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n. 11 – aprile 22, Teatro

Dalla Maggioranza Silenziosa alle Sonorità prospettiche. Appunti di Via San Sisto 6, Milano

Conversazione di Daniele Vergni con Roberto Taroni

Taroni-Cividin, Intervallo al Limehouse 2, Sixto/Notes 1979. Courtesy Fondo Roberto Taroni, Milano.

ABSTRACT

La conversazione di Daniele Vergni con Roberto Taroni è parte di un'indagine sui luoghi della performance art in Italia negli anni Settanta e Ottanta volta a mappare e analizzare le modalità, le strategie e le densità teorico/pratiche messe in campo dalle realtà non istituzionali, in particolare quelle come Sixto/Notes dove le logiche del collettivo e la condivisione di prassi come l'autogestione hanno disegnato nuovi modi di abitare, fruire, produrre e distribuire le pratiche artistiche transdisciplinari.

Milano. Centro. El Carròbi, come chiamano i milanesi la zona Carrobbio. In via San Sisto al numero 6 c’è un antico palazzo secentesco, tutt’oggi mirabile. Nei primi anni Settanta in quell’edificio molto probabilmente c’è stato l’avvio di quel movimento centro-neofascista che fu la Maggioranza Silenziosa, capitanata da democristiani e missini, tra cui Adamo Degli Occhi, il principe del foro milanese e proprietario del bel palazzo di via San Sisto al numero 61. Nel 1974 viene occupato a scopo abitativo e più volte le forze dell’ordine tentano di sgomberarlo ma la struttura architettonica lo rende inespugnabile. Una sola entrata frontale, ai lati e dietro altri edifici. Buttare giù un palazzo secentesco per cacciare gli occupanti è troppo anche per il “principe” Degli Occhi. Il piano terra è quello più indifeso dalle possibili cariche e forse anche per questo, ancora nel 1976, è libero. Così un giorno di aprile del 1976 due giovanissime personalità che si stanno immettendo nella produzione artistica, Luisa Cividin (performer) e Roberto Taroni (artista visivo), occupano il pianterreno per cominciare a provare, assieme a Maria Teresa Morasso, la loro prima produzione, una performance molto complessa dal sanguinettiano titolo Putredo Paludis, un dispositivo ad orologeria potremmo dire, un insieme di fasi e passaggi in cui delay video “fatto in casa”, tempo reale, corpi vivi, suoni e polaroid abitano lo spazio, quello dell’Out-Off, cantina milanese della sperimentazione teatrale e performativa in cui Putredo Paludis viene presentata nel dicembre del 19772.

Successivamente i due decidono di aprire lo spazio ad artiste e artisti, trasformando il loro studio nel Centro di via San Sisto numero 6, rinominato nel corso del 1978 Sixto/Notes – che in un gioco di assonanze vuol dire: appunti di via San Sisto n. 6. Un luogo di produzione e distribuzione, autogestito e no-profit, uno dei pochi in quegli anni in Italia assieme a Zona Art Space di Firenze, quest’ultimo attivo sin dal 19743. Gli “appunti” sono una serie di appuntamenti che scandiscono le attività del centro. Durante il 1978 a quelle di Taroni e Cividin si affiancano ulteriori energie: Ferruccio Ascari, Daniela Cristadoro e Franco Taroni, che fin da subito hanno ruotato attorno alle attività del Centro. La programmazione non è mai stata puntuale, i cinque sono innanzitutto artisti, impegnati anche all’estero, di qui le relazioni fuori dall’Italia che trasformano Sixto/Notes in un porto internazionale per le pratiche video, sonore e performative. Sono infatti questi i linguaggi più indagati nel Centro ed è il formato installativo a predominare la programmazione. In pochi anni, fino al 1982, presentano ed espongono a Sixto/Notes diversi artisti visivi ma anche teatranti e musicisti, tra gli italiani ricordiamo, oltre agli organizzatori (il gruppo Taroni-Cividin, Ascari e Cristadoro): Lanfranco Baldi, Cioni Carpi, Giuseppe Chiari, il gruppo Dal Bosco-Varesco, Walter Marchetti, Maurizio Marsico (Monofonic Orchestra), Mario Martone, Gianni Melotti, Franco Ravedone, Arturo Reboldi, Roberto Rossini (Centro Uh!), Gianni-Emilio Simonetti, Demetrio Stratos. Saranno però soprattutto artiste/i, performer e musiciste/i internazionali ad apparire nei programmi di Sixto/Notes, dai nomi all’epoca più conosciuti come Vito Acconci, il gruppo Art & Language, Chris Burden, ad artiste e musiciste militanti in movimenti femministi come Nancy Buchanan, Ilona Granet della band No Wave femminista Disband e Barbara Smith. E ancora: Marinka Kordis dei Maniac Productions, Jack Goldstein, Paul McCarthy e Orlan. Scorrendo la programmazione4 è impossibile non notare la prevalenza di musiciste/i e artiste/i sonore/i, oltre a quelle e quelli già menzionati ricordiamo: il BDR Ensemble di John Duncan, Rhys Chatham autore anche di una colonna sonora di Sixto/Notes che viene trasmessa ogni volta che il centro apre le porte, Bruce Fier, Martin Davorin Jagodic, Sven Ake Johansson, Laymen Stifled, Annea Lockwood, Gordon Mumma, Akio Suzuki e Joshi Wada.

Rhys Chatham, colonna sonora per l’apertura e la chiusura dei locali di Sixto/Notes, 1979. Courtesy Fondo Roberto Taroni, Milano.

Se nei primissimi anni Settanta tra le mura del palazzo secentesco di Via San Sisto ha preso vita il frastornato pensiero della Maggioranza Silenziosa che pretendeva una “normalità” istituzionale pre-sessantottina, nei primi anni Ottanta saranno soprattutto le sonorità radicali a contraddistinguere lo stesso spazio, un altro luogo sicuramente. Sonorità inarrestabili che oltrepassano la vita di Sixto/Notes – che chiude alla fine del 1981 – per approdare alla rassegna Sonorità Prospettiche (1982-83)5, curata da Roberto Taroni, Franco e Roberto Masotti e con la collaborazione di Veniero Rizzardi. Dal silenzio, irrealizzabile nell’atmosfera terrestre ma concreto nelle intenzioni coercitive della cosiddetta “strategia della tensione” di cui il gruppo di Degli Occhi fu flebile ingranaggio, alle sonorità che invadono, occupano, come fu occupato lo spazio che rese possibile le attività di Sixto/Notes.

Roberto Taroni e Luisa Cividin nel primo giorno di occupazione del palazzo di Via San Sisto n. 6, aprile 1976. Courtesy Fondo Roberto Taroni, Milano.
Roberto Taroni e Luisa Cividin nel primo giorno di occupazione del palazzo di Via San Sisto n. 6, aprile 1976. Courtesy Fondo Roberto Taroni, Milano.

Daniele Vergni [da qui in poi D.V.] Cominciamo da lontano. Milano 1976: con Luisa Cividin occupate il piano terra del palazzo di Via San Sisto n. 6. Voi due assieme a Maria Teresa Morasso utilizzate quello spazio per preparare la performance Putredo Paludis. Quali le motivazioni e come è avvenuto il passaggio da studio di produzione a luogo di condivisione di pratiche e di fruizione collettiva? Che ruolo ha svolto, quale la posizione di Sixto/Notes nella geografia artistica milanese degli anni di passaggio tra i decenni Settanta e Ottanta?

Roberto Taroni [da qui in poi R.T.] Riguardo il perché e il come del nostro ingresso nell’edificio di Via San Sisto 6 occorre fare due premesse. Io e Luisa ci eravamo conosciuti mesi prima e avevamo deciso di iniziare a collaborare su un progetto. Inoltre, in una ricerca di spazi da poter occupare per avere uno spazio laboratoriale in cui iniziare a lavorare attivamente al progetto, avevamo notato che nel secondo cortile della casa occupata in via San Sisto 6 vi era uno spazio con due grandi stanze che potevano risolvere il nostro problema. Per questo, dopo un incontro con il comitato di occupazione della casa, abbiamo occupato quegli ambienti. È risultata poi per noi naturale la volontà di aprire quegli spazi, compatibilmente con i nostri impegni produttivi, all’ospitalità di altri artisti, musicisti e performer in modo da creare una vera e propria programmazione di eventi e interventi di personalità da noi reputate interessanti. Nel senso che ci sembrava molto importante permettere a chi abitava in una città come Milano, chiusa in un sistema privatistico della cultura, di poter accedere a una programmazione di proposte internazionali al di fuori del cosiddetto mainstream di allora. Intendiamoci, vi erano importanti gallerie d’arte, quali Franco Toselli, Salvatore Ala, Francoise Lambert, L’uomo e l’Arte, che però mostravano artisti dell’allora penultima generazione, e non vi era quasi alcun luogo che mostrasse artisti dell’ultima generazione legati alle arti performative. L’unico era Luciano Inga-Pin con la Galleria Il Diagramma. E, comunque, non vi era alcuno spazio autogestito da artisti. Ecco, il Centro di Via San Sisto 6, prima, e Sixto/Notes, dopo quando cambia nome, coprono totalmente quel vuoto e entrano di diritto, insieme con Zona a Firenze, nel dialogo internazionale che si sviluppa in quegli anni tra arti visive, musica e teatro. A Milano Sixto/Notes diventa l’unico spazio no-profit a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta e una sorta di paradigma cui i successivi spazi autogestiti a Milano guarderanno. Tra questi il più rilevante sarà Facsimile, che nascerà due anni dopo la chiusura di Sixto/Notes. A queste considerazioni si aggiunge il fatto che lo sguardo di Sixto/Notes è sempre stato, fin dall’inizio, rivolto verso il resto del mondo.

D.V. Il vostro è stato uno spazio no-profit autogestito. Immagino le difficoltà di sostentamento per un’attività così dinamica e propulsiva ma, assieme, penso ad una ricca geografia emozionale6, una tessitura di relazioni forti, soprattutto con le numerose e i numerosi artisti internazionali presenti nelle vostre iniziative. Come vi siete sostenuti e quali le alleanze più prolifiche?

R.T. Come tutti gli spazi autogestiti, Sixto/Notes poteva contare solo sulle finanze dei suoi componenti e sulle pochissime entrate che coincidevano con gli eventi a pagamento, quali performances e concerti. Un indubbio aiuto era determinato dalla rete internazionale all’interno della quale agiva Sixto/Notes. Nel senso che l’inserimento in questa rete permetteva di avere una grande disponibilità, da parte degli artisti invitati, nel ridurre i propri costi e compensi. Per citare alcuni nodi di questa rete, avevamo scambi e contatti con Hallwalls a Buffalo, Franklin Furnace, Artists Space, White Columns e Fashion Moda a New York, Site a San Francisco, Modern Art Gallery a Vienna, De Appel a Amsterdam e 360° a Wuppertal. Molte volte, addirittura, anche artisti molto affermati chiedevano di presentare un lavoro da noi e non richiedevano neanche un compenso per questo. Penso a Giuseppe Chiari, a Walter Marchetti, a Vito Acconci. Era una sorta di finanziamento spontaneo da parte loro. Posso dire che le alleanze più prolifiche non erano quelle con altri centri no-profit sparsi in giro per il mondo, ma quelle con gli artisti stessi.

Inaugurazione mostra di Christine Koenigs, Sixto/Notes 1979. Courtesy Fondo Roberto Taroni, Milano.
Inaugurazione mostra di Christine Koenigs, Sixto/Notes 1979. Courtesy Fondo Roberto Taroni, Milano.
Christine Koenigs, Regen, Sixto/Notes 1979. Courtesy Fondo Roberto Taroni, Milano.
Christine Koenigs, Regen, Sixto/Notes 1979. Courtesy Fondo Roberto Taroni, Milano.

D.V. Una stanza di circa cinquanta metri quadri, un piccolo ripostiglio e un ampio cortile diventano luogo di attraversamenti da annotare, non esposizioni pure ma appunti, «blitz di idee»7 li hai definiti in un nostro precedente colloquio. Quanto, strutturalmente, i locali di Sixto/Notes hanno costituito il dispositivo procedurale delle operazioni presentate?

R.T. Penso che, con modalità differenti, lo spazio di Sixto/Notes abbia influenzato più o meno tutti gli interventi degli artisti. Sono da notare due particolarità alla base della pratica teorica di Sixto/Notes: da una parte un nostro interesse a forzare gli interventi degli artisti verso la considerazione della specificità del luogo e, nel caso di proposte di lavori preesistenti, verso la rimodellazione totale dell’opera o dell’azione performativa; dall’altra la scelta di artisti il cui lavoro è predisposto alla formulazione di progetti che partono e si strutturano a partire dal luogo che li ospita. Per meglio evidenziare questi due cardini del lavoro teorico progettuale di Sixto/Notes, posso portare ad esempio, da una parte l’installazione del film Regen di Christine Koenigs che, proprio nel dialogo con lo spazio interno di Sixto/Notes, decide di doppiare l’effetto del film creando una parete di pioggia vera nella sala attraverso cui vedere la proiezione, con implicazioni anche concettuali totalmente differenti, e, dall’altra, l’installazione/performance di Gianni Emilio Simonetti in cui proprio le caratteristiche dello spazio portano l’artista a pensare un’azione, tra l’altro l’ultima opera della sua attività di artista, in cui il dispositivo di visione permette una libera scelta da parte del visitatore nel preferire una fruizione dall’esterno – tramite le finestre che affacciano sul cortile –, piuttosto che una dall’interno entrando a contatto con gli elementi oggettuali e viventi che la costituivano. Per ragioni anche esistenziali, sicuramente gli interventi che maggiormente hanno evidenziato le caratteristiche degli spazi di Sixto/Notes, diventando quelli che in linguistica si definirebbero dei determinativi radicali dell’elemento-spazio, sono alcune installazioni o performance degli artisti che quegli ambienti vivevano costantemente. Penso alla mia installazione/performance Mai Jack et…, in cui interagivo direttamente con ogni singolo spettatore utilizzando la totalità dello spazio, compreso il magazzino, oppure penso alla performance Intervallo al Limehouse 2 di Taroni-Cividin dove viene utilizzato anche l’intero spazio esterno, dal cortile fino alla strada, e alla installazione Untitled di Ferruccio Ascari8 dove l’artista “misura” l’ambiente centrale di Sixto/Notes attraverso il suono.

Ferruccio Ascari, allestimento di Vibractions, Sixto/Notes 1979. Courtesy Fondo Roberto Taroni, Milano.
Ferruccio Ascari, allestimento di Vibractions, Sixto/Notes 1979. Courtesy Fondo Roberto Taroni, Milano.

D.V. Nelle programmazioni che avete attivato negli anni mi sembra di cogliere un aspetto parallelo a quello che ha contraddistinto l’operato di Taroni-Cividin: le vostre performance erano costituite da un passaggio specifico, dall’azione performativa al gesto installativo. Molte delle operazioni presentate presso Sixto/Notes si configuravano come passaggio dislocato nel tempo. Cosa potresti dirmi di questo aspetto che sfugge tanto il tempo continuo della performance che quello sospeso della mostra tradizionale?

R.T. Quello che tu hai appena notato è molto vero. Penso che, anche negli interventi di installazioni e performance che ospitavamo a Sixto/Notes, cercavamo o privilegiavamo quelli che implicavano la complessità del rapporto tra il tempo circolare o ciclico e il tempo vissuto soggettivamente, complessità che era sicuramente al centro anche del lavoro mio e di Luisa. Un esempio paradigmatico di queste procedure è l’installazione di Marinka Kordis in cui l’artista, tramite il sistema fotografico time-lapse che permette di riprendere un fotogramma ogni minuto, filmava per 15 giorni una tavola imbandita nel processo di decomposizione dei suoi elementi e proiettava, durante il giorno di chiusura della mostra, il film ottenuto. Penso che quest’opera e tutto il nostro lavoro di allora esemplifichino perfettamente questa fuga, tanto dal tempo continuo che da quello sospeso. O, meglio, più che di una fuga si trattava di una fusione e di un continuo scambio di ruoli e di centralità tra un tempo inteso nel suo movimento circolare di cambio e disfacimento e un tempo vissuto nella sua linearità cronologica. 

D.V. Chi erano gli spettatori di Sixto/Notes? Come venivano avvisati e coinvolti? La critica seguiva le vostre iniziative?

R.T. Il pubblico di Sixto/Notes era assai variegato e rifletteva quella curiosità trasversale che contraddistingueva quegli anni. Chiaramente c’era una prevalenza di pubblico giovane, spesso appartenente ai territori delle arti. Ma, in ragione della attenzione che quotidiani e riviste davano agli eventi che organizzavamo, c’era una partecipazione anche da parte del pubblico che si suole definire generico o non strettamente pertinente al mondo dell’arte in senso stretto e gli eventi con la maggiore partecipazione erano sicuramente i concerti e le performance. Per quello che riguardava la divulgazione delle notizie relative alle nostre iniziative, questa avveniva, sia tramite i canali diretti, attraverso quella che oggi chiamiamo una mailing list, che tramite canali indiretti, come il cosiddetto passa-parola. C’era anche un’attenzione da parte della critica giovane, penso a Giorgio Verzotti e Helena Kontova, nell’ambito delle Arti Visive, Mario Gamba, Marcello Lorrai e il gruppo di Gong nell’ambito musicale. Questa attenzione mediatica – da «Flash Art» alle pagine milanesi dei quotidiani – era rilevante ma la vera forza di Sixto/Notes era il passa-parola che permetteva anche una diffusione all’estero delle notizie e l’immissione delle attività di Sixto/Notes all’interno delle agende di artisti, musicisti, performer nel momento in cui programmavano di venire a Milano. È proprio tramite questa modalità di informazione che avevamo costantemente visite di personalità delle arti da varie parti del mondo. Sixto/Notes è stata anche l’occasione per trasformare l’occasionalità di una visita da parte di giovani artisti internazionali in una più duratura amicizia anche negli anni a venire. Penso a quella nata tra me e Brigitte Kowanz, Franz Graf, Ryhs Chatham e altri.

D.V. Negli anni Settanta in Italia art/tapes/22 di Maria Gloria Bicocchi a Firenze, il Centro Video Arte diretto da Lola Bonora a Ferrara e la Galleria del Cavallino a Venezia nel periodo condotto da Paolo e Gabriella Cardazzo avviano un’importante produzione di video d’arte, soprattutto monocanale e di videoperformance. Nella programmazione di Sixto/Notes date spazio al video soprattutto nel formato installativo, formato ampiamente indagato nel vostro centro anche in riferimento alla cosiddetta sound art. Di quest’ultima ci occuperemo più avanti… Il video come azione e come dispositivo esperienziale sembra contrassegnare il vostro interesse per l’immagine elettronica – penso al tuo Quartetto (1978) con il precoce utilizzo del time delay “fatto in casa”, già sperimentato in Putredo Paludis l’anno precedente. Diversi studi negli ultimi anni hanno approfondito le attività della produzione video in Italia9 ma di quanto presentato presso Sixto/Notes non si sa nulla. Quali le occasioni secondo te più interessanti presso il vostro Centro in quel momento e anche in una prospettiva storica?

R.T. La tua domanda centra perfettamente il carattere, talvolta strabico, talvolta smemorato di buona parte della storiografia italiana che riflette sull’arte del recente passato. Uno strabismo e una smemoratezza che sono spesso il risultato di scelte precostituite, quelle che definirei ideologicamente indirizzate, oppure di scelte a difesa di territori vicini, soprattutto geograficamente vicini, agli storiografi in questione, quelle che definirei militarmente determinate. Questa che sto descrivendo è una predisposizione, tipicamente italiana, alla autoriflessività e alla autoreferenzialità. Siccome noi ci siamo mossi sempre in senso anti-regionalistico e, da consapevoli cittadini-del-mondo, con obiettivi di tipo internazionale, va da sé che scenda inevitabilmente l’oblio del provincialismo. Per rispondere alla tua domanda sulle occasioni più interessanti, anche da un punto di vista storico, presentate nell’ambito del video a Sixto/Notes, penso che le mie personali, ad esempio l’installazione Quartetto da te citata, e quelle di Taroni-Cividin, come Intervallo al Limehouse 2, siano state tra le più importanti. Dico questo perché la prima, quando ancora lo spazio si chiamava Centro di Via san sisto, 6, rappresenta, con il suo passaggio in un tempo variato e da un monitor all’altro della stessa immagine, il momento in cui per la prima volta si sperimenta il “time-delay loop” registrato – mentre in diretta lo avevamo sperimentato come ben ricordi in Putredo Paludis (1977). Intervallo al Limehouse 2 immette come elemento fondante la soggettività della ripresa in diretta da parte di uno dei performer10. Dico fondante perché l’uso del mezzo televisivo non rappresentava la classica documentazione dal vivo ma si poneva come rottura epistemologica dell’atto di agire del performer.

D.V. Numerosissime le performance che avete organizzato al n. 6 di Via San Sisto. Non sapevo assolutamente di solo-performance di Mario Martone ad esempio, se non erro un unicum nella sua produzione. M’incuriosisce però la performance di Ilona Granet delle Disband. Sono infatti poche ed isolate le performance “militanti” sotto il profilo del femminismo in Italia11, mentre da voi Ilona Granet, Nancy Buchanan, Barbara Smith… mi sembra di leggere una volontà – una desiderabilità? – di ampliare le prospettive. Ecco i blitz di idee di cui parlavi… o mi sbaglio?

R.T. Hai assolutamente ragione. Uno dei nostri intenti era quello di presentare in Italia anche lavori improntati alla pratica politica di orientamento femminista nelle sue varie diramazioni. Per questo abbiamo presentato performance che implicitavano un sottotesto di critica femminista ma che erano classicamente orientate verso una soggettività di tipo narcisistico, come il tableau vivant di Orlan sul tema della debordante sessualità di una madonna/santa barocca, ma allo stesso tempo performance, come quella di Ilona Granet, del gruppo No Wave Disband, in cui il carattere narrativo del plot cinematografico/teatrale veniva rivoltato attraverso tecniche vocali e canore dissonanti che facevano esplodere la soffertissima vena autobiografica della storia senza offuscare mai una più generale denuncia delle aggressioni sessuali verso le donne. Nel caso di Buchanan, invece, presentammo esclusivamente dei video monocanale e degli audioworks. Mentre invece Barbara Smith presentò solo degli interventi sonori più all’insegna delle conference-talk12.

Per quello che riguarda invece Mario Martone, lo invitammo a presentare Rosso Texaco che, però, venne allestito in uno spazio industriale esterno mentre a Sixto/Notes, invece, fece una solo-performance con proiezioni di diapositive, alcuni oggetti e lui che parlava a un microfono. Penso anch’io che sia stata, fino ad oggi, l’unica solo-performance della carriera di Mario.

Mario Martone, solo performace, Sixto/Notes 1978. Courtesy Archivio Roberto Taroni, Milano.
Mario Martone, solo performace, Sixto/Notes 1978. Courtesy Archivio Roberto Taroni, Milano.
Ilona Granet (Disband), intervento sonoto, Sixto/Notes 1980. Courtesy Fondo Roberto Taroni, Milano.
Ilona Granet (Disband), intervento sonoto, Sixto/Notes 1980. Courtesy Fondo Roberto Taroni, Milano.

D.V. Tra il febbraio e il marzo del 1980 organizzate Audioworks, una rassegna che conferma l’interesse verso il suono nei formati della performance, dell’installazione e delle produzioni sonore, sempre così presenti nella vostra programmazione13. Dopo Audioworks per un breve periodo in Italia si susseguono diverse iniziative simili, a partire dalla IV Settimana Internazionale della Performance di Bologna nel luglio dello stesso anno, interamente dedicata al fenomeno No Wave, ci sono poi Inascoltabili/Frammenti sonori, rassegna di installazioni sonore, concerti e audiotape curata dal Centro Uh! di Genova tra il gennaio e il febbraio del 1981, le performance sonore della rassegna Zoo Musicale all’Out-Off di Milano nel luglio, la sezione Espansione suono nel gennaio 1982 organizzata all’interno della rassegna Energia ’82 tra Ferrara e Bondeno dal centro Ricerche Inter/media di Maurizio Camerani… fino ad arrivare a Sonorità prospettiche (1982) che hai personalmente curato assieme a Franco e Roberto Masotti e con la collaborazione di Veniero Rizzardi e che possiamo considerare come prosecuzione di Audioworks. Pensando a questa storia ad oggi così sommersa, il ruolo di Sixto/Notes mi sembra sia stato quello di indicare nella ricerca sul suono una pratica comune, una tessitura relazionale innanzitutto tra voi artisti, poi la capacità del suono di farsi ambiente e di collegare le soggettività che lo abitano. Mi parleresti di questo legame tra sound e Sixto?

R.T. Direi che il suono è stato uno dei temi principali della pratica di Sixto/Notes e sicuramente quello che ha delineato la sua assoluta unicità nel panorama italiano in quanto Centro anticipatore di alcune pratiche che negli anni successivi sarebbero diventate centrali all’interno delle espressioni artistiche più significative della contemporaneità. Ed è proprio con la rassegna Audioworks che in Italia arriva una manifestazione compatta in cui il tema del suono nelle arti contemporanee non viene confinato all’interno degli steccati disciplinari ma esibito in un senso allargato. Tant’è vero che le installazioni mostravano approcci e pratiche confinanti con le moving images, penso a Cioni Carpi, con la musica, ad esempio Walter Marchetti, con quel territorio ibrido che William Hellermann avrebbe poi definito Sound Art14, un nome fra tutti John Duncan, con l’arte concettuale, mi riferisco a Giuseppe Chiari, con l’animazione, un emblematico Lanfranco Baldi, con le arti performative, io e Ferruccio Ascari, e anche con la pratica politica e Fluxus, attraverso la figura di Gianni-Emilio Simonetti. Da quell’esperienza, come tu stesso dicevi, germina Sonorità Prospettiche15, in ordine di tempo la quinta mostra al mondo sul suono in relazione alle Arti ma la prima ad essere programmaticamente centrata sui rapporti tra il suono e l’ambiente, quindi la prima a porre il suono non più come appendice dell’oggettualità scultorea, bensì come elemento generatore di nuovi rapporti con i luoghi e le interazioni tra soggetti all’interno di essi. La struttura stessa di Sonorità Prospettiche riprendeva di pari passo l’impostazione data a quella prima rassegna a Sixto/Notes e la ampliava attraverso una specificità progettuale centrata sull’ambiente, nelle sue molteplici declinazioni concettuali.

Penso non sia stato minimamente casuale per me e Luisa questa centralità del suono all’interno della attività di Sixto/Notes, perché era assolutamente un interesse peculiare della ricerca di Taroni-Cividin e mia personale. E vedeva, comunque, un notevole interesse anche da parte degli altri componenti di Sixto/Notes. In particolare, però, era per me e Luisa che, mi si passi l’arditezza ossimorica, il suono diventava uno spazio di manovra entro il quale sperimentare un passaggio dalla imperante visione fenomenologica nel rapporto Soggetto-Ambiente a una più ampia processualità. Secondo noi questo passaggio eidetico poteva essere innescato al meglio proprio dal suono. Sintetizzando, un passaggio dal divenire al processo attraverso il suono. Sonorità Prospettiche è stata la messa-in-mostra di queste premesse teoriche attraverso una ampia serie di interventi appositamente pensati per essa e per la città di Rimini.

D.V. Nel 1982 Sixto/Notes chiude la sua attività, quali i motivi e quali le eredità lasciate nel contesto milanese?

R.T. Come quasi sempre nei casi di attività che coinvolgono interamente il tuo essere e la tua esperienza nella quotidianità, i motivi sono un miscuglio di dati riconducibili ai casi della vita e di dati lucidamente scelti e determinati. Tra i primi rientravano: il fatto che all’inizio del 1982 io e Luisa partimmo per un tour per presentare una nostra performance e una mia installazione in alcuni spazi museali in Europa; il fatto che al ritorno, dopo alcuni mesi, trovammo gli spazi nella casa di via San Sisto ri-occupati da una famiglia con necessità abitative; non ultimo il fatto che nell’estate di quell’anno io dovetti allontanarmi da Milano senza ritornarvi per più di un anno. Tra i secondi rientravano le lucide considerazioni sul cambio di stato dell’intera situazione politico-culturale intervenuta a Milano all’inizio degli anni Ottanta e la volontà di Taroni-Cividin di concentrarsi in maniera intensiva, e parimenti con modalità che escludevano attività collaterali, intorno a un progetto estremamente complesso e ambizioso che sarebbe poi diventato l’ultimo progetto di me e Luisa insieme16. Allo stesso tempo, i sodali del progetto Sixto/Notes convennero sull’impossibilità di proseguire le attività del Centro. Penso che Sixto/Notes abbia aperto la via alla possibilità da parte degli artisti, anche a Milano, anche in Italia, di presentare e curare interventi e opere che si riferissero a un dialogo tra differenti discipline, vera e propria emergenza storica all’interno delle arti di quel periodo. In questo senso, chi ha raccolto in maniera più mirabile questa eredità, andando con un lavoro più che ventennale ad arricchire quella indicazione di modalità dettata dall’esperienza di Sixto/Notes, è stato Facsimile, la galleria no-profit fondata e diretta nel 1984 da Horatio Goni, artista argentino trasferitosi all’inizio degli anni ottanta da Londra a Milano, nonché assiduo frequentatore di Sixto/Notes.

  1. «il giro è sempre quello: Fronte nazionale, Italia unita, maggioranza silenziosa, Comitato di resistenza democratica di Edgardo Sogno, gruppo AR (Freda e Ventura), Ordine nuovo. Non occorre andare lontano per cercare gli assassini e i mandanti di piazza della Loggia» Cfr. Crocevia del tritolo, in «L’Avvenire», 15 maggio 1974. Per un approfondimento si veda Aldo Giannuli, Strategia della tensione. Servizi segreti, partiti, golpe falliti, terrore fascista, politica internazionale: un bilancio definitivo, Ponte delle Grazie, Milano 2018.
  2. Per un approfondimento della performance rimando alla pagina dedicata sul sito del gruppo [ultimo accesso 21.I.2022].
  3. Cfr. https://www.zonanonprofitartspace.it/ [ultimo accesso 21.I.2022].
  4. Abbiamo potuto consultare la documentazione relativa alle attività di Sixto/Notes presso l’Archivio privato di Roberto Taroni nell’ottobre del 2021.
  5. Per un approfondimento si veda il sito dedicato [ultimo accesso 21.I.2022].
  6. Cfr. Giulia Bruno, Atlante delle emozioni. In viaggio tra arte, architettura e cinema, Johan & Levi, Monza 2015.
  7. Durante la consultazione del Fondo Sixto/Notes presso l’Archivio privato di Roberto Taroni il 19 e 20 ottobre 2021 a Milano.
  8. Riguardo le ultime due si veda http://www.taroni-cividin.org/performance-11 e https://www.ferruccioascariarchivio.com/1978-vibractions/ [ultimi accessi 11.III.2022].
  9. Ricordiamo Lisa Parolo,Video arte in Italia negli anni Settanta. La produzione della Galleria del Cavallino di Venezia, Bulzoni, Roma 2019; Lisa Parolo, Cosetta Saba, Chiara Vorrasi (a cura di), Videoarte a Palazzo dei Diamanti. 1973-1979 reenactment, Fondazione Ferrara Arte, Ferrara 2015; Cosetta G. Saba (a cura di), Arte in videotape. Art/tapes/22, collezione ASAC La Biennale di Venezia, conservazione restauro valorizzazione, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo (Mi) 2007.
  10. Roberto Taroni si riferisce a due momenti specifici della performance. Nel primo Taroni, nello scantinato, ha una videocamera sul petto che trasmette un video su uno specchio inclinato che lo rimanda verso l’alto, sulle grate coperte di plastica traslucida. In questo modo gli spettatori al piano superiore osservano il video dalle grate. Nel secondo, all’esterno, è Luisa Cividin ad indossare la videocamera sul petto mentre corre lungo le pareti dell’edificio. Una prima ricostruzione della performance è nella recensione Rossella Bonfiglioli, Cividin-Taroni. Sixto-Notes/Milano, in «Flash Art», nn. 94-95, gennaio-febbraio 1980. Si veda anche la pagina web dedicata ad Intervallo al Limehouse 2 [ultimo accesso 24.III.2022].
  11. È da evidenziare come questo dato emerga soprattutto nelle performance delle artiste visive, mentre in quelle di gruppi teatrali come Le Nemesiache e le The a tre la questione femminista ha un maggio rilievo. Per una prima ricognizione di questa anomalia italiana nel contesto della performance art rimando a Francesca Gallo, Temi di genere nelle pratiche performative delle artiste, in Italia, in Bussoni I., Perna R. (a cura di), Il gesto femminista. La rivolta delle donne: nel corpo, nel lavoro, nell’arte, DeriveApprodi, Roma 2015.
  12. Sulla conferenza come formato assunto nella performance art e sulle sue possibili implicazioni politiche si veda Daniele Vergni, Discussioni e conferenze come performance negli anni Settanta, in «Sciami|ricerche», a. V, n. 10, ottobre 2021.
  13. Audioworks è concentrata soprattutto sulle installazioni sonore e le produzioni audio su nastro. Le prime presentate da John Duncan, Roberto Taroni, Cioni Carpi, Lanfranco Baldi, Giuseppe Chiari, Ferruccio Ascari, Gianni Emilio Simonetti e Walter Marchetti; le seconde di Ant Farm, BDR Ensemble, Nancy Buchanan, Chris Burden, Dal Bosco-Varesco, Guy de Coinet, John Duncan, Douglas Huebler, Laurel Klick, Laymen Stitfield, Paul Mc Carthy, Fredrik Nisen, Barbara Smith, Demetrio Stratos.
  14. Cfr. W. Hellermann, Sound/art, cat., The Sculpture Center, The Foundation, New York 1983.
  15. Cfr. Sonorità prospettiche. Suono Ambiente Immagine, a cura di Roberto Taroni, Franco e Roberto Masotti, Veniero Rizzardi, cat., Sala Comunale d’Arte Contemporanea, 30 gennaio-15 marzo 1982, Rimini 1982.
  16. Roberto Taroni si riferisce qui a Splatter, di Luisa Cividin, Roberto Taroni. Sceneggiatura e testi di Roberto Taroni. Ambiente meccanizzato e computerizzato, oggetti mobili e gonfiabili di Roberto Taroni. Video di Roberto Taroni. Musica di Maurizio Marsico. Graphic Design di Massimo Mattioli. Vestiti-oggetto di Fiorella Mancini. Con Mario Benini, Luisa Cividin, Marisa Miritello, Enrico Pagani, Harley Price, Massimo Soriani, Laura Tiozzo. Filmopera in 14 sequenze presentata al CRT di Milano e al Teatro Dante Alighieri di Ravenna nella primavera 1984. Cfr. http://www.taroni-cividin.org/performance-28 [ultimo accesso 11.III.2022].
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artista visivo.

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Daniele Vergni, dottorando in Spettacolo presso la Facoltà SARAS dell'Università La Sapienza di Roma, si occupa di Performance Art e del Nuovo Teatro Musicale in Italia nella seconda metà del Novecento. È redattore della rivista «Sciami|ricerche», membro del gruppo Acusma e di Nuovo Teatro Made in Italy, diretti dalla Prof.ssa Valentina Valentini. Collabora con la rivista «Artribune» e ha collaborato con «Alfabeta2». Tra le sue pubblicazioni Nuovo Teatro Musicale in Italia (1961-1970) (Bulzoni, 2019). Per il progetto ERC “INCOMMON In praise of community. Shared creativity in arts and politics in Italy (1959-1979)” diretto dalla Prof.ssa Annalisa Sacchi ha pubblicato il saggio Fare Musica. L’azione “teatrale” di Giuseppe Chiari negli anni Sessanta (in Ilenia Caleo, Piersandra Di Matteo, Annalisa Sacchi (a cura di), In fiamme. La performance nello spazio delle lotte (1967-1979), Bruno Editore, Venezia 2021, pp. 360-369).