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Lampi e rivelazioni. Fotografia

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https://doi.org/10.47109/0102290110

Tacita Dean, Floh, 2001. Fotografia trovata.

ABSTRACT

La fotografia, ormai è un luogo comune, è “scrittura di luce”; ma la luce fa molti scherzi: sovraesposizioni, sottoesposizioni, ombre non volute, colpi di luce che bruciano la pellicola, negativi rovinati, stampe maldestre… “Errori” o modalità espressive: sono l’argomento della mia proposta. Ci sono artisti che hanno sfruttato questi effetti — per esempio Mark Borthwick, Rinko Kawauchi, Tacita Dean – che dominano nelle fotografie degli “album di famiglia” e dei “mercatini delle pulci”, cioè nella fotografia anonima e involontaria. Quest’ultima interessa in modo particolare, perché è doppiamente rivelatoria: da un lato rivela significati inconsapevoli, imprevisti, “trovati”; dall’altro rivela uno statuto dell’immagine fotografica a sua volta impensato, o comunque problematico, rispetto alle interpretazioni più consolidate. Da Jean-Christophe Bailly a Clément Chéroux, da Michel Frizot a Mark Godfrey, gli spunti teorici che si raccolgono intorno a questo argomento vanno dall’ontologia, alla tecnica, all’estetica.

La fotografia, è ormai un luogo comune, è “scrittura di luce”; ma la luce fa molti scherzi. Basta guardare dentro le raccolte personali di qualsiasi fotografo non professionale – un tempo detti album di famiglia, ora siti e social – per trovare sovra o sottoesposizioni, ombre non volute, colpi di luce che bruciavano un tempo la pellicola e oggi i pixel; e ancora negativi rovinati, stampe maldestre, insomma ogni genere di quelli che un certo modo di intendere la fotografia qualifica come errori.

Clément Chéroux ha scritto un libro diventato famoso sull’argomento. Gli “errori” riguardanti la luce figurano nell’elenco che l’autore mette a punto, come: «la pellicola o la stampa (épreuve)è velata, sovra o sottoesposta»1. Poi, stranamente, neppure un paragrafo viene dedicato alla luce, mentre sono presi in esame più dettagliatamente errori di spazio, di tempo, le sovrapposizioni, l’“auto-ombra”, le casualità e altro, e mentre peraltro – tra le bellissime fotografie sbagliate a colori che incorniciano il libro, poste in apertura e chiusura fuori testo – 6 su 10 sono proprio effetti luminosi. Forse non è un caso: la luce fa problema. Per essa, valgono tutte le osservazioni riservate da Chéroux agli altri errori, che da un lato sono rivelatori e dall’altro sono stati assunti successivamente in contesto artistico come caratteri espressivi; e, soprattutto, che per molti aspetti il loro significato dipende dalla ricezione, dai criteri culturali e interpretativi con cui li si affronta.

Però, le fotografie con effetti luminosi involontari rivelano forse anche qualcosa di imprevedibile che c’è sempre nella fotografia, e che essa non è affatto quella registrazione meccanica oggettiva, senza errori, che siamo soliti credere; qualcosa interviene sempre a cambiarne la percezione, all’interno o da fuori. Basta che la luce cambi e l’intera scena si trasforma, ogni fotografo lo sa. Uno degli errori più vistosi è poi quello di un fascio luminoso che si rende visibile e penetra da un lato nell’immagine. Questo fascio, ci chiediamo allora, esiste o non esiste? Esiste allo stesso titolo delle “cose” riprese nell’immagine? Fa parte della stessa oggettività e registrazione? Se sì, allora letteralmente non esistono fotografie errate, non esistono errori, tutto è come appare. Ma, al tempo stesso, questo apparire non è lo stesso della rappresentazione mimetica. Se dunque la risposta è no, allora c’è qualcosa nell’errore che rende il reale di fatto imprevedibile: capita sempre qualcosa che non è sotto il controllo della nostra idea di realtà. La luce è un elemento fuori controllo, e per questo ha un fascino irresistibile: qualsiasi effetto luminoso crea meraviglia e sembra rimandare a un senso ulteriore. L’errore luminoso porta tutti i caratteri della fotografia al loro limite e allude d’altro canto a una dimensione altra, fuori di sé, per dirla con Maurice Blanchot, o infrasottile, per dirla con Marcel Duchamp.

È appunto in questo senso, in queste direzioni, che gli effetti luminosi sono stati assunti da fotografi come Mark Borthwick e Rinko Kawauchi. Il primo – immerso nel pensiero alternativo da West Coast americana, incentrato su libertà, giovinezza, pace, amore, natura, musica – usa la luce come simbolo ed espressione di queste. Così, scatta sovente con il sole in faccia, o con riflessi che alterano la resa a fuoco, sovraesposizioni di ogni genere e bruciature di fine rullino, per inondare di luce ogni scena. L’effetto è affascinante, mai gratuito o sprecato. Cattura e coinvolge l’osservatore, che si immerge nell’atmosfera dell’immagine, vivendola dall’interno; è luminosa e illuminante. D’altro lato, è una modalità che dice il carattere accecante, o inebriante, di ogni evento visivo, per cui non c’è visione senza qualche forma di «perdita di controllo», dice Borthwick, assumendola «come un gioco mentale che ti dà l’opportunità di perderti un po’»2. Non c’è memoria senza oblio, anzi c’è solo “vissuto”: il momento non è fissato per essere ricordato, ma per diventare immagine attiva, evocativa. Infine, c’è una trasfigurazione che si configura come sintesi di corpo e spiritualità, come questo tipo di pensiero, anzi di scelta di vita, si propone. Proprio per la sua indefinibilità e ambivalenza, materia sottile ed energia immateriale, corpuscolare o ondulatoria, reale ma inafferrabile, la luce manifesta la stessa duplicità di ogni realtà.

Mark Borthwick, <em>Us two</em>, Costa Rica, 2007.
Mark Borthwick, Us two, Costa Rica, 2007.

Kawauchi va per così dire nella direzione opposta: quella della meraviglia, di fronte all’accadere di un reale che diventa immediatamente simbolico, di un microevento che si trasforma in metafora assoluta, cioè totale, sotto l’occhio incantato dello spettatore; è illuminazione, momento di scoperta. La fotografia è come un haiku. La luce è allora “illuminance”, luminescenza, emanazione, irradiamento dall’oggetto, piuttosto che ricezione passiva. Anche in questo caso, a volte acceca, «oscura almeno quanto rivela; riflette; penetra; smaterializza; e rende le cose invisibili. E in alcune immagini, la luce è tutto ciò che resta», come sintetizza David Chandler. Proseguendo: «La qualità della luce e della leggerezza risuonano nel lavoro di Kawauchi. Le sue fotografie suggeriscono spesso la trasparenza e la leggerezza: sono piene di aria, di volo, di fragilità e prive di sostanza»3. C’è nella sua fotografia un senso dell’impermanenza, della transitorietà, tipicamente orientale, che non corrisponde a quanto noi occidentali intendiamo con gli stessi termini, perché non comporta senso di perdita ma al contrario convinzione, dunque gioia della sua percezione.

Rinko Kawauchi, <em>Illuminance</em>, 2011. Fotografia a colori.
Rinko Kawauchi, Illuminance, 2011. Fotografia a colori.

Così sintetizza Kawauchi il proprio atteggiamento fotografico: «Quando fotografo, sento veramente di trarre energia dal soggetto»4. Il raggio di luce è dunque anche il segno visivo di questa energia. È questo che l’artista coglie, ciò che trasfigura le immagini anche più semplici e quotidiane, spesso al limite dell’album di famiglia, del diario personale. Tutto diventa potente, perché il suo significato è totale e al tempo stesso intimo, frutto di uno sguardo che coglie l’accadere del senso. La luce è il senso.

Jean-Christophe Bailly, da parte sua, interpreta questa identificazione in un altro modo; nel suo caso, con una discrezione che pare necessaria a questo genere di riflessioni. Se non esita infatti a fare della bomba atomica un flash all’ennesima potenza e apocalittico (che rende tragicamente reali tutte le metafore dello shot, dello scatto-sparo, del raggio che uccide)5, d’altro canto punta a come la luce faccia emergere non gli oggetti, ma piccoli segni fluttuanti che rivelano – piuttosto che un intreccio, che un racconto – quella che egli chiama la «messa in vibrazione del senso»6. Quest’ultimo infatti non è qualcosa di dato, da identificare e di cui appropriarsi, bensì «il fondo enigmatico dell’universo che si mette a lampeggiare»7. Questo fondo è enigmatico non perché misterioso o vago, ma perché non può che manifestarsi lampeggiando: questo è il modo in cui ci si manifesta. Lungi dall’essere un’esitazione o una vaghezza, questa pulsazione è un linguaggio. Così, questi segni luminosi, prosegue Bailly, «ci parlano e, senza che sappiamo subito quello che ci dicono, noi intuiamo che attraverso di essi il reale parli la sua vera lingua o almeno quella che ci rivolge personalmente»8. La luce e il senso condividono lo statuto di vibrazione: la luce fa vibrare il reale, lo fa parlare per noi; così, il senso viene alla luce, come si suol dire. La luce lo fa “personalmente”, rivolgendosi a ciascuno, come un incontro. La fotografia è questo incontro, lo scatto, la scrittura che lo cattura.

La fotografia, che solitamente intendiamo come registrazione della realtà, ne è invece esattamente la visione; è l’immagine che ci restituisce cioè uno sguardo che vede la realtà diversamente; o, se si preferisce, mostra che c’è modo di vederla diversamente. La stessa realtà, non un’altra; la realtà stessa, non l’immaginazione, non l’invisibile, non il trascendente. Non è la luce come emanazione divina quella di cui si parla qui, non quella caravaggesca, non quella drammatica, ma casomai quella che appare per errore, si diceva, non per calcolo; inattesa, in un incontro non fissato benché latente nella predisposizione di chi guarda; per “caso oggettivo”, direbbe con felice ossimoro André Breton.

Veniamo allora agli effetti di luce “trovati”, ovvero proprio a quegli errori che inducono solitamente a scartare le fotografie come non riuscite, inutili. Come ricorda Chéroux, spesso i laboratori si rifiutavano di stamparle9, ma molte sono state conservate nonostante tutto negli album di famiglia. Certamente, non lo sono state per motivi estetici, ma perché qualcosa comunque rimaneva e l’affetto è più forte della regola. Molte poi sono finite nei mercatini delle pulci e, come nel racconto appunto di Breton10, hanno incontrato gli sguardi di chi vi ha visto altro. C’è chi le ha collezionate per sé; ci sono altri, artisti, che le hanno integrate in loro opere in operazioni rubricate sotto la denominazione di found photo.

Ve ne è tutta una casistica, ampiamente studiata da diversi autori, molto ben ripercorsa e riassunta da Mark Godfrey in un suo saggio, nel libro Floh dell’artista Tacita Dean, composto di sole fotografie trovate appunto (come dichiara il titolo) nei mercatini delle pulci (e, a sua volta, ulteriore sorta di mercato delle pulci, per noi lettori). La disamina che Godfrey mette in campo punta a dire che quella di Dean è un’operazione diversa dalle altre:

Non stava usando le fotografie trovate per dequalificare la fotografia, non stava riflettendo sulla differenza tra fotografie di famiglia e altri generi di fotografie. Non si stava appropriando di immagini già note per cambiare il loro significato assodato, non stava realizzando uno studio antropologico. Il suo non era un archivio che rivendicava lo stato di falso documentario, né era in alcun modo evidente un’impresa fittizia o un’indagine sulla finzione. Le fotografie, in altre parole, non erano davvero trovate o presentate per eventuali secondi fini subito manifesti. “Ciò che vedi è ciò che vedi”: le immagini sono solo lì, raccolte nel libro. Ma sicuramente si può dire di più11.

Non si giudichi superfluo l’elenco e la precisazione, perché sono anzi essenziali per quanto stiamo rilevando: ci vuole quel tipo di intenzione e quel genere di sguardo, quello che considera anche l’aspetto letterale di ciò che vede, per cogliere l’effetto della luce che andiamo inseguendo. Si tratta di uscire dalle funzioni elencate per sintonizzarsi su altro, proprio sull’altro che è nello stesso.

Tacita Dean, <em>Floh</em>, 2001. Fotografia trovata.
Tacita Dean, Floh, 2001. Fotografia trovata.

Dunque, per quanto riguarda gli errori e le luci, due sono le questioni che Floh pone secondo Godfrey, naturalmente legate fra di loro. La prima è che «in ogni caso queste fotografie trovate ci inducono a riconsiderare molti dei presupposti della teoria classica della fotografia, in particolare la relazione tra indessicalità della fotografia e le sue capacità documentarie. Le fotografie possono essere impronte di luce su carta fotosensibile, ma questo dà poche garanzie in termini di iconicità»12. La seconda è: perché i proprietari hanno conservato queste fotografie sbagliate, e non le hanno gettate? Da un lato, c’è una «dimensione irrazionale dell’uso della fotografia», che è forse intrinseca allo statuto stesso della fotografia; dall’altro, queste fotografie sono delle «sopravvissute»13; ma, aggiungiamo noi, di un tipo speciale: forse la luce – e anche l’errore – ha un potere salvifico, rivivificante. In fondo è come se non si osasse gettare ciò che è luminescente, ciò che nell’errore – lo sentiamo intuitivamente, se non consapevolmente – lascia emergere qualcos’altro. Oggi è così; oggi, cioè da quando esiste la fotografia.

Giustamente, Joan Fontcuberta fa notare che con il digitale e il social le cose sono cambiate. Innanzitutto, l’uso:

Prive di ambizioni visive e orfane di una qualunque estetica, queste istantanee imprecise non hanno altro obiettivo che essere parte di una documentazione personale temporanea. L’inesperienza dei loro creatori, unita all’urgenza della loro produzione, conduce nei risultati a una serie di “errori”14.

Ma, d’altro canto, con il digitale – se il risultato non è soddisfacente – lo si può semplicemente cancellare, senza alcun costo. Dunque, se l’istantanea viene “postata” è perché «assolve al suo compito»15.

Il risultato è un “limbo” estetico «caratterizzato dall’assumere tutti i canoni; oppure, il che è lo stesso, sembra mancare di un canone»16. Ne scaturisce forse una nuova estetica, che sia dell’imperfezione o antifotografica, secondo Fontcuberta; ma forse anche “intrafotografica”, tale cioè da configurarsi intorno a caratteri fotografici comunque peculiari, specifici addirittura del medium, ma senza diventare né regola né canone. È, anche in questo senso, un vedere diverso, che si profila all’interno dell’uso stesso della fotografia.

Ne è un esempio quello che presenta Fontcuberta proseguendo il suo discorso, e che riguarda proprio la luce. Un capitolo a parte, scrive, merita l’uso del flash, ovvero il suo uso “sbagliato”. A parte quello ingenuo – comunque interessante e, pare, molto diffuso – di scattare col flash dai gradini di uno stadio o verso gli schermi che proiettano un film, evidentemente non rispondente alle aspettative – c’è quello usato nelle fotografie allo specchio, che Fontcuberta chiama “riflessogrammi”:

In questi casi, il lampo del flash produce davanti all’obiettivo della macchina fotografica un potente controluce che vela zone consistenti dell’inquadratura e dà origine a strani bagliori fantasmatici. Paradossalmente, la fonte d’illuminazione, che dovrebbe rendere fattibile la ripresa, non fa che accecare – parzialmente – la fotocamera17.

La cosa è interessante, dice Fontcuberta, perché permette di nascondere alla vista alcune parti, soprattutto quelle intime, o il viso, in una sorta di garanzia di pudore o di autocensura. Ma noi chiediamo: nascondere o, in altro senso, esaltare? Una testa o un sesso brillanti, luminescenti, non sono simbolici e rivelatori? La luce, cioè, vi fa il suo corso anche senza intenzionalità: un intra-canone si insinua tra le convinzioni e le trasgressioni e si elabora al di fuori di esse. Forse, un infra-canone – nel senso dell’infrasottile duchampiano, cioè al limite del percepibile, eppure reale – che “sposa”, dice Duchamp, due elementi senza identificarsi con essi; andando piuttosto a costituirne un terzo, che li contiene e mantiene, nello stesso modo in cui il fumo di una sigaretta sposa il profumo della sigaretta con quello della bocca che lo emana, come nell’esempio duchampiano più famoso. La luce sposa ciò che è rappresentato, potremmo dire anzi ciò che rende visibile, con qualcos’altro cui rimanda, con il suo rendersi visibile.

Quello che infatti fanno questi lampi, questi fasci di luce, è rendere visibile la luce come una presenza, come qualcosa di visibile a sua volta, quasi una sostanza, come un’aura. Questa rivelazione non resta fine a sé stessa, fissata come una qualsiasi rappresentazione, ma vibra e fa vibrare, illumina e irradia, si trasmette all’occhio e alla mente di chi guarda. Ne fa un “occhio ardente”, come intitola un suo libro Dominique T. Pasqualini, trasfigurando l’errore degli occhi rossi nella metafora di un altro sguardo18.

Per dirla con le parole di Michel Frizot, che qui parla dal punto di vista dell’osservatore:

Questo troppo-pieno [di immagini] è diventato per noi una fonte di sorpresa. Il nostro sguardo si sorprendeva di trovarvi delle evocazioni intime e familiari, raramente viste fino ad allora in immagini: reminiscenze di posture, vacillamenti, fantasticherie, slanci, indecisioni. Che cosa ci può essere in queste fotografie anodine, prese da sconosciuti, che si gusta allo stesso modo di un sapore e persiste come un enigma?

E ancora:

Ci è parso che esse testimonino un “proprio” dell’uomo che sarebbe sfuggito alla pittura, al cinema, alla fotografia d’autore. Qualcosa di umile e di prezioso, di fragile e di primordiale sembra scivolare in queste immagini. Tra le nostre mani di fotografi della domenica, la macchina fotografica è imprevedibile, cogliendo ciò che vogliamo fissare ma sotto delle apparenze inattese.

Ed ecco l’aspetto per noi cruciale:

Queste immagini permettono di vedere al tempo stesso le intenzioni di chi scatta la foto e ciò che, per inabilità o trascuratezza, vi si sottrae. È dunque questo che la fotografia trasmette meglio: l’incontro delle nostre intenzioni con tutto ciò che vi si sottrae19.

È questo ciò che non si era mai guardato e visto, e che l’errore luminoso dà a vedere.

Anonimo. Fotografia in bianco e nero.
Anonimo. Fotografia in bianco e nero.
  1. Clément Chéroux, L’errore fotografico. Una breve storia, trad. Rinaldo Censi, Einaudi, Torino 2009, p. 19 (Fautographie. Petite histoire de l’erreur photographique, 2003).
  2. Mark Borthwick in Elio Grazioli, Riccardo Panattoni (a cura di), Fotografia Europea: Incanto, Electa, Milano 2010, p. 66.
  3. David Chandler, Weightless Light, in Rinko Kawauchi, Illuminance, Postcart, Roma 2011.
  4. Rinko Kawauchi, Intervista con Machiel Botman, in Mizu no Oto – Sound of Water, a cura di 3/3, Acca & Partners, Roma 2011, p. 12.
  5. Vedi Jean-Christophe Bailly, L’istante e la sua ombra, trad. Elio Grazioli, Bruno Mondadori, Milano 2008.
  6. Jean-Christophe Bailly, Documento, indizio, enigma, memoria, trad. Elio Grazioli e Riccardo Panattoni (a cura di), Not straight. Documento, piega, inganno, Moretti & Vitali, Bergamo 2015, p. 24.
  7. Ivi, p. 25.
  8. Ibidem.
  9. Clément Chéroux, L’errore fotografico, cit., pp. 28-29.
  10. André Breton, L’Amour fou, trad. Ferdinando Albertazzi, Einaudi, Torino 1974, pp. 25-26.
  11. Mark Godfrey, Fotografia trovata e persa: Floh di Tacita Dean, trad. in Elio Grazioli, Riccardo Panattoni (a cura di), Sovrapposizioni. Memoria, trasparenze, accostamenti, Moretti & Vitali, Bergamo 2016, p. 165.
  12. Ivi, pp. 168-170.
  13. Ivi, p. 174.
  14. Joan Fontcuberta, La furia delle immagini. Note sulla postfotografia, trad. Sergio Giusti, Einaudi, Torino 2018, p. 110.
  15. Ivi, p. 112.
  16. Ibidem.
  17. Ivi, pp. 112-113.
  18. O in un altro occhio, in senso lacaniano? Per una interpretazione in questa direzione si veda Riccardo Panattoni, Diritto: nell’errore perfetto, in Elio Grazioli, Riccardo Panattori (a cura di), Not straight, cit., pp. 39-48.
  19. Michel Frizot, Photo trouvée, a cura di Cédric de Veigy, Phaidon, Paris 2006, p. 3. Il libro ha avuto, otto anni dopo, una versione espositiva in cui Frizot ha cercato di classificare le modalità e gli effetti di questo “enigma”: Michel Frizot, Toute photographie fait énigme, Hazan, Paris 2014 (catalogo della mostra, Parigi, Maison Européenne de la Photographie, 12 novembre 2014-25 gennaio 2015).
Author

Elio Grazioli è critico d’arte contemporanea e di fotografia. Insegna Storia dell’arte contemporanea all’Università degli Studi e all’Accademia di Belle Arti di Bergamo. Dirige con Marco Belpoliti la collana “Riga” (Quodlibet, Roma). Tra i libri che ha pubblicato: Corpo e figura umana nella fotografia (1998), Arte e pubblicità (2001), La polvere nell’arte (2004), Piero Manzoni (2007), Ugo Mulas (2010), La collezione come forma d’arte (2012), Duchamp oltre la fotografia (2017), Infrasottile (2018), Arte e telepatia (2020).

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