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n. 1 - aprile 17, Teatro

La fotografia live istant come dispositivo costruttivo di booty Looting di Wim Vanderkeybus.

per citare questo articolo usa

https://doi.org/10.47109/0102210103

The battlefield of the stage. booty Looting directed by Wim Vandekeybus, Ultima Vez, Teatro alle Tese, Venice 2012. Still video

ABSTRACT

La compagnia belga di teatro-danza Ultima Vez, fondata dal regista e coreografo Wim Vandekeybus, presenta Booty Looting alla Biennale Danza di Venezia nel 2012. Sul palcoscenico una complessa rapsodia narrativa, apparentemente caotica, mette in gioco coefficienti diegetiche complementari: mentre si dipana una vicenda a cavallo tra il reale e l’immaginario, i ballerini si fanno attori consumati, gli attori danzano e la musica live riempie gli spazi vuoti. Ma il vero cuore pulsante dello spettacolo è il fotografo, al quale è affidata la delicata mansione di decrittare il dinamismo febbrile della scena per spostare altrove l’attenzione del pubblico, quasi a concedergli una pausa distensiva dal caos. L’immagine fotografica, scattata e riportata in tempo reale sullo schermo a fondo palco, congela alcuni momenti salienti di quel movimento convulso, quasi a volerlo scomporre anatomicamente in parti di ‘muybridgiana’ concezione. Il fotografo, sempre attivo durante la rappresentazione è parte integrante della storia, diviene esso stesso performer e il suo intervento determina lo sviluppo drammaturgico della trama. La qualità visiva della scena è fortemente potenziata dalle immagini fotografiche live, che sono spesso riconducibili a modelli visivi noti. Booty looting significa letteralmente saccheggiare il bottino, ovvero rubare ciò che è già stato oggetto di furto, esattamente come succede in tutto il mondo dell’arte, secondo la prospettiva di Vandekeybus. La fotografia è intesa qui come strumento che da un lato si rende utile per comprovare la realtà dei fatti, ma allo stesso tempo dichiara la propria attitudine a mentire, a deformare la memoria, a creare falsi ricordi, a divenire eco ingannevole di esperienze realmente vissute. Tra verità e menzogna, l’immagine fotografica depreda il mondo e da la sensazione di poterlo possedere e conoscere in profondità - come insegna Susan Sontag - ma si tratta solo di una memoria distorta che confonde e falsifica il reale.

Ultima Vez nasce a Bruxelles nel 1986 grazie ad un’idea del coreografo e regista Wim Vandekeybus. La compagnia è emersa all’attenzione con lo spettacolo di danza What the Body does not Remember1 del 1987 e si è rapidamente affermata nel panorama internazionale grazie alla novità della gestualità e l’uso ardito del corpo. Lo stile di Vandekeybus possiede, infatti, attributi distintivi come la fisicità violenta, adrenalinica e selvaggia, le partiture coreografiche polisemantiche, spesso enigmatiche, e la capacità interpretativa dei danzatori, ai quali vengono richieste qualità vocali ed espressività oratorie. «I think it is crucial that dancers learn to speak on stage»2, afferma Vandekeybus durante un’intervista rilasciata in occasione dell’apertura della sala prove Zwarte Vijvers a Bruxelles, dove nel 2013 ha selezionato alcuni nuovi performer tra 500 candidati ai quali era richiesta anche una buona preparazione attoriale. La sua formazione multidisciplinare spazia tra lo studio della psicologia, la ginnastica artistica e la passione per le arti visive In particolare, gli studi di fotografia hanno occupato gran parte del suo percorso culturale e lo hanno condotto in più momenti a sperimentarne il linguaggio sulla scena teatrale.
Coinvolto nel panorama creativo delle arti contemporanee, Vandekeybus incontra e collabora con diversi autori, musicisti e artisti. Con il poliedrico artista belga Jan Fabre3, nel 1997 produce Lichaampje, lichaampje aan de wand (Body, body on the wall…)4, un assolo edificato tra danza contemporanea e arti visive che esplora un ideale rapporto tra l’occhio ammonitore di un fotografo e un danzatore. Durante questa performance in cui è protagonista, Vandekeybus è incatenato tra due microfoni e denuncia la sua inadeguatezza nel percepire il suo stesso corpo se non come immagine: in quanto esseri umani siamo in grado di vederci solo attraverso gli occhi degli altri e la visione per mezzo della fotografia può svelare personalità o manipolare naturali inclinazioni.
Mentre il suo corpo viene interamente dipinto di vari colori,

Wim Vandekeybus in Lichaampje, lichaampje aan de wand, regia di Jan Fabre Kaaitheater, Bruxelles 1997. Pubblicata su www.troubleyn.be
Wim Vandekeybus in Lichaampje, lichaampje aan de wand,
regia di Jan Fabre, Kaaitheater, Bruxelles, 1997.
Foto di Annick Geenen.
Pubblicata su www.troubleyn.be

l’azione è cadenzata dalle musiche di Frank Zappa e sullo schermo retrostante scorre un video che presenta una coreografia originale ambientata in un alienante bagno pubblico, completo di orinatoi e pareti verdine. I riferimenti, come dichiara il coreografo, sono attribuibili alle azioni performative di Orlan, artista famosa per le alterazioni fisiche prodotte sul suo stesso corpo da una serie di operazioni di chirurgia, e all’arte ‘feticista’ dell’olandese Rob Scholte, seguendo una logica di intersezioni diegetiche tipiche del teatro danza. Pur slittando il significato su di un piano concettuale in cui il richiamo alla fotografia è puramente verbale ed ideologico, è in congiunture come questa che si comincia a profilare l’idea di Vandekeybus di operare sulla scena servendosi dell’immagine fotografica.
Oltre alle mostre di fotografia come Achtertooglid del 2009 o la recente Portraits & Landscape5 del 2014, il coreografo si avvale sempre più spesso del mezzo video per generare materiali visivi integrati nelle sue produzioni6.
Le immagini in movimento sono delle componenti basilari dell’opera di Vandekeybus e la sua filmografia, non solo circoscritta al tema della danza, a partire dal 1990 si arricchisce anno dopo anno di opere innovative e pluridecorate.
Nel 2011 il suo lungometraggio Monkey Sandwich viene presentato nella sezione Nuovi Orizzonti alla 68° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Il film vede nel cast alcuni attori e ballerini presenti in altre sue performance, tra cui Jerry Killick e Birgit Walter, protagonisti di booty Looting.

Lo spettacolo

Sul palco privo di quinte si scorge la postazione musicale di Elko Blijweert che, circondato dai suoi strumenti, è presente in scena per tutta la durata dello spettacolo ed esegue musica dal vivo. Sul fondo campeggia uno schermo bianco sospeso, alto circa tre metri e lungo quattro, e accanto ad esso due grandi scatoloni di cartone aperti, appoggiati verticalmente a guisa di cabina/separé. A destra un ventilatore e alcuni fari disposti a terra, illuminano il palco con luce radente.
Dal buio emerge dapprima una figura femminile fasciata in una lunga vestaglia bianca che trascina uno per volta alcuni corpi avvolti in una coperta, disponendoli in fila. La donna si inginocchia a terra e in un’alternanza di turpiloqui e grida disperate, piange su quelle che si intuiscono essere le salme dei suoi cari, mentre alcuni suoni ‘spezzati’ accompagnano questa scena preliminare della durata di circa cinque minuti. All’uscita della donna corrisponde l’inatteso ingresso di un narratore, l’attore Jerry Killick, il quale  incomincia a descrivere minuziosamente l’azione performativa dell’artista tedesco Joseph Beuys, intitolata I like America and America likes me7.
Mentre le ‘salme’ sul palco si animano immerse in una luce verdastra e fredda, Killick spiega lo svolgimento dell’evento delineando le motivazioni di Beuys, compresa la scelta di equipaggiamenti e materiali usati per la performance: il feltro ad esempio, tessuto ricorrente nella sua opera,  riconducibile ad un personale immaginario bellico8, e la forma che sceglie di assumere avvolgendosi nella coperta, quella della capanna indiana. Commentando con entusiasmo e con ampia gestualità la performance di Beuys, l’istrionico narratore ne fa affiorare l’effettiva dimensione arcaica e sciamanica, aggiungendo però al resoconto alcuni elementi fittizi, come una presunta interpretazione scientifica dell’antropologa Birgit Walter  i cui scritti  relativi allo sciamanesimo avrebbero fortemente influenzato l’arte di Beuys . L’intento della serata, proclama Killick, è quello di riproporre la performance di Beuys, resa più ‘teatrale’ da elementi tipici della rappresentazione: la musica dal vivo, i quattro danzatori che fungono da sostituti del coyote, il fotografo Danny Willems, incaricato di documentare l’evento e Killick stesso, che interpreterà successivamente la parte di Beuys.
Gli spettatori vengono avvertiti della presenza in sala dell’antropologa Birgit Walter, protagonista femminile dello spettacolo, impersonata dall’omonima attrice, che durante lo svolgersi della storia si trasforma progressivamente nella figura di Medea: la trama è infatti incentrata su questa figura di donna straordinaria, contemporaneamente reale e immaginaria9, della quale il narratore riferisce in seguito la biografia, compresi gli infausti legami familiari e le vicende avverse.
Impugnando una scopa al posto del bastone di legno usato da Beuys, Killick si avviluppa in una coperta di feltro grigia e il reenactement comincia, scandito dalla musica crescente e dagli scatti del fotografo che si muove dentro alla scena insieme agli altri interpreti.
Queste prime fotografie di Willems rimangono per il momento nella macchina fotografica, per cui si percepisce la presenza di una figura estranea sul palco che non ha fino a qui una vera e propria funzione drammaturgica. Tuttavia, i danzatori-coyote sembrano accorgersi a tratti della sua presenza e talvolta lo coinvolgono nei loro movimenti, inducendolo ad inseguimenti dinamici o goffi scantonamenti. Per una ventina di minuti i ‘coyote’ volteggiano sul palco confusamente ma con grande agilità, emulando movenze selvatiche con corse scattanti, balzi atletici, precipitose cadute e capriole improvvise.

Fotografia di Wim Vandekeybus Danny Willems fotografa un danzatore-coyote booty Looting regia di Wim Vandekeybus, Ultima Vez Teatro alle Tese, Venezia 2012 Per gentile concessione della compagnia
Fotografia di Wim Vandekeybus
Danny Willems fotografa un danzatore-coyote

A differenza della performance originale beuysiana, la sua “riattualizzazione”, definita extreme, si chiude con un tragico epilogo che vede Killick/Beuys assaltato dalle quattro belve perché – spiega lo stesso Killick poco dopo – anche l’artista, pur avendo a che fare con una sola bestia selvatica, aveva considerato l’evenienza di una possibile aggressione e pertanto teneva a disposizione qualcuno armato di fucile pronto a sparare all’occorrenza10.
Mentre il narratore argomenta l’accaduto talvolta il fotografo attira il suo sguardo chiamandolo per nome, in modo da ottenere alcuni primi piani in soggettiva, che per il momento non vengono trasmessi allo schermo bianco sospeso sul fondo del palco.
A chiusura della concitata azione il narratore, parzialmente denudato dall’assalto dei coyote, interpella immediatamente Birgit Walter per avere un suo responso su ciò che è appena accaduto. Lei giace a fondo palco allungata su di una grande bobina di legno e la sua prima reazione è contro il fotografo: «No pictures anymore!», grida esasperata, finchè Willems non abbandona la scena appoggiando la sua macchina fotografica a terra.
A quel punto, dichiarando la sua stessa morte, lei crolla al suolo al centro palco, lasciando interdetti gli altri interpreti.
Il quadro successivo si sviluppa intorno al corpo esanime della protagonista. Uno dei danzatori, Dimitri Szypura, esegue una sorta di rituale liturgico sopra e attorno alla salma trascinando stentatamente le membra inferiori e restituendo «la impresión  de moverse exclusivamente con la columna vertebral, sin recurrir a las extremidades, para realizar desplazamientos, giros, levantarse y caer»11. Gli altri tre danzatori intanto, tra risa, pianti, assoli improvvisati e toccanti, contraddittorie conversazioni sul personale rapporto con la madre, ne spostano continuamente il corpo sulla scena.
All’entrata del fotografo, viene creato un piccolo set improvvisato con lampade direzionabili e vengono scattate le prime fotografie real time. Sullo schermo sono proiettati vari close up che rivelano il volto sofferente e deformato di uno dei danzatori, stretto nella morsa di uno spago, irrorato da liquidi o schiacciato su di un vetro.

Fotografia live di Danny Willems (proiettata in scena in tempo reale) Il volto del danzatore legato e schiacciato sul vetro booty Looting regia di Wim Vandekeybus, Ultima Vez Teatro alle Tese, Venezia 2012 Per gentile concessione del fotografo
Fotografia live di Danny Willems (proiettata in scena in tempo reale)

Si tratta di una sequenza di sei fotografie in bianco e nero scattate a circa 10/15 secondi l’una dall’altra che enfatizzano, attraverso i lineamenti deturpati del volto, il carattere doloroso e straziante della scena.
Nel frattempo, infatti, il narratore tornato sul palco afferma che l’esistenza di ogni grande artista è caratterizzata da sofferenze e lacerazioni che riverberano sul piano emozionale e che la separazione dai congiunti è una costante emblematica, in quanto «the all subsequent artistic output of this troubled souls is an attempt to regain that lost sense of belonging »12.
L’introduzione alla vita di Birgit Walter inizia con il racconto delle sue sfortunate e molteplici passioni amorose, troppo spesso connesse alla scelta di uomini sbagliati:

« […] She was always attracted to alpha males, outdoor types more home hunting or competitive racing sports certainly more then sipping champagne in a gallery of New york or in a symposium»13.

Il fotografo intanto ha iniziato a produrre altre fotografie live dell’unica danzatrice, Elena Fokina, che veste i panni di guerriera. Lo sfondo mobile utilizzato per i successivi ritratti è alto circa un metro e settanta e raffigura un prato verde con l’erba alta. Killick continua il suo racconto biografico su Birgit Walter e invita il fotografo ad aiutarlo ad esplorare visivamente l’iconografia dei vari “maschi alfa” che hanno transitato nella vita della protagonista: sul fondale il narratore stesso si atteggia in pose combattive suggerite da Willems e ad ogni scatto i due controllano il risultato che appare sullo schermo a fondo palco, osservando e commentando l’immagine.
L’ultima fotografia vede Birgit Walter, riapparsa nel frattempo in scena, che abbraccia sorridente uno dei prototipi alfa sopra citati e nei successivi dieci minuti di danze irrequiete e disarmoniche in cui è direttamente coinvolta, l’immagine permane sullo schermo. Le fotografie sono sempre in bianco e nero, istantanee, riprese e proiettate in tempo reale, in modo che gli spettatori vedano la scena contemporaneamente sotto diverse angolature.
Nel quadro seguente tutti i protagonisti si avvicendano intorno ad un leggìo microfonato per testimoniare le proprie sensazioni con brevi interventi verbali. La scena è accompagnata da una musica ritmata e leggera e il fotografo introduce sul palco un paio di nuovi sfondi mobili che rappresentano un paesaggio caraibico e un panorama innevato. Su questi fondali-cartolina vengono successivamente ritratti in gruppo tutti gli interpreti, che nel frattempo si sono spogliati e indossano costumi da bagno colorati.
Le fotografie di questa breve sequenza sono a colori, e indicano un salto temporale nel passato: i tre danzatori sono diventati infatti tre adolescenti in vacanza, che si intrattengono con attività ludiche, corse su sagome a forma di cavallo, salti mortali o masturbazioni di gruppo. L’azione è chiassosa, tumultuosa, ed è frammista alle esasperate reazioni dell’attrice, evidentemente a disagio nei panni di madre.
Killick procede con il racconto della sua vita riesaminando il periodo berlinese degli anni Novanta, quando Birgit Walter si afferma pionieristicamente sulla scena artistica tedesca. In quelle circostanze, racconta il narratore, lei affrontò il dolore della perdita di tutti e tre i suoi figli attraverso alcune pratiche performative: ricostruendo un’ipotetica esistenza futura accanto a loro grazie all’interpretazione di tre attori adeguatamente preparati, l’artista recitò in sorprendenti messe in scena che venivano sistematicamente documentate da un fotografo. Il palco nel frattempo è allestito e attrezzato come un piccolo studio fotografico con fondali posticci, flash dotato di ombrellino e bank per schiarire le ombre.
Mentre il narratore Killick interrompe la sua azione per rivolgersi agli spettatori che sente distratti e annoiati – offrendo l’opportunità a Willems di fotografare anche la platea per metterla di fronte alla propria immagine in diretta sullo schermo – nel set improvvisato si svolge lo shooting appena descritto.

Il pubblico inserito nella fotografia proiettata in real time sullo schermo booty Looting regia di Wim Vandekeybus, Ultima Vez Teatro alle Tese, Venezia 2012 Still da video
Still da video
Spettatori inseriti nella fotografia proiettata in real time sullo schermo

Una nuova sequenza in bianco e nero rivela ciò che in questa fase è celato alla vista degli spettatori, cioè una Birgit Walter nascosta e ripresa assieme i suoi attori-figli che interpretano piccoli frammenti di vita quotidiana, rappresentata in vari luoghi come il supermercato, il campeggio, il garage o il salotto. L’azione finale della scena è concentrata sull’immagine della protagonista che giace stesa al suolo su di un ennesimo sfondo artificiale, dopo essere stata picchiata da uno dei suoi figli.
La serie di fotografie che si dipana parallelamente al successivo monologo di Killick è composta da una sovrapposizione di sei ritratti dell’attrice . Su di una musica metallica e stridula il fotografo scatta alcuni primi piani molto intensi che si stratificano uno dopo l’altro sullo schermo, mostrando un volto estremamente espressivo, quasi hitchcockiano.

Danny Willems ritrae Birgit Walter sovrapponendo gli scatti in tempo reale, booty Looting regia di Wim Vandekeybus, Ultima Vez Teatro alle Tese, Venezia 2012 Still da video
Still da video, Danny Willems ritrae Birgit Walter sovrapponendo gli scatti in tempo reale

Intanto, procedendo secondo un’ambigua linearità cronologica, Killick narra l’episodio successivo che riguarda la prima gravidanza di Birgit  Walter che non prova sentimenti  materni  anzi, confessa Killick, gradualmente comincia a odiare profondamente la creatura che ha partorito e che le occupa il suo prezioso tempo, mentre ciò che lei desidera veramente è tornare sotto le luci della ribalta.
L’improvvisa entrata di una sposa interrompe il flusso emozionale sul volto della protagonista che nel frattempo viene fotografata con una mano alzata e appoggiata su di un nuovo sfondo.
Nel quadro successivo, che ricrea l’atmosfera di un’allegra festa nuziale, Birgit Walter rimane in disparte ad osservare il nuovo matrimonio di uno dei suoi ultimi mariti, impersonato da Killick vestito alla maniera di Joseph Beuys, con gilet militare e cappello di feltro. In questa scena la platea viene fotografata e appare come contesto in una fotografia di gruppo che vede i partecipanti alla festa saltare gioiosi.
Durante l’azione viene anche scattata un’istantanea che introduce un elemento fondamentale dello spettacolo, la fotocopiatrice. Come si vedrà più avanti questa macchina, ripresentata come dispensatrice di morte attraverso la riproduzione dell’immagine, diventa una delle componenti chiave nella concezione della rappresentazione.
La vicenda scenica prosegue con l’intervento del danzatore Kip Johnson, che porta sul viso una maschera realizzata con una fotocopia del suo stesso volto, indossata in seguito anche dagli altri interpreti. Il suo breve soliloquio, che narra di un figlio chiamato a tenere un discorso augurale in onore del secondo matrimonio di suo padre, svela l’ulteriore inquietudine esistenziale provata dai discendenti di Birgit Walter.
Le otto immagini associate a questa scena sono realizzate a colori, ma ritraendo i volti dei protagonisti coperti dalle fotocopie, creano un interessante contrasto visivo tra il bianco e nero e i dettagli colorati di capelli, pelle e labbra. Le figure mascherate entrano in scena una ad una come fantasmi giunti a perseguitare la memoria dell’attrice che si trova gradualmente circondata e sopraffatta fino a rimanere torturata e vittima delle loro violenze.
La sequenza a colori si conclude con un piano americano della protagonista, messa a fuoco sullo sfondo di un’inquadratura deep focus e questa immagine funge da transizione visiva verso lo scenario narrativo seguente.
Con un’ulteriore acrobazia diegetica, l’attenzione è condotta ora sulla personalità del regista Henri-Georges Clouzot14 il quale, secondo il racconto di Killick, era ossessionato dalla figura estrema di Medea e anelava farne interpretare la parte a Birgit Walter.
All’epoca dei fatti, spiega ancora il narratore, durante la rigorosa  preparazione dell’attrice  al personaggio di Medea, si scatenò in lei una tale forza devastatrice che tutto il materiale filmato dallo stesso Clouzot venne distrutto inesorabilmente e la sua furia divenne presto leggenda. L’intenzione corrente degli attori su quello stesso palco in quel momento, conclude Killick, è quello di riproporre la brutalità di quella rabbia: mentre i danzatori e lo stesso narratore si scatenano a suon di balzi estremi, giravolte aeree e cadute rumorose, le fotografie di Willems sfoggiano una serie di ritratti in bianco e nero di Birgit Walter trasformata in attrice o danzatrice stile primi Novecento. Le sue pose retoriche esibite nella serie di fotografie, celebrano alcune grandi figure femminili del cinema tra le quali Romy Schneider “as she appears in George-Henry Clouzot’s unfinished and crazed film L’enfer15, o Maria Callas “as she recites her famous monologue from Pasolini’s film Medea”16.

Fotografia live di Danny Willems (proiettata in scena in tempo reale) Birgit Walter-Medea booty Looting regia di Wim Vandekeybus, Ultima Vez Teatro alle Tese, Venezia 2012 Per gentile concessione del fotografo
Fotografia live di Danny Willems (proiettata in scena in tempo reale)
Birgit Walter-Medea

La successione delle immagini accentua l’azione drammatica in cui l’attrice, ormai mutata nella tragica figura della maga della Colchide, uccide i suoi tre figli uno alla volta fotocopiandone i volti, prontamente proiettati sullo schermo grazie alle fotografie di Willems. La fotocopiatrice, strumento che rappresenta la celebrazione del duplicato, è investita del potere di provocare la morte17.
In un’intervista Vandekeybus dichiara:

When I was young I putted my little son on a photocopy machine and I copied him. Was fifteen years ago, but I always did it. Is beautiful, the result is beautiful […] The face deformed. But Is also like die. Photocopier here is a killing machine. Medea kill her kids with a copy machine, and you see the result immediatly, how people sweat, how they get printed. The fact that you see the result makes you think about it18.

La bellezza di un volto deformato a causa della pressione sul vetro della macchina, il passaggio repentino in un’immagine a due dimensioni, l’effetto della chiusura degli occhi a causa della luce sono i pretesti che hanno spinto il coreografo ad inserire nello spettacolo questo ennesimo elemento. Ma soprattutto, sostiene Vandekeybus, l’idea che appoggiarsi su quel vetro sia un po’ come morire senza andarsene veramente e perdurando come immagine permanente, è ciò che lo ha spinto a concepire la fotocopiatrice come macchina della morte.
Sulla fotografia live che ritrae una Walter/Medea imbrattata di lacrime di inchiostro nero, prosegue in scena la ricostruzione della storia della sua vita.
Il narratore riferisce l’episodio propulsivo che la convinse a diventare attrice quando aveva solo nove anni e viveva con sua madre, a servizio di una nota star tedesca degli anni Trenta. Durante uno spettacolo nel grande Reich Theater di Berlino, a cui assistette lei stessa, la famosa diva imitò alla perfezione alcune mansioni domestiche di sua madre, emulando la pulizia di un pavimento e suscitando il tripudio del pubblico. Irritata dal successo di un gesto, riprodotto in scena, che sua madre eseguiva umilmente ogni giorno, la piccola Walter giurò a se stessa che nessuno le avrebbe mai più rubato nulla in futuro, ma che al contrario sarebbe stata lei a saccheggiare emozioni, gesti, storie. «[…] She stoled feelings!» afferma Killick, aprendo una breve parentesi che lo vede recitare in italiano con la Walter un frammento del dialogo tra Medea e Giasone ‘carpito’ dal film di Pasolini. Lo schermo, finora consacrato alle immagini fotografiche, ospita a questo punto le didascalie che traducono in inglese il discorso, permettendo al pubblico di leggere e seguire il testo mentre viene recitato dai due attori.
Le fotografie live in bianco e nero proseguono anche sull’ultimo monologo dello spettacolo in cui il danzatore Kip Johnson descrive confusamente il trauma della sua nascita. I ritratti a Birgit Walter si fanno più aggressivi e disperati: ripresa da Willems mentre è seduta a terra a fondo scena, sotto al grande schermo, l’attrice si imbratta il volto e il petto con sostanze vischiose, terra e fango, producendo espressioni del viso che ne trasfigurano i lineamenti. Si tratta dell’ultima serie di immagini che vengono riportate sullo schermo, poiché nell’azione successiva tutto l’apparato viene trivellato da una raffica di colpi inferti dalla danzatrice Elena Fokina.
Infine lo schermo viene strappato con un bastone rivelando la sua natura cartacea e corruttibile, affine a quella delle altre immagini fotocopiate durante lo spettacolo e della fotografia stessa. Killick intanto, esasperato da tutte quelle messe in scena, interrompe l’ultimo intervento orale del danzatore urlando il vero significato di tutto quello che è avvenuto sul palco fino a quel momento: «[…] I know that, you know that, they know that, they know that everything is bullshit!», grida incessantemente in preda al delirio, mentre gradualmente si toglie i vestiti fino a rimanere completamente nudo.
Il quadro finale lo vede aggirarsi per il palco palleggiando ininterrottamente un palloncino viola. L’attrice e il danzatore Johnson sono seduti davanti al fondale posticcio riportato in scena mentre irrompe la chitarra di Blijweert che riempie lo spazio di suoni ipnotici.
Sullo sfondo continua la proiezione delle fotografie, questa volta predisposte, pre-prodotte e azionate dal laptop di Willems, che si trova a bordo palco. Le fotografie sempre più cupe ed illeggibili si avvicendano sul muro scuro, mentre la luce si fa sempre più tenue.
L’ultima immagine visibile a malapena, quella che rimane impressa nella retina dello spettatore quando la luce si spegne definitivamente, è un grande occhio spalancato.

Memories are distorted by photographs

Se la partitura complessa di booty Looting rende i piani interpretativi intricati e molteplici, appare chiaro tuttavia come la fotografia sia impiegata alla stregua di collante tra le storie narrate. Come un fil rouge che valica il tempo e lo spazio della narrazione, il mezzo fotografico appare come l’unico elemento in grado di transitare indenne sul campo di battaglia del palcoscenico, con il suo interrompere per un istante i movimenti convulsi, per poi riprendere a seguirne il flusso.
Il fotografo sulla scena, introdotto come testimone imprescindibile dello spettacolo, evidenzia i passaggi da una situazione all’altra attraverso la riproposizione di diversi stili fotografici.
Dal primo piano del volto deformato – che ricorda l’indagine ottocentesca sulle trame espressive del volto umano per valutare eventuali risvolti psicologici – alla ritrattistica seriale novecentesca o al motivo del travestimento davanti all’obiettivo, fino alle istantanee da album di famiglia, le immagini che si avvicendano sullo schermo a fondo palco sembrano citare incessantemente la storia della fotografia. In perfetta coerenza con la scelta del titolo, la fotografia è dunque concepita come strumento predatorio, che “ruba” frammenti dalla realtà ma anche dall’arte stessa, cristallizzandone la memoria.
Booty Looting, infatti, significa letteralmente saccheggiare il bottino, ovvero sottrarre ciò che è già stato rubato, a riprova del fatto che i diversi linguaggi artistici si appropriano gli uni degli altri19. Vandekeybus afferma: «Photography is a medium that can steal, that can lie, that can change things. Sometime see a pictures it can change your memory. But it’s also about lies»20.
Nel programma di sala dello spettacolo si legge inoltre:

Memories are often created or distorted on the basis of photographs. Proust once accused the visual memory of actually erasing memories. Taste and touch are much sensitive, but the visual is dominant. Which is why you can perfectly well remember things you have never experienced, simply because you have seen pictures of them21.

Per il coreografo dunque si può usare la fotografia per rubare e per mentire, quindi per modificare la memoria dei fatti e raccontare storie diverse. Si possono sempre creare falsi ricordi grazie alle fotografie, ma se qualcuno muore senza mai essere stato fotografato significa che non è mai esistito perché ciò che non è visto non può essere ricordato.
La fotografia risulta tuttavia più interessante quando cessa di riprodurre la realtà e ricorda ciò che non esiste più, ripete spesso Vandekeybus parafrasando Proust e rammentandone la critica nei confronti della memoria visiva, accusata di adulterare i ricordi e addirittura di cancellarli.

La fascinazione discontinua e contraddittoria di Proust nei confronti di tutte le immagini fotografiche22 era legata alla sua personale idea di fotografia, colpevole di una “terribile fissità”, impersonale e meccanica, deludente per la parzialità del segno che è forzata a restituire, a differenza della scrittura che possiede per natura l’autorevole funzione di eternizzare23: «Al visivo, troppo legato […] all’intelligenza e alla memoria volontaria, Proust preferisce gli choc tattili e uditivi, più adatti ad affrettare i veri ritorni del passato»24. La memoria involontaria – vero paradigma stilistico dell’opera proustiana – nasce dal caso e dall’occorrenza e la fotografia ne insidia la complessità, scomponendo il passato e parcellizandolo25.
Nonostante il coreografo ritenga che sul suo palcoscenico non ci siano gerarchie di valori26, la forma visiva risulta indubbiamente predominante, ed è esercitata fino ad affermare che talvolta si può ricreare il ricordo personale di un fatto solo sulla base di una fotografia.
A tal proposito risulta interessante un passaggio riportato nella già citata intervista per Stalkaart, nel quale Vandekeybus esprime una sorta di intenzione progettuale muovendo da una serie di considerazioni sul rapporto tra immagine e memoria:

[There is a] story of a boy who tells a girlfriend that he has only two powerful memories of his father’s funeral: the coffin being taken outside and her father crying out loud. The girl is stunned and tells him that her father never made the funeral because he missed his plane. What must the boy do with this memory? It is the memory of an extremely important moment in his life and it appears incorrect. Should he keep it or discard it? […] I’m sure I have masses of them, but I am not aware of them. You also see it in simple things: you remember having an enormous horse when you were a child, but later on it emerges that it really was quite small. You have grown, so your reference has changed.’ This is precisely what happens with more complex material […] A photo adds something, transforms, omits things, can deceive the viewer27.

La memoria di un avvenimento può essere corrotta dal tempo, che inesorabilmente modifica le stesse immagini mentali, producendo nuovi ricordi e confondendo le tracce del reale. La fotografia aggiunge o rimuove dettagli, trasforma e omette cose, e implica un processo di inevitabile distorsione, prospettiva su cui si basa la narrazione dello spettacolo.
Così, la vita di Birgit Walter, della quale sono narrate numerose versioni e mostrati diversi punti di vista, oscilla in un incastro continuo e destabilizzante di dubbi e contraddizioni, di storie verosimili e false, sottolineate dalla testimonianza della fotografia, che certifica e mente allo stesso tempo.
L’immagine scattata in tempo reale congela il flusso fluido dell’azione scenica, estrapolandone istantaneamente un frame, che inevitabilmente rimane impresso nella mente dello spettatore come uno dei momenti salienti e tangibili dello spettacolo.
In termini proustiani, la logica della fotografia in booty Looting consiste nello sforbiciare la realtà dei fatti secondo precise scelte drammaturgiche – che comprendono la restrizione condizionata dallo sguardo del fotografo – con lo scopo di mostrare una voluta alterazione del ricordo e produrre un ulteriore scollamento con la rappresentazione.
Inoltre, la sospensione temporale dell’atto e la sua restituzione attraverso una singola immagine, rappresentano in questo modo una sorta di inadeguatezza della fotografia di delineare chiaramente e integralmente una storia e quindi di poterla riportare per intero. In questo senso risulta inattuabile una lettura dello spettacolo solo attraverso le immagini fotografiche, abili nella restituzione del frammento ma ontologicamente incapaci di restituire esaurientemente l’evento.

La morte, la madre, il ricordo

Analizzando l’opera di Proust dal punto di vista fotografico, Roland Barthes28 nota in più occasioni come la stratificazione del ricordo, capace di autogenerarsi in modo accidentale e automatico, possa essere alterata da un’immagine, da una fotografia in particolare, soprattutto quando il soggetto ritratto è una persona cara29.
E’ certamente noto l’apprezzamento di Barthes nei confronti dell’universo stilistico proustiano30,  e il conseguente riconoscimento della funzione demistificante della fotografia, al cui filtro imputa una potenziale sofisticazione del quadro affettivo, basata sul ricordo. Il confronto tra Barthes e Proust muove una serie di considerazioni su un elemento ricorrente nei testi dei due autori nonché in booty Looting, ossia la rievocazione della figura della madre.
Scrive Barthes, a proposito delle immagini della genitrice defunta:

Secondo le foto, in certune riconoscevo una regione del suo volto, il tale rapporto del naso con la sua fronte, il movimento delle sue braccia, delle sue mani. Io la riconoscevo sempre solo a pezzi, vale a dire che il suo essere mi sfuggiva e che, quindi, lei mi sfuggiva interamente. Non era lei, e tuttavia non era nessun altro. L’avrei riconosciuta tra migliaia di altre donne, e tuttavia non la “ritrovavo”. La riconoscevo differenzialmente, non essenzialmente. La fotografia mi costringeva ad un lavoro doloroso; proteso verso l’essenza della sua identità, mi dibattevo fra immagini parzialmente vere, e perciò totalmente false31.

Questa esperienza specifica descritta ne La camera chiara sottolinea ancora una volta la posizione di Barthes nei confronti della fotografia: le immagini di sua madre sono sostanzialmente contraffazioni dell’essenza del soggetto, in quanto l’inevitabile congelamento in una posa o un’espressione tra le infinite possibili  ne eternizza l’apparenza ma non ne comunica la sostanza, cioè l’anima.
Per quanto oggettiva e da sempre concepita come puro rinvio ad un’identificazione effettiva, secondo Barthes la fotografia manca di senso in quanto tratta frammenti statici, ‘fette’ di una realtà che non va concepita come punto di arrivo32, ma come posizione di partenza di un processo più ampio. Opinione certamente derivata da Proust, per il quale

[…] l’istantanea […] nasconde dunque tutto questo […] quando essa raffigura una persona, può facilmente entrare in contrasto con il ricordo che ne possediamo, costruito sulla base di un numero certamente superiore di ‘scatti’ immagazzinati nella nostra memoria33.

Nel romanzo À la recherche, Proust afferma che di una persona amata si possono conservare solo “photographie manquées”34 e in perfetta linea con il suo pensiero, Barthes considera la fotografia un inganno a causa della sua staticità oggettivante, che non coincide con la vera natura del soggetto.
Come nel caso della fotografia della madre, l’immagine tende a rendere la figura umana uno spettro, un “imbalsamatura”35 innaturale in una singola posa destinata a durare in eterno, e perciò opinabile: il ricordo della defunta è demistificato dalla fotografia in quanto produce una discrasia con la disposizione delle immagini mentali, ma in compenso la sottrae all’oblio del tempo. Barthes riconosce che la vera forza della fotografia sta piuttosto nel suo potere evocativo: l’immagine attesta che quella persona è realmente esistita, che è stata davvero davanti all’obiettivo, anche se non è più.
“Ciò che è stato” (ça à été) in fotografia suggerisce un rinvio verso qualcosa che ha cessato di essere, che è morto e che fa parte di un passato finito e concluso.
Tale ‘noema’ barthesiano36 è presente sulla scena di booty Looting nelle cronache di Killick su Birgit Walter, la quale sembra relazionarsi creativamente con il suo passato di madre, asserendone l’esistenza tramite la fotografia, attestando quel passato inverosimile grazie alla fotografia, che pur dichiarando la sua opinabilità, dimostra il suo inoppugnabile valore certificatorio: i fatti che avvengono in scena sono reali, visti dagli spettatori e garantiti dall’immagine fotografica, pur nella contraddizione della loro stessa logica di senso. Il fascino della fotografia per Vandekeybus sta proprio in questo doppio volto della fotografia descritto da Barthes37: «A photo freezes something that is actually already past. This means you are constantly working on time and its creation. […] Photographs are time’s memory»38. Costruire una quotidianità artefatta, confezionarla in un’immagine per farne ricordo e poi dimenticarlo per procedere verso un nuovo scenario: questo è il processo seguito in scena da tutti i personaggi.
Le fotografie della vita di questa madre ambigua, dalla personalità contorta e malvagia, con le sue trame immaginarie e fantastiche in cui è coinvolta la sua stessa prole, sono atte a fornire il ricordo delle sue gesta, cristallizzato nel flusso inarrestabile degli eventi.
«Attraverso le fotografie, ogni famiglia si costruisce una cronaca illustrata di sé stessa,  un  corredo  portatile  di  immagini  che attestano  la  sua  compattezza», scrive Susan Sontag, che aggiunge: «far fotografie, che è un modo per attestare un’esperienza, è anche un modo di rifiutarla, riducendola ad una ricerca del fotogenico, trasformandola in un’immagine, in un souvenir»39.
Fotografarsi con i propri figli, veri o presunti, diviene per la Walter un rituale della propria vita familiare, un modo per tesaurizzare la sua esperienza di madre e consegnarla al mondo.
Ma in scena i figli esprimono sentimenti discrepanti, la ricordano in maniera sempre diversa e contribuiscono a rafforzare l’immaginario contradditorio delle sue tante realtà. Su di un aspetto, però, tutti concordano, la sua fragilità e spietatezza nell’affrontare la vita: madre invadente ma disinteressata, incestuosa e infine omicida, intimamente connessa alla figura di Medea, che in preda al delirio, sul finale, uccide uno alla volta i suoi figli schiacciandoli su di una fotocopiatrice.

Il fotografo performer

Nel sistema di intersezioni diegetiche che si avvicendano in booty Looting, il fotografo Danny Willems ricopre una posizione tutt’altro che complementare, nonostante venga inizialmente presentato come semplice testimone, convocato per osservare e confermare gli avvenimenti.
Benché contrario ad una vera e propria gerarchia dei ruoli sul palco, Vandekeybus ammette di avere concesso uno speciale privilegio al fotografo, incoraggiato ad intervenire, coadiuvare e spesso avviare la narrazione attraverso le sue immagini live:

The show’s starting point was to see what photography is and how it could be present onstage as an active medium and not just be something whose results you see in magazines or in a frame hanging on a wall. To see how photographs are made, how they can lie and tell a different story, and to see how the photographer can single out one element of a complex reality and draw attention to something that other people didn’t see40.

La fotografia in booty Looting è vissuta come un medium attivo, concretamente operativo sulla scena e imprescindibile per restituire allo spettatore il sottotesto narrativo, offrendo inoltre un inatteso punto di vista sulla storia. Fronteggiando sistematicamente le acrobazie dei danzatori e carpendo loro attimi essenziali “rubati” dal movimento frenetico,

Danny Willems “performa” insieme ai danzatori sul palco booty Looting regia di Wim Vandekeybus, Ultima Vez Teatro alle Tese, Venezia 2012 Still da video
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Danny Willems “performa” insieme ai danzatori sul palco

il fotografo si erige a intermediario tra la platea e la scena, diventando di fatto l’imprescindibile punto di contatto per procedere lungo l’intreccio narrativo.
In questo senso Willems, pur interpretando se stesso, diviene una sorta di alter ego del regista e spesso sembra orchestrare gli episodi, indirizzandone persino gli spostamenti nello spazio.
E il dislocamento del fotografo lungo le diverse traiettorie spaziali che percorrono tutto il palcoscenico assomiglia esso stesso ad una vera e propria danza. Come fa notare Vandekeybus: «[…] when you watch a good photographer in action, that’s already choreography»41 e in effetti in diverse situazioni Willems non esita a lanciarsi a sua volta in volteggi azzardati e agili andature paragonabili ad una performance. Che l’azione del fotografare racchiuda in sé una dimensione gestuale e un veritiero atto performativo, è opinione condivisa già da alcuni anni42, e per molti fotografi che accolgono questa “visione comportamentista”, il gesto fotografico è un rituale addirittura più importante del risultato estetico43.
Le operazioni dell’inquadrare nella totalità dell’azione, del trovare il giusto punto di vista, di avvicinarsi ed allontanarsi con la fotocamera puntata sul soggetto, figurano di per sé come autentici assoli, apprezzabili in tutta la loro euritmia. Il fotografo sul palco è però rilevato più frequentemente come minaccia che come alleato, tanto che gli stessi co-protagonisti lo accusano più volte di essere importuno, aggressivo e prevaricatore.
Willems usa la macchina per impadronirsi dello scatto perfetto da poter mostrare al pubblico come un trofeo, e non esita ad inseguire incessantemente l’occasione, scagliandosi nel bel mezzo degli eventi per carpire l’attimo preciso. Come un esperto fotoreporter d’assalto interferisce con l’azione, si apposta e invade il campo44, sollecitando «[…] ciò che sta accadendo perché continui ad accadere»45.
Come nota Sontag, spesso la macchina fotografica è esercitata come strumento per abusare simbolicamente gli altri individui e depredare il mondo, alla stregua di un fallo o di un’arma46, che si “carica” e si “punta”47 per colpire. Ma nonostante questo tipo di arma non possa uccidere, sottolinea ancora Sontag, fotografare significa trasformare il soggetto in qualcosa di dominato e posseduto, e per estensione metaforicamente assassinato. «Fotografare qualcuno è un omicidio sublimato»48, è rubare ad un individuo un istante della vita esattamente come farebbe un soldato che combatte in guerra.
Come hanno notato alcuni recensori dello spettacolo49, l’esperienza di booty Looting lascia agli spettatori l’impressione di aver partecipato ad una battuta di caccia, o addirittura ad una vera e propria guerra. Sul campo di battaglia del palcoscenico [Fig. 8-9] si succedono ininterrottamente conflitti e scontri violenti, sistematicamente favoriti e fotografati da Willems il quale, tuffato nel bel mezzo del furore caotico, ‘uccide’ costantemente anche il tempo dell’azione, interrompendo istantaneamente e radicalmente la continuità dell’evento scenico. La coesistenza dell’immagine fissata dal fotografo e l’azione che continua simultaneamente a procedere sulla scena, produce una scollamento temporale che stratifica i piani semantici e che, al pari di una detonazione, trafigge la percezione.

Il campo di battaglia del palco booty Looting regia di Wim Vandekeybus, Ultima Vez Teatro alle Tese, Venezia 2012 Still da video
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Il campo di battaglia del palco
Il campo di battaglia del palco booty Looting regia di Wim Vandekeybus, Ultima Vez Teatro alle Tese, Venezia 2012 Still da video
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Il campo di battaglia del palco

«Se osserviamo i movimenti di un uomo munito di un apparecchio fotografico (o piuttosto di un apparecchio fotografico munito di un uomo)» riscontra Flusser, «abbiamo l’impressione di assistere ad un agguato: è l’antico gesto venatorio del cacciatore nella tundra»50.  Nella corsa verso la conquista del bottino, il fotografo è ancora una volta paragonabile ad un predatore, equipaggiato com’è per conseguire il suo proposito.
«Durante la caccia, il fotografo passa da una forma di spazio-tempo all’altra, adeguando le categorie spaziali e le categorie temporali le une con le altre secondo diverse combinazioni»51, ma il suo potenziale di scelta tra queste occasioni è sottomesso all’uso della macchina fotografica.
L’apparente libertà decisionale di fotografare qualcosa, che ogni fotografo identifica come un’intenzione personale, è in realtà limitata alle categorie connaturate alla fotografia, ovvero insite nell’apparecchio fotografico. Secondo Flusser, la disposizione che innesca lo scatto è “puntiforme” e “quantica”, “programmata” e “postideologica”52, contempla il dubbio fenomenologico, inteso come esitazione di fronte ad una serie di possibilità offerte dal soggetto, ma sostanzialmente è legata al potenziale di risorse esperite della fotocamera più che del fotografo.
L’aspetto tecnico è decisamente rilevante anche in booty Looting, ma non ne inficia la traccia concettuale che sorregge la trama. Se alcune fotografie sono estorte brutalmente al vortice dell’azione, altre sono allestite in estemporanea usando illuminazioni da studio e fondali posticci, davanti ai quali i personaggi assumono le pose più ordinarie e stereotipate della foto-souvenir53.

Danny Willems scatta la foto-souvenir booty Looting regia di Wim Vandekeybus, Ultima Vez Teatro alle Tese, Venezia 2012 Still da video
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Danny Willems scatta la foto-souvenir

In questo continuo andirivieni di circostanze sceniche, gran parte dei movimenti coreografici sono programmati e cedono solo in parte all’evenienza del caso, e anche se gli spostamenti sul palco sono pianificati, solo di rado gli interpreti si concedono un margine di improvvisazione, seppur ritenuto rischioso.
“60 % of my movements on stage are predetermined”, ammette il fotografo, ma per quanto stabilito a priori ogni movimento può subire delle variazioni dovute all’improvvisazione o a possibili problemi tecnici:

Framing, exposure and focus are more or less fixed. After ± 45 shows I still need to work focused and must make fast decisions when actors or dancers are not standing or running at the agreed spot. This makes it interesting and keep me awake. […] My big concern is still loosing the connection with the screen during the show54. Because what you see on stage is not always the same as what is projected on the screen, images lie sometimes. What you get is not always what you see55.

«You left with the feeling of having been tricked»

La relazione con lo spettatore in platea ha preoccupato il coreografo fin dalla concezione iniziale dello spettacolo. Vandekeybus si è chiesto in diverse circostanze quali sarebbero stati gli effetti sul fruitore di fronte a questo complesso sistema di segni: «booty Looting is anything but a fell-good play. It demand a lot from the audience. […] This is also something I set out to do: how can I manipulate the audience?»56.
Dilettandosi a sfidare la percezione degli spettatori attraverso il continuo gioco di rimandi tra tempo passato e presente scenico57, tra realtà e rappresentazione e per mezzo di traiettorie narrative confermate e subito infrante, booty Looting si dipana su di una labile linea di confine, spostata di continuo ai margini della disponibilità del pubblico.
Ogni spettatore che assiste allo spettacolo vive un’esperienza individuale, vorticosa e scomoda e, pur ghermendo la grande energia esplosiva proveniente dal palco, viene messo incessantemente in difficoltà, ingannato, distratto dalla simultaneità dell’azione ed esortato a mettere insieme le tessere di quel puzzle sconclusionato.
«Here, the spectator has to make an effort», riconosce ancora Vandekeybus, che aggiunge: «Plato said that the theatre is made of innocent people who go to see the suffering of others. For him, the passivity of the audience was something negative»58.
La platea viene sistematicamente interpellata da Killick e dai suoi proseliti, viene fotografata da Willems in un paio di occasioni e tramutata in elemento attivo della scena, in un paio di casi viene addirittura rimproverata di non essere abbastanza attenta ed esortata ad una maggiore adesione ai fatti.
La sensazione è che lo spettatore sia indotto a partecipare a questa grande caccia insieme al fotografo, nel tentativo di impadronirsi di un proprio personale bottino, di rubare immagini per ricomporre la trama, nella condizione totale di predone che vuole conquistare più elementi possibili da portare a casa per districarsi nel groviglio di segni. Vandekeybus confonde esplicitamente gli spettatori mettendoli continuamente su piste false, fabbricando diverse storie che sistematicamente decostruisce. E il gioco è in effetti coerente: lo spettatore si sente irretito e stimolato, deve necessariamente fare uno sforzo di comprensione nel processo di traduzione dei contenuti, percepisce l’inganno e la mistificazione nel continuo rovesciamento di visioni, e cerca il bandolo della matassa dall’inizio alla fine dello spettacolo.
E’ come se ogni singolo componente del pubblico fosse sollecitato ad abbracciare una personale versione della storia, stabilendo cosa è evidente e cosa non lo è, e definendo delle priorità. Dopo ogni intervento del fotografo, all’apparire in tempo reale della fotografia appena scattata, lo spettatore è messo di fronte ad una scelta: continuare ad inseguire la vorticosa vicenda scenica o fermare gli occhi sull’immagine che ne ha sottratto un palpito?
L’immagine fotografica si impone allo sguardo dello spettatore, che le attribuisce codici di identificazione specifici per il grande impatto estetico e la potenza visiva, ma soprattutto perché rappresenta una sorta di pausa emotiva che sospende per un attimo il tumulto e permette al singolo di tirare il fiato.
Cosa ricorderà  lo spettatore dopo booty Looting, si domanda ancora il coreografo. Le immagini fotografiche aggiungeranno o toglieranno particolari? Forniranno un supporto a questi ricordi o ne impediranno una memoria incondizionata ed esauriente? Le pratiche di rimemorazione degli eventi scenici, per quanto rigorosamente personali, sono tuttavia condizionate dal processo di affioramento mnemonico vincolato dalle immagini fisse.
Ogni individuo che “lascia il teatro nella convinzione di essere stato gabbato”, porta con sé una interpretazione esclusiva, ma è a sua insaputa totalmente condizionato dalla sequenza delle fotografie che si sono avvicendate sullo schermo a fondo palco.
Si deve riconoscere che le immagini fotografiche viste in scena in booty Looting costituiscano il dispositivo più opportuno per ricollocare organicamente nella memoria gli avvenimenti.
La scelta di Willems che decreta cosa fermare e riprodurre in immagine dal continuum delle azioni, implica che quello sia il momento da ricordare, solo quello e nessuno dei restanti, né prima né dopo lo scatto. Grazie al suo intervento che spezza l’azione per restituirne un frammento extra-temporale, gli spettatori non solo possono seguire più agevolmente quel processo di realtà e finzione che avviene in contemporanea – al di là della scelta su cosa concentrare la propria attenzione e quando – ma registrano indelebilmente nella memoria una serie di impressioni comuni e partecipate.
Le immagini fisse costituiscono infatti involontariamente il riferimento soggettivo, e insieme condiviso, che riunirà la memoria dello spettacolo nel tragitto di costruzione di un’identità collettiva.
Quelle fotografie fallaci, inattendibili e simulate che sappiamo essere bugiarde, come avvalora booty Looting lungo tutta la sua catena di eventi, ma che sono la cornice gnoseologica della nostra conoscenza e della cui «mediazione iconica abbiamo bisogno per dimostrare agli altri che siamo esistiti»59, che anche noi siamo stati là, in quell’analogon del mondo che è la fotografia.

  1. Basata sulla riproduzione di alcuni movimenti reali delle persone e in particolare sulla relazione esplosiva tra uomo e donna, la performance vince nel 1988 il prestigioso riconoscimento Bessie Award per la danza contemporanea. Le repliche di questo spettacolo sono riprese nel 2013 per le celebrazioni del venticinquennio della compagnia e continuano ad andare in scena nelle più importanti rassegne del mondo.
  2. Minten I., “This Performance is a Set of Building blocks”, Wim Vandekeybus on booty Looting and the 25h Anniversary of Ultima Vez, «Staalkaart», http://www.staalkaart.be
  3. Per approfondimenti in lingua italiana sull’opera teatrale e artistica di Jan Fabre si rimanda a Fabre J., Cinque monologhi, Costa&Nolan, Genova 2008; Blanchaert J., Fabre, Art&Dossier, Giunti, Firenze 2016.
  4. Il solo di Vandekeybus è il secondo atto del ciclo I quatto temperamenti di Jan Fabre. Ogni performance solista è pensata per un diverso danzatore (Renée Copraij, Wim Vandekeybus, Marc Vanrunxt e Annamirl Van der Pluijm) ed è creata sulla base di una comune intenzione tra regista e danzatore. Il monologo di Vandekeybus è stato concepito in relazione ad una sua personale opinione sulla fotografia.
  5. La mostra si è tenuta in Belgio presso il Cultuurcentrum Bruges dal 04/12/2013 al 03/02/2014. Composta da fotografie realizzate da Vandekeybus durante alcuni suoi viaggi in Cile, Marocco, Taiwan, Spagna, Capo Verde, Congo, Australia e Sud Africa, l’esposizione ha avuto un gran successo di pubblico grazie alla qualità visiva e tecnica delle immagini. Tuttavia la critica non ha particolarmente apprezzato l’iniziativa, forse a ragione del suo carattere indefinito: divulgata inizialmente come campagna di crowdfunding per sostenere i costi di produzione di un film in cantiere intitolato Galloping mind, Vandekeybus ha in seguito messo in vendita on line tutte le fotografie in copia unica, invitando il pubblico a diventare co-produttore del film. Per approfondimenti si rimanda al sito http://wimvandekeybus.be
  6. Per maggiori indicazioni sul film si rinvia al sito http://www.monkeysandwichthefilm.com/ e per costruire un quadro generale della filmografia di Vandekeybus si veda invece il sito web della compagnia alla sezione film, http://www.ultimavez.com/en/films.
  7.  Durante questa nota performance del maggio 1974, Beuys si rinchiuse tra le mura della René Block Gallery a New York per alcuni giorni insieme ad un coyote selvaggio, nel tentativo di stabilire una qualche forma di convivenza con l’animale cresciuto in cattività. L’artista si avvolse in una coperta di feltro e munito di un solo bastone ricurvo in legno e di un giaciglio di paglia dove dormire, conquistò gradualmente la fiducia dell’animale fino ad addomesticarlo completamente. Al termine della performance, bendato e legato cosi come era arrivato, si fece trasportare in aeroporto con un’ambulanza e si imbarcò per l’Europa. Non toccò mai più il suolo americano.
  8. Secondo l’autobiografia di Beuys, durante la seconda guerra mondiale egli combatté in Crimea accanto alle truppe naziste. Pilota della Luftwaffe, nel 1943 il suo aereo venne abbattuto e precipitò in una zona desertica, dove venne salvato dai nomadi Tarka che lo unsero con grasso animale e lo avvolsero in una coperta di feltro per salvarlo dall’ipotermia. Questa esperienza lo segnò fortemente e al rapporto tra uomo e natura selvaggia dedicò in seguito una buona parte delle sue sculture ed installazioni, oltre che la suddetta performance.  Le monografie e i libri dedicati all’artista sono numerosi, si segnalano in questa sede solo M. Nicoletti, L’uomo che dialogava con il coyote. Una breve incursione sul tema «Joseph Beuys e sciamanesimo», Exòrma Edizioni, Roma 2012; H. Stachelhaus, R. Gado, Joseph Beuys. Una vita di controimmagini, Johan & Levi, Monza 2012; e non ultimo J. Beuys, Che cos’è l’arte, Castelvecchi , Roma 2015 (a cura di Volker Harlan, trad. italiana di Arnaldo Stern), Das Gespräch mit Joseph Beuys, Was ist Kunst?, Verlag Urachhaus 2011.
  9. Il personaggio di Birgit Walter, eponimo dell’attrice che ne interpreta il ruolo in scena, è ispirato alla figura della scienziata e artista Lily Fisher. La sovrapposizione di una figura realmente esistita ad una fittizia, inventata per l’occasione, che porta il suo stesso nome e che ha le medesime fattezze contribuisce ad impastare la scena con ingredienti reali e frangenti artefatti che disorientano completamente la percezione dello spettatore.
  10. Durante il monologo, Killick afferma inoltre quella figura armata di fucile si vedrebbe anche nelle fotografie che documentano la performance. Dopo un’attenta ricerca non è stato possibile reperire queste immagini e dunque non si può verificare l’esattezza di questa affermazione. Peraltro, anche questa informazione, inserita nel flusso orale della performance, potrebbe verosimilmente essere falsa per rimanere all’interno del gioco e depistare ulteriormente il pubblico.
  11. A Becerra, Entre realidad y simulacro escénicos. El arrebato de Wim Vandekeybus en Booty Looting, http://www.artezblai.com/artezblai/entre-realidad-y-simulacro-escenicos-el-arrebato-de-wim-vandekeybus-en-booty-looting.html.
  12. Dal monologo di Jerry Killick durante il secondo atto di booty Looting.
  13. Ibidem.
  14. Regista francese del Novecento, Clouzot è noto per i suoi film thriller che gli valsero numerosi premi in ambito cinematografico. Negli anni Quaranta scrisse alcune commedie per il teatro, di scarso successo, ma si affermò sulla scena europea con importanti sceneggiature per il cinema.
  15. H. Ploebst, Taking delight in postmodern looting, «Der Standard», 08 agosto 2012.
  16.  Ibidem.
  17. Il notissimo saggio di Walter Benjamin, diffuso in tedesco nel 1955 e tradotto in italiano con il titolo L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (pubblicato da Einaudi nel 1966, 1991 e 2000) riflette sul rinnovato statuto di produzione dell’arte e della relativa perdita dell’aura, ossia del valore culturale attinente l’unicità, l’autenticità e l’autorità dell’opera stessa. Nel testo Piccola storia della fotografia del 1931, ivi contenuto, Benjamin sostiene che la condizione di riproducibilità diventa emblematica con l’avvento della fotografia, la “grande e misteriosa esperienza” che ha saputo conservare una forma di sopravvivenza dell’aura nella rappresentazione del volto umano. Il ritratto, con la sua “malinconica e incomparabile bellezza” è unico ed irripetibile ed esprime il profondo legame dell’immagine con il tempo e la morte.
  18. L’aneddoto raccontato da Vandekeybus è tratto da An informal interwiev to Wim Vandekeybus, video intervista apparsa su La Biennale di Venezia Channel, https://www.youtube.com/watch?v=tnwMYnPE5pk.
  19. Il riferimento al movimento denominato Appropriation art appare evidente. Il termine, in italiano tradotto con Citazionismo, deriva da alcune pratiche artistiche risalenti alle avanguardie storiche, ma viene assunto dalla critica d’arte americana intorno alla fine degli anni Settanta. Nel 1977, il critico Douglas Crimp, fu invitato a riunire in mostra una serie di artisti accomunati non tanto dall’uso di uno stesso strumento espressivo quanto da una nuova e diversa consapevolezza del fare arte, attraverso immagini di chiaro stampo antimodernista. Pictures, che inaugurò all’Artists Space di New York, rappresentò una soglia fondamentale per l’arte americana, poiché nel decennio successivo le idee di quegli artisti attecchirono e vennero radicalizzate. Le immagini esposte in quella mostra furono un «palinsesto di rappresentazioni, spesso trovate o “appropriate”, raramente originali o uniche, che complicavano, anzi contraddicevano le pretese autorialità e autenticità così importanti per la maggior parte dell’estetica moderna». Secondo quanto riportato nel noto testo di H. Foster, R. Krauss, Y. A. Bois, B. H. D. Buchloh, Arte dal 1900. Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo, il lavoro di questi artisti sostanzialmente si impossessava di immagini provenienti da altri supporti integrati nella cultura di massa, quegli “universi archetipici” di giornali, riviste, pubblicità, ma anche nell’arte stessa. Eclissando dunque il principio di creazione autentica e unica dell’opera e sospendendo qualsiasi affermazione di autorialità (e dunque di autorevolezza), l’Appropriation art scavalcava l’idea modernista della specificità del medium che doveva fornire, attraverso il suo stesso uso, un principio di verità materiale all’opera: invece di venire dopo la realtà e dunque come diretta emanazione del mondo, le rappresentazioni la precedevano e la costruivano. Rovesciando il rapporto modernista tra realtà e rappresentazione, gli artisti cominciarono ad interrogarsi sui meccanismi dell’immagine e della sua cultura nell’epoca contemporanea. L’immagine “appropriata” diveniva così paradigma di un’arte contemporanea qualificata dalla riproduzione meccanica, dalla ripetizione, dallo «statuto di multiplo senza originale». Negli anni successivi al 1977, alcuni degli artisti in mostra estremizzarono questa posizione attraverso la concezione di opere che impiegavano la fotografia come dispositivo visivo principale. Sherrie Levine (1947 -) e Cindy Sherman (1954 -) in particolare, rappresentarono questo concetto di appropriazione, seppur in modi diversi, scegliendo la fotografia e i materiali fotografici per il suo rapporto inestricabile con il referente, e piegarli in modo da esercitare una visione dell’arte come forma radicale di postmodernismo. «Dietro ad ogni immagine c’è sempre un’altra immagine» scriveva Crimp nel suo saggio introduttivo alla mostra del 1977, mentre gli artisti di Pictures compresero che la condizione stessa della fotografia era proprio quella di costituire un «multiplo senza originale, [che] rende solo tecnicamente più facile e più trasparente realizzare quel tipo di furto – eufemisticamente detto appropriazione – che era sempre stato endemico delle belle arti […]», H. Foster, R. Krauss, Y. A. Bois, B. H. D. Buchloh, Arte dal 1900. Modernismo, Antimodernismo, Postmodernismo, cit. p. 581-583.
  20. Dall’intervista Booty Looting the Memory a Wim Vandekeybus, realizzata da Estelle Spoto il 15/10/2013 e pubblicata sul sito web http://www.agendamagazine.be/en/blog/wim-vandekeybus-booty-looting-memory.
  21. Pubblicato nella recensione di P. Mahasarinand, A Day in the Life of Booty Looting, sul sito http://www.nationmultimedia.com/life/A-day-in-the-life-of-Booty-Looting.html.
  22. Nei sette volumi de À la recherche du temps perdu, Proust assegna alla fotografia una posizione ricorrente pur palesando verso di essa un certo scetticismo. Senza addentrarci troppo nei complessi piani di decifrazione dell’opera, ci soffermeremo su di un punto in particolare, funzionale alla nostra analisi: l’autore considera l’immagine fotografica illusoria e mistificatoria, vanamente aderente al referente e soggetta ad un’inevitabile sedimentazione temporale che la rende percettibilmente sempre diversa, in sostanza «una strana contraddizione della sopravvivenza e del nulla». In nessuno dei ritratti fotografici citati nella Recherche inoltre, avviene un riconoscimento della persona anzi, in diversi passi l’autore sostiene che memoria destata da una fotografia ne risveglia anche il dolore associato alla visione e che la persona non può essere ripresa nella sua essenza.
  23. R Bellour, Fra le immagini. Fotografia, cinema, video, Mondadori, Milano 2007, p. 69, (trad. italiana a cura di Vincenza Costantino e Andrea Lissoni), L’entre-images, S.N.E.L.A.-La différence, Paris 2002.
  24. Ivi, p. 67.
  25. Cfr. J.-F. Chevrier, Proust et la photographie. La résurrection de Venise. Avec une lettre inédite de Marcel Proust, Paris, L’Arachnéen, 2009. Sulla relazione di Proust con la fotografia si vedano inoltre: J. Cléder, J.-P. Montier, Proust et les images. Peinture, photographie, cinéma, vidéo, Presses Universitaires de Rennes, Rennes 2003; S. Ferrari, Il perturbante della fotografia. Qualche indagine sulle implicazioni psicologiche del fotografare, «Studi di Estetica» n. 14, 1996, pp. 93-116; S. Kracauer, Prima delle cose ultime, Marietti, Casale Monferrato 1985, (trad. italiana a cura di Salvatore Pennisi), History. The Last Things Before the Last, Oxford University Press, New York, 1969.
  26. I. Minten, This Performance is a set of building blocks. Wim Vandekeybus on booty Looting and the 25h Anniversary of Ultima Vez, cit.
  27. Ibidem.
  28. Barthes viene citato da Vandekeybus in più occasioni, compresa la già nominata intervista rilasciata a Ionescu per Inhalemag.com: «[Barthes] said that people were afraid of being photographed because they thought their souls were being stolen. Photography has a lot to do with death because it immortalizes something that is gone/dead and Barthes talks also about a special function of photography, confirming that something happened, something real», cfr. http://inhalemag.com/wim-wandekeybus-show-booty-looting.
  29. R. Barthes, Proust et la photographie. Examen d’un fonds d’archives photographiques mal connu, La preparazione del romanzo. Corsi (I e II) e seminari al Collège de France (1978-1979 e 1979-1980), Milano, Mimesis, 2010, vol. II, pp. 453-525, (trad. italiana a cura di Emiliana Galiani e Julia Ponzio), La préparation du roman I et II. Cours et séminaires au Collége de France, (1978-1979 e 1979-1980), Paris, Seuil-IMEC, 2003, pp. 385-457.
  30. Diversi studiosi ritengono che molte opere di Barthes siano di intera ispirazione proustiana. Ne La chambre claire ad esempio, si riscontrano diverse corrispondenze con À la recherche du temps perdu, come il parallelismo tra la riapparizione della grand-mère del narratore grazie alla memoria involontaria e il recupero dell’essenza della madre di Barthes, ad opera della fotografia di lei bambina scattata nel Giardino d’Inverno. Sulla questione si vedano, tra gli altri, Montier, J. P., La Photographie «…Dans le temps»: de Proust à Barthes et réciproquement; G. Girimonti Greco, Cento occhi, gli occhi di un altro. Proust e la visione totale, Arcoiris, Salerno 2014.
  31. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., pp. 67-68.
  32. Cfr. M. Piazza, L’oggettività della fotografia e la conoscenza stereoscopica: da Proust a Barthes e ritorno, in «Lebenswelt. Aesthetics and philosophy of experience», n. 5, 2014, p. 101, http://riviste.unimi.it/.
  33. Ibidem.
  34. M. Proust, À l’ombre des Jeunes Filles en fleurs, Á la recherche tu temps perdu, La Pléiade, Paris 1954, p. 490.
  35. Nel saggio intitolato Ontologia dell’immagine fotografica, anche lo studioso di cinema André Bazin, introduce la concezione della fotografia come «pratica dell’imbalsamazione». Secondo la sua idea l’immagine fotografica, esattamente come scultura e pittura prima di lei, sarebbero derivate dalle antiche pratiche funebri egizie atte a difendere il cadavere dall’usura del tempo per salvarne le apparenze. Il cosiddetto “complesso della mummia” distingue la fotografia dal cinema in quanto quest’ultimo, con l’aggiunta del movimento, cattura l’anima del reale e non solo la sua sembianza. La critica alla fotografia si basa dunque sul suo innato tentativo di esorcizzare il tempo custodendo le fattezze di ciò che è destinato a scomparire.
  36. Secondo Barthes, la fotografia inaugura una nuova categoria spazio temporale, quella dell’è stato. Non si può negare che ciò che appare in un’immagine fotografica sia effettivamente stato là, cioè che sia apparso fisicamente di fronte all’obiettivo. Il presente fotografato dalla fotocamera è stato là, ma in quanto oggetto irrimediabilmente separato dal reale è trascorso, e ora non è più. Questa doppia posizione congiunta di realtà e passato rappresenta l’essenza stessa della fotografia, il suo noema, che è una prova, in quanto diretta emanazione del referente,  ma al tempo stesso una ratifica di ciò che è già trascorso e sostanzialmente diviene ricordo, per quanto impreciso e talvolta fuorviante.
  37. Fin dalle prime righe de La camera chiara, Barthes dichiara che il suo interesse per la fotografia è di tipo ontologico e ammette che talvolta può assumere una «coloritura culturale». Ma più avanti aggiunge che il suo “realismo” deriva dalla necessità di porsi di fronte alle immagini in modo “selvaggio”, senza sovrastrutture, e con una peculiare disposizione logica. Riflettendo sulle immagini in qualità di operator, spectrum e spectator l’autore esplora solo alcuni campioni fotografici, quelli che sicuramente possiedono una particolare importanza nella sua vita: in questo modo la pretesa riduttiva di parlare della fotografia diventa una più concreta analisi euristica delle fotografie. R. Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., pp. 5-12.
  38. I. Minten, This Performance is a set of building blocks, cit.
  39. S. Sontag, Sulla fotografia, cit., p. 9.
  40. Dichiarazione del coreografo tratta dall’intervista Wim Vandekeybus: Booty Looting the memory, tratta dal sito web http://www.agendamagazine.be/en/blog/wim-vandekeybus-booty-looting-memory/15/10/2013.
  41. Ibidem.
  42. Su questo argomento si vedano soprattutto P. Dubois, L’acte photographique, Labor, Bruxelles 1983, e il già menzionato C. Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia “senza combattimento”.
  43. C. Marra, Fotografia e pittura nel Novecento. Una storia “senza combattimento”, cit., p. 227.
  44. In questo frangente il fotografo in scena sembra ispirarsi ai grandi fotogiornalisti del Novecento come Robert Capa, il quale dichiarò: «Se le fotografie non sono abbastanza buone significa che non sei abbastanza vicino», R. Capa, Leggermente fuori fuoco, Contrasto, Milano 2002, (trad. italiana di Piero Berengo Gardin), Slightly out of focus, Modern Library, New York 2001.
  45. S. Sontag, Sulla fotografia, cit., p. 12.
  46. Ivi, p. 13-14.
  47. Come osserva la Sontag, in inglese il verbo to shoot è utilizzato per indicare l’azione del fotografare e anche il gesto dello sparare.
  48. Ibidem.
  49. Cfr., tra gli altri, Becerra A, Entre realidad y simulacro escénicos. El arrebato de Wim Vandekeybus en booty Looting, cit; S. Vankersschaever, Deceit in Venice, pubblicato sul sito della compagnia www.ultimavez.com.
  50. V. Flusser, Per una filosofia della fotografia, Mondadori, Milano 2006, p. 39, (trad. italiana a cura di Chantal Marazia), Für eine Philosophie de Fotografie, European Photography Andreas Muller-Pohle, Berlin 1983
  51. Ivi, p. 42.
  52. Ivi, p. 48-49.
  53. Anche il tema della foto ricordo di famiglia, cimelio di una memoria esistenziale perduta, riporta al già citato desiderio dell’uomo di sopravvivere alla morte attraverso la testimonianza del suo passaggio. Qui ci interessa l’aspetto performativo della costruzione della posa ripresa da Willems, che spesso avviene sotto gli occhi del pubblico ma che talvolta è celata alla vista e riportata solo fotograficamente sullo schermo a fondo palco. La disposizione dei personaggi davanti al fondale è preordinata ma viene diretta dal fotografo che aggiusta continuamente la scena per ottenere una certa impeccabilità compositiva. La pratica del mettersi in posa presuppone l’appartenenza ad una cultura figurativa che impone alcuni cliché rappresentazionali, come indica Barthes quando afferma «[…] non appena mi sento guardato dall’obbiettivo tutto cambia […] mi fabbrico istantaneamente un altro corpo, mi trasformo anticipatamente in immagine», ma sottende soprattutto alla strategia visiva e gestuale del fotografo. Come nota la semiologa Dondero, «[…] l’adattamento psicomotorio ipoiconico del corpo del fotografo non è solo quello guardato attraverso il visore, […] si tratta [piuttosto] della conversione di uno spazio di esperienza in uno spazio strategico di enunciazione del sé», R. Barthes, La camera chiara, cit. p. 12; M. G. Dondero, Semiotica della fotografia, Op. cit., p. 272.
  54. Il sistema digitale che consente la riproduzione delle fotografie live è generato da un transito rapido dell’immagine dalla macchina fotografica al laptop, attraverso un semplice cavo USB. Un effetto analogo è fornito anche da software professionali come Canon Image Transmitter – usato nello studio fotografico dello stesso Willems per esaminare la fotografia sullo schermo del computer prima dell’intervento di post-produzione – ma il tempo di visualizzazione di circa 15-20 secondi è apparso sproporzionato rispetto al concetto di tempo reale. La scelta di un cavo USB lungo più di 20 metri ha adeguato il ritardo di visualizzazione ad un più accettabile mezzo secondo, permettendo nel contempo una disinvoltura nel movimento del fotografo, ma ha originato anche incognite logistiche come la possibile perdita di collegamento durante lo spettacolo o l’intralcio delle dinamiche coreografiche.
  55. L’affermazione è tratta da Framing, exposure and focus. Intervista a Danny Willems, fotografo di booty Looting,.
  56.  I. Minten, This Performance is a set of building blocks, cit.
  57. Sulla questione relativa al tempo presente della scena in rapporto all’istantanea fotografica come contenitore di memoria del passato, si veda il saggio pubblicato in «Culture teatrali 24», dedicato al terzo caso studio analizzato nella seguente tesi: A. Novaga, La fotografia pro-rompe la scena. The dead di Città di Ebla, in Mei S., (a cura di), La terza avanguardia. Ortografie dell’ultima scena italiana, «Culture teatrali 24», Annale 2015.
  58. L’affermazione di Wim Vandekeybus è tratta dall’intervista booty Looting the memory, cit.
  59. A. Becerra, Entre realidad y simulacro escénicos. El arrebato de Wim Vandekeybus en Booty Looting, cit.
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Vive e lavora a Venezia. Si laurea in Architettura presso lo IUAV di Venezia e consegue un PHD in Storia delle arti alla Scuola dottorale delle Università di Venezia e Verona. Il suo ambito di studi spazia tra fotografia, teatro e comunicazione visiva. Ha pubblicato articoli saggi e fotografie su riviste come Fotostorica, Culture teatrali, e su testi pubblicati da Libreria Universitaria, Alinari e Skira. E’ intervenuta a diversi convegni internazionali tra i quali New perspectives New technologies nel 2013, Colloque sur Théâtre et photographie Croisements, échanges, écarts autour de la performance nel 2015 e Journée d’étude sur Théâtre et photographie nel 2016. Insegna presso lo IUSVE di Verona e Venezia, ed è direttrice artistica del progetto HodgePodge Imagezine. Ha inoltre partecipato a diverse mostre in Italia e all’estero.