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n. 11 – aprile 22, Teatro

Il territorio del Nord-Est nel rapporto tra ambiente, corpi e pratiche performative

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https://doi.org/10.47109/0102310104

Sirio Luginbühl, Amarsi a Marghera o Il bacio, 1970, foto di scena. Courtesy Antonio Concolato.

ABSTRACT

Il presente saggio riprende le fila di una ricerca iniziata con la tesi di laurea magistrale, dal titolo Sirio Luginbühl, tra provocazione e invenzione, con la quale ho contribuito a una ricostruzione del percorso multiforme tracciato dal film-maker padovano. A partire da una riflessione sul quadro d’insieme costituito dal cinema sperimentale italiano, analizzato anche nei suoi rapporti di ibridazione con le arti performative, vengono qui considerati analizzati i materiali dell’Archivio Luginbühl. che non smette di offrire spunti e suggestivi approfondimenti, sia in prospettiva nazionale che internazionale. Sul finire degli anni Sessanta, le pratiche performative si intrecciano significativamente al cinema d’artista, concretizzandosi in esiti specifici in cui non è possibile concepire l’opera separando i diversi ambiti operativi. Basandomi sui documenti extrafilmici consultati presso l’Archivio Luginbühl e sui documenti audiovisivi restaurati dalla Cineteca Nazionale di Roma e dal Laboratorio La Camera Ottica dell’Università degli Studi di Udine, ho operato nel testo una comparazione costruttiva con altri artisti vicini al Luginbühl, operanti in simili territori e in ambiti artistici contigui.

Prospettive di ricerca

Nella costellazione di quelle che oggi possiamo definire neoavanguardie, all’altezza degli anni Sessanta compare tutta una serie di ricerche innovative, ascrivibili al concetto cruciale di “sconfinamento dal quadro” e tendenzialmente caratterizzate da un piglio aggressivo, interferenti con i mass media e la civiltà di massa. I cambiamenti radicali che sta vivendo la società italiana, in piena trasformazione da paese agricolo a paese industriale avviato al miracolo economico, catturano l’attenzione o l’inconscio di numerosi operatori culturali. Le opere più interessanti del periodo sono di natura intermediale e interdisciplinare, perché rispecchiano un universo culturale non costituito da compartimenti settoriali, bensì fondato sull’ibridazione, sulla compenetrazione di diversi – ma spesso contigui – ambiti artistici. La portata innovativa di queste tendenze sperimentali va analizzata tenendo presente che «c’è un punto in cui finisce il lavoro del laboratorio di restauro e comincia quello del laboratorio dello storico»1, essendo pronti, dunque, a confrontarsi con le convenzioni in atto nell’ambito di una determinata comunità, con il contesto pragmatico che circonda le opere in esame e producendo in questo senso un imaginative reenactment, una riattivazione sul piano dell’immaginario di qualcosa che è andato perduto. Avallando le fertili considerazioni già emerse nel 2018, confluite poi all’interno del progetto di preservazione digitale intorno alla filmografia di Sirio Luginbühl2 (1937-2014), è legittimo affermare che molteplici linee di ricerca vanno ancora approfondite. Il lavoro sin qui svolto sul fondo Sirio Luginbühl, dalla conservazione della Cineteca Nazionale-Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma3 all’effettivo progetto di preservazione digitale presso il Laboratorio La Camera Ottica dell’Università degli Studi di Udine, ha avuto come esiti principali la mostra Sirio Luginbühl: film sperimentali. Gli anni della contestazione (Cittadella, 15 aprile – 2 settembre 2018) e il relativo catalogo, curato da Guido Bartorelli e Lisa Parolo, Sirio Luginbühl. Film sperimentali (Cleup, Padova 2018). Se la lacuna relativa a una ricostruzione puntuale e aggiornata sulla figura di Luginbühl è stata colmata, è possibile tuttavia proseguire l’indagine sulla rete di contatti che lo stesso artista ha intessuto tra gli anni Sessanta e Settanta. L’inventariazione e la schedatura4 dei documenti cartacei ed extra-filmici, conservati nell’abitazione5 di Luginbühl, hanno consentito di predisporre una ricognizione integrale, una mappatura delle connessioni con tutti gli artisti sul territorio nazionale e internazionale, consolidando in definitiva la rilevanza di questo archivio privato per quanto riguarda la ricostruzione di cruciali porzioni del quadro generale dell’audiovisivo sperimentale e delle pratiche performative correlate. L’applicazione dei protocolli di documentazione, catalogazione e archiviazione, ancorché supportata dallo sviluppo di nuovi strumenti ICT, ha rafforzato naturalmente le informazioni presenti nella ricca consistenza bibliografica Luginbühl-Randi. In questo senso è possibile fornire ulteriori elementi nello studio della cultura visuale all’intersezione dei campi disciplinari del cinema e dell’arte. Considerando che la ricostruzione di tali genealogie (risolvendo problematiche di datazione, titolazione, attribuzione, ecc.) si basa necessariamente sull’interconnessione imprescindibile tra ricerca filologica e pratica storiografica, è possibile analizzare un contesto culturale peculiare, che a partire dagli anni Sessanta dialoga con un altrettanto specifico territorio geografico, quello del Triveneto. Gli interlocutori sono artisti che dedicano il loro percorso, parzialmente o integralmente, a una riflessione, un confronto tra corpo sociale, pratiche performative e ambiente.

Germano Olivotto e le installazioni documentate

A partire dal 1967-68 con i termini Land Art o Earth Works vengono definite quelle operazioni artistiche che valicano i consueti spazi espositivi e le aree urbane, intervenendo direttamente nei territori naturali6. Nasce e si sviluppa un’attenzione particolare per la natura e il paesaggio, anche degradato, una riscoperta dell’ambiente che circonda l’individuo e con il quale è anche possibile interfacciarsi artisticamente. Alla Biennale di Venezia del 1972 dal titolo Capolavori della pittura del XX secolo 1900-1945 si distingue il Padiglione italiano, incentrato sul tema Opera o comportamento. Qui viene mostrato il film Land Art (Gerry Schum, 1969)7, trasmesso per la prima volta in Europa dalla rete nazionale tedesca ARD, con i lavori di land artisti europei e americani. La registrazione di eventi negli spazi sconfinati di territori disabitati e di azioni artistiche risponde a una tendenza dell’epoca di documentazione e presentazione dei processi dell’operare artistico, secondo il principio per il quale «la riproduzione, mediante il mezzo filmico e televisivo, sia parte della realizzazione»8.

Nella metà degli anni Sessanta il Triveneto è permeato da un declino dell’arte in territori confinanti e variegati. Evolve una sotterranea tendenza all’alternativo, che prende diverse e anche divergenti connotazioni. Proprio in questo livello meno ufficiale e più indipendente si muovono i primi passi artistici di Germano Olivotto (1935-1974), coinvolto nelle proposte e nei programmi culturali di Sirio Luginbühl e della sua Cooperativa Cinema Indipendente, di cui parleremo in seguito. Olivotto esordisce pertanto «[…] nei sotterranei umori di un clima che respira l’atmosfera del ribellismo insieme contestativo, ludico e post-razionalista che attraversa la cultura americana pop e new dada, con riflessi sintomatici in Italia […]»9.

Pensiamo a Mario Schifano, Mimmo Rotella, Lucio del Pezzo, Tano Festa. Procedendo alla ricostruzione storica e culturale della Padova di fine anni Sessanta, Caterina Virdis Limentani prende in considerazione l’attività di Olivotto, il quale, partendo dall’exploit provocatorio del Gruppo N, nel 1967 inizia a frequentare l’ambiente del cinema underground10. Al Festival di Locarno del 1968 viene presentato il film in 16mm Irriversione (Gaetano Pesce e Germano Olivotto, 1968), composto da fotogrammi suddivisi singolarmente in parti, impressionate in tempi diversi. Durante la proiezione simultanea su 9 schermi una macchia di sangue che si allarga progressivamente allude sia all’inesorabile avanzata dei movimenti sinistroidi che alla liquefazione dell’arte, intesa come evento autonomo dalle contraddizioni del mondo e della storia. In questo senso il percorso di Olivotto dall’underground cinematografico alle prime realizzazioni installative è significativo: sono opere che necessitano ancora di una registrazione, di una ripresa, di una documentazione. Cinema e fotografia vengono utilizzati quali media d’indagine sociologica, per ritrasmettere il valore testimoniale e storico di queste opere. Le prime realizzazioni di Olivotto sono geometricamente elementari. Il legno o il metallo, spesso tinti di un colore puro e industriale, compongono creazioni con dimensioni e collocazioni sempre più particolari. Non si tratta solo di oggetti fini a sé stessi ma di opere pensate in rapporto a uno spazio. Tale ricerca di un’inedita dimensione tra arte e ambiente porta Olivotto a peregrinare per l’Europa e gli Stati Uniti, cercando dialogo e confronto con altri operatori culturali. Grazie alla conoscenza e l’approfondimento dell’Arte Povera, della Land Art, del Comportamentismo, della Body Art, dell’Arte Concettuale intende presto il territorio come luogo di rappresentazione, intervento, autoaffermazione. Le installazioni funzionano proprio come termine di relazione, di comunicazione con l’ambiente, «in funzione del loro perfetto adeguamento a questo contesto»11. Intorno alle ricerche americane della Land Art, Olivotto è certamente ben informato: ha contatti a New York con Sidney Janis, con Castelli, conosce l’opera di Dan Flavin che usa il neon in spazi interni. Nel 1970 Tonino De Bernardi, altro grande protagonista del cinema sperimentale in Italia, si offre per filmare un intervento urbano di Olivotto presso il Parco del Valentino a Torino. Questi segni, chiamati specificatamente Sostituzioni e preceduti da altri lavori in relazione con l’ambiente esterno (sul bordo di un’autostrada, in un aeroporto, all’interno di contesti urbani) vengono collocati ad esempio in un pioppeto. Sostituendosi al ramo di un albero, un tubo di plexiglass alto 9 metri e illuminato internamente instaura con l’ambiente un connubio suggestivo, rinnovandolo e rendendolo ancora più vitale. Lo stesso artista racconta che l’idea è venuta improvvisamente, di ritorno da un viaggio mentre percorreva in solitudine un’autostrada tedesca fiancheggiata da boschi12. La sostituzione in natura prevede una prima fase di ricerca di un albero dall’andamento regolare, in modo che l’elemento artificiale si inserisca senza disturbare la percezione globale. In seguito tutta l’operazione sostitutiva viene documentata fotograficamente, registrata rigorosamente in modo che l’opera viva, oltre che nella realtà, anche nella sua rappresentazione in immagine. Non a caso e in analogia con l’ambiente scientifico, chiama le sue opere “ricerca”, “indicazione”, “affermazione”, “sostituzione”. L’intento di Olivotto è di segnare la terra, attestando la presenza artistica con un gesto estetico che non la alteri in alcun modo, nonostante la relazione con la tecnologia. La sua è un’esigenza di misurazione, che passa «per l’esigenza di intrecciare il mondo artificiale, metrico, ordinato, con quello naturale, caotico, terrestre fino a sostituirsi lentamente ad esso […]»13. In sintonia con la metodologia adottata dalla poesia visiva, connessa alle teorie gestaltiche (pensiamo alle cancellature di Emilio Isgrò), Olivotto attribuisce alla luce al neon il valore di tracciato spaziale, comunicando il dato naturale in una progressiva liberazione del gesto operativo che conquista lo spazio, la natura, l’ambiente e anche il tempo.

Germano Olivotto, Sostituzione 10/4 effettuata nel dicembre del 1969 in un pioppeto lungo la Riviera del Brenta - Fotografia di Antonio Concolato, in Ernesto Luciano Francalanci, Germano Olivotto. Strutture e Sostituzioni 1967-1974, catalogo della mostra (Padova, Museo Civico agli Eremitani, 9 aprile - 21 maggio 1989), Assessorato Cultura e Beni Culturali Comune di Padova - Panda, Noventa Padovana (PD) 1989.
Germano Olivotto, Sostituzione 10/4 effettuata nel dicembre del 1969 in un pioppeto lungo la Riviera del Brenta – Fotografia di Antonio Concolato, in Ernesto Luciano Francalanci, Germano Olivotto. Strutture e Sostituzioni 1967-1974, catalogo della mostra (Padova, Museo Civico agli Eremitani, 9 aprile – 21 maggio 1989), Assessorato Cultura e Beni Culturali Comune di Padova – Panda, Noventa Padovana (PD) 1989.

Sirio Luginbühl, Antonio Concolato e Michele Sambin tra Land Art, happening e protesta ecologica

In molti dei film14 sperimentali realizzati da Sirio Luginbühl, sul finire degli anni Sessanta, il paesaggio ha un ruolo determinante all’interno del complesso visivo. Nativo di Verona, Luginbühl si laurea a Padova in Scienze geologiche e l’attività di informatore scientifico per conto di un’azienda farmaceutica milanese gli consente di spostarsi frequentemente presso le sedi ospedaliere del Triveneto. Nascono così occasioni per coltivare una fitta rete di conoscenze, frequentare artisti e personalità attive o vicine al mondo dell’arte. Prima di lavorare con la pellicola, inizialmente in 8mm e successivamente in 16mm e Super8, sono significative le relazioni15 in area veneziana con Emilio Vedova, Emilio Isgrò, Germano Olivotto, Paolo Gioli, Paolo Barozzi, Paolo Cardazzo. Intorno al 1968 l’operato di Luginbühl si divide sostanzialmente in due filoni. Il primo consiste nell’attività filmica, che conta più di una ventina di film realizzati entro la fine degli anni Settanta. Il secondo prevede una ricostruzione storiografica e critica del fenomeno cinematografico sperimentale italiano16.

Questa inusuale dicotomia, che potrebbe essere fonte di conflittualità sia operative che teoriche, si risolve invece in una coerenza quasi dogmatica, alla luce di un documento che possiamo considerare quale primo manifesto programmatico della Cooperativa Cinema Indipendente di Padova17. Il nome del collettivo viene scelto per indicare l’appartenenza al clima sperimentale e underground di quegli anni, in esplicita filiazione con l’omonima C.C.I. nazionale18. Sintetizzando il modus operandi della C.C.I. padovana, lo stesso Luginbühl scrive:

L’idea base è stata modificata man mano durante la presa di contatto sia con i protagonisti sia con l’ambiente in cui si operava; […].
Realizzando il film, l’oggetto, noi non ci preoccupiamo di dare una giustificazione di esso perché è implicita nell’azione che compiamo nel momento stesso in cui filmiamo. […] ogni ripresa così crea le premesse per altre idee filmiche. […] la nostra non è esperienza programmata tuttalpiù abbiamo programmato un ciclo di esperienze che hanno come punto di contatto il disagio e il malessere dell’uomo in rapporto alla nuova società industriale e tecnologica che finisce inevitabilmente per condizionarlo.
[…] Non riteniamo che le nostre opere rientrino nel campo delle neo-avanguardie ma piuttosto le vediamo come punti di rottura, ipotesi di un futuro prevedibile, in cui eliminata l’industria cinematografica, ognuno potrà, stimolato nel suo istinto creativo, operare direttamente e così liberarsi dalla servitù di un tipo di industria culturale e diventare lui stesso artefice di una nuova rivoluzione.
Inoltre vi è nel nostro fare del cinema una componente ludica che è già di per se stessa antireazionaria e dissacratoria. Manca all’interno del nostro gruppo la differenziazione tipica del mondo industriale tra il tecnico e il ricercatore, tra chi crea e l’esecutore materiale; andiamo contro la specializzazione e inoltre ci distingue la mancanza di “tecnica” in quanto non riteniamo la perfezione dell’opera un fattore positivo.
Non crediamo che l’operatore estetico possa attualmente “fare la rivoluzione” attraverso le sue opere, però può creare una situazione di malessere nella società attraverso una forma di “corruzione”; infatti una società fortemente mercificata è potenzialmente più esposta alle sollecitazioni che un certo tipo di cultura le offre sotto forma di un continuo stillicidio che, se offerte a dosi massicce, per violenta reazione farebbe sue.
[…] preferiremmo usare il termine di “realismo fantastico”. Infatti riteniamo che per un pubblico smaliziato come è quello borghese delle grandi città industriali al quale ci rivolgiamo, ormai privo di fantasia, un apporto imponderabile e fantastico non disgiunto da una amara realtà, possa rappresentare la “droga” con la quale noi cerchiamo di “corromperlo”19.

Luginbühl è dunque interessato ai mutamenti sociali legati al rapporto tra uomo e ambiente naturale. Rivolge la propria attenzione alle zone marginali in cui il contraddittorio legame tra progresso tecnologico-industriale e disagio esistenziale si fa più evidente: le aree agrarie situate a nord e sud di Padova, le periferie dei centri urbani, l’area portuale di Porto Marghera. Nella filmografia dell’artista è possibile individuare un nucleo di alcuni titoli in cui è evidente e significativa una certa simbiosi tra arti performative e ubicazioni spaziali.

Vicina l’ora (Sirio Luginbühl, 1968) è un film sostanzialmente perduto ma anche un caso emblematico di ricostruzione filologica. Confrontando la sintetica sinossi20 presente in Cinema underground oggi è stato possibile rilevare la presenza di una porzione della pellicola in un DVD prodotto da Luginbühl alla fine degli anni Novanta21. Vicina l’ora è uno dei primi esempi in cui la riflessione di Luginbühl sull’ambientazione in chiave proto landartistica è tangibile. L’elemento visivo ricorrente è una traccia di colore rosso (che rievoca la macchia di Irriversione), che viene inseguita attraverso una serie di riprese in soggettiva, all’interno del cimitero ebraico di Padova e in una discarica di autovetture. Chiazze e scie di sangue sono ovunque: sulle tombe, sulle statue, sull’erba, sui sassi, su oggetti vari. Nel cimitero di autotrasporti ritroviamo impronte insanguinate sulle carrozzerie, fino ad un palo metallico, un tubo giallo sul quale scivolano alcune gocce rosse. Le riprese si fanno più ravvicinate, come a voler analizzare il confronto tra il colore rosso e gli elementi, mentre le gocce scendono lungo un muro o tingono l’acqua di un barile. Nel complesso questi esperimenti restituiscono una particolare attenzione di Luginbühl per il colore22, probabilmente mutuata da Vedova che gli insegna le tecniche di pittura diretta su pellicola. Il rosso, il rosa shocking o fucsia sono tonalità che ritornano ripetutamente in altri film (Valeria fotografa, Frammento rosso / Ro(s)sario) e richiamano una matrice pop warholiana, una carica eversiva che intende provocare lo spettatore o, quantomeno, catturarne l’attenzione. Contaminando concretamente l’ambiente stesso, il sangue si alterna a immagini pubblicitarie tratte da quotidiani e riviste patinate. È forse Vicina l’ora della morte, della dissoluzione intellettuale in un mondo mercificato, schiavo del consumismo (le cataste di cassette con bottiglie vuote, i rottami) e dell’apparenza commerciale (le foto di cronaca, le porzioni pubblicitarie con modelle).

Sirio Luginbühl, Vicina l’ora, 1968, fotogramma. Courtesy Archivio Sirio Luginbühl.
Sirio Luginbühl, Vicina l’ora, 1968, fotogramma. Courtesy Archivio Sirio Luginbühl.

Va messo a valore il lungo sodalizio operativo di Olivotto con Antonio Concolato, fotografo di scena anche nei film di Luginbühl. Le sue fotografie consentono di rappresentare eventi altrimenti privati e in loco, diffondendo tali segnali visivi con maggiore e prolungato impatto pubblico. Oltre alle collaborazioni con Olivotto e Alberto Biasi, dal 1968 Concolato partecipa alle ricerche filmiche di Sirio Luginbühl. Formatosi all’Accademia di Belle Arti di Venezia, Concolato si dedica inizialmente all’attività pittorica, tracciando con il carboncino scarne e geometriche visioni urbane tra fasci e lampi di luce, che introducono al mezzo fotografico. Le sue fotografie testimoniano un gusto evocativo e uno stile piuttosto simbolico. Le foto di scena dei film del biennio 1969-70 immortalano le continue ricerche di matrice landartistica e, come vedremo, di indagine estetica ed ecologica.

Tali tendenze ambientali si intrecciano con gli aspetti performativi. Gli interessi di Luginbühl spaziano dalla poesia concreta23 alle sperimentazioni letterarie della controcultura24, fino al teatro sperimentale e alla performance art tutta, risolvendosi in un corpus di opere multiforme, emblema di un campo di ibridazione che intercorre tra cinema e arti visive, dove le forme di espressione artistica si intersecano e compenetrano. Nelle pellicole del film-maker ritroviamo tutto il bagaglio pregresso di esperienze parallele. Lo stesso teatro sperimentale in questo periodo si configura come commistione combinatoria di testo, azione scenica, musica dal vivo e riprodotta, happenings, poesie, nastri elettronici e proiezioni di film sperimentali coevi. Del resto, «è il cinema sperimentale degli anni ‘60 a fare del linguaggio audiovisivo e del “cinema” tout court un dispositivo estetico di “riscrittura” e di transtestualità»25. In un contesto storico-culturale in cui l’interscambio fra teatro, musica e arti visive si fa imprescindibile (Pop Art, Arte concettuale, Happening, Performance Art, la nascente Body Art, Land Art, Video Art, teatro di strada, ecc.), il cinema sperimentale programmaticamente avvia, quasi da un grado zero, una ricerca intertestuale sub specie filmica, facendo del linguaggio audiovisivo lo strumento di analisi, di studio e di esperienza di incroci e sovrapposizioni, di interferenze e contaminazioni del cinema con sé stesso e con altre forme espressive estetiche e non (pubblicità, telegiornali, film di genere, film d’autore, documentari, reportage, film di famiglia, ecc.). «Ma non si tratta più di contatti multimediali (cinema-teatro-musica ecc. con le loro varianti combinatorie), bensì di un contagio intermediologico e interdiscorsivo: la posta in gioco del sistema di relazioni intercorrenti tra cinema e arte consiste propriamente nelle modalità attraverso le quali si dispiega l’interlinguisticità»26. La performance si basa sull’azione colta nel suo svolgersi, esercita sul pubblico una decisa forza provocatoria, si avvicina sensibilmente alla pièce teatrale prelevandone strumenti e linguaggio ma possiede anche un rigore che l’avvicina all’Arte Concettuale. La presentazione performativa ha somiglianze interessanti con l’installazione e numerosi elementi della performance (corpo, gesti, effetti visivi, ecc.) vengono utilizzati nell’Action Poetry per valorizzare la voce, la parola e i significati che da esse procedono. Distinguendo la performance in cinque sezioni (performance come azione, presentazione, Action Poetry, Performance & video, Body Art), Bruno Sullo27 non contempla una modalità di tipo ambientale, utile per un’analisi più esaustiva del campo artistico in cui si inseriscono le attività di Luginbühl. Questa tipologia consiste in azioni di durata indefinita, da pochi minuti o poche ore, fino a mesi e addirittura anni, durante le quali l’ambiente non ha soltanto funzione topologica ma è anche oggetto d’indagine e strumento dell’azione stessa. «In pratica lo spazio non è più il teatro dell’azione, il contenitore entro il quale è articolato il gesto, ma il quadro di riferimento dal quale desumere gli elementi essenziali per la costruzione della mappa che racchiude il significato della performance»28. Dando particolare risalto alla connessione tra performance e Body Art, il corpo rappresenta il mezzo e il fine dell’operazione artistica. Ciò spiega la frequente esibizione della nudità anche nei film di Luginbühl, per proporre il corpo come mezzo di naturale e spontanea comunicatività. In Italia la schiera dei pittori e degli scultori attirati dalle valenze corporee si fa particolarmente fitta a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta, anche sulla scia dei movimenti di contestazione:

[…] si è contro il prodotto corrente, l’oggetto istituzionale, la merce, la convenzionalità repressiva, a favore del gesto eversivo, dell’azione demistificante, dell’atteggiamento politico-filosofico di stampo marcusiano, che si pone a favore di una liberazione dell’Es, fonte di energia psichica ed espressione di forze pulsionali, contro una psicoanalisi intesa come strumento di normalizzazione. Alcuni agiscono in diretta, altri preferiscono la mediazione della fotografia, del film, del videotape29.

Pensiamo alle esperienze di Cioni Carpi, Giovanni Anselmo, Claudio Cintoli, Jannis Kounellis, Fabrizio Plessi, Giuseppe Penone, Gino De Dominicis, Fabio Mauri, Giuseppe Desiato, Luca Maria Patella, Gina Pane e Ketty La Rocca30.

Da quando le arti visive si avvicinano alla dimensione teatrale tramite gli happening e le performance, il passo verso l’uso del cinema è breve, proprio per l’esigenza di registrare l’atto, l’azione fisica che si svolge nel tempo e nello spazio. Nel film Azriel: seguivano gli angeli (Una coppia moderna) (Sirio Luginbühl, Nino Trainito, Sandro Vendramin, 1969) vediamo appunto una coppia, presa tra desiderio, rabbia, perdizione e perdita della ragione, interagire all’interno di un mondo tossico in desertificazione o cementificazione. Incentrato su un rapporto coniugale volto alla prevaricazione e alla distruzione dell’altro, l’happening si svolge tra cumuli di terra inerte, di colore violaceo per la probabile presenza di scarti ferrosi. Come indicato anche da Concolato, si tratta di una discarica a cielo aperto di scorie industriali localizzabile presumibilmente nell’area di Porto Marghera, non lontano da Venezia. Il bidone visibile nelle ultime sequenze del film, che l’uomo fa rotolare verso la donna quasi schiacciata a terra, è riconducibile agli stabilimenti industriali del Petrolchimico.

Sirio Luginbühl, Nino Trainito, Sandro Vendramin Azriel: seguivano gli angeli (Una coppia moderna), 1969. Fotogramma.
Sirio Luginbühl, Nino Trainito, Sandro Vendramin Azriel: seguivano gli angeli (Una coppia moderna), 1969. Fotogramma.

Nella metà degli anni Sessanta Padova sta vivendo una fase di profonda trasformazione. La campagna si va spopolando e 85000 dei 200000 abitanti risultano impiegati nell’industria31. Si annoverano circa un migliaio e mezzo di imprese di media e piccola entità. In generale tutto il territorio del Triveneto sta mutando attraverso «una presenza industriale moderna tendenzialmente diffusa, al punto che non vi è “campanile senza ciminiera”, come si usa dire per indicare emblematicamente la peculiarità del modello produttivo del Veneto»32. L’estesa area portuale di Porto Marghera, sorta nel 1917 tra terraferma e terreni barenali in continuità con Mestre, si trasforma nel giro di un cinquantennio in una delle aree industriali più inquinate d’Italia, a causa della cinica combinazione di capitalismo privato e pubblico. Le porzioni di laguna strappate alle acque vengono colmate con residui tossici e nocivi delle lavorazioni petrolchimiche, provocando danni irreparabili all’ecosistema lagunare.

Proprio queste zone ad altissimo inquinamento affascinano Luginbühl e collaboratori, soprattutto per i loro «contrasti violenti, anche dal punto di vista cromatico»33. Luoghi facilmente accessibili, dove «l’alienazione, l’anonimia, la violenza all’ambiente naturale erano sotto gli occhi di tutti e non vi erano ‛ornamenti’ che rivestissero la durezza di un vivere metropolitano»34. Crepacuore (Sirio Luginbühl, Mario Pacchiani, 1969) si compone sostanzialmente di quattro sequenze diverse, che a tratti si intersecano e sovrappongono grazie alla tecnica dell’esposizione multipla. La sequenza iniziale presenta suggestivi e arditi accostamenti visivi, tra cui un cimitero d’auto, una catasta di barili, particolari di rottami d’auto. Nel parco della settecentesca Villa Pisani di Stra, nel veneziano, una ragazza gonfia bolle di pasta gommosa colorata, a simboleggiare «il progressivo tasso di artificialità che l’uomo contemporaneo, con le sue azioni e i suoi consumi, sta immettendo nel territorio, contaminandolo»35. Nella seconda sequenza i movimenti della cinepresa, mentre riprende la catasta di barili, si fanno aggressivi, nervosi, soffermandosi brevemente e portando al limite la messa a fuoco. L’effetto complessivo è spaesante. I particolari dei rottami vanno a comporre uno straniante paesaggio di rovine, in cui compare anche il braccio plurivalve di un demolitore. La terza sequenza è ambientata sul terreno barenale veneziano, di forma tabulare e tipico della zona lagunare. In certi periodi dell’anno questo aggregato umido di sabbie e argille assume un aspetto poligonale, formando un pattern geometrico di mattonelle morbide. In questo contesto Antonio Concolato, Sirio Luginbühl e la compagna Flavia Randi danno vita a un happening, durante il quale devono srotolare una bobina del film Per un pugno di dollari (Sergio Leone, 1964), per poi bruciare la pellicola «in un “sabba” gioioso»36. Il movimento dei performers, intenti ad ammassare le strisce di pellicola, e la sovrimpressione delle fiamme fanno percepire il materiale come qualcosa di vivo, organico. Le strisce scure si muovono concitatamente, sembrano aggredire le figure umane, che tentano di districarsi da questo ammasso di rampicanti. Quasi si fatica a comprendere se è la pellicola ad aggrapparsi o se sono loro ad attirarla verso i propri corpi. I tre si divertono a lanciarsi il materiale, a utilizzarlo in varie articolazioni, come stelle filanti in atteggiamento ludico. Simbolicamente la pellicola 35mm corrisponde a un’idea di cinema prettamente commerciale, narrativo, istituzionale, che Luginbühl e collaboratori osteggiano caldamente. Un gesto di disobbedienza e liberazione, che esprime la partecipazione al clima eversivo di quegli anni e al progetto di un’arte totale, intesa come azione di rinnovamento della società. I resti di celluloide vengono lasciati sul luogo della performance, a fondersi con l’ambiente. Spesso Luginbül torna a distanza di tempo nel sito per osservare lo stato delle tracce lasciate, operazione simile alla documentazione fotografica praticata dai landartisti.

Nelle sequenze conclusive di Crepacuore, una ragazza con il viso nascosto da una maschera antigas e coperta da una garza bianca sale su un pendio formato dalla polvere violacea di uno scarico industriale. Mentre cammina srotola la garza, inscenando un nuovo happening che espone gradualmente il corpo della performer e, nel contempo, lascia una lunga traccia bianca sul terreno. Un solco bianco che taglia a metà l’inquadratura, un intervento di Land Art, per la volontà di inserire l’opera d’arte nel processo di modificazione e deterioramento degli elementi naturali.

Sirio Luginbühl, Mario Pacchiani, Crepacuore, 1969, foto di scena. Courtesy Antonio Concolato.
Sirio Luginbühl, Mario Pacchiani, Crepacuore, 1969, foto di scena. Courtesy Antonio Concolato.

Anche Zona quarta. Progetto per uno spettacolo (Sirio Luginbühl, 1969) viene girato sul terreno poligonale a Porto Marghera. In una breve sequenza in sovrimpressione a riprese del terreno, gambe femminili nude e dipinte di rosso deambulano, saltano, danzano da una zolla all’altra. In tutto le gambe sono quattro, due in una ripresa e due colorate in un’altra. Riprese effettuate in momenti diversi ma affiancate all’interno della medesima inquadratura, grazie alla tecnica della doppia esposizione. È possibile rilevare un’evoluzione tecnica nell’utilizzo artigianale di tavole lignee colorate37, mascherine, lastre di cartone, metalliche o plastiche che vengono posizionate e mosse davanti all’obiettivo. Il risultato visivo è un rapporto, una connessione di due azioni parallele (sia che si tratti di flashback, flashforward o dimensione onirica) che convivono nello stesso momento e nello stesso luogo grazie all’esposizione multipla.

Sirio Luginbühl, Zona quarta. Progetto per uno spettacolo, 1969, fotogramma. Courtesy Archivio Sirio Luginbühl.
Sirio Luginbühl, Zona quarta. Progetto per uno spettacolo, 1969, fotogramma. Courtesy Archivio Sirio Luginbühl.

Per quanto riguarda l’utilizzo di mascherine con aperture rettangolari, sono rintracciabili similitudini con un film più tardo di Michele Sambin, anche lui membro della C.C.I. di Padova a partire dal 1971-72, ovvero Film a strisce o La petite mort (Michele Sambin, 1976)38. Se Sambin calcola minuziosamente i secondi in cui devono essere utilizzate le singole fenditure, utilizzando il montaggio in macchina, Luginbühl non è altrettanto meticoloso ma gli intenti nei procedimenti artigianali si somigliano in modo interessante. Film a strisce risente della conoscenza di artisti quali Stan Brakhage e Michael Snow, visti spesso al Pesaro Film Festival, dove Sambin e Luginbühl si recano in più occasioni39. A questo proposito vanno ricordati i fotogrammi iniziali del film La région centrale (Michael Snow, 1971), dove viene apposta sull’obiettivo una mascherina con un paio di linee incrociate. Dal punto di vista della cima di una montagna, il paesaggio di una località remota del Quebec viene registrato da una telecamera attrezzata per il movimento in tutte le direzioni. Una sorta di performance vertiginosa e allucinatoria che sfida la gravità.

Anche in Laguna (Michele Sambin, 1971) si assiste alla ripresa in Super8 di paesaggi naturali e artificiali, accomunati dalla presenza di una donna che comunica per mezzo di un clarinetto. La contrapposizione tra il verde e l’azzurro del paesaggio lagunare veneziano e le fabbriche della zona industriale di Porto Marghera, che invadono e inquinano l’ambiente, rimandano alla stessa velata denuncia alla condizione ambientale del periodo, riscontrabile in molti film di Luginbühl. L’atteggiamento di Sambin e Luginbühl, sintetizzato attraverso il medium artistico, pone l’attenzione sull’inquinamento dilagante, relativo ai poli industriali che stanno invadendo il Nord-Est italiano. Nello stesso periodo anche l’opinione pubblica si interessa a simili tematiche. Del resto non si può negare l’ambientalismo quale fenomeno nascente negli Stati Uniti (nel 1970 a New York migliaia di studenti partecipano al primo Earth Day) e l’affermazione di nuovi partiti definiti “verdi”40.

Come già visto in Crepacuore e in linea con la denuncia collettiva da parte del mondo sperimentale nei confronti dell’industrializzazione imperante, Senza seguito. Senza seguito (Sirio Luginbühl, Mario Pacchiani, 1970) viene riassunto da Luginbühl in questo modo:

Una giovane ragazza passeggia, gioca, scarabocchia i muri, sorbisce il gelato; a tratti appare il cadavere di un uomo semisepolto, lo sfondo un ambiente industriale e una natura disumanizzata… in un campo di fiori gialli la ragazza mostrerà un volto nuovo e le mani sporche di sangue. Marghera: noi giocavamo, loro, gli operai, morivano41.

Il film si apre con il ritrovamento di un cadavere, macabro elemento in contrasto con una ragazza che si aggira candidamente in un cantiere abbandonato. Le scarpette eleganti affondando nel pulviscolo bianco che ricopre il suolo, probabilmente nocivo. La ragazza si diverte interagendo con svariati oggetti non propriamente ludici: salta con una corda, maneggia dei pezzi di plastica, si improvvisa equilibrista su un barile di petrolio. Disegna su un muro con un gessetto, prima alcune figure stilizzate poi le parole “sciopero – verifica – senza seguito”, che rimandano agli scioperi indetti dagli operai del Petrolchimico, preoccupati per le sostanze nocive con cui sono quotidianamente in contatto. Nella sequenza finale la ragazza raccoglie dei fiori gialli per farne un mazzetto ma scopre improvvisamente di avere le mani insanguinate, quasi a simboleggiare la colpa indelebile di una società passiva e impotente di fronte alle nefandezze nei confronti della natura. La speranza è riposta solo nelle nuove generazioni: alla fine una bambina guarda in camera con un giocattolo in mano (è Cecilia, la figlia di Luginbühl).

Neocid (Sirio Luginbühl, 1970), film perduto, è probabilmente l’emblema della riflessione del cineasta padovano sull’inquinamento ambientale. Dalla sinossi recuperata è possibile ricostruirne l’impianto visivo, in sostanza:

Era un piccolo film in cui due personaggi, un ragazzo e una ragazza si recavano al mare. Il mare allora era pieno di rifiuti, e in mezzo a questi rifiuti facevano il bagno. O meglio il ragazzo faceva il bagno, mentre la ragazza, con pareo e ombrellino parasole, camminava sul bagnasciuga con una maschera antigas sul volto42.

A partire dal titolo, il marchio di un famoso insetticida molto pubblicizzato negli anni Sessanta, emerge l’ennesima protesta contro la polluzione imperante, che si declina in questo caso in un’accusa rivolta all’ingente e variegata spazzatura rilasciata in mare dai fiumi Adige e Brenta. Luginbühl e collaboratori sono attirati da questi “terreni vaghi” dell’area industriale, ritenendoli, pur nelle loro eclatanti contraddizioni, comunque espressioni di una certa energia.

La locandina originale del film Amarsi a Marghera o Il bacio (Sirio Luginbühl, 1970) presenta, accanto a una foto di scena, la sigla H₂S, formula chimica dell’acido solfidrico. Il suolo dove si decide di ambientare il film, un’altra discarica del Petrolchimico di Porto Marghera, è talmente intriso di rifiuti chimici che i due protagonisti, anche se completamente svestiti, devono indossare i sandali per non ustionarsi i piedi. Un nuovo happening, incentrato sul contatto amoroso tra amanti, è l’occasione per mostrare ciò che sta accadendo al paesaggio veneto con l’avanzare del progresso industriale. Un ragazzo e una ragazza, estranei tra loro, vengono portati sul posto. Interrogandosi sulla possibilità di concretizzare un atto d’amore in un ambiente così ostile, con la corrosività del terreno e i gas sprigionati che possono essere tollerati per breve tempo, i giovani vengono invitati a denudarsi per unire i loro corpi in baci, carezze, abbracci, mentre operatori, fotografi e giornalisti osservano, documentano, annotano rigorosamente degli appunti. L’happening avviene su una collinetta, che mostra tutt’intorno terreni che acquisiscono colorazioni e sfumature più scure, dal nero al rossastro. In sottofondo ci sono rumori ambientali: un silenzio carico di tensione viene interrotto solamente dal ronzio della cinepresa, dagli scatti delle macchine fotografiche, dal latrare dei cani in lontananza, dal brusio di qualche moscone, dal frinire dei grilli e da un insistente cinguettio di uccellini (rumori e suoni registrati non in presa diretta e inseriti a montaggio). L’atmosfera appare torrida, afosa, immota. Le inquadrature si fanno più strette sugli amanti ma la dimensione d’intimità viene sempre violata, anche visivamente e con valenza metacinematografica, dalla presenza all’interno dell’inquadratura di altri membri della troupe. La bellezza plastica dei due corpi avvinghiati viene analizzata scientificamente, ignorando il cambiamento paesaggistico. I media (fotografia, televisione, cinema) non sono interessati a puntare l’obiettivo verso l’inquinamento del suolo e dell’aria ma preferiscono occuparsi di temi più leggeri, meno impegnati e più distraenti, come la visione di due corpi mentre si baciano. Al popolo, che subisce e vive colpevolmente inconsapevole, non resta che soccombere come fanno i due protagonisti, quando alla fine del film una macchia di colore rosso si espande sul terreno bianco che ospitava i giovani. Un montaggio più serrato presenta veloci inquadrature con porzioni di terreno bagnate di sangue.

Sirio Luginbühl, Amarsi a Marghera o Il bacio, 1970, foto di scena. Courtesy Antonio Concolato.
Sirio Luginbühl, Amarsi a Marghera o Il bacio, 1970, foto di scena. Courtesy Antonio Concolato.

Senza allontanarsi dal cinema sperimentale coevo e da questa tendenza artistica alla stima, misurazione, rilevamento della realtà, viene da pensare a Luca Maria Patella, anch’egli in contatto con Luginbühl. Il film Terra animata (Luca Patella, 1967) viene definito dallo stesso autore tutt’altro che una semplice documentazione. Assumendo la macchina fotografica e la cinepresa come media espressivi per creare la dimensione concettuale dell’arte con un’ottica globalizzante, concreta, scientifica (ha una formazione a cavallo tra l’arte, la chimica, l’elettronica e la psicoanalisi), Patella realizza questa azione pre-landartistica e proto-concettuale, come ama definirla, anticipando di fatto i casi americani del 1968 e quelli europei del 1969. Nella primavera del 1967 coinvolge la compagna Rosa Foschi e Claudio Meldolesi, in questa ripetuta misurazione della terra, una performance azionata da «personaggi schematici indicativi»43. Su ampie distese di campi arati una lunga striscia di tessuto bianco viene tesa da mano a mano, formando linee e angoli che tracciano gli andamenti della terra, l’orizzonte, la divisione dei campi. Una vera e propria «presa di contatto con la materia»44 di questi «marziani del nuovo»45, con movenze corporee indicative (affiancati, capovolti, con le braccia alzate). Alcune inquadrature si soffermano sui piedi, che si stagliano sulla materia naturale. Gli effetti di animazione di piccoli oggetti (i bottoni sul selciato) hanno un intento razionalizzante e ironico. La Foschi indossa un apposito vestito specchiante, sul quale si riflette l’ambiente di zolle arate, oltre a Patella stesso che si avvicina con la cinepresa, il tutto con effetto deformante. Il film presenta alcune parti virate in rosa, rosso e arancione: colori brillanti e anche psichicamente “significanti”46. La cinepresa non viene impiegata semplicemente come mezzo di documentazione di una serie di performance ma diventa vero e proprio strumento di rilevamento, stima scientifica, tracciando rapide panoramiche verticali e orizzontali, affrontando problematiche strutturali più che meramente estetiche. «Alla misurazione del paesaggio si somma quindi anche la misurazione dello spazio filmico, la costruzione dell’inquadratura»47.

Luca Maria Patella,k Terra animata, 1967, fotogramma. Pubblicata in Bruno Di Marino, Marco Meneguzzo, Andrea La Porta (a cura di), Lo sguardo espanso. Cinema d’artista italiano 1912-2012, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI) 2012.
Luca Maria Patella,k Terra animata, 1967, fotogramma. Pubblicata in Bruno Di Marino, Marco Meneguzzo, Andrea La Porta (a cura di), Lo sguardo espanso. Cinema d’artista italiano 1912-2012, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (MI) 2012.

Paolo Gioli e il paesaggio corporeo

Abbiamo visto come il corpo umano spesso funga da anello di congiunzione tra pratiche performative e informazioni ambientali, a partire dal fatto che è il performer stesso l’artefice dell’azione, colui che attua l’operazione in dialogo con il luogo prescelto, dando quindi senso a entrambe. Del resto:

“Paesaggio” deriva dal latino pagus (villaggio) e da pangere (conficcare, piantare). Implica in sé la presenza dell’uomo, una miscela di caratteri fisici e antropici che presuppongono un’operazione intellettuale da parte dell’uomo. A tutti gli effetti, il paesaggio per essere tale è pensato o fatto dall’uomo. È una sua proiezione o astrazione, come appare da questa voce di un dizionario etimologico, il concetto di paesaggio implica che si agisca in qualche modo su di esso. Dunque noi vediamo il paesaggio sempre in chiave mitica. […] Praticamente in tutte le culture, eccetto la nostra, il corpo è sentito come eccessivamente “nudo”, troppo vicino alla natura e, perciò, pericolosamente tangente alla dimensione animale. L’animalità è qualcosa che deve essere addomesticata, esorcizzata e questo si pensa di ottenerlo trasformando il corpo, da presenza opaca e muta, in un qualcosa di trasparente per la nostra coscienza e, cioè, in “segno”48.

Il film Sex Landscapes (Paolo Gioli, Sirio Luginbühl, 1978) si offre quale sintesi ideale delle argomentazioni affrontate. La pellicola, conservata dal maestro rodigino recentemente scomparso, corrisponde probabilmente al film che in un giornale dell’epoca è intitolato L’impegno dei sensi. Lo si deduce dal riferimento nell’articolo al particolare supporto di realizzazione, una pellicola a sviluppo istantaneo 16mm Polavision, tecnicamente vicina alla fotografia Polaroid. Tale supporto subisce un decadimento più rapido, infatti la copia digitalizzata è piuttosto rovinata ma consente ugualmente l’analisi. L’opera, totalmente montata in macchina, viene realizzata da Gioli e Luginbühl durante il Festival del cinema erotico d’avanguardia di Montecatini, nell’aprile del 1978, e subito proiettata. I cartelli che compaiono introducono alcune sequenze, riferendosi più o meno esplicitamente al tema del festival. “SEX LANDSCAPES”: mani femminili sembrano accarezzare il profilo delle montagne. “SEX WATER”: mani femminili si muovono sinuose nell’acqua di una piscina. “SEX FLOWERS”: mani femminili afferrano e sollecitano un fiore. “BODY SEX”: una mano femminile accarezza il petto e il viso di un uomo supino; una sigaretta accesa passa da un ombelico all’altro, sia maschili che femminili; pose statiche di uomini e donne in costume da bagno: su una scala, a bordo piscina; seni femminili che interagiscono con dei fiori; corpo femminile che si muove nella piscina; movimenti della cinepresa ad esplorare dettagli del corpo femminile (i piedi, le gambe), toccati da una mano maschile; dettagli della sdraio e di un accappatoio rosso; dettagli di alcune fotografie Polaroid tenute davanti al petto dall’uomo (nelle stesse fotografie ci sono dettagli anatomici); dettaglio di un paio di zoccoli.

Come abbiamo visto per Azriel: seguivano gli angeli e Crepacuore, Luginbühl è particolarmente interessato alla rappresentazione del corpo per mezzo della forma artistica performativa. In un’altra sequenza di Azriel un uomo misura le gambe nude di una donna aiutandosi con un metro a nastro. Con procedimento meticoloso viene rilevata la lunghezza degli arti inferiori, la distanza tra le ginocchia, tra gli stinchi, lo spazio che intercorre tra anca e ginocchio, tra le anche, valutando l’altezza del ventre. Questa sorta di sintesi antropometrica femminile ben esemplifica l’importanza preminente che il corpo, in particolare quello femminile, costituisce per Luginbühl. Si tratta di una riflessione legata alla mercificazione del prodotto. Spot pubblicitari, manifesti, packaging del periodo vengono studiati per veicolare un’identità che si confaccia al target di riferimento e che rispetti i modelli socioculturali e consumistici del momento storico. Volti e corpi femminili vengono utilizzati per comunicare alimenti, prodotti di cosmesi, di moda, per la casa. Con l’avvento del consumismo il corpo soprattutto femminile, in quanto feticcio e appunto oggetto di consumo, si trova a essere investito di una funzione promozionale, caricato di un valore narcisistico mirante non solo alla culturizzazione ma a una più facile mercificazione di sé. In Luginbühl è possibile individuare una costante, che rispecchia in modo plausibile lo standard pubblicitario dell’epoca: la sua feticistica frammentazione, la scomposizione del corpo in particolari. Si tratta di componenti che, attraverso una valorizzazione data dall’azione ripresa e dal loro inserimento nella composizione visiva del film, riescono a provocare lo spettatore.

Nel territorio ibrido in cui cinema e fotografia si incontrano, Gioli ha inventato, sperimentato e innovato svariati dispositivi. Il confronto con le tecniche Polaroid gli consente di tentare una nuova variazione sui temi dei corpi e dei volti. «La figura umana, nel senso rinascimentale del termine, oltre a essere, comunque, al centro di ogni sua immagine rappresenta la misura di tutte le cose, trait d’union tra figurazione a astrazione e soprattutto tra terra e cosmo»49. Il corpo metonimico, visto come frammento, non è per Gioli qualcosa di osceno, bensì di strettamente legato all’organico, al naturale, alla dimensione più profonda dell’ancestrale.

Paolo Gioli, Sirio Luginbühl, Sex Landscapes, 1978, fotogramma. Courtesy Archivio Sirio Luginbühl.
Paolo Gioli, Sirio Luginbühl, Sex Landscapes, 1978, fotogramma. Courtesy Archivio Sirio Luginbühl.
  1. Cfr. Antonio Costa, O for Original, in Aa. Vv. Il cinema ritrovato. Teoria e metodologia del restauro cinematografico, Grafis Edizioni, Bologna 1994, p. 35.
  2. Sirio Luginbühl è un artista padovano che a partire dagli anni Sessanta si contraddistingue, pur senza un riconoscimento ufficiale, per un’attenzione sperimentale nei confronti di molteplici ambiti, dall’happening alla performance, dalla poesia concreta all’attività storiografica, fino alla produzione filmica.
  3. Si ringrazia in particolare Annamaria Licciardello, che si è occupata per il CSC-CN delle collezioni di cinema sperimentale a passo ridotto, proseguendo il lavoro di Adriano Aprà in collaborazione, in alcuni casi, con La Camera Ottica. Tra i fondi filmici conservati e i materiali digitalizzati dalla Cineteca ricordiamo quelli di: Franco Angeli, Massimo Bacigalupo, Piero Bargellini, Paolo Brunatto, Pia De Silvestris, Paolo Gioli, Anna Lajolo, Alfredo Leonardi, Guido Lombardi, Annabella Miscuglio, Luca Patella, Raffaele Perrotta, Michele Sambin, Mario Schifano, Giorgio Turi e Adamo Vergine.
  4. Le attività, ancora in corso, sono previste all’interno del PRID Dip. Eccellenza (Università degli Studi di Udine) “Cinema indipendente e cinema d’artista in Italia dal 1960 al 1980. Catalogo generale web based”, che mira alla ricostruzione documentaria dei contesti produttivi e della storia della trasmissione culturale dell’insieme eterogeneo di pratiche audiovisive indicate dalle locuzioni “cinema indipendente” e “cinema d’artista” (Responsabile scientifico: Prof.ssa Cosetta Saba).
  5. Va sottolineato che una felice combinazione di fattori ha facilitato l’iniziale reperimento delle fonti: Luginbühl stesso ha raccolto sistematicamente nel corso della vita documenti di varia natura (missive, locandine, manifesti, opuscoli, articoli di quotidiani, fotografie, ecc.) e, a partire dal 2014, la moglie Flavia Randi ha improntato una riorganizzazione cronologica di tutto il materiale.
  6. Gli sviluppi più significativi di questa tendenza hanno luogo negli Stati Uniti, dove gli artisti sono affascinati dagli immensi spazi incontaminati. «Questa dimensione naturale assoluta si oppone dialetticamente all’artificialità e alla fredda e geometrica monumentalità delle metropoli, rappresentando l’altra faccia dell’identità geografica americana. […] L’operazione dei land artisti non è, ovviamente, quella di collocare delle sculture nella natura, ma di utilizzare lo spazio e i materiali naturali direttamente come mezzi fisici dell’opera […]». Cfr. Francesco Poli (a cura di), Arte contemporanea. Le ricerche internazionali dalla fine degli anni ‘50 a oggi, Mondadori Electa, Milano 2003, p. 114.
  7. Si tratta di un film successivamente trasferito in video, che documenta una serie di interventi artistici in spazi aperti di Dennis Oppenheim, Richard Long, Robert Smithson, Jan Dibbets, Berry Flanagan, Marinus Boezem, Michael Heizer e Walter De Maria.
  8. Cfr. Gerry Schum, Fernsehausstellung Land Art, Hannover 1970, in Valentina Valentini, Cominciamenti, catalogo della III Rassegna Internazionale di Taormina Arte Video d’Autore, De Luca editore, Roma 1988, p. 55.
  9. Cfr. Ernesto Luciano Francalanci, Una luce nel bosco, in s. a., Germano Olivotto. Strutture e Sostituzioni 1967-1974, catalogo della mostra (Padova, Museo Civico agli Eremitani, 9 aprile-21 maggio 1989), Assessorato Cultura e Beni Culturali Comune di Padova – Panda, Noventa Padovana (PD) 1989, p. 46.
  10. «Negli anni in cui Olivotto e Luginbühl si frequentano, l’orizzonte di quest’ultimo si è ampliato, comprendendo, oltre che le esperienze proprie del cinema, quelle dell’happening e delle performance». Cit. Caterina Virdis Limentani (a cura di), 1950 2000 arte a Padova, Edizioni Marcato, Padova 2003, p. 96.
  11. Cfr. Pierre Restany, Germano Olivotto: Sostituzioni, appena visibili, in «Domus», n. 496, 1971, riportato in Luigia Terrin Olivotto, Nota biografica, in Ernesto Luciano Francalanci, Germano Olivotto. Strutture e Sostituzioni 1967-1974, cit., p. 9.
  12. Di Emilio Vedova, che negli anni Sessanta si dedica al componimento dei plurimi, scrive Sirio Luginbühl: «[…] scenari chiazzati di rosso, di nero, di blu, scenari che sprizzano energia da ogni molecola di carta, scenari da introdurcisi dentro e imprecare, tanto, colori e labirinti artificiali fanno vedere le traveggole. […] Prende questi colori e li trasferisce sulle tele, sui giornali, su pezzi di legno incernierati in fantastiche scenografie, ma durante il viaggio, testa, mani, pennelli, assumono un sapore diverso che più che di salmastro e di preziosi marmi [allude alla laguna di Venezia, dove si trova lo studio di Vedova], sanno di lucide autostrade, di luci al neon, di semafori, di metropolitane sfreccianti». Cfr. Sirio Luginbühl, Scritti sparsi 1964 – 2014, a cura di Flavia Randi, Cleup, Padova 2016, p. 21.
  13. Ernesto Luciano Francalanci, Germano Olivotto, in Riccardo Caldura, Una generazione intermedia. Percorsi artistici a Venezia negli anni ‘70, Centro Culturale Candiani, Mestre 2007, p. 41.
  14. È stata presa in considerazione la produzione in pellicola (1968-1980) e i contenuti sono stati confrontati con la documentazione extra-filmica presente nell’archivio privato (cataloghi, inviti, lettere, locandine, programmi di eventi vari); la monografia Cinema underground oggi (Mastrogiacomo, Padova, 1974); i quaderni Fotogrammi del desiderio nel cinema sperimentale e underground italiano e Ritratti perturbati & fotogrammi del desiderio 1968-2013. Cronache e appunti di una cinepresa (Sirio Luginbühl, 2013). Utile si è rivelata la comparazione con le riedizioni digitali di molti film, realizzate dall’autore in formato digitale tra la fine degli anni Novanta e l’inizio degli anni Duemila. Preziose infine le testimonianze orali di quanti hanno partecipato alla realizzazione dei film: Flavia Randi, Antonio Concolato, Nino Trainito, Valeria Bolani, Michele Sambin.
  15. Frequentazioni confermate dalla corposa corrispondenza rintracciata all’interno dell’archivio privato.
  16. Ancora oggi i punti di riferimento fondamentali per la ricostruzione storica del fenomeno, ancora parzialmente divulgato, del cinema sperimentale e underground in Italia sono: Sirio Luginbühl, Cinema underground oggi, Mastrogiacomo editore, Padova 1974 e Sirio Luginbühl, Raffaele Perrotta, Lo schermo negato. Cronache del cinema italiano non ufficiale, La centrale, Milano 1976.
  17. Anche se sono stati rilevati alcuni eventi padovani del 1968-69 in cui Luginbühl presenta i primi film realizzati (ad es. nello Studio Umicini) è dal 1970 che in programmi e locandine compare la dicitura “Cooperativa Cinema Indipendente” (di Padova).
  18. Il settore più radicale della sperimentazione cinematografica italiana si costituisce ufficialmente a Napoli nel maggio 1967, registrato in forma di cooperativa, per iniziativa di Aldo, Antonio e Adamo Vergine. Vengono raccolti inizialmente i gruppi di Roma e Torino, attivi già da qualche anno, e in seguito i film-makers sparsi su tutto il territorio nazionale. Alfredo Leonardi prepara un elenco dei film disponibili da distribuire e Antonio Vergine diventa il segretario romano della C.C.I. Ma già nel 1968 la cooperativa, come ente legale, viene sciolta e tutta l’attività di coordinamento viene trasferita a Roma. Cfr. Filmstudio 80 (a cura di), Il cinema indipendente italiano 1964-1984, Roma 2003.
  19. Cfr. Sirio Luginbühl, Conversazione del gruppo del 9 agosto 1970, inedito conservato presso l’Archivio Sirio Luginbühl, Padova.
  20. «Una passeggiata seguendo una traccia di sangue attraverso una città di cartelloni pubblicitari, carcasse d’auto, cimiteri, sino ad un rifiuto totale della nostra società». Cfr. Sirio Luginbühl, Cinema underground oggi, cit., p. 46.
  21. Come emerso dal protocollo di preservazione digitale adottato sul fondo, va precisato che l’archivio filmico Luginbühl è caratterizzato da una molteplicità di stratificazioni testuali della stessa opera, anche a distanza di anni. La pellicola originale viene duplicata per esigenze logistiche (più bobine dello stesso titolo partecipano a diversi festival e manifestazioni nel medesimo periodo) ma anche artistiche, in quanto ogni copia offre l’occasione per ripensare e arricchire la realizzazione originaria, in un’incessante riformulazione di senso e significati, che dimostra una concezione di opera aperta, in costante evoluzione. Va tenuta in considerazione anche la presenza di una tradizione “indiretta” in video, analogico prima, digitale poi: copie di accesso derivanti da un processo di progressivo aggiornamento del supporto messo in atto dallo stesso autore per salvare le opere dall’obsolescenza e semplificare la loro fruizione. Nello specifico, negli anni Novanta Luginbühl fa riversare parte del fondo filmico su nastro magnetico analogico attraverso un telecinema, non limitandosi alla copia ma intervenendo e modificando il tessuto audiovisivo. A cavallo tra anni Novanta e Duemila l’operazione, modifiche ulteriori comprese, si ripete su supporto digitale (DVD). Questi interventi successivi sono il segno di una pratica di aggiornamento in prospettiva della tradizione complessiva delle opere. Cfr. Gianandrea Sasso e Lisa Parolo, Storia materiale e tradizione testuale del cinema sperimentale. Note sullo studio critico e la preservazione del fondo Sirio Luginbühl, in Guido Bartorelli, Lisa Parolo (a cura di), Sirio Luginbühl. Film sperimentali, Cleup, Padova 2018.
  22. «Sirio Luginbuhl rappresenta la tendenza più avanzata in Italia settentrionale; vive e lavora in una delle città più colte d’Italia, Padova. “Gialli” possono definirsi i suoi film d’azione, perché il colore gioca un ruolo psicologico importante. «La realtà psicologica compresa dal popolo è espressa in maniera concreta dall’artista». Ritroviamo la suggestione sadica come l’atmosfera di suspense psicologica al di fuori delle regole del gioco del buono e del cattivo. Esempio: una passeggiata che segue una macchia rosso sangue, attraverso una città di manifesti, case, gambe di ragazze, automobili… per il piacere di fare una passeggiata. Altro soggetto: una bella ragazza, il corpo coperto da una fascia semitrasparente e il viso coperto da una maschera antigas. Azione: mentre la giovane ragazza cammina la fascia si srotola lentamente, filo bianco su una collina rosso fuoco: semplice intervento sul paesaggio, un bellissimo streaptease, una fotografia di «immaginazione al potere». Cfr. Daniela Palazzoli, Des inter media aux extra media, tr. it., in «Opus International», n. 16, 1970, pp. 18-23.
  23. Nell’Archivio Luginbühl sono state rinvenute numerose locandine di mostre ed eventi incentrati sulle ricerche poetico visuali e concrete di Emilio Isgrò e Sarenco, che conosce direttamente.
  24. Altre connessioni dimostrate sono quelle tra Luginbühl, il Gruppo 63 e i Novissimi. Gli esperimenti linguistici di Alfredo Giuliani, Nanni Balestrini, Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti e Antonio Porta vanno a intrecciarsi con le mostre del Gruppo N (per il collettivo padovano Luginbühl dirige la sezione informativa di Letteratura e Poesia Concreta).
  25. Cfr. Cosetta Saba, Cinema video Internet. Tecnologie e avanguardia in Italia dal futurismo alla net-art, CLUEB, Bologna 2006, p. 38.
  26. Ibidem.
  27. Cfr. Bruno Sullo, La performance, arte del tempo nello spazio, in Giovanni Fontana, Nicola Frangione, Roberto Rossini (a cura di), Italian Performance Art, Sagep Editori, Monza 2015.
  28. Cfr. Giovanni Fontana, Action poetry in Italia: il corpo in azione nello spazio della ricerca performativa, in Id., Nicola Frangione, Roberto Rossini (a cura di), cit., p. 154.
  29. Ivi, p. 120.
  30. Si tratta di artisti in contatto con Luginbühl o seguiti dallo stesso, che conserva locandine delle loro mostre più importanti e si avvicina, con gli happening antecedenti ai primi film in pellicola, alle loro modalità di concepire e attuare la performance.
  31. Cfr. Cesco Tomaselli, Padova ha scoperto…, in «Il Corriere della Sera», 29 maggio 1963. Vi si sottolinea come Padova sia la seconda città italiana dopo Milano ad avere approvato secondo la legge urbanistica del 1942 il proprio piano regolatore, rafforzato a favore delle attività produttive dalla costituzione nel 1957 del Consorzio zona industriale e porto fluviale.
  32. Cfr. Franco Mancuso, Il paesaggio dell’industria, in Bruno Dolcetta (a cura di), Paesaggio veneto, riportato in F. Stevanin, Le trasformazioni dell’ambiente e del paesaggio veneto nella cinematografia di Sirio Luginbühl, in Guido Bartorelli, Lisa Parolo (a cura di), Sirio Luginbühl. Film sperimentali, cit., p. 202.
  33. Cfr. Riccardo Caldura, Una generazione intermedia. Percorsi artistici a Venezia negli anni ‘70, cit., p. 31.
  34. Ivi, p. 10.
  35. Cfr. Federica Stevanin, Le trasformazioni dell’ambiente e del paesaggio veneto nella cinematografia di Sirio Luginbühl, in Guido Bartorelli, Lisa Parolo (a cura di), Sirio Luginbühl. Film sperimentali, cit., p. 205.
  36. Cfr. Sirio Luginbühl, Scritti sparsi 1964 – 2014, a cura di Flavia Randi, Cleup, Padova 2016, p. 91.
  37. Si tratta di quadrilateri bidimensionali, probabilmente in legno, mossi orizzontalmente e indipendentemente l’uno dall’altro, con rotazioni e slittamenti vari pur rimanendo fuori fuoco. Il tutto aumenta il dinamismo di film come Azriel: seguivano gli angeli e Zona quarta. Progetto per uno spettacolo.
  38. Qui «la realtà è ripresa dalla cinepresa in movimento ed è filtrata da supporti neri con diversi tipi di fenditure posti di fronte all’obiettivo. Attraverso la sovrimpressione, il film è riavvolto e rifatto partire numerose volte; cambiando ad ogni riavvolgimento la fessura del filtro, si ottiene un’immagine frammentata in tante visioni sovrapposte fino a giungere all’astrazione della pura luce». Cfr. Sandra Lischi e Lisa Parolo, Michele Sambin performance tra musica, pittura e video, Cleup, Padova 2014, Schede delle opere.
  39. Ringrazio Michele Sambin per l’informazione.
  40. In Italia l’associazione LIPU viene creata nel 1965, la sezione nazionale del WWF nel 1966 e Federnatura nel 1970. Nel giugno 1970 sulla copertina della rivista d’arte e architettura «Domus» appare la foto di un manifesto appeso al contrario sul quale è raffigurata la Terra mentre chiede aiuto.
  41. Cfr. Sirio Luginbühl, Ritratti perturbati & fotogrammi del desiderio 1968-2013. Cronache e appunti di una cinepresa, Cinema & Video Indipendente Padova, Padova 2013.
  42. Cfr. Riccardo Caldura, Una generazione intermedia. Percorsi artistici a Venezia negli anni ‘70, cit., p. 31.
  43. Cfr. Sirio Luginbühl, Cinema underground oggi, cit., p. 55.
  44. Ibidem.
  45. Ibidem.
  46. Patella fa riferimento a Psicologia e Alchimia di Carl Gustav Jung.
  47. Cfr. Bruno Di Marino, Sguardo inconscio azione. Il cinema sperimentale e underground a Roma (1965-1975), Lithos, Roma 1999, p. 37. Di Marino sostiene che i viraggi colorati rendono il paesaggio di terre e pietre una superficie lunare, come nel film La région centrale (Michael Snow, 1971).
  48. Cfr. Marisa Galbiati, Piero Pozzi, Roberto Signorini (a cura di), Fotografia e paesaggio. La rappresentazione fotografica del territorio, Edizioni Angelo Guerini e Associati, Milano 1996, pp.125-130, in Nicoletta Leonardi (a cura di), Scritti su e di Franco Vaccari, Postmedia, Milano 2007, pp. 156-158.
  49. Cfr. Bruno Di Marino, Paolo Gioli, lo sfarfallio dell’immagine di un poeta visuale, in «Il Manifesto», 29 gennaio 2022.
Author

Davide Lucatello ha conseguito la Laurea Magistrale in Scienze dello spettacolo e produzione multimediale presso l’Università degli Studi di Padova nel 2018. La sua tesi Il cinema di Sirio Luginbühl, tra provocazione e invenzione ha ottenuto il Premio Fotogramma 2019 dall’Associazione Italiana per le Ricerche di Storia del Cinema (AIRSC). Collabora con l’Università degli Studi di Udine, all’interno del progetto di ricerca dipartimentale Cinema indipendente e cinema d’artista in Italia dal 1960 al 1980. Catalogo generale web based, e con il gruppo di ricerca nazionale VARIA (Video ARte in ItaliA). Tra le sue pubblicazioni Schede dei film e Uno sguardo sul set. Conversazione di Antonio Costa con Antonio Concolato, in Guido Bartorelli, Lisa Parolo (a cura di), Sirio Luginbühl. Film sperimentali (Cleup, 2018). Attualmente si occupa della valorizzazione e preservazione dell’Archivio Luginbühl in collaborazione con il Comune e l’Ateneo di Padova.