Il saggio prende in esame un periodo breve del fenomeno Performance art, o arte del comportamento, quello compreso fra il 1967 fino alla metà degli anni ’70, un periodo caratterizzato da una fase euforica, esplosiva seguita da un momento implosivo, analitico, di abbandono degli spazi non convenzionali a favore di quelli tradizionalmente espositivi. Convocando punti di vista critici di studiosi stranieri, il saggio si interroga sui tratti che definiscono una identità italiana e “romana” (Fabio Mauri, Luca Patella, Vettor Pisani, Gino De Dominicis, Jannis Kounellis) del fenomeno che rintraccia nella natura interdisciplinare nell'uso di media tecnologici, nel ricorso alla mitologia, alla storia dell’arte, a simbologie alchemiche, nell'ironia che aggredisce il ruolo dell’artista e soprattutto nel riferimento costante alla pittura.
L’uso artistico del termine performance si è affermato, si è diffuso ed è stato generalmente riconosciuto negli anni ‘701. In Italia, è stato affiancato alla nozione di “comportamento” – confondendosi con questa – emersa alla fine degli anni ‘60, che verrà poi identificata come area operativa specifica: l’ “arte del comportamento”. L’effetto detonante che la rivoluzione culturale del ‘68 ha avuto sulle neoavanguardie artistiche ha provocato un generale processo di revisione della struttura dell’arte, sia nelle sue coordinate interne che nei suoi rapporti con la società.
The French revolutionary events of 1968 caused a temporary stir in a petrified situation. In the field of artistic work this meant the art an integral part of political and social activities. There was no more room for the old, idealistic concept of the art-work as a subtitute world for merely contemplative use, or as a self-contained microcosm. Praticed as performance, art became ephimeral and fragmented like all the other activities of life. In contrast to the traditional painter or sculptor the performance artist was not concerned anymore with the organization of colours and masses but rather attempted to provoke a new awareness of social habits and to create interrelation between various patterns of cultural behaviour. In traditional art, market and exhibition mechanism had separated the artist from the people: performance art aimed at bringing the back together2
Se gli anni ‘70 sono stati gli anni di affermazione e di riconoscimento di questa pratica delegittimante, che ha ridefinito la prassi artistica scardinandone i generi preesistenti – i «golden years della performance»3, come li ha definiti Rose Lee Goldberg – è stato proprio alla fine degli anni ‘60 che si sono affermati alcuni elementi che avrebbero costituito il contesto della performance. Un contesto, peraltro, molto eterogeneo, difficile da definire, soprattutto nella sua fase iniziale. Ne sintetizziamo i tratti – desunti dagli eventi esaminati:
- Innanzitutto, il riscatto dell’estetico sull’artistico e quindi il recupero di tutte le aree – sensoriali, fisiche, psichiche e anche mentali – dell’artista nell’atto creativo, della sua pienezza esistenziale, antropologica; il che implicava, naturalmente, anche un coinvolgimento del fruitore.
- L’atteggiamento consapevolmente eversivo dell’artista, e perciò critico, nei confronti del sistema (culturale, sociale in genere) e della struttura tradizionale dell’opera d’arte.
- Il binomio fisico-mentale: non più opposizione tra le due sfere, convenzionalmente distinte, ma compenetrazione tra il pensare e l’agire. L’idea trovava, così, una corrispondenza immediata e ottimale nella prassi e, in questo modo, acquisiva una consistenza progettuale, sperimentale: era concepita in funzione di una sua prossima e ipotetica attuazione.
- Interazione tra strutture, campi diversi, convergenze degli opposti: oltre a pensiero e azione anche “alto” e “basso”, arte e vita, natura e cultura, primario e secondario, etc. Assai interessante, a questo proposito, l’esperienza dello Zoo di Michelangelo Pistoletto, che si era proposto di operare in una zona liminale, al confine tra i diversi specifici, al di fuori delle strutture codificate.
- Disponibilità all’uso di tutti i materiali, senza discriminazione qualitativa e atteggiamento democratico, antindividualistico, nel senso di antispecialistico (come in Fluxus e in Beuys). È determinante ricordare che la possibilità di impiego di qualsiasi linguaggio o medium non era intesa come adattamento dell’artista alle caratteristiche dello strumento, semmai, comportava «…la riduzione del medium all’urgenza di un moto, di un pensiero, di uno stile di vita, che vuole comunicarsi intatto»4, cioè al “comportamento” dell’artista stesso.
- Il corpo dell’artista, la sua presenza fisica, tangibile di fronte al pubblico come possibilità di instaurare con esso una comunicazione immediata, paritaria.
- La processualità, il farsi dell’opera, come perno di una nuova struttura artistica, organica.
- Effimericità dell’azione, del processo, che sfugge alla conservazione ed è destinato a restare soltanto (soprattutto) nella memoria di chi ne fa esperienza.
- Un rapporto concreto con lo spazio, in generale, e in particolare con quello della galleria, ma anche ideologico (qui risulta profetica e illuminante l’esperienza de Il Teatro delle Mostre).
- Ampia libertà d’uso dello spazio e del tempo, nella volontà di ridefinire le coordinate spazio-temporali dell’atto artistico: per cui una mostra poteva avere un tempo serale anziché diurno – Il Teatro delle Mostre – e un garage poteva essere utilizzato come luogo espositivo (l’Attico di via Beccaria).
L’atteggiamento vitalistico, “esplosivo”, il clima degli anni ‘67-’69, all’ingresso degli anni ‘70, veniva rimpiazzato e ridimensionato da una tendenza contraria, analitica, “implosiva”.
Ma appunto già nei primi anni ‘70 si avverte che l’effetto “esplosivo” di una ricerca artistica decisa ad uscir fuori da tutte le istituzioni tradizionali (il “quadro”, la superficie dipinta da appendere alla parete, la scultura in materie plastiche nobili) e ad occupare smisurate estensioni materiali, oppure a rinunciare quasi del tutto agli agganci sensibili per animare gli spazi della mente, è giunto al massimo del suo sviluppo e sta rapidamente logorandosi […]. Pertanto il “picco” esplosivo non poteva non partorire quasi da se stesso un picco uguale e contrario di “implosione”, cioè una corsa in dentro della ricerca, un muovere ansioso a recuperare le proprie origini, la propria storia5.
La dichiarazione di Barilli riguardava in special modo la realtà italiana, l’impostazione critica, ideologica assunta dagli artisti operanti nell’area del “comportamento”.
Anche nei confronti della natura, e quindi del rapporto natura-cultura, l’atteggiamento dell’artista – del “comportamentista” – acquisiva toni problematici. Rispetto agli artisti “poveri”, che avevano assunto materiali e processi naturali, fiduciosi nella portata eversiva che le nuove materie avrebbero sviluppato una volta inserite nello spazio dell’arte, la nuova generazione di artisti indagava sul rapporto natura-cultura, usando, ad esempio, l’arte per superare limiti biologici (De Dominicis) oppure rilevandone la drammaticità del rapporto (Vettor Pisani)6. Gli stessi artisti “poveri” spostavano il proprio fare verso posizioni più “introverse”, o comunque verso un discorso assolutamente personale. Mario Merz, che aveva fatto propria una legge fisico-matematica, quella dell’abate medioevale Fibonacci – basata su una progressione numerica determinata da un ritmo biologico – l’applicava non più solo ad elementi naturali, ma a diversi generi di interventi, anche in tempo reale e in contesti sociali, come l’azione sulla laguna presente alla Biennale di Venezia del ‘72, all’interno della sezione dedicata al “comportamento”7. Eliseo Mattiacci ripiegava sul rilevamento personale del proprio corpo, esponendosi al pubblico con busto e braccia ingessate, oppure presentando una coperta mossa da pulsatori elettrici (tracce del corpo dell’artista) o, ancora, mostrandosi con una benda che lo privava di tutti gli organi sensoriali – occhi, bocca, orecchie – per lasciare attiva solo la mente (Pensare il pensiero, 1973). Jannis Kounellis sceglieva la via del mito, della storia, utilizzando spesso i linguaggi primari della musica e della danza, inseriti nello spazio dell’arte (non più pittorico, ma reale). Claudio Cintoli, che aveva già eseguito azioni elementari realizzate mediante l’uso di materiali quali Annodare e Colare colore (1969), adottava figure e tematiche archetipiche come la crisalide, l’uovo, la nascita, il sesso, il sangue, il volto etc. sulle quali elaborava i propri interventi, stimolando nel pubblico una forte partecipazione emozionale8.
Un altro dato caratterizzante questo effetto “implosivo”, era il ritorno degli artisti dagli spazi aperti ai luoghi chiusi, alle gallerie, ai musei e anche alle esposizioni tradizionali come la Biennale di Venezia: «Initially performance took place in public streets and squares. More recently, however, following the decline of the revolutionary movement, performance art retired to the gallery and museum sphere»9. Fabio Sargentini, sempre attento ai mutamenti in corso, apriva un locale di dimensioni più ridotte e, soprattutto, convenzionali, in un antico palazzo di via del Paradiso, nel 1972. Nello stesso anno, la Biennale di Venezia dedicava una sezione espositiva alle manifestazioni di “comportamento”. Soprattutto in Italia, la dimensione della galleria si sarebbe dimostrata la più congeniale rispetto all’attività degli artisti-performer italiani; attività che restava prevalentemente legata alla matrice pittorica (di provenienza). Ha scritto infatti Caroline Tisdall sulla performance italiana: «Its highly evolved and stagey separateness from the streets reflects the opposition of the avant-garde artist in Italy. His world is the world of private and highly competitive galleries, some of them like Sperone and the Attico high up on the top floors of Nice Style’s Baroque Palazzo, and as impenetrable to the run-of-the mill pubblic as a private drawing room»10.
La galleria, la superficie pittorica – e in genere la struttura dell’opera d’arte – rimanevano, dunque, un punto di riferimento obbligato dal quale uscire – da superare, sovvertire –, ma verso il quale anche rapportarsi costantemente.
Ha scritto l’artista Fabio Mauri a proposito di una sua performance del 1975, Oscuramento: «Si avvertiva l’area della galleria come naturale. Si stimava a fondo il comportamento di quel pubblico, di galleria. A proprio rischio si cercava di ridurre tale tipo di intervento anche fuori del luogo fisico della galleria»11. Questo “ritorno al museo” era stato accolto con particolare interesse, come un evento positivo, dal critico Achille Bonito Oliva. Egli riscontrava, infatti, una maggiore adeguatezza dello spazio convenzionale rispetto al “comportamento” degli artisti italiani, nel quale era molto forte la coscienza del “negativo”, cioè della propria separatezza, alterità rispetto al reale (in quanto artisti). L’ambiente circoscritto della galleria o del museo avrebbe offerto una maggiore capacità di concentrazione e, quindi, di riflessione e di consapevolezza, sia all’artista che al fruitore: «La problematicità dell’arte contemporanea nasce proprio dal livello politico che l’arte assume su se stessa. E allora i musei, le istituzioni, lo spazio chiuso del museo può essere lo spazio dove il pubblico trova quella concentrazione giusta per poter avere quell’impatto problematico con l’opera d’arte contemporanea»12. Il recupero di una maggiore concentrazione fisica dello spazio, che determinava, oltre ad un atteggiamento più riflessivo dell’artista, anche un riavvicinamento tra lui e lo spettatore, nel senso di un contatto più stretto e quindi di una migliore comunicazione, non era certo un privilegio esclusivo dei “comportamentisti”, ma caratterizzava, in genere, le performance degli anni ’70 (della prima metà soprattutto); ad esempio quella della bodiartista Gina Pane.
«Gina Pane dopo il 1970 torna dallo spazio-natura aperto allo spazio chiuso della galleria o dello studio. La sua prima azione in cui si ferisce Escalade (1971) è stata eseguita dapprima nello studio di fronte a pochi amici, quindi nella galleria. Gina spiega la sua metamorfosi di abbandonare lo spazio dove ha operato per quasi due anni: “nello spazio spesso mi trovavo in una posizione solitaria, cioè mi mancava la comunicazione e questa per me non era un’alternativa poiché non poteva costruire e riflettere la mia immagine del corpo”»13.
L’attività di performance è stata propriamente situata tra Body Art e Conceptual Art14, tra Body Art, performance “concettuale” e movimento femminista15. Per quanto riguarda più specificamente l’Italia, riteniamo opportuno collocare la performance – e quindi determinati “comportamenti” che sono stati definiti, o si possono definire performance – all’interno dell’area del “comportamento” – inteso nella sua accezione più larga che include l’Arte Povera, l’Arte Concettuale, la Land Art, la Body Art16 – al confine degli atteggiamenti ‘vitalistici’ del ‘68-’69 e la nuova tensione ‘implosiva’ degli anni ‘70. È in questi anni, infatti, che comincia a diffondersi, applicato agli interventi, alle azioni realizzate dagli artisti operanti nell’area del “comportamento”, l’uso del termine performance. Nel ’72 al Festival di Spoleto, viene presentata una sezione intitolata Filmperformance all’interno della quale partecipavano i “comportamentisti” Gino De Dominicis, Luciano Fabro, Mario Merz, Luigi Ontani, con alcuni filmati che consistevano nella ripresa di interventi, di azioni compiute dall’artista e venivano anche proiettati i film sulle rassegne di musica e danza realizzate all’Attico nel ’69 e nel ’72. Negli anni ‘73-’75 si parla sempre più spesso di performance riferite agli artisti visivi17. Maurizio Calvesi associa l’espressione performance all’attività dei “comportamentisti” alle loro operazioni: «…le performance dei “comportamentisti”»18. Barilli19 definisce performance alcune operazioni “poetiche”, o comunque legate all’uso della parola orale, presentate all’interno della rassegna Parlare e Scrivere (Roma, galleria la Tartaruga, 14-18 aprile 1975) tra le quali quelle del romano Luca Patella e dell’artista fiorentina Ketty La Rocca. Contemporaneamente, si cercava di delineare anche l’area del “comportamento” che si faceva sempre più consistente, circoscrivibile ad una determinata cerchia di artisti. Così, nel 1971, l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico ospitava all’interno dei corsi di Giorgio Pressburger il seminario Gesto e Comportamento nell’arte oggi, tenuto dai critici Achille Bonito Oliva e Germano Celant e dagli artisti Jannis Kounellis, Fabio Mauri, Michelangelo Pistoletto. Dall’inserimento di questa area della ricerca artistica – che agiva spesso al confine con il teatro – scaturiva, a conclusione del seminario, la presentazione di una “azione complessa” di Fabio Mauri, Che cosa è il fascismo, con la partecipazione degli allievi del secondo e terzo anno dell’Accademia.
L’anno successivo, la Biennale di Venezia dedicava una sua sezione espositiva alla polarità che si prospettava allora per gli artisti visivi, tra la realizzazione di opere o di ‘comportamenti’, il cui titolo era, appunto, Opera e Comportamento, a cura di Franco Arcangeli e Renato Barilli. Vi partecipavano, per il “comportamento”, gli artisti Vasco Bendini, Germano Olivotto, Gino De Dominicis, Luciano Fabro, Mario Merz, Franco Vaccari. In un suo scritto apparso nel catalogo della Biennale, Barilli tentava di individuare le coordinate di questo fenomeno – operazione difficile data la sua non specificità – la cui novità si giocava innanzitutto sul piano antropologico, oltre che artistico. Esso riscattava, infatti, prendendo le distanze dal produttivismo tipico del mondo occidentale, l’artista in quanto essere (con tutte le sue facoltà) sul produrre, oscillando tra atti fisici e mentali: «…quello del comportamento è un termine vantaggiosamente ambiguo tra una dimensione fisica e una mentale; questo infatti uno dei dati più significativi del momento: una volontà di allargare i mezzi d’azione dell’uomo oltre i confini ristretti delle “belle arti” scoprendo, a un estremo, la possibilità del “corpo proprio” e dall’altro quello dei concetti più rarefatti, ai limiti dell’ineffabile»20. Un altro seminario del ’73 realizzato alla galleria Schema di Firenze, a cura di Achille Bonito Oliva e con l’intervento degli artisti Giuseppe Chiari, Gino De Dominicis e Vettor Pisani, si interrogava, oltre che sul “comportamento”, sulla lezione dell’esperienza dadaista. Lo stesso anno, ancora Renato Barilli teneva una conferenza sul “comportamento” alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. Nel ’74 Il seminario Global Tools (Firenze), dedicato all’uso di materie e tecniche urbane e i relativi comportamenti, vedeva protagonisti, per la sezione dedicata al corpo, Chiari e Celant e per quelle dedicate alla comunicazione La Pietra e Vaccari.
Le performance concettuali
In Italia gli artisti Franco Vaccari e Luca Patella utilizzavano, dalla fine degli anni ’60, mezzi riproduttivi, protettivi, informativi, per gli interventi a carattere concettuale. Già con le sue Misurazioni delle terre/Terre animate (1966-1967) Patella applicava la sua disposizione analitica alle manifestazioni di “comportamento”, ad operazioni di tipo landartistico. Con «Misurazione della terra/Terra animata (1967) Patella sembra accostarsi alle tecniche di sconfinamento dall’opera in comportamento e alle declinazioni della land-art; in realtà egli assume, anche in questo caso, il suo consueto atteggiamento analitico riconducendo a un codice di misurazione il gesto corporeo e le dimensioni spaziali»21. Subito dopo, con le Analisi di comportamento e Le Sfere (1967-’69), Patella cominciava a coordinare in interventi ambientali, nelle proiezioni fotografiche associate ad azioni in tempo reale, diversi linguaggi, e cioè la parola, orale e scritta, le proiezioni. Con i Muri parlanti e gli Alberi parlanti (1970-71), il procedimento concettuale assumeva toni ironici nelle materializzazioni di un luogo comune (i muri parlanti) o del cortocircuito natura-cultura (alberi che parlano). Un’operazione analoga, veniva condotta negli stessi anni da Gino De Dominicis che capovolgeva il parlare figurato della retorica. La compenetrazione interdisciplinare tra strutture diverse (discorsi a carattere sociale, psicologico, linguistico o critico dell’arte) era condotta da Patella sempre mediante l’indagine dei reciproci discorsi – e anche attraverso giochi di parole – nelle Analisi proiettive in atto (1970-’77).
Franco Vaccari, proveniente dall’ambito della sperimentazione poetica, si converte intorno agli anni ‘67-’68 all’uso del mezzo fotografico per interventi “provocatori” e, contemporaneamente, analitici. Accanto alla fotografia, nelle sue Esposizioni in tempo reale, Vaccari sperimentava anche le proprietà concettuali del video. Dal ’75 iniziava la serie dei Sogni, operazioni basate sul recupero di dimensioni iperestetiche – quella onirica appunto – che si inserivano in quel “potenziamento telepatico dei sensi” sollecitato dai nuovi media tecnologici22.
Un’altra presenza da segnalare nel campo dei “concettualisti” italiani è quella di Vincenzo Agnetti. Servendosi di strumenti rigorosamente concettuali come numeri, lettere, segni grafici, simboli matematici, l’artista animava, attraverso la propria presenza fisica (i gesti, la parola orale), l’operazione analitica. Nell’Opera dimenticata a memoria – una sua performance – l’analisi si fondeva con una preoccupazione ideologica di fondo che riguardava proprio i linguaggi tecnologici e i loro effetti devastanti sulla comunicazione contemporanea.
In Agnetti c’è (direi) il panico, il giusto panico della tecnologia e della civiltà di massa, vissuto dal di dentro. Quando Agnetti si dimentica una conferenza da lui stesso tenuta e registrata, sostituendo delle parole significanti dei numeri che ricalcano solo l’andamento della voce […] Ricordare è vivere, dimenticare è, evidentemente morire, “dimenticare a memoria” è vivere nell’idea della morte, fare della morte un linguaggio, svuotando il linguaggio dei significati: ricongiungersi alla babele tecnologica come spettro della regressione totale, frastornante limbo dell’oblio23.
“comportamento”, performance e ideologia
Un ulteriore effetto del diffondersi e dell’affermarsi dell’Arte Concettuale negli anni ‘70 è stata l’appropriazione di una impostazione ideologica, nel senso proprio dell’attenzione e dell’indagine – attraverso gli strumenti artistici – rivolta a problematiche ideologiche, sociali e politiche.
«La stessa autoriflessione dell’arte, che situa l’operazione artistica sul piano di una pratica significante specifica ne individua anche i limiti in relazione dialettica con altre pratiche e, in ultima istanza, con la serie dei fatti della realtà sociale. Ciò che ora si richiede alla pratica dell’arte è di confrontarsi con più franchezza con l’altro da sé e con le contraddizioni che questo confronto inevitabilmente comporta. Da qui, una tendenza più diffusa a porre un più stretto rapporto tra arte e ideologia»24.
Germano Celant ha attribuito questa riacquistata dimensione di impegno delle avanguardie artistiche degli anni ’70, proprio agli avvenimenti del ‘67-’68 che avevano realizzato una generale “ripolicitizzazione del continente occidentale”: «L’arte non è più una natura vergine, appare come una forma del sapere e del ricercare, entrambi condizionati dell’ideologia e dalla pratica»25. Il rapporto arte-realtà, anziché collocarsi nell’invasione fisica dello spazio-tempo della vita, in un “contagio” immediato (come per gli happening, ad esempio), si spostava ora sull’atto “riflessivo” dell’artista, sull’attenzione da lui rivolta a determinate realtà sociali, ideologiche. In Italia un artista che ha inequivocabilmente incentrato la propria pratica performativa all’analisi del rapporto arte-ideologia (del peso delle ideologie nella realtà culturale italiana ed europea) è stato Fabio Mauri. «Che cos’è il Fascismo e Ebrea di Fabio Mauri segnano una svolta nell’esperienza artistica in Italia intorno al ’70. Non da soli, certamente, ma con un’evidenza pragmatica del tutto particolare questi interventi ripropongono su nuove basi la questione dei rapporti tra linguaggio e ideologia, tra arte e politica»26.
Nella sua prima performance Che cosa è il fascismo (1971) l’artista riproponeva, in un’azione estremamente complessa, articolata (mediante gli oggetti, i costumi, le musiche, i filmati, i discorsi, i personaggi, etc. d’epoca), una festa del periodo fascista, i “ludi iuveniles”: la Festa in onore del generale Ernst von Hussel di passaggio per Roma (Mauri, 1971). Facendo rivivere agli spettatori – seduti sulle tribune attorno alla pedana sulla quale si svolgevano le celebrazioni festive, accanto a fantocci o a persone reali che impersonavano personaggi d’epoca – la “diabolica” fascinazione dell’evento e quindi l’ideologia aberrante che lo sottendeva in tutto il suo svolgimento, l’artista voleva incidere sulle loro coscienze, lasciarvi un segno. La riflessione ideologica passava, allora, attraverso un impatto emozionale e psicologico molto forte, attraverso un’esperienza che, in quanto tale, coinvolgeva totalmente chi vi partecipava:
È una lotta di coscienza. Abbiamo operato direttamente sulle persone e non mediamente, attraverso schemi critici. Citavo sempre, come mio modello formale, gli “esercizi spirituali” di Ignazio di Loyola. Qui si rifà l’esperienza del turpe, si riscoprono i momenti di concomitanza linguistica con un nucleo – nel mio caso il Fascismo – considerato aberrante. C’è un riavvicinamento tra giudizio ed esperimento di vita. Attraverso l’esperimento si compiono un’analisi e una critica rivoluzionarie in senso reale, in senso etico, all’interno dell’arte che non è né neutrale, né al di fuori dei contenuti dell’ “uomo”, ma dà giudizio su se stessa, sugli altri, sul mondo27.
In Ebrea (1971) l’ “esperienza del turpe” si compiva mediante la visita di un’esposizione di oggetti, creati dall’artista, di matrice nazista, tra cui una ragazza nuda, una “ebrea” con la stella di David sul petto28. La struttura solo apparentemente convenzionale dell’evento, una mostra di oggetti, veniva “sconvolta” dall’interno. Si negava, infatti, il distacco fruitivo della contemplazione – di un quadro, di una scultura – per sostituirvi una sorta di percorso iniziatico che facesse rivivere allo spettatore tutto l’orrore di quella realtà storico-ideologica. «Qui l’arte si pone all’incrocio col teatro, nel senso primo e originario di azione rituale, sacrificale; all’incrocio con un atto penitenziale e purificatorio, attraverso l’immersione nell’orrore, come nella catarsi della tragedia greca o nell’ “anfiteatro” di Artaud»29.
Gli effetti di questa nuova coniugazione tra arte e ideologia erano diversi.
Nel 1972 veniva fondato da Benvenuti, Catalano e Falasca, l’Ufficio per l’Immaginazione preventiva che si serviva della tecnica della mail-art (messaggi postali) facendosi inviare, e raccogliendoli, comunicazioni politiche da parte di artisti italiani e stranieri. L’artista Fernando De Filippi aveva realizzato, “ironicamente” un cortocircuito politico-esistenziale tra sé e Lenin, assumendone le sembianze, facendosi fotografare con questo travestimento. Un intervento diretto, su una realtà sociale contemporanea, era l’azione collettiva NO realizzata dall’artista Franco Summa a Pescara (1974), in occasione del referendum sul divorzio, nella quale l’artista scendeva in piazza manifestando “spettacolarmente” la propria opinione (riempiendo una tela di scritte “NO”, fatte con bombolette spray colorate). Molte donne-artiste, inoltre, avrebbero trovato, nella performance (dal ‘75 circa) un medium privilegiato per analizzare la condizione della donna nella società. Una delle più attive in questo senso era l’americana Suzanne Lacey che, con la sua collaboratrice Leslie Labowitz, ha condotto alcuni studi, resi pubblici mediante la performance, sul problema dello stupro e dell’immagine degradata della donna offerta dalle pubblicazioni commerciali30.
La ‘linea romana’ del “comportamento”
Nel 1970 due mostre allestite alla galleria Attico (La mozzarella in carrozza e Fine dell’alchimia) segnalavano due nuove presenze romane nel panorama del “comportamento”, quelle di Gino De Dominicis e Vettor Pisani.
Inseriti inizialmente nel gruppo dei “poveristi” i due artisti se ne discostavano per una impostazione riflessiva (di meditazione sia sull’arte, sulla sua storia e funzione, sia su tematiche esistenziali, antropologiche). Vettor Pisani si era distinto nel luglio 1970 con la vittoria del Premio Pascali, al Castello Svevo di Bari. Qui, egli aveva presentato un’opera apparentemente “povera”, un mucchio di pelle d’agnello, sul quale aveva posto una croce. La croce, che riscattava la materia dalla sua mera fisicità, la sublimava, designava una ricerca volta al recupero della spiritualità dell’arte, che avrebbe informato tutta l’opera dell’artista, il suo “teatro filosofico”31.
Gino De Dominicis, nella rassegna Gennaio 70 aveva già manifestato, utilizzando il linguaggio del videotape, i punti nodali della sua disposizione “attivo-riflessiva”: da una parte il superamento dei limiti naturali e quindi della forza di gravità nel Tentativo di volo o di leggi fisiche come la circolarità dei cerchi concentrici che si formano nell’acqua quando vi si lancia un sasso (lui voleva produrre dei “cerchi quadrati”); dall’altra la proposta di “antimetafore”, cioè la resa letterale concreta del linguaggio figurato che veniva perciò privato di ogni valenza metaforica (sotto il titolo Morra cinese presentava un paio di forbici, un sasso, una foglia).
Con La mozzarella in carrozza, Lo zodiaco (Attico, 1970), con D’Io (sempre all’Attico, 1971) e quindi con le Ipotesi di immortalità, l’artista alternava a operazioni concettuali, basate sulla sperimentazione dei limiti espressivi del linguaggio artistico, altre a carattere filosofico, nelle quali saggiava la possibilità, per l’arte, di occuparsi di problemi esistenziali – come l’immortalità – e di risolverli concretamente, in una loro resa fisica, nello spazio. Egli esponeva, dunque, una mozzarella vera sopra una carrozza, oppure traduceva i segni zodiacali in persone ed oggetti (che illustravano i diversi segni), o faceva risuonare la propria voce attraverso un altoparlante giocando sullo slittamento tra significanti e significati (fra “Dio” e “di io”, di me), comparando ironicamente se stesso, come artista, a Dio. La “sconfitta della morte” che caratterizzava le sue Ipotesi di immortalità, avveniva mediante l’assunzione di corpi fisici ai quali l’artista poteva attribuire, sfruttandone alcune caratteristiche intrinseche, una qualsiasi valenza simbolica (se stesso con una maschera, un gatto, un “mongoloide”)32.
Con Fine dell’Alchimia (Attico, 28-29 dicembre 1970) mostra curata da Maurizio Calvesi, gli artisti Vettor Pisani, Gino De Dominicis e Jannis Kounellis convergevano, ognuno secondo la propria disposizione politico-esistenziale, sul tema dell’arte come metafora alchemica, e quindi sui rapporti tra arte e processo alchemico nell’estetica contemporanea. L’ideologia alchemica, cioè l’alchimia assunta come processo conoscitivo piuttosto che creativo, secondo lo studio degli archetipi che ne aveva fatto Jung, si confermava come componente fondamentale della disposizione attivo-riflessiva di questi artisti. Utilizzandone le simbologie, e quindi selezionando i materiali e coordinandoli secondo le loro valenze simboliche, essi rendevano tangibile il proprio atto mentale. Così Jannis Kounellis presentava una donna nuda, incinta, con il viso coperto da un panno nero e alcune mosche (vere) sul ventre facendo interagire la “nigredo” delle mosche e del panno, simbolo della morte, con il ventre gravido, bianco, simbolo della vita.
Tematiche e simbologie alchemiche, esistenziali, antropologiche, filosofiche, psicoanalitiche, mitologiche storiche, costituivano i poli intorno ai quali ruotava il “comportamento” di questi artisti. Secondo Caroline Tisdall (1976) si trattava di una linea “romana” che informava l’attività di molti artisti italiani operanti nell’area del “comportamento” nella prima metà degli anni ‘70 (la maggior parte dei quali, peraltro, era romana o comunque lavorava a Roma): «…a Roman mood: elegantly, decadent, baroque, tastefully hedonistic and highly artificial»33.
Oltre a Pisani, De Dominicis e Kounellis, questa schiera di artisti includeva (nel tempo): Stanislao Pacus, Claudio Cintoli, Luigi Ontani, Mimmo Germanà, Giancarlo Croce, Giuliano Sturli, Michele Zaza, Remo Salvadori, Cioni Carpi, Giorgio Ciam, Armando Marocco, Luciano Salvo, Plinio Martelli, Sandro Chia, Francesco Clemente, Gianfranco Barucchello, Luciano Fabro, Emilio Prini.La loro attività oscillava tra diversi generi di interventi, tutti, naturalmente, a carattere “comportamentale” e cioè extraoggettuale, espressione di un atto fisico e mentale compiuto dall’artista. C’erano gli oggetti che rimandavano comunque ad un’azione, come le “mostruose” zampe di animale presentate da Luciano Fabro alla Biennale veneziana del ‘72: «Opere anche, a prima vista, quelle cui è approdato di recente Luciano Fabro; ma opere che, intanto, evidenziavano fino al gigantismo uno degli atti fondamentali del “comportarsi”, la locomozione, depositandola in zampe di animali mostruosi»34.
C’erano poi le fotografie e le proiezioni fotografiche, come traccia, da esporre, organizzare nello spazio, di un precedente intervento reale, fisico. Ad esempio Giancarlo Croce che alla mostra La Ripetizione Differente (Milano, Studio Marconi, 1974) presentava le foto di conoscenti e amici ai quali aveva fatto assumere abiti e pose di personaggi del passato. Un atto fisico, “comportamentale”, poteva anche essere presentato attraverso il linguaggio cinematografico o del videotape. Era il caso di Cioni Carpi che si faceva riprendere mentre compiva processi di “auto trasfigurazione”, di svelamento o sparizione del proprio corpo.
In altre circostanze, e qui si può parlare di performance, gli artisti presentavano azioni in tempo reale o interventi concreti nello spazio, nei quali, a volte, intervenivano loro stessi con la loro presenza e più spesso presentavano, invece, corpi altrui (non solo umani, ma anche animali)35.Il riferimento a problematiche esistenziali, negli artisti italiani, non era dettato da una esplorazione diretta di se stessi, come entità fisica e psichica – come per i bodiartisti (in genere) – ma era mediato da suggestioni culturali, filosofiche, storiche, mitologiche, che spesso si traducevano in esplicite citazioni.Nel caso di Vettor Pisani si trattava di una citazione “alla terza”. Egli, infatti, non solo sviluppava tematiche antropologiche, alchemiche, iniziatiche, i cui punti di riferimento teorici erano Eliade, Bachelard, Jung, Frazer, Freud, la letteratura iniziatica etc., ma le filtrava mediante citazioni artistiche da Marcel Duchamp a Yves Klein, a Joseph Beuys.
Ne La natura non ama la natura, una performance durata cinque giorni (Attico, marzo 1973), Pisani giocava sull’accostamento, che poi diventava opposizione, tra due nature: quella dei topi, simbolo del caos, che brulicavano sul pavimento di una stanza, e di una donna, nuda, seduta su un tavolo in un’altra sala, simbolo nictomorfo36. La donna, assimilata in quanto natura all’animale, tentava, di liberarsi, riscattarsi dalla sua “bassezza”, compiendo un gesto eroico, virile – Lea Vergine parla di complesso di Atlante –, cioè battendo tra loro due piatti di ottone; lo stesso gesto già compiuto da Joseph Beuys – artista “eroe e demiurgo” in una sua performance del 1969, Iphigenia. Tra le due sale, c’era anche una foto di Marcel Duchamp incassata nella parete.
Le istanze antropologico-culturali dei “comportamentisti” venivano sottolineate da una mostra curata da Alberto Boatto dal titolo, emblematico, Ghenos, Eros, Thanatos (Bologna, galleria De’ Foscherari, 1974). Qui, oltre a presentare Ebrea di Fabio Mauri, erano testimoniati interventi di altri artisti, tra cui le performance di Claudio Cintoli, Crisalide, Senza titolo di Jannis Kounellis e di Vettor Pisani, Lo scorrevole37. Cintoli celebrava la nascita mediante il riferimento ad una figura archetipica, quella della crisalide38, e quindi attraverso la sua fuoriuscita, a testa in giù, da un sacco appeso ad alcuni ganci. Kounellis, invece, affrontava il tema della morte e della rinascita nella struttura “rituale” dell’azione che proponeva, appunto, il mito, il ciclo della rinascita39. Ai calchi antropomorfi, all’immagine di Dio smembrata, sparsa sul tavolo e al corpo nero, simboli di morte, di tragedia, si opponevano il suono del flauto, il potere orfico della musica40, e l’artista stesso, con il viso coperto da una maschera da statua greca, che alludevano alla ricomposizione, alla ripresa della vita. All’interno della riflessione su grandi tematiche esistenziali, sul mito, sulla storia, era presente, nei “comportamentisti”, un’interrogazione costante sul proprio ruolo di artisti, sull’arte, sulla sua storia, sul suo rapporto con la società, che informava le loro performance: «And yet, the plethors of ritual, masks, symbol, mirrors, and statuary nudes, what most of them are investigating, however indirectly, is the position of the artist, the personality of the artist, the historical role of the artist and structure of the section of society in which he moves»41.
Questa istanza, che era già stata posta al centro del suo lavoro dall’artista tedesco Joseph Beuys, costituiva ora uno degli effetti del movimento tra “implosivo” seguito all’ “esplosione”, alle utopie della fine del decennio precedente (e quindi anche alla fiducia nel coinvolgimento immediato, fisico, sensoriale, nelle sue possibilità di oltrepassare l’impasse arte-vita).
Per Jannis Kounellis l’atteggiamento critico nei confronti dell’arte, della sua funzione si definiva proprio nel recupero, o meglio nella messa in atto, nei suoi tableaux vivants, di contenuti, sensibilità, appartenenti alla nostra storia, alla nostra cultura, nel confronto che essi istituivano con il mondo, con l’estetica contemporanea in cui si scalavano. Pur in assenza di qualsiasi azione che li sostenga, questi allestimenti generano impressione profonda, persistente: non espongono storie, essi stessi sono accadimenti esistenziali, situazioni esistenziali che pongono in discussione il concreto, il quotidiano, i meccanismi del mondo ordinato, amministrato […] Kounellis paga il tributo al proprio pensiero servendosi di fenomeni storico-culturali che, posti a contatto con il “materiale” sociale, politico ed estetico di oggi, possono servire a una comprensione critica della cultura odierna42.
La performance come pittura
L’impostazione filosofica, la strutturazione simbolica, la raffinatezza e il rigorismo formale delle performance degli artisti italiani indicavano un costante riferimento – nonostante la fuoriuscita dell’ “immaginazione” dell’artista dalla superficie pittorica, bidimensionale, per proiettarsi in uno spazio-tempo reale – allo spazio conoscitivo del quadro. Citiamo l’opinione di Simone Carella: «A mio avviso nel caso degli artisti visivi, degli ex pittori – è il caso, appunto, di De Dominicis – il punto di riferimento artistico, creativo, era e rimaneva sempre la pittura. Ci si riferiva, quindi, ad uno spazio conoscitivo che precedentemente era il quadro e conteneva tutta la possibilità di trasformazione del reale»43. Analogamente Fabio Mauri: «Per me, comunque, il performer non si è mai allontanato dalla pittura, sebbene non realizzasse quadri […] Con una immaginazione fortemente significante oltre lo spazio, ormai angusto, del quadro, il pittore cercava di competere con la moltitudine dei patti dell’esistenza»44.
Così Jannis Kounellis negava la dimensione visiva della pittura per trasferire il suo atto creativo nella dimensione immateriale, nell’assenza visiva della musica che invadeva totalmente lo spazio con la “sensibilità” di cui era portatrice. La stessa superficie pittorica, i quadri monocromi davanti ai quali danzava una ballerina o suonava un musicista, veniva destinata ad esprimere una determinata sensibilità (immateriale). In un suo Senza titolo del 1971 c’era, ad esempio, un continuo rimando tra un violoncellista che suonava La Passione secondo San Giovanni di Bach scandendone le note, e la superficie pittorica che era alle sue spalle, sulla quale erano segnate le note e il cui colore nasceva «…da una identità tra musica e pittura veneziana del ‘700»45. Il costante rapportarsi al quadro, proprio come spazio conoscitivo, comportava una strutturazione rigorosa di questi eventi che erano regolati da una ben determinata intenzionalità significante: erano “opere chiuse” nonostante l’apparente apertura (cioè la disponibilità all’uso di tutti i materiali, di nuovi accostamenti)46.
Scriveva Achille Bonito Oliva di Jannis Kounellis: «Trasferisce i procedimenti della pittura nella fisicità di uno spazio reale che acquista la composta fisicità del quadro»47. Rose Lee Golberg ha definito le sue performance «frozen-performance»48. Analogamente, le operazioni degli artisti italiani spesso definite tableaux vivants49 data la staticità o comunque la lenta scansione spazio-temporale, la rigorosa formalizzazione che le contraddistingueva. Significativa è la definizione che Pisani ha dato del suo lavoro, dei suoi interventi “teatro degli artisti” o “teatro da camera” (v. L’eroe da camera, una sua performance del 1973). L’accezione “da camera” differenziava, appunto, questo “teatro” da quello da palcoscenico, si riferiva allo spazio della galleria nel quale si proiettava l’azione degli artisti50. Anche nell’uso del corpo nudo – reale, non dipinto – in genere femminile, non c’era da parte di questi artisti una esplicita intenzionalità provocatoria, né esso veniva impiegato come oggetto di analisi, come nei bodiartisti. Il corpo femminile, esibito nella sua composta e seducente nudità, faceva piuttosto riferimento alla tradizione pittorica, ai suoi canoni estetici, anch’essi persistenti in queste performance (mai sgraziate, brutali, ma anzi estremamente raffinate). Naturalmente tutto ciò è vero fino a un certo punto. Infatti, la cessazione della mediazione simbolica dell’immagine per esibire direttamente la nudità fisica, comunque trasgressiva, offensiva verso “il comune senso del pudore” aveva una connotazione decisamente “scandalistica”: «The use of naked women as performance ingredients by Kounellis, Pisani and Calzolari may well relate to the oldest theme in Western art, but it is hard not to see it as a defiant gesture in the face of a certain moralism that persist in Italy…»51. Lo stesso si può dire per il “mongoloide” esposto da Gino De Dominicis alla Biennale veneziana del ’72 che provocò indignazione tra la critica e il pubblico52. Qui, l’intenzione dell’artista non era assolutamente quella di suscitare uno scandalo in quanto l’individuo minorato era inserito in un determinato contesto espositivo, aveva una specifica valenza metaforica. Esso faceva parte di una sala nella quale De Dominicis aveva disposto alcuni suoi lavori, tra cui le Ipotesi di immortalità. Il mongoloide rappresentava una delle tre “ipotesi”; egli aveva, infatti, superato la morte, era immortale secondo l’artista, in quanto incapace di intendere e di volere e, quindi, privo della coscienza del tempo e dello spazio, immerso in un eterno presente53.
Sicuramente, la scelta di mostrare dal vivo il ragazzo disabile – che in quanto tale è “intoccabile”, cioè tutelato dalla società – un elemento certo non esteticamente bello, piacevole, per farne un “oggetto artistico”, era il risultato di una nuova coscienza etica ed estetica, della «… “indecente” immaginazione…»54, come la ha definita Fabio Mauri, di questi artisti, che aveva un seppure implicito impatto provocatorio. «Il “comportamento” del performer inquieta, fa esistere reattivamente la scena del mondo […], in cui si insedia, o meglio, da cui scava la sua forma viva»55. Questo impatto era dovuto proprio all’abbattimento della barriera rappresentativa dell’immagine, alla quale si sostituiva un atto presentativo che prelevava dalla vita materiali concreti, reali, esibiti nella loro fisicità seppure sublimati, investiti in nuovi significati. «Basta riflettere a come avremmo valutato lo stesso personaggio in un film di Fellini. Quante volte Fellini, e con atteggiamento meno asettico di De Dominicis, ha usato storpi, mutilati e infelici alla stregua di oggetti! Eppure li abbiamo guardati plaudendo, solo perché ad una valutazione etica potevamo sostituire una valutazione artistica e cioè trascendente»56.
La Ripetizione Differente
L’interesse per la storia, la mitologia, per il proprio passato come parte integrante del proprio presente, che vive in esso, determinava il “comportamento” di Jannis Kounellis, e quindi la scelta di materiali quali i calchi, le statue antiche o determinate musiche (Verdi, Bach, etc.). Non si trattava nel suo caso di una citazione, poiché, tali elementi appartenevano al suo mondo poetico-esistenziale, alla sua vita. «La testa di un‘antica dea, la maschera di Apollo o una corona dorata di lauro non sono per lui simboli dell’antichità, non vengono usati come citazione. Egli rivendicava queste cose come artista dell’Occidente, esse gli appartengono in quanto sono il suo passato»57. Il recupero del passato e la sua attualizzazione nel presente, la sua rivisitazione in tutte le sue forme e i suoi stili (altro effetto dell’ ‘implosione’ degli anni ‘70), costituiva una ‘linea di tendenza’ di alcuni artisti individuata da Renato Barilli che li raccoglieva in una mostra, da lui curata, dal titolo La Ripetizione Differente (Milano, Studio Marconi, 1974). Anche questo fenomeno, secondo Barilli, sarebbe scaturito dalla diffusione degli strumenti elettronici che, estendendo la memoria e le facoltà percettive dell’uomo, rendevano possibile la convergenza di tutti i tempi, di tutti gli spazi58.
«Il passato stesso cessa di essere tale, per divenire una specie di presente allargato. Rispetto a un professato “ritorno alle origini” che precedentemente aveva comportato il recupero del dato naturale, del “primario”, adesso ci si scostava verso il mondo della cultura, della storia. L’arte degli anni ‘70 modifica tale ingenuità, ribaltando il contenutismo naturalistico dell’arte povera, fatto di pura presentazione grammaticale dei materiali, in atteggiamento più sapientemente culturale»59. Il cortocircuito passato-presente comportava la rinuncia ad una temporalità dinamica, energetica, per sostituirvi un movimento circolare, ripetitivo, statico. Era, questa, infatti, la dimensione dei tableaux vivants di Luigi Ontani – uno dei maggiori esponenti di questa mostra – che assumeva sul corpo le fogge e gli atteggiamenti di personaggi del passato, sia storico che artistico: dal Bacchino caravaggesco, al San Sebastiano di Guido Reni, da Cristoforo Colombo ad un eroe malinconico, alla Jean Louis David. Qui, a differenza di Kounellis, l’operazione consisteva in una vera e propria citazione, “ripetizione”, a carattere anche ironico (tra i personaggi “rivissuti” da Ontani c’erano anche Superman e Dracula).
Ontani si cala nei panni di un personaggio storico o mitico, oppure nei soggetti di opera d’arte per affermare una proposizione di entità. L’unico movimento è la posa, intesa come fissazione del comportamento nello stile, negli stereotipi della citazione. Il tempo, sottratto a ogni dinamica, è riportato ad un punto in cui è ripetizione, così come l’azione non produce svolgimento, in quanto non ha né inizio né fine60.
I padri di questa tendenza sarebbero stati sia Vettor Pisani, che per primo aveva orientato il proprio lavoro verso l’indagine di concetti, di personaggi artistici del passato61, e sia, soprattutto, Giulio Paolini (un artista concettuale). Era appunto lui «…La testa di serie di un processo ciclico di rivisitazione del “già fatto” o di riflessione sistematica di intervento “alla seconda”»62. Dalla riflessione sul lavoro di Paolini e dalle suggestioni che ne erano derivate, il gallerista Fabio Sargentini aveva tratto l’input per aprire un’altra sede dell’Attico, a via del Paradiso63. La nuova galleria, inaugurata nel 1972, sarebbe convissuta fino al giugno del 1976 (data in cui Sargentini chiudeva il garage di via Beccaria) con l’altro locale. La struttura del nuovo spazio, più ristretto, tradizionale, antico, metteva in evidenza, in anticipo rispetto a La Ripetizione Differente, le nuove disposizioni operative dei “comportamentisti”, cioè il rientro in una dimensione di analisi e di riflessione sulla tradizione. La coesistenza parallela dei due ‘Attici’, separati tra loro e assolutamente diversi proprio nella struttura ambientale, radicalizzava la distanza che intercorreva tra due differenti modalità performative: da una parte quella analitica, ma anche energetica, interdisciplinare, fisica, come quella dei danzatori e dei musicisti americani che spesso si esibivano nel garage nei numerosi Festival, organizzati da Sargentini, dedicati appunto alla musica e alla danza; dall’altra quella dei “pittori” italiani, romani, con il loro atteggiamento “implosivo”, rarefatto, raffinato.
L’incompatibilità e l’indifferenza reciproca tra i due gruppi di artisti – cosa che amareggiava molto Sargentini secondo quanto testimoniato da Simone Carella64 – attesterebbe la dimensione di “chiusura” – una chiusura elitaria degli artisti italiani, sostanzialmente estranei ad esperienze extra pittoriche. Questa “chiusura”, e quindi la “singolarità” delle loro performance rispetto a quelle statunitensi ed europee è stata rilevata da Caroline Tisdall in un suo articolo dedicato specificamente alla performance italiana, alla sua “linea romana” contraddistinta, appunto, da un atteggiamento “aristocratico” da una «bourgeois alienation»65.
- Questo testo è un estratto della tesi di laurea di M. Mearelli, La performance in Italia (1968-1981), Facoltà di Lettere e Filosofia, Sapienza Università di Roma a.a. 1988-89, relatore Luciano Mariti, corr. Valentina Valentini, pp. 109-125, 130-149, 151-161 (inedita). ↩
- H. Molderlings, Life is no Performance: Performance by Jochen Gerz, in The Art of Performance: A Critical Anthology, Gregory Battcock e Robert Nickas (eds), New York 1983, p. 170. ↩
- Ivi, p. 71. ↩
- T. Trini, F. Quadri, G. Beringhelli, G. Schonenberger, Scheda su Michelangelo Pistoletto, in «L’uomo e l’arte», n. 7, 1971, pp. 28-40: 32. ↩
- R. Barilli, L’Arte Contemporanea. Da Cézanne alle Ultime tendenza, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 326-327. ↩
- Per Jannis Kounellis, i materiali naturali, ‘poveri’, erano sin dall’inizio portatori di valenze culturali, simboliche oltre che concrete: «Niente è più mitico del fuoco, niente è più mitico e greco della lana…», M. Calvesi, Arte come processo, in «Cartabianca», n. 3, anno I, novembre 1968, p. 126. ↩
- Cfr. R. Barilli, F. Arcangeli (a cura di), Opera o comportamento, catalogo mostra, 36° Biennale di Venezia, Esposizione Internazionale d’Arte, Venezia 1972. ↩
- Cfr. E. Crispolti, Extra Media. Esperienze Attuali Di Comunicazione Estetica, Studio Forma, Torino 1978. ↩
- H. Molderlings, Life is no Performance, cit., p. 177. ↩
- C. Tisdall, Performance Art in Italy, in «Studio International», n. 191, gennaio-febbraio 1976, pp. 42-45: 42. ↩
- F. Mauri, Oscuramento, in «Che cos’è», 1975, p. 20. ↩
- A. Bonito Oliva, Autocritico automobile attraverso le avanguardie, Il Formichiere, Milano 1977, p. 233. ↩
- H. Kontova, The inconscious history. An interview with Rose Lee Goldeberg, in «FlashArt», giugno-luglio 1979, pp. 30-36. ↩
- Nel collocare l’attività di performance tra Body Art e Conceptual Art Rose Lee Goldberg (1983) si riferiva alla performance degli anni ’70. Cfr. R. Lee Goldberg, Performance: The Golden Years, in The Art of Performance, cit. ↩
- Cfr. V. Valentini, Performance, in «Teatro Festival», n. 10-11, aprile maggio 1988, pp. 40-45. ↩
- R. Barilli, Francesco Arcangeli (a cura di), Opera o comportamento, cit. ↩
- Cfr. G. Celant, Senza titolo, Bulzoni, Roma 1974; R. Barilli, Tra presenza e assenza, Bompiani, Milano 1974; L. Vergine, Il corpo come linguaggio. Body art e storie simili, Prearo editore, Milano 1974; A. Bonito Oliva, Mostra continua all’Attico di Roma, «Il Giorno», 14 aprile 1975. ↩
- M. Calvesi, Il nuovo pubblico, ora in Avanguardia di massa, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 266-269: 267. ↩
- Cfr. R. Barilli, Informale oggetto comportamento, vol. I, Feltrinelli, Milano 1975. ↩
- R. Barilli, Francesco Arcangeli (a cura di), Opera o comportamento, cit., p. 97. ↩
- R. Barilli, A. Del Guercio, F. Menna (a cura di), 1960/1977 Arte in Italia. Dall’opera al coinvolgimento. L’opera: simboli e immagini. La linea analitica, Galleria Civica d’Arte Moderna, 1 maggio – 30 settembre, Torino 1977, p. 172. ↩
- Cfr. R. Barilli, Il movimento della poesia italiana negli anni 70, in T. Kemeny e C. Viviana (a cura di), Dedalo, Bari 1979, pp. 165-176. ↩
- M. Calvesi, Arte e didattica dopo l’avanguardia, in «Corriere della Sera», 16 febbraio 1975. Ora in Avanguardia, cit. pp. 184-185. ↩
- F. Menna et al. (a cura di), 1960/1977 Arte in Italia, cit., p. 174. ↩
- G. Celant, Art-makers. Arte, architettura, fotografia, danza e musica negli Stati Uniti, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 13-14. ↩
- F. Menna (a cura di), Fabio Mauri. Linguaggio è guerra, Massimo Marani Editore, Roma 1975, p. 53. ↩
- Fabio Mauri in M. Mearelli, Intervista a Fabio Mauri, in La performance in Italia (1968-1981), cit., pp. 976-977. ↩
- L’elaborazione di questi oggetti scaturiva da un atto “mentale”: la riappropriazione, da parte dell’artista, della mentalità aberrante dei nazisti, prolungandone gli esperimenti, la ‘folle’ immaginazione fino ai giorni nostri, combinandola con le linee del design contemporaneo. v. F. Mauri (a cura di), Ebrea, «D.P.V.», anno I, n. 1, 1 novembre 1973, pp. 33-63. ↩
- E. Cassa Salvi, Ebrea di Fabio Mauri, N. A. C., gennaio 1972, ora in «D.P.V.», anno I, n.1, novembre 1973, p. 63. Per la descrizione e l’interpretazione delle performance di Fabio Mauri, v. Intervista a Fabio Mauri, cit. ↩
- L. Frye Burnham, L’arte della performance nella California del Sud, in «Teatroltre», n. 22, 1980, pp. 116 -157. ↩
- La definizione, sul lavoro di Pisani, di “teatro filosofico” mi è stata fornita dall’artista stesso, in un colloquio non registrato (per volere dell’artista) svoltosi il 13 maggio 1988. ↩
- Per gli interventi di Gino De Dominicis alla Biennale veneziana del ’72 v. Intervista a Simone Carella, cit., pp. 907-916. ↩
- C. Tisdall, Performance Art in Italy, cit., p. 42. ↩
- R. Barilli, F. Arcangeli (a cura di), Opera o comportamento, cit., p. 98. ↩
- Cfr. M. Calvesi, Kounellis o il mito, «Corriere della Sera», 1 aprile 1973; A. Bonito Oliva, Lo scorrevole, Roma, Massimo Marani Editore, Roma 1975, p. 975, s. p. Intervista a Simone Carella, cit., p. 890. ↩
- Cfr. L. Vergine, Il corpo come linguaggio, cit. ↩
- Per la descrizione e interpretazione de Lo scorrevole di Vettor Pisani, v. II. 2, pp. 424-427. ↩
- Cfr. E. Crispolti, Extra Media, cit. ↩
- Cfr. M. Calvesi, L’inventario della coscienza: il presente come simbolo, in «D.P.V.», anno I, n. 1, 1 novembre 1973, pp. 46-49. ↩
- Cfr. A. Boatto, Ghenos, Eros, Thanatos, catologo mostra-libro, Galleria De Foscherari, Bologna 1974. ↩
- C. Tisdall, Performance Art in Italy, cit., p. 43. ↩
- Z. Felix (a cura di), Kounellis, catalogo mostra, Museum Folkwang, Essen 1979, p. 125. ↩
- Simone Carella in M. Mearelli, Intervista a Simone Carella, Roma 14-15 gennaio 1988 (inedita), in La performance in Italia (1968-1981), cit., pp. 877-964: 882. ↩
- Ivi, p. 979. ↩
- G. Celant, Jannis Kounellis, catalogo mostra, Musei Comunali e Sale d’Arte Contemporanea, 16 luglio-30 settembre 1983 Rimini, Mazzotta Editore, Milano 1983, p. 100. ↩
- Cfr. Fabio Mauri in M. Mearelli, La performance in Italia (1968-1981), cit. ↩
- A. Bonito Oliva, Il sogno dell’arte fra avanguardia italiana e transavanguardia, cit., p. 16. ↩
- R. Lee Goldberg, Performance: Live Art 1909 to the present, Thames and Hudson, Londra 1979, p. 111. ↩
- Cfr. R. Barilli, Tra Presenza e Assenza, Bompiani, Milano 1974; C. Tisdall, Performance Art in Italy, cit.; R. Lee Goldberg, Space as Praxis, in «Studio International», settembre 1975. ↩
- Anche questa interpretazione mi è stata fornita da Vettor Pisani nel colloquio non registrato, cit. ↩
- C. Tisdall, Performance Art in Italy, cit., p. 44. ↩
- Cfr. M. Calvesi, Dall’impotenza l’estetismo, cit.; C. Tisdall, Performance Art in Italy, cit.; Simone Carella in M. Mearelli, Intervista a Simone Carella, cit. ↩
- Simone Carella in M. Mearelli, Intervista a Simone Carella, cit. ↩
- Ora in F. Alfano Miglietti, Fabio Mauri. Scritti in mostra. L’avanguardia come zona 1958-2008, Il Saggiatore, Milano 2019. ↩
- Ibidem. ↩
- M. Calvesi, Dall’impotenza l’estetismo, cit., p. 280. ↩
- Z. Felix (a cura di), Kounellis, cit., p. 125. ↩
- Cfr. R. Barilli, Tra Presenza e Assenza, cit. Mediante il video – il videoregistratore, la tv – è, infatti, possibile rivedere azioni passate, “di repertorio”, oppure partecipare a situazioni spazialmente molto distanti. ↩
- A. Bonito Oliva, Il sogno dell’arte fra avanguardia italiana e transavanguardia, cit., p. 13. ↩
- Ivi, p. 162. ↩
- Cfr. R. Barilli, L’Arte Contemporanea, cit. ↩
- R. Barilli, Parlare e scrivere, La Nuova Foglio Editrice, Pollenza 1977, p. 18. ↩
- G. Carandente, F. Sergentini, Storia di una galleria, in F. Sargentini, R. Lambarelli, L. Masina, (a cura di), L’attico 1957-1987, Arnoldo Mondadori, Milano, De Luca Editore, Roma, 1987. ↩
- Cfr. Simone Carella in M. Mearelli, Intervista a Simone Carella, cit., p. 903. ↩
- C. Tisdall, Performance Art in Italy, cit., p. 43. ↩