà innanzitutto il fatto che la voce è il più grande potere di emanazione del corpo. Il poppante3 molto presto ne prende misura, come un’irradiazione della sua massa di carne ancora poco mobile verso uno spazio altrimenti più vasto, coprendo un’area che si rivelerà distendersi in tutte le direzioni e superare i tramezzi che ostacolano la vista. Fin dall’origine il grido è una manifestazione dell’eccitazione della materia vivente, nel dolore o nel piacere, al tempo stesso autonoma e reattiva agli incitamenti. Eccitazione che è la vita stessa. Ma uno scarto dà il senso dell’onnipotenza sonora quando si realizza la differenza tra il grido-eccitazione, attività innata, passiva, reattiva, spontanea, e l’utilizzazione dei rumori vocali che si organizzano su tre piani differenti: attraverso il controllo della loro emissione, attraverso l’azione che possono produrre sull’ambiente e attraverso la riproduzione dei suoni sentiti. Il bambino è attivamente allucinato nella solitudine della culla, grazie ai suoi giochi vocali, l’ambiente familiare assente, la voce della madre.
Queste prime prove hanno una particolare importanza per due ragioni: rinviano all’immaginario delle origini e riguardano una frangia di suoni che la cultura scarta. Abbiamo ridotto, nel mondo adulto, la grande varietà di rumori che possiamo produrre per trattenere soltanto quelli che permettono la miglior comunicazione. Sono abbandonati o passano inosservati gli infimi movimenti muscolari della laringe e del soffio, prove abortite, elementi costituenti primari o intermedi delle espressioni specializzate della voce.4
Le esplorazioni di Dieter Schnebel, con l’aiuto di microfoni, intra-buccali o posti sulle zone cefaliche interessate, hanno permesso non solo di conoscere meglio questi suoni infra-liminari evocatori dei primi giochi infantili, ma di utilizzarli in una prospettiva musicale coi “cantanti” che improvvisano tra loro. Questa attività corporale infima, all’origine dei suoni, non è probabilmente sconosciuta agli ascoltatori che si sorprendono ad “accompagnare”, con inflessioni quasi mute, un’aria conosciuta o la lettura di una partizione.
E le allucinazioni psicomotorie verbali, studiate dagli psichiatri del secolo scorso, sono interessanti perché attengono a esperienze analoghe. Jules Seglas aveva descritto queste impressioni di “essere parlato” (être parlé) senza volerlo, in un settore del corpo. Non si tratta di dare più importanza di quanto occorra a una meccanica sottile che correrebbe il rischio di spiegare la complessità delle allucinazioni attraverso un atomismo impalpabile o attraverso la fisiologia dei movimenti articolatori. Bisogna notare piuttosto che questi fenomeni mettono in primo piano un momento originario in cui la voce è ancora l’indizio dell’eccitazione corporale, ma colta in un istante di svolta, che il bambino prova come l’embrione di un potere, in cui da passiva e spontanea si rivela orientabile, e soprattutto in grado di agire su altrui. Questa regressione dell’immaginario ubbidisce all’ideale dei primi tempi materni. La voce diventa un luogo preciso di grido muto dove le parole sono precluse (a causa di un’impasse logica riattivata da un “doppio vincolo” – double bind), nei soli movimenti espressivi virtuali di un’eccitazione primordiale, liberatrice, più vicino al funzionamento d’organo. Questa eccitazione narcisistica, che aspira all’altro nell’Io, si ricarica allora di frammenti di catene significanti secondo un processo complesso che non svilupperemo qui. Questo esempio relativo alle allucinazioni mostra dapprima quanto la voce (ma anche ogni altro mezzo delirante di influenza, raggi, fluidi, correnti) resti legato a una dinamica del corpo e al suo fantasma.
Al contrario di questo infrasonoro, il grido prefigura il potere della voce, la sua autorità e lo spavento che provoca nel bambino. È il più grande rumore che il corpo possa produrre “naturalmente”. Sarà un modo di imporsi o, almeno, di attirare l’attenzione. Gli strumenti a fiato prendono il relè della voce. La laringe si oblia di fronte allo stridore del fischietto, della sirena, delle raffinatezze dei legni; il clamore degli ottoni, il volume dell’organo, diventano, secondo le parole di György Ligeti, una “protesi gigante”.
Nell’opera il grido, esplosione di passione, ricorre a una comunicazione grezza e eccezionale, costituisce l’estremo straripamento della voce. Il registro più acuto vi si avvicina, con l’orrore sacro, se non l’orripilazione, che è atto a indurre. La soglia, convenzionale o fisiologica, è sfiorata, se non oltrepassata quando è necessario indicare la rottura, il trauma, o più semplicemente il dramma: le prestazioni dei vocalizzi della coloratura, il troppo famoso riso sardonico (fors’anche il gemito o lo scivolamento occasionale verso l’approssimazione del “recitativo” – sprechgesang) esprimono questo gusto per il superlativo sonoro. Questo rilancio raggiunge il suo culmine con l’opera wagneriana, dove la lotta tra l’orchestra e le voci diventate tuonanti poggia su dei mezzi fisici di sortilegio. Si canta a squarciagola.
Questa fascinazione si compie secondo due modalità differenti: la trance o l’estasi. E tre procedimenti più rilevanti favoriscono l’azione. L’incremento dell’intensità dei suoni e l’accelerazione del ritmo mirano a provocare soprattutto la trance, esaltata, espansiva, mobile. Mentre le ripetizioni ritmate tendono a suscitare l’estasi, concentrata e immobile. L’odierna utilizzazione della “sonorizzazione” per raggiungere il massimo di decibel supera intenzionalmente la soglia di sofferenza dell’orecchio per produrre una siderazione o lo stato allucinatorio che ci si aspetta da una droga. (Penso sia ai concerti di Sun Ra che al Polytope di Iannis Xénakis).
Ma un altro carattere della voce deve ritenere la nostra attenzione: il suo essere prodotta. Bisogna intendere con questo una delle emissioni che si separano dal corpo, che provengono da un lavoro sotterraneo di fabbricazione, da un metabolismo, e che, una volta separate, diventano oggetti distinti dal corpo, senza le sue proprietà di sensibilità, di reazione e di eccitazione, e prendono un valore che interessa il desiderio dell’altro. Se si paragona la voce agli oggetti detti “parziali”, al seno, all’escremento, al pene, si constata che il fantasma relativo alla sua dinamica pulsionale ne è marcato. Del poter essere sostenuta a lungo e soprattutto ripetuta nella sua emissione, e secondo il respiro stesso, suggerisce ancora la potenza: si conosce la durata che hanno raggiunto certi spettacoli, privilegio dell’opera e di Richard Wagner. Il suo tenore orale, percettibile in un bisogno imperioso di consumazione musicale, il suo carattere anale, quando diventa oggetto di valore, “voce d’oro” o di semplice collezionismo per il discofilo, si cancellano davanti ai suoi flagranti caratteri sessuali. Come non pensarci poiché le tessiture corrispondono al ruolo preciso dei personaggi nelle loro relazioni amorose; il contralto perturba questa suddivisione dei ruoli provocando un sentimento di estraneità. Bisognerebbe esaminare i motivi che hanno determinato il reclutamento dei castrati: forse per ottenere voci di soprano più pure, o per affermare, esibendo queste coorti angeliche, un’onnipotenza di tiranno capace di fermare anche il corso della natura? Ma il contralto che serve alla musica di una certa epoca, coi suoi equivoci, intercetta una tradizione che ricorda anche gli attori virili e travestiti del teatro giapponese, per cui la castrazione, sublimata nell’arte, prende il suo valore di riferimento simbolico. La voce diventa l’immagine della posta fallica.
Tutti queste relazioni fantasmatiche non sarebbero completamente esposte se non ritenessimo l’insigne proprietà della voce di essere allo stesso tempo emessa e ascoltata, inviata e ricevuta, dallo stesso soggetto, come se, a paragone con la vista, uno specchio “acustico” fosse sempre in funzione. Così si articolano strettamente le immagini di entrata e di uscita relative al corpo. Possono arrivare a confondersi, a invertirsi, a prevalere l’una sull’altra. Lo spazio corporale si ordina in funzione dei sistemi sensoriali di controllo (soprattutto nelle situazioni di difesa) principalmente nell’opposizione dei campi auditivo e visivo. Si può assegnare a questi una funzione precipua nella costituzione di una patologia in stretto rapporto con questo spazio.5
L’area di sorveglianza per prevenire ogni effrazione corporale è più grande per l’orecchio, poiché si estende anche dietro; bisogna sottolineare il fatto che l’udito percepisce anche i suoni provenienti dall’interno del corpo: circolatori, digestivi, respiratori, muscolari, ossei. Questo è importante. Una corrispondenza si stabilisce tra l’esterno, l’anteriore e la vista, e d’altra parte, tra l’interno, il posteriore e l’udito, corrispondenza che in certi casi diventa identità. Tuttavia la complessità di queste relazioni è tale che si può vedere costituirsi la sequenza anteriore-interno-visivo alla quale si oppone il posteriore-esterno-auditivo; è questo ribaltamento tra interno ed esterno che interessa lo studio delle allucinazioni.
Il fantasmatico relativo all’entrata e all’uscita ha anche le sue particolarità. Così l’emissione della voce che segue il senso del soffio è contrario e senza simultaneità possibile con quello dell’assorbimento nutritivo, dunque in opposizione quanto all’oralità. Peraltro l’entrata auditiva sarà confrontata nell’immaginario con tutte quelle che sono proprie del corpo (incorporazione orale; visiva che mantiene una distanza con l’oggetto, attraverso un necessario orientamento oculare e cefalico; anale, a rovescio del senso escretore; o nella polarità sessuale, di emissione seminale maschile e di ricezione femminile; o ancora, per ogni effrazione somatica, in una rottura che definisce il traumatismo). Si comprende che le allucinazioni siano determinate da tale o tal’altra strutturazione immaginaria del corpo secondo le opposizioni che abbiamo appena indicato: dentro/fuori; anteriore/posteriore; entrata/uscita; auditivo/visivo.
Parimenti si intuiranno i modi di azione della musica che, come quella di Wagner, fa assegnamento sugli effetti fisici della “potenza” vocale e sull’esigenza di un “ascetismo” musicale che scarta un piacere troppo facile per accedere a un livello superiore di ascolto a partire da un fastidio o da uno sforzo. Quest’ultima progressione è tuttavia necessaria per il rinnovamento di nuove forme musicali. Ma nell’insieme di un tale accumulo di mezzi si scopre un’intenzione di annientamento che, per il tramite del fantasmatico, sopra descritto, conduce anche a un’ideologia distruttiva degli dèi in mancanza degli uomini, così come alle realizzazioni più debordanti, più kitsch, come gli affreschi dei castelli di Ludovico II. Non è forse questo che un uomo come Nietzsche rifiutava con irritazione?
Ma la voce, sotto un altro aspetto che si potrebbe qualificare come centripeto, deve ancora essere presa in considerazione. Accoglie, difatti, le prime introiezioni preparatorie alle identificazioni. Si è constatato (David A. Freedman) che il bambino cieco dalla nascita era capace di distinguere la voce di sua madre in un modo selettivo fin dall’età di dieci settimane.6 Il bambino normale dunque possiede un tale potere di discriminazione. Tuttavia è a cinque-sei mesi che la vista diventa il senso indicatore per la delimitazione esterna dell’oggetto che è però introiettato nei primi sei mesi, a partire da schemi non visivi, principalmente cinestesici. L’autore citato fa notare che Jean Piaget ha ristretto le sue osservazioni concernenti lo sviluppo del concetto di oggetto alle risposte del bambino al riguardo delle sole percezioni visive. Si dovrebbe dunque riconoscere l’importanza delle introiezioni auditive e vocali precoci; perché è soltanto in un secondo tempo che l’organizzazione dello spazio visivo assicura la percezione dell’oggetto in quanto esterno.
Il bambino trova nella voce materna i segni di un avvicinamento che annunciano delle cure, delle soddisfazioni e un clima di affetto. Il coordinamento tra visione e audizione è molto precoce, fin dalla nascita; e il bambino da tre a otto settimane articola i suoi orientamenti verso la voce materna (Aronson & Rosenbloom).7 È su questo modello che comincia a esercitare la propria voce. Prima di addormentarsi fa numerosi tentativi di riprodurre i suoni che diventano significanti, e inizia allo stesso tempo a eliminare quelli che sopraggiungono come eccitazione spontanea. Questo esercizio è fondamentale. Partecipa alla stessa melodia, allo stesso ritmo che nell’essere hanno la parola e il gesto. Prima dell’uso delle parole, l’identificazione corporale avviene a partire da un’introiezione della voce “nutritiva”, nell’aura del seno come oggetto primario. È la convergenza delle “entrate” che impone dunque il modo orale. Se la voce materna contribuisce a costituire per il bambino l’ambiente gradevole che lo circonda, lo sostenta e lo coccola, può, inversamente, in caso di rifiuto massiccio non diventare altro che penetrazione aggressiva e terebrante contro la quale non c’è alcuna protezione da dispiegare.8 Si può ritenere che la voce materna sia il primo modello di un piacere auditivo e che la musica trovi le sue radici e la sua nostalgia in un’atmosfera originaria – designabile come matrice sonora, casa frusciante, – o musica delle sfere. Ma non bisogna semplificare questa genesi. La reviviscenza della voce suppone sempre uno scarto, un percorso irreversibile quanto all’oggetto perduto. E in questa distanza l’agente stesso della separazione, il padre, ha il suo rispondente vocale. Il bambino distingue anche la voce che si interpone tra lui e la madre e capta elettivamente il suo interesse, il suo desiderio. C’è qui una differenza di registro, peraltro rigorosamente legata alla differenza dei sessi, essendo il primo segno distintivo con il quale familiarizza. Se si concepisce questa perdita, questo primo abbandono, ripreso, rammemorato, come distanza attraverso la voce stessa, un gioco sottile di evocazione sacrificale si avvierà tra quella dell’uomo e quella della donna. Perché alla separazione dalla madre, assicurata dal padre, deve aggiungersi un raddoppiamento, con la morte del padre, questa volta proprio all’inizio del sistema simbolico: ciò ha per effetto il superamento e insieme il mantenimento – la surrogazione – della mancanza.
Si vede dunque che numerose variazioni potranno delinearsi in riferimento alla separazione e al sacrificio (in quanto separazione accettata) a seconda che le immagini del padre e della madre siano idealizzate e indistinte, a seconda che ci sia inversione di ruoli, o annullamento dell’organizzazione simbolica del padre.
La voce è anche l’opportunità di un’esperienza primordiale di armonia corporale quando si giunge a un bilanciamento tra la sua generazione e la sua audizione. È probabile che questo non sia raggiunto che con la comprensione da parte del bambino della differenza tra la sua voce e quella di sua madre, ma anche dell’esistenza di tratti comuni, e della facoltà di metterle all’unisono. Questa possibilità di “enarmonia”, anche se attinta brevemente attraverso qualche tratto sonoro (un timbro, un’altezza, una melodia), può diventare l’immagine della fusione del bambino con la madre, di un’unione praticamente, volontariamente realizzata, vero incantamento, di cui ritroviamo traccia nell’incanto della musica.
Il dispiegamento armonico e polifonico può essere sentito come una successione di tensioni e di allentamenti, di unisono e di divergenza delle parti che si ammassano, si oppongono negli accordi, per infine risolversi nella più semplice unità. È dunque tutta la drammatizzazione dei corpi separati e della loro riunione che l’armonia deve reggere.
Così abbiamo definito uno dei primi campi in cui il bambino si esercita a discernere le differenze. La voce può essere considerata anche come un oggetto di prospettiva (objet de perspective)9 nella misura in cui, nelle strutturazioni successive della personalità, rispetto alla differenza dei sessi, giunge a svolgere la funzione di pene materno.
Dopo avere osservato le differenti incidenze corporali della voce, risulta che questa è particolarmente privilegiata perché si trova all’incrocio di un certo numero di esperienze infantili. Se raggruppiamo le principali linee di forza così percepibili constatiamo che una topologia può essere descritta a partire dai rapporti tra 1) le caratteristiche somatiche dell’audizione e della visione, in modo particolare di ordine spaziale; 2) il sistema di comunicazione (digitale o analogico, ci torneremo) a partire dai significanti; 3) la funzione dell’oggetto. Questo interessa, per il fantasma messo in gioco, tanto per le allucinazioni quanto, almeno in parte, per l’ottenimento del piacere musicale.
Si noterà infine che la voce può essere definita negli stessi termini della nozione di pulsione freudiana. Ha un’origine corporale, organica e di eccitazione, una forza, un campo, uno scopo, di piacere, legato a una tensione a ridurre, un oggetto, per raggiungere un ricevente, assicurare una comunicazione. Si può considerare la voce, e pertanto la musica come una metafora dalla pulsione in generale – la pulsione senza altro rappresentante che la musica stessa.10
Ma a questo punto dobbiamo porci una domanda: perché tanto insistere sull’aspetto corporale della voce? Perché far risaltare l’importanza delle prime esperienze del bambino? Non c’è forse una vana preoccupazione di genetismo che tende a valorizzare un passato inaccessibile, e a ridurre la musica a una regressione? Si sarà compreso che il nostro progetto è tutt’altro e non mira che a scoprire il passo regressivo del fantasma. Senza dubbio c’è il corpo, e l’esperienza vocale dei primi suoni. Ma questa anteriorità non è l’unica ad avere un’efficacia di ritorno. Si eleggerà piuttosto l’organizzazione del fantasma che per la sua struttura implica anche una permanenza, un’insistenza del richiamo all’origine. La voce fornisce così un esercizio corporale alle vecchie immagini ricomposte da un’evocazione generata dal fantasma. Raccoglie, espansione del corpo diversificata quanto il viso, le tracce dei desideri e le intenzioni di un passato che la rendono singolare.
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È incontestabile che la musica non sa che farsene delle parole e del linguaggio, e che la poesia è detta “musicale” soltanto secondo le regole che gli sono proprie e che concorrono anche a perfezionare la comunicazione. Nicolas Ruwet ha messo in evidenza in maniera eccellente questa differenza di sistema.11 Ma non fingeremo di nascondere l’evidenza del fatto che, non appena la voce è in causa nella musica, si trova il linguaggio. Si cantano delle parole. Le corrispondenze che si stabiliscono sono reperibili, significative, analizzabili. Una melodia di Gabriel Fauré, di Claude Debussy o di Maurice Ravel, può essere studiata nel dettaglio e rivelare i suoi sottili accordi. Quale educazione musicale può farne a meno?
Ma come spiegare la forza di questa convergenza? Con una prima approssimazione si dirà che esiste un’affinità tra i sistemi sottomessi a uno svolgimento temporale: il linguaggio, la musica, la danza. È il caso probabilmente di constatare una prima differenza apparente poiché il linguaggio verbale non si trasmette concretamente che in modo unilineare: due messaggi non possono essere simultaneamente sentiti dalle nostre orecchie. Tuttavia le cose sono in realtà meno semplici: il discorso si duplica in una catena parallela fatta di significanti inconsci (o preconsci). Così che le informazioni che “accompagnano” la parola sono o direttamente assoggettate al proprio sistema (come il tono, o l’accento o anche il gesto), potendo anche contraddirlo, o tendono al contrario a ricalcarsi sulla catena inconscia e inducono la metafora latente sempre in corso attraverso la sostituzione possibile tra le due catene.
Quando diciamo che lo svolgimento temporale è il tratto comune di queste articolazioni ciò ci impegna a designare delle forme di sintassi generale che appartengono a ciascuno dei tre sistemi: sintassi grammaticale e punteggiatura contribuendo al significato; concatenazione di figure, di passi, per la danza; ripetizioni e variazioni per la musica: ma il gioco di simmetria non ne soffre di ritorno, se non per un effetto di memoria.
Siccome i diversi tipi di articolazione tra musica, voce e linguaggio sono altrettante differenti convenzioni, se si comprende la musica “come una specie di tric-trac intellettuale”12, questo ci spinge a interrogarci sulle ragioni psicologiche della loro organizzazione interna e delle preferenze che li giustificano. Prendiamo dapprima l’esempio dei giochi impossibili. Sono quelli che costringono a delle interferenze incompatibili di sistemi. Stéphane Mallarmé apprezzava, in un’approvazione sognante, la discrezione di Debussy che sapeva prendere le distanze dal testo del Pomeriggio di un Fauno (L’Après-Midi d’un Faune). Lo stesso musicista, al contrario, accettava la scommessa, e la vinceva, di realizzare l’armonia dei tre poemi (1913).13 Queste differenze e queste sfumature appaiono in modo flagrante nella progressione mentale che ci propongono Marcel Proust e Reynaldo Hahn, non senza preziosismi, con un’opera “a più piani”. I Ritratti di pittori (1896) presentano quattro sequenze per ciascuno degli artisti scelti, Cuyp, Potter, Van Dyck, Watteau. Dapprima è proposto il loro ritratto in incisione, riproducendo anche il quadro per mano del pittore; l’immagine va dallo specchio, dalla tela, alla riproduzione, al bulino. Viene poi il poema di Proust che descrive, in alessandrini, il mondo delle loro opere e il gesto “triste e incantevole”, l’atmosfera e i luoghi, spesso malinconici. Infine si scopre il brano per piano corrispondente. Una progressione logica è dunque necessaria, dal visivo, al poetico, fino alla musica. Interessa tutti i piaceri delle trasposizioni che compiono gli interpreti nella loro lettura. Che ci si azzardi a sovrapporli, come è stato fatto in una registrazione recente, e il tutto diventa inudibile. Ora, questa musica vale più14 dell’essere un sottofondo sonoro in cui si perde il talento del pianista Jean Martin. Ci sarebbe dunque da studiare le incompatibilità che attengono alla prossimità troppo grande15 dei sistemi, generatrice di confusione.
In effetti, la domanda che ci poniamo è quella della vicinanza tra voce, canto e linguaggio. Salvo alcune eccezioni (le onomatopee, i fonemi delle filastrocche, certi successi jazz, lo scat song, il basso canticchiato di Slam Stewart, le folgorazioni di Cecil Taylor), la musica vocale non si è affrancata dal linguaggio. Le ricerche moderne, pur esplorando le componenti e i mixage delle sequenze verbali, con Karlheinz Stockhausen e Luciano Berio, non abbandonano necessariamente, come per esempio con Pierre Boulez, il “testo”. In questo ultimo caso non si cerca di “far comprendere” le parole: e anche “il lavoro più sottile” che si propone “implica una conoscenza già acquisita del poema”16. Questo divorzio che – notiamolo en passant – suppone un’anteriorità del testo, che l’esige, mette in evidenza la natura particolare dell’affinità di cui parlavamo. Da sempre il canto, lungi dal facilitare la comunicazione, serve piuttosto da svolta necessaria. Si potrebbe paragonare questo scarto a quello che regna in un testo poetico, e che non si saprebbe cancellare con una “traduzione” in linguaggio prosaico. Parimenti il canto deve mantenere il senso veicolato e deve fargli subire una diffrazione, una metamorfosi essenziale di trasposizione in una bocca sacra che, paradossalmente, dice di più e da un altro luogo.
Tuttavia una differenza notevole esiste. Mentre per la poesia (e in definitiva per ogni arte) lo scarto è intrinseco, di ordine semantico, per il canto la distorsione è in qualche modo meccanica, acustica; leggere la partizione corregge questo effetto. Ma, a differenza di una lettura poetica che basta a se stessa, spunta irresistibilmente la costruzione immaginaria che sarebbe una possibile interpretazione. Perciò c’è sempre nel canto, anche impercettibilmente, una forza che contraria il linguaggio “così come lo si parla”, cioè quando si vuol garantire il maggior grado di comunicazione. Lungi dall’essere un inconveniente, questa pastoia è un fattore di diletto nella scoperta. Si rammemora con piacere le parole delle cantate più semplici, si vuole ancora ripeterle. Naturalmente esistono molti gradi tra il recitativo o la melodia che sono prossimi al genio di ogni lingua, e la distanza che i compositori moderni assumono, per la dilatazione temporale, i larghi intervalli, gli accenti spostati, o le distorsioni dovute a registri estremi.
Così ci avviciniamo alla caratteristica principale della musica vocale: quella di poter suggerire, rimettere in circolazione, in modo completamente fisico, e a causa di ciò, a causa di questa necessità materiale, raggiungere con certezza il ricordo, il riferimento mitico, delle prime imposizioni del linguaggio. Si è detto che se l’affinità tra voce e parola era così grande, è per il fatto che il loro sviluppo era indissociabile. È vero. Ma bisogna aggiungere che la differenza che abbiamo appena messo in evidenza rinvia più esattamente a un’esperienza (mitica, o fantasmatica) fondamentale: sentire una voce ancora misteriosa, indefinibile, sul versante del senso. Il bambino percepisce un’organizzazione, delle ingiunzioni, un ordine al quale non aderisce che progressivamente, e con un effetto a posteriori.
La musica, più di ogni altra arte – poiché non si realizza pienamente che nello svolgimento temporale e sonoro – è l’esercizio simbolico dell’a posteriori, così come si ripresenta nella ripetizione. Questa materia vocale permanente situa il soggetto nel desiderio dell’Altro. È l’impresa primaria del significante (diamo a questa parola un senso che va oltre la categoria del fonema e del linguaggio a doppia articolazione). La voce sopporta dunque allo stesso tempo l’attrazione potente verso l’organizzazione significante dell’Altro, della madre, o più largamente, del padre, e anche l’esigenza di restare indenne, di affrancarsene, e di mantenere i legami originari, rappresentabili nel fantasma attraverso il corpo, o attraverso la madre corporale, nel suo seno. È il linguaggio, coi suoi significanti che, per la sua organizzazione nel reale, ma anche per le interdizioni, sostiene le identificazioni del bambino, e costituisce il suo Super-io, in funzione delle prime idealizzazioni che riverberano l’immagine dei genitori.
La musica, attraverso la voce, raccoglie dunque il potere del significante che partecipa a un’articolazione fondamentale col desiderio dell’Altro. Ma questo cammino così prossimo e così lontano dal linguaggio diventa il potenziale narcisistico per eccellenza: la voce secondo la legge del padre, nella prossimità del sacrificio – ma anche il soggiorno in un al-di-qua libero dal loro marchio. (Si riconoscerà en passant la pregnanza di questa chiamata originaria nelle allucinazioni, dove insiste l’insensato di una voce ricevuta – come nel bambino – rimasta in suspense nell’enigma di un significante non articolato).
Il romanticismo, probabilmente poiché era vicino a una sistemazione in forma letteraria del fantasmatico, ha saputo trovare un valore simbolico a uno strumento che aumentava sufficientemente il soffio e trasponeva la voce per dargli lo slancio – l’impulso – di un altrove: il corno.17 Già il Freischütz l’aveva posto nella “potenza delle tenebre” (Carl Maria von Weber). E, nel primo movimento della IX sinfonia di Franz Schubert, Robert Schumann ascoltava con entusiasmo il passaggio dove sembra «lanciare da lontano il suo appello e che (mi) sembra essere venuto da un’altra sfera. Qui tutto sembra essere all’ascolto, come se un ospite celeste fosse scivolato furtivamente nell’orchestra»18. (E non è forse un caso se lo stesso Schumann, l’autore di un Konzertstück per quattro corni, arriva a un punto estremo della sua sensibilità “ispiratrice”, fino a percepire negli ultimi tempi della sua vita delle allucinazioni musicali). Anche Wagner utilizzerà il fascino annunciatore di questo strumento nel Tristano.
Due esempi ancora, agli antipodi, daranno la misura delle variazioni che comporta lo scarto tra il linguaggio e la musica, e l’uso felice di questa differenza di potenziale. Dapprima l’ultima opera Bernd Alois Zimmermann, Azione ecclesiastica, terminata alcuni giorni prima del suo suicidio (1970). La desolazione trasuda dal testo, attraverso i versetti dell’Ecclesiaste, cantati da un basso, e la parabola del Grande Inquisitore, tratta dai Fratelli Karamazov, detta da due narratori.19 Ma la derelizione è ulteriormente accresciuta da una volontà deliberata di trattare l’orchestra come un semplice commento di congedo, una parafrasi ridotta e derisoria del testo. Lo scarto, contrassegnato già dall’opposizione invincibile tra la voce parlata, il canto e l’orchestra, diventa una rottura insormontabile. (Al punto di provocare nell’uditorio, a Royan nell’aprile 1973, il disaccordo dell’ilarità). Completamente all’opposto, una delle ultime opere di Olivier Messiaen (1969-1972) spinge la tessitura tra musica e linguaggio fino ad attribuire a ogni lettera dell’alfabeto una nota precisa. Di modo che le Meditazioni sul mistero della Santa Trinità, per organo, arrivano a sviluppare un commento senza parole sia di certe definizioni della Summa Teologica di San Tommaso, sia di alcuni temi biblici, attraverso trascrizioni fonematiche e per mezzo del leitmotiv (rappresentando i casi grammaticali o persino il concetto di Dio).
La lezione da afferrare da questa esperienza è che l’uso di questo “linguaggio comunicabile” serve, come del resto il canto degli uccelli, da incitamento creatore che lascia, daccapo, tutto il campo alla musica. È importante constatare che questo innesto della seconda articolazione nel sistema musicale, questa “comunione”, è dovuta proprio al compositore più “teologico” del nostro tempo. La questione di una comunicazione senza parole, tale il linguaggio degli angeli (secondo San Tommaso, citato da Messiaen), effettuandosi attraverso la musica, conduce direttamente all’origine mitica dei suoni con l’immagine di Dio-Padre. Ma vi vedremo soprattutto un tentativo di contornare l’articolazione delle comunicazioni tra processo primario e processo secondario20 (Freud), tra sistema analogico e sistema digitale (Gregory Bateson), col rinvio al tempo originario di un’infanzia mitica (angelica) dove si organizza questa articolazione.
Si può scoprire nel piacere della musica un versante nostalgico, l’aspirazione verso un’origine (che abbiamo specificato secondo due direzioni, il corpo nella sua eccitazione e la prima influenza del linguaggio) e un versante giubilatorio che deve essere analizzato come un modo di situarsi in questi punti originari e nello stesso tempo come oltrepassamento, oblio, modificazione, affrancamento, prospezione intellettuale, in relazione alla loro attrazione. Questa intimazione contraddittoria che si esercita attraverso un’oscillazione metaforico-metonimica, è il cuore del piacere narcisistico della musica.
Si sarebbe tentati di distinguere i tipi di convenzione che strutturano il gioco della voce nei suoi rapporti tra la musica e il linguaggio, in funzione dei modi di “attacco” di questo processo, a seconda che predomini il richiamo nostalgico alle origini o che questo si smorzi davanti al giubilo. Questo semplice movimento della pulsione: andare verso, raggiungere, aderire, fare ritorno, è rafforzato, coordinato, propulso, dal significante. I due versanti non vanno l’uno senza l’altro: ma la loro dominanza e ciò che serve loro da supporto – ovvero gli ideali – differiscono. Quindi il piacere narcisistico può essere considerato in funzione di questi, a seconda che prevalga l’ideale di un ritorno alle perfezioni immaginarie senza limiti dell’infanzia (Io Ideale), o che un’immagine esteriore idealizzata (essere umano, padre; progetti; universo; idee) si proponga come scopo da raggiungere (Ideale dell’Io) o infine secondo un Ideale Sessuale. Questo piacere narcisistico dipende dunque dalla relazione sociale, col progetto comune, o il fantasma comune, ma per mezzo di una sostituzione possibile tra l’ideale, l’attività pulsionale mitica e una perfezione formale nella combinatoria dei suoni. Questi ideali rilanciano il desiderio e gli danno un’immagine che non si confonde mai con l’oggetto del piacere. Questo conferma la loro importanza quando arrivano loro stessi a suscitare il godimento, come per una cattura del desiderio. La musica e il linguaggio contribuiscono, attraverso un percorso congiunto, a realizzare questa presa nell’istante stesso in cui sembra cancellarsi la differenza nella sua prima evidenza, cioè quando s’impone l’illusione di avere ritrovato l’origine, la coalescenza dei contrari, quando si proferisce il canto primordiale. La musica vocale è sempre stata legata alle preghiere e alle celebrazioni religiose o sacre che glorificano un passato storico o mitico e una tradizione, dai canti vedici fino alla liturgia della messa e alla chiamata del muezzin, dal Nô al Barong.
Dobbiamo porre l’attenzione sull’importanza dell’idealizzazione in queste manifestazioni sociali. La si definirà come una facoltà, sviluppata nel bambino, di portare mentalmente le qualità al loro più alto grado di forza e di perfezione, di condurle al massimo del loro potere immaginario; una tale costruzione determina l’ammirazione, il rispetto, e il tabù, con la corrispondente ambivalenza quanto alle azioni benefiche o malefiche (almeno per difetto). L’idealizzazione partecipa alla proiezione, nella formazione dell’oggetto che supera in potenza quella che hanno realmente i genitori. Ogni processo di idealizzazione conduce dunque alla categoria del sacro, qualunque sia l’ispirazione, estetica, politica, morale o scientifica alla quale l’individuo sottomette i suoi sforzi, e per la quale decide, anche nel senso del sacrificio, di rischiare la sua vita. La morte – e di conseguenza ciò che vi si oppone, la nascita, l’amore, la vita –, innanzitutto cristallizza tutte le costruzioni del sacro, in generale, e della religione in particolare. Una distinzione si impone. In questo ordine di idee prenderemo in prestito dall’antropologo americano Melford E. Spiro la sua definizione di religione che si appoggia su un tipo di idealizzazione di cui il nucleo è costantemente il ricorso a esseri sovrumani, dunque in una prospettiva antropomorfica che, in questo autore, non è mai assente, qualunque sia la religione, «come istituzione che regge, secondo i modelli culturali, le relazioni degli uomini con degli esseri sovrumani di cui la cultura postula l’esistenza»21. Si ritrova qui una forma iniziale e determinante per l’idealizzazione: l’immagine personale del Padre. Il sacro si estende di conseguenza più largamente del religioso.
Ora, ciò che si oppone al sacro non mi sembra essere tanto il profano che gli serve simmetricamente da contraltare, quanto il comico, il riso o l’umorismo. Si osservi la musica strumentale: non mira mai al riso in se stessa; gli effetti di Éric Satie (per esempio con la ripetizione di accordi di chiusura), il jazz con l’imitazione della voce o di suoni animali, non sono che eccezioni.22 Si può, beninteso, ridere di un opera, di un cantante, ma per il loro fiasco, la loro inettitudine. Il giudizio critico sottostante ubbidisce a dei principi, a un ideale che non sempre si discerne, o non ancora; perciò il riso può tenersi in questo punto di equilibrio, in cui non è ancora collera o disprezzo, dove testimonia certamente di una cosa: che tale credenza non è più possibile e che si può farne a meno. Una logica, sacra nella sua ricerca, un ordine, oramai inutili, cedono il passo. Ciò che c’interessa qui, aldilà della stessa musica, è seguire la traccia delle differenti idealizzazioni che lo spirito costruisce, spesso in figure obbligate, costrizioni del fantasma, ma osservabili fin nella loro desuetudine, la loro successione, la loro sostituzione, attraverso cui, in un tale movimento di svelamento, si espone una domanda di verità.
Ora, la musica che si dirige verso la dinamica “pura”, si serve della sostituzione di tutte le idealizzazioni, per trattenerne soltanto lo schema “ideale”, la traiettoria a cielo aperto che può essere chiamata pulsione. In queste metamorfosi degli ideali esposti dalla musica, l’opera, nella sua voce trionfante, ha il privilegio ambiguo di tenersi in una zona di transizione che sotto l’apparenza di sintesi, con lo spettacolo totale, fornisce, in realtà, l’occasione per grandi ribaltamenti e, pertanto, del piacere che vi si associa. Non è più musica religiosa (nel senso indicato sopra); nel XIX secolo, e anche dopo, l’opera sarà avvertita come concorrente della cerimonia religiosa; come il teatro, o più tardi il cinema, persegue la sua profanazione cantando gli amori funesti (quelli della Traviata, Manon, Madame Butterfly o Lulu. Svia gli dei. E tuttavia affronta sempre, e in un modo sostanziale per le grandi opere – Don Juan, Tristano, Boris Godunov, Pelléas et Mélisande, Salomè, Wozzeck – la riflessione sulla sofferenza e sulla morte. Custodisce un legame con la cerimonia religiosa, o l’Oratorio, per meglio, sembra, a partire da questi riferimenti del sacro, misurare (laisser entendre) l’intervallo che li divide. L’arte così compresa si dispiega in un gioco di abolizione e di fascinazione che neutralizza o esalta uno dopo l’altro tutti i miti, ivi compreso il religioso, senza priorità né preferenza. L’opera mostra, attraverso una lezione che cela il suo partito preso di artificiosità, che l’arte è il mezzo di cultura del pensiero che s’informa attraverso miti successivi. E il testo, il libretto, ha il dovere di essere soltanto indicativo, non solo per le necessità tecniche di durata, di movimento scenico o di semplice acustica, ma per raggiungere una trama universale che non appartiene apparentemente a nessuna ideologia e permette le idealizzazioni individuali e collettive, fantasmi o miti, e allo stesso momento la loro sempre possibile dissoluzione radicale.
È attraverso il linguaggio che il comico insinua la sua azione corrosiva che permette un decalage: da La Serva padrona, fino alla comparsa dell’opera buffa, Jacques Offenbach, i giochi di parole di Phi-Phi, l’equilibrio di questa condotta, che deve operare di sottecchi, finalmente si disgrega venendo alla luce del giorno. Perché è proprio per un amalgama miracoloso che la natura artificiosa dell’opera è sorgente di piacere, toccando il nervo di ogni arte nel giubilo narcisistico di poter abolire l’illusione e al tempo stesso sostenerla. Questa duplicità è espressione di un rovescio della medaglia e tuttavia si lascia afferrare, e dunque avanza mascherata, malgrado tutto, in un segreto che indica ma non svela. Questa grande fragilità dell’arte è preziosa. Lo si vede senza dubbio specialmente con la musica di cui il potere, se è ignorato, dà prova in tal modo di essere in grado di sostenere la sua stessa cancellazione.
Il meraviglioso dell’opera attiene a questa particolarità, a questa distanza riguardo ai miti e alle religioni; il fiabesco ricorre soltanto alle potenze intermedie che non sono quelle che si temono veramente, ma che ne custodiscono, sotto l’apparenza di una credenza divertita e di una critica di cui la parte sociale non è forse trascurabile, solo alcune insegne astratte. Così il libretto è nella sua necessaria semplicità, fatta anche di negligenza o di ingenuità, il sufficiente incitamento che permette di ricostituire il gravame assente dei nostri fantasmi – o, nella sua complessità confusa, il rumore e il furore delle nostre passioni, piuttosto che esse stesse.
L’artificio dell’opera diventa il misterioso bagliore di una connivenza dove talvolta parole e musica hanno la grazia furtiva che smonta la certezza degli ideali. Nessun’opera perviene al sorriso del San Giovanni Battista di Leonardo da Vinci, come Il Flauto Magico.
E non è forse perché custodisce un’intenzione iniziatica, e si volge discretamente all’esoterismo? All’inverso, se Wagner si accosta al crepuscolo degli dei, non rifiuta per questo il sostegno ideologico dei valori consacrati. In questo senso Parsifal è esemplare, e proprio perché punto d’arrivo di tutta l’opera. La musica, innanzitutto, raggiunge un tale grado di mortificazione che corrisponde interamente alle continue effusioni di colpevolezza del testo. Questo conveniva prima di tutto alle facili contrizioni di un pubblico agiato. Ma il deviamento al riguardo del cristianesimo, venendo in effetti da Schopenhauer, provoca, per un decalage che conserva ugualmente un’aria di famiglia, lo stesso malessere di due colori che stridono per la loro eccessiva vicinanza nello spettro. Qui, il sacro provoca una diplopia. Non si tiene a mente del cristianesimo che il giogo del peccato, che la colpevolezza, morbosa nell’essere così isolata, e che il sacrificio, aberrante per il dover sempre essere compiuto; così si ritrova il procedimento dell’abolizione del voler-vivere; e come ha perfettamente rimarcato Marcel Beaufils,23 in Parsifal la redenzione è totalmente misconosciuta, poiché non si ottiene una volta per tutte col sacrificio divino: l’opera si conclude con l’invocazione di una “redenzione del redentore”; il pentimento (di Kundry nel caso specifico) non può dunque avere effetti; la salvezza dipenderà soltanto dalla trasmissione dei meriti da essere a essere, tale la comunione dei santi, grazie alle sole virtù di un “puro”, e dei tormenti a venire. Inoltre, Parsifal, di cui niente attesta che la sua saggezza gli abbia evitato l’esperienza della carne, resta accanitamente diffidente nei riguardi della donna, e diventa il salvatore del padre, con un intento revanscistico (si sa che questo fantasma suppone l’augurio di una disgrazia per dominare meglio la vittima). Questa prospettiva gnostica, questo sfiorare le ideologie che diventa irresistibilmente un’ascesi, non poteva che suonare falsa alle orecchie di Nietzsche: l’artificio non conveniva proprio al riso, affermativo, che doveva spazzar via tutte le forme di rimorso, i resti del sacrificio, e le fanciullaggini. Ma qui entriamo in una nuova zona di capovolgimenti. Bisogna ora gettare nel gioco la conclusione stessa della teoria delle pulsioni, cioè la loro opposizione di vita e di morte. Un tale interiorizzazione la cui necessità logica apparve chiaramente a Freud, si contrappone a tutti i nostri fantasmi che rigettano la morte fuori di noi, e pertanto, ogni mito, imbastito sul sacrificio che propone la cancellazione della sofferenza e del male attraverso il riscatto di una colpa che si suppone li abbia causati, e l’abolizione della morte in vista di una vita futura. Non basta tuttavia mettere faccia a faccia queste pulsioni antagoniste. Il narcisismo si spende anche in questo scontro nella contemplazione di un’immagine mortifera del doppio, intrattenendo l’illusione di sormontare attraverso lo stesso potere l’estrema contraddizione di una morte mantenuta e tolta.
Questo punto centrale e originario sembra non poter essere avvicinato che attraverso una fissazione sulla pulsione. La rigorosa risalita che può proporsi di raggiungere un’astrazione vivente, evoca irresistibilmente la celebre dichiarazione di Freud: «La dottrina delle pulsioni è, per così dire, la nostra mitologia. Le pulsioni sono entità mitiche, grandiose nella loro indeterminatezza»24. È per il tramite della musica, potremmo dire, che la pulsione prende un rilievo mitico esemplare; da “finzione” qual è nella teoria psicanalitica (Jacques Lacan) vira al mito per il fatto stesso che trova una funzione differente sostituendosi a tutte le idealizzazioni, superate o rese intercambiabili. Forse è per questo che l’opera non offre nei suoi libretti che un’esposizione schematica di situazioni concernenti l’amore, l’odio, la morte, la sofferenza, come se fossero rimosse in favore di questa sostituzione musicale dove si rivelerebbe il movente stesso del mito. Parimenti una certa complicazione nella trama del racconto che sfiora la confusione per chi non ne segue l’ingranaggio, proviene dalla combinazione di queste congiunture-tipo afferrate senza preparazione psicologica più vicino al loro supposto potenziale drammatico.
La presa pulsionale della voce si presenta indubbiamente come la colata sonora, la vibrazione acustica ininterrotta, dispiegata nella sua progressione, e che si dà come oggetto e causa del desiderio: si costruisce così l’illusione dove questo deve cadere in trappola, gli oggetti ideali essendo stati ricondotti a non essere altro che l’energia e l’instabilità della pulsione. Improvvisamente il giubilo che ne risulta resta virtualmente inesauribile poiché il desiderio è rilanciato senza tregua dall’oggetto senza presa possibile, sebbene molto determinato nella sostituzione. Si sarà riconosciuto con la voce così contornata, l’oggetto di prospettiva. Tuttavia, non inganniamoci, se la voce dà accesso alle metafore della pulsione ciò è possibile soltanto per il funzionamento degli elementi di un sistema di significanti: sono loro che servono da trappola per il desiderio. La musica trama la sua illusione concretizzando le sostituzioni in capo alla pulsione.
Occorre, qui, rendere conto delle corrispondenze di questi sistemi. Abbiamo da un lato il linguaggio, con la sua doppia articolazione, i suoi elementi discreti, il suo uso nel processo secondario, la sua comunicazione digitale (per riprendere la classificazione di Gregory Bateson e Paul Watzlawick)25, che possiamo chiamare “sistema di articolazione digitale» – la cui articolazione degli elementi tra loro è di questo tipo, e da un altro lato il sistema dei significanti la cui organizzazione risponde più spesso al processo primario che si stabilisce nelle forme continue (opposte al discontinuo), e costituisce la comunicazione analogica (o “sistema di assemblaggio analogico»).26 I due sistemi hanno questo in comune: ubbidiscono, l’uno come l’altro – sebbene differentemente – alle leggi di articolazione della metafora e della metonimia.27 Se il giubilo estetico è legato a un’oscillazione metaforico-metonimica, questa è possibile soltanto per le relazioni, per le sostituzioni e metafore, costruite dunque su un’eterogeneità tra i due sistemi.
Per ciò che riguarda la voce, e più precisamente il canto, il fatto di situarli tra corpo e linguaggio, definisce i poli tra i quali si crea il gioco tensionale delle trasposizioni della musica: dentro il corpo, con le sue immagini, le sue forze presenti nella voce che ha la sua carne, la sua “grana» (Roland Barthes), i suoi scivolamenti, il suo porto, nel continuo della sua materia sonora – in metafora della pulsione, e, d’altra parte, ciò che non è il linguaggio stesso, ma un sistema organizzato secondo uno “schema potenziale di doppia articolazione”28, che più che in ogni altra arte offre l’illusione di essere composto dei significanti di linguaggio, – metafora dell’oggetto-significante del desiderio. Nell’oscillazione tra questi poli la voce è la vibrazione che dà il piacere di sentire.
Ma ecco una coda, come in musica. Se la voce è di carne e di senso, esiste in quanto medium tra i corpi e i fantasmi che li riguardano; e se il sesso regge questa relazione, allora porta con sé la seduzione, o lo stupro, la fecondazione, e il prodotto che ne risulta, il bambino generato di uno o l’altro dei partner, nel crogiolo della nostra vita immaginaria.
- Cfr. l’analisi della derisione fatta da R. Leibowitz, I fantasmi dell’opera, Gallimard, Paris 1972, p. 373. ↩
- «Monteverdi fu il primo professionista a violare impunemente le regole, ma ho il sospetto che un altro motivo sia il fatto che queste sue trasgressioni siano state compiute con la mente fissa a un nuovo tipo di espressione musicale: l’opera.» (G. Gould, L’ala del turbine intelligente, Adelphi, Milano 1988). (NdT) ↩
- «“infante” nel senso etimologico del termine (lat. in-fans, “che non parla”)», cfr. C. Hagège, L’uomo di parole, Einaudi, Torino 1989. (NdT) ↩
- Sui “fonemi fantasma” cfr. J. Abitbol, L’Odyssée de la voix, Editions Robert Laffont, Paris 2005; e anche D. Heller-Roazen, Ecolalie, Quodlibet, Macerata 2007. (NdT) ↩
- Cfr. La voix e Interprétation et construction, in Essais sur le symbolique, Gallimard, Paris 1969. La voix è stato tradotto in italiano in «Sciami | Ricerche», n. 2, novembre 2017. ↩
- D. A. Freedman, On the limits of the effectiveness of psycho-analysis: early ego and Somatic disturbances, in «International Journal of Psycho-Analysis», n. 53, 1972, pp. 363-370. ↩
- E. Vurpillot, Les perceptions du nourrisson, Presses Universitaires de France, Paris 1972. ↩
- È il caso di Louis Wolfson, le cui orecchie sono perennemente aggredite dalle parole della madre. (NdT) ↩
- Cfr. Guy Rosolato. L’objet de perspective dans le rêve et le souvenir. Articolo apparso in «Revue Française de Psychanalyse», (Paris), P.U.F., tome XLIII – n. 4, juillet-août 1979, pp. 605-613. (NdT) ↩
- Per Igor Stravinsky: «Ogni musica non è che un susseguirsi di slanci che convergono verso un punto circoscritto di riposo». ↩
- N. Ruwet, Langage, musique, poésie, Seuil, Paris, 1972, p. 51. ↩
- P. Claudel, «Sur la musique» in L’œil écoute, Œuvres complètes, Gallimard, Paris, vol. 17, p. 147. I dilettanti di tric-trac (tavola reale) non vi vedranno che astuzia: in questo gioco il caso è controllato dalle scelte strategiche a patto di perseguirle su un numero assai grande di partite. ↩
- Per voce e pianoforte, su testi di Stéphane Mallarmé (1913): 1. Soupir – Calme et expressif (la bemolle maggiore). 2. Placet futile – Dans un mouvement de menuet lent (sol minore) 3. Éventail – Scherzando – délicat et léger (atonale). (NdT) ↩
- E per me attraverso le circostanze che me la fecero conoscere. ↩
- O il disaccordo: si può infine capire pienamente l’Histoire du soldat, sbarazzata dal testo di Ramuz nell’ammirevole realizzazione di Ch. Dutoit. ↩
- P. Boulez, Son et verbe, in Relevés d’apprenti, Seuil, Paris 1966, p. 60. ↩
- Singolare slittamento semantico delle parole che sembra rendere conto dello spostamento rispetto a questo «altrove»: il corno inglese non è un corno ma un oboe che gli inglesi chiamano french horn. Ma il richiamo misterioso, ancora più di questo fatto, sembra sgorgare precisamente da questo strumento nella Sagra della primavera. Il corpo, il corno: il cuore. Gregorio Palamas: «… l’organo conduttore, il trono e la grazia, là dove si trovano lo spirito e tutti i pensieri dell’anima, in poche parole, (nel) cuore». «… questo corpo in seno al corpo, che chiamiamo cuore». Piccola filocalia, Seuil, p. 204. Per le implicazioni strumentali, falliche e paterne della voce, cfr. il mio testo La voce, “Sciami/Ricerche” n. 2 5-11-2017 ↩
- Privo di riferimento bibliografico nel testo originale francese. ↩
- Sento ancora la voce di Gianni Esposito quando camminavamo nel sole freddo di Royan, e là, attraverso questo disco, sì: «Il corpo è Abelardo e l’anima è Eloisa»… ↩
- «Il processo primario caratterizza il sistema inconscio; il processo secondario caratterizza il sistema preconscio-conscio» […]. «L’investimento di desiderio portato fino all’allucinazione e lo sviluppo pieno del dispiacere, che reca con sé l’esaurirsi completo della difesa, si possono definire come processo psichico primario. D’altra parte quei processi che sono resi possibili solo da una buona carica dell’Io e che funzionano da moderatori del processo primario, possono essere definiti come processi psichici secondari». Cfr. Jean Laplanche e Jean-Bertrand Pontalis, Enciclopedia della psicoanalisi, vol. II, Laterza, 1968. (NdT) ↩
- M. E. Spiro, La religion: problèmes de définition et d’explication, in AA.VV., Essais d’anthropologie religieuse, Gallimard, Paris 1972, p. 121. ↩
- Il comico non si confonde né con l’allegria, né con la gioia. Nasce da citazioni fuori luogo, da prestiti extra-musicali. La liturgia l’esclude. ↩
- M. Beaufils, Introduzione a Parsifal di Richard Wagner, Ed. Aubier, Paris 1964. ↩
- S. Freud, Nouvelles conférences sur la psychanalyse, Gallimard, Paris 1932, p. 130, secondo la traduzione di Laplanche e Pontalis in Vocabulaire de la psychanalyse, trad. It. Enciclopedia della psicoanalisi, vol. II, Laterza, 1968. (NdT) ↩
- P. Watzlawick, J. Helmick-Beavin, D. Jackson, Une logique de la communication (1967), Seuil, Paris 1972. ↩
- Cfr. G. Bateson, Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro, Adelphi, Milano 1989. «Per quanto fini siano le maglie della nostra rete descrittiva, i dettagli più minuti sfuggiranno sempre alla descrizione. […] perché in linea di principio il meccanismo della descrizione… è digitale e discontinuo, mentre le variabili immanenti nella cosa da descrivere sono analogiche e continue. Se invece il metodo di descrizione è analogico, scopriremo che nessuna quantità può rappresentarne un’altra con precisione: ogni misura è, sempre e inevitabilmente, approssimata». (NdT) ↩
- Cfr. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1989. «l’informazione che noi acquisiamo per via visiva… dev’essere stata costretta a divenire voce». «Il ‘discreto’, l’‘analogico’, l’‘iconico’, il ‘metaforico’, e tutti gli altri metodi di codificazione sono sussunti sotto quest’unico titolo. Quello che i grammatici chiamano “sineddoche” è l’uso metaforico del nome di una parte in luogo del nome del tutto». (NdT) ↩
- R. Barthes, Répétitions, in «Musique en jeu», n. 9, novembre, Seuil, Paris 1972. ↩