Questo saggio inedito raccoglie i primi esiti di una riflessione avviata nel contesto del Convegno “Le arti del ‘900 e Carmelo Bene” curato da Edoardo Fadini che ha avuto luogo a Torino, presso la Galleria d’Arte Moderna, tra il 24 e il 26 ottobre 2002. L’intento è di mettere a fuoco come nella prima fase della pratica interdisciplinare di Carmelo Bene, tra gli anni Sessanta e Settanta, emergano una riflessione estetica e un’attitudine decostruttiva che investono questioni (quali il soggetto, la soggettività e la dimensione singolare/plurale dell’arte) che si andavano definendo in ambito filosofico e nel campo allargato dell’arte nel corso del secondo Novecento.
1. Arte/ arti
Il nome proprio “Carmelo Bene” nomina una pratica complessa e decostruttiva che, a partire dal teatro, ha posto in relazione letteratura, musica, cinema e videografia. Quale luogo di connessioni tra ciò che si dice e ciò che si fa storicamente, implicando una dimensione teorica, tale pratica introduce una presa di posizione radicale rispetto al fare artistico, non perché Bene affronti in modo diretto il problema della definizione singolare/plurale dell’arte e delle arti nelle culture occidentali, ma per il modo in cui si traccia nel percorso della sua ricerca la decostruzione degli ordini discorsivi in relazione ai quali l’arte presenta le proprie differenti ontologie. In tale prospettiva, la ricerca di Bene investe la questione estetica ponendo e risolvendo altrimenti – e con altri mezzi – problemi prossimi a quelli che si andavano definendo nel corso del secondo Novecento in ambito filosofico e nel campo allargato dell’arte.
Attraverso il tracciato relazionale fra teatro e cinema, per rapidi cenni, qui si tratta di mettere a fuoco l’operazione decostruttiva in cui consiste la ricerca di Bene tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta. Risalire tale tracciato, isolarne ed estrarne i passaggi decostruttivi sul piano delle fonti visive, può portare a disimplicare aspetti dell’opera di Carmelo Bene che, quantomeno in quel lasso temporale, sembrano avere una relazione critica specifica con certa arte contemporanea a carattere performativo e manifestare rispetto ad essa una presa di posizione critica, ancorché indiretta, nel desedimentarne i significati e le azioni.
La pratica di Carmelo Bene non ha pieghe in cui avvolgersi o raccogliersi, ma transita nel movimento della piega (ossia nel suo piegarsi, dispiegarsi e ripiegarsi). Si tratta di una pratica in dispersione, tracciata nel suo opus-archivio, entro il campo di tensioni che si è creato, nel corso del Novecento, tra il processo di definizione e quello, corrispondente e contrapposto, di s-definizione dell’arte occidentale; entrambi questi processi investono non solo il regime identificativo e la distinzione partitiva dell’“arte” rispetto alle altre “arti” (definizioni storiche, istituzionali, procedurali delle arti), ma anche la relazione tra “arte” e “non arte” (o “vita”), sulla quale storicamente tale distinzione trova il proprio fondamento.
La cifra dell’anti-umanesimo di Carmelo Bene ha a che vedere con la storia di ciò che si dice arte occidentale (ossia con i saperi, le forme di espressione, i supporti, le tecniche esecutive e di iscrizione, le materie e i dispositivi), che è anche la storia della colonizzazione estetica compiuta attraverso le idee di “bellezza” che forgiano il sensorium, nonché della violenza e dello sfruttamento dei corpi e delle intelligenze che le hanno concretamente rese possibili. L’arte occidentale è un percorso sempre apparentemente “al termine”, in cui si compiono e si riformulano la cultura che la produce e le sue forme simboliche. Le arti del Novecento esibiscono tale percorso terminale, sempre protratto, e lasciano intravedere il posizionarsi delle differenze, ossia i pensieri “minoritari”1 – non condivisi o inadeguati alle contingenze dell’industria culturale – rivelando i processi discorsivi che li rende o li fa diventare tali, ossia la non conformazione a un modello socio-culturale maggioritario. Esse ci segnalano con evidenza che nelle culture contemporanee convivono una molteplicità di tempi differenti sui quali però agiscono le medesime trasformazioni, le stesse influenze. Con ciò che si gioca tra la soggettività e l’identità, tra il Soggetto e la moltitudine dell’Io e delle sue tante identità di transizione (migranti figure dell’attraversamento), in un percorso di futuri anticipati e di passati reinventati, riaperti entro la dimensione del «non-sincrono»2, stretto nelle temporalità disgiuntive della tarda modernità, Bene, fuori da ogni avanguardia, ha frequentato l’indefinito finire dell’arte, i suoi margini teologici, felicemente in disaccordo sino all’autocontraddizione, alla non appartenenza, alla condizione di deplaceur deplacé.
La ricerca di Carmelo Bene è prismatica nella messa a fuoco decostruttiva (non negativa), da differenti prospettive, di questioni diverse attraverso sintagmi quali pensare/depensare; Soggetto/Io; autore-opera/ morte dell’autore/ vita delle opere; opera come processo/ opera come scoria; ecc. Aporetica per complessità, la pratica beniana procede per gemmazioni, non per progressioni e, in modo contradditorio, per vis polemica, soprattutto quando orientata alla comunicazione mediatica, nell’utilizzo di coppie oppositive di termini che rimandano parodicamente, ad esempio, alla distinzione tra arti liberali e arti meccaniche (riconducendo certo “sfaccendare” di attori o di registi a quello degli spazzini o dei vigili urbani), alle modalizzazioni del potere/ volere del genio/ talento, a certe declinazioni della mascolinità e della femminilità.
Carmelo Bene non fa che reagire al dispositivo dell’arte, non riconoscendosi in alcuna avanguardia o neoavanguardia; prende posizione critica in ordine sia alla specificità modernista dei linguaggi (attraverso il cinema, ad esempio) sia agli allargamenti di campo postmodernisti rispetto ai quali la nozione stessa di specificità entra in mutazione. In tal modo, attraverso la «discrittura di scena», la «sospensione del tragico», la «phonè», il «teatro senza spettacolo», la «macchina attoriale», egli sposta simultaneamente l’orizzonte delle riflessioni possibili, con certe conseguenze sul modo di pensare l’arte e le arti. Egli opera sulle discontinuità della storia culturale occidentale rispetto alla definizione ontologica dell’arte in generale e alle caratterizzazioni storiche, istituzionali, procedurali delle arti, dalle quali emergono proprietà estetiche distintive o questioni inerenti le corrispondenze o i modi di traduzione delle stesse arti le une verso le altre e attraverso cui si tracciano i “displacement” delle frontiere che separano i loro territori sulla mappa disciplinare.
A partire dal teatro, dallo scarto tra la scrittura letteraria e la discrittura di scena, nella pratica beniana, l’“opera”, quale serie espressiva aperta, prende a riposizionarsi tra la ricerca interminabile, sempre in fieri, e l’insieme delle sue sperimentazioni puntuali ma varianti. Così che, come avviene in tanta arte contemporanea, quel che è ancora definibile come “opera” tende a tracciarsi come un punto di immanenza entro un percorso progettuale e non corrisponde più, né si riduce, alla concretizzazione di un esito unitario e definitivo ma, mediante differenti mezzi espressivi tra teatro, cinema e video, per ramificazioni si estende in forma molteplice nelle serie operali quali – oltre “Amleto” – “Pinocchio” (1961, 1966, 1981, 1998), “Majakovskij” (1961, 1963, 1974, 1980), “Nostra Signora dei Turchi” (1966, 1967, 1968, 1973), “Salomè” (1964, 1967, 1972), “Otello” (1979, 1984), “Macbeth” (1983-84, 1996), “Achille/Pentesilea” (1989-1990, 1998, 2000). In tal senso, nella ricerca beniana, le “opere” non sono che punti di manifestazione di progetti, di operazioni, di eventi che si sono dati entro una pratica in trasformazione costante dagli anni Sessanta ai primissimi anni Duemila.
Si tratta di mezzi espressivi e di serie operali che sono attraversati per movimenti laterali da “figure” (i volti calcinati, truccati con segni di “scarnificazioni” o mascherati/decorati con gocce di vetro colorate e finte pietre preziose; i manichini e i veli nuziali; le vesti, i fazzoletti, le lenzuola; le bende, le corazze; i letti, i bauli/bare; gli specchi, le cornici vuote, gli schermi; i gessi e le protesi), da “configurazioni situazionali” e “atti performativi in variazione” (il truccare/struccare i volti; il vestire/svestire i corpi, come accade già ne Il Rosa e il Nero, 1966, o immetterli in un circuito di impedimenti/impasse come accade ad esempio con la “crocefissione” che da Cristo ‘63 passa a Salomè, 1970) e da “composizioni sonore” (le voci in variazione, strumentate dall’amplificazione fonica; il suono-rumore nelle campionature dello strappo e del fruscio delle vesti, dello schianto, del sibilo del vento; i cortocircuiti audio–visivi; la musica per voce).
Si tratta di figure, di configurazioni situazionali, di atti performativi e di composizioni sonore che creano o possono creare una modulazione espressiva che si ripete – nell’opera, nella serie operale o che viene ripresa da una serie operale all’altra – e che nel ripetersi e nello sconfinare si trasformano in altro attraverso le permutazioni dell’idiolessi beniana: come accade, ad esempio, in modalità happening, con le interminabili “cene” preparate, apparecchiate e consumate in scena – al Teatro Laboratorio -in Addio Porco e in Cristo ‘63 e performativamente riposizionate nella scena del frate in Nostra Signora dei Turchi tanto nelle forme teatrali (1967, 1973) quanto in quella filmica (1968).I mezzi tecnici vengono assunti entro uno campo operazionale dischiuso da uno spazio mentale; a teatro, come la strumentazione fonica modalizza la voce, il rumore e la musica, così la luce modula le variazioni di scala, i dettagli e i particolari, riconducendo i corpi attoriali e gli oggetti all’estensione scultorea o alla planarità della superficie pittorica. Nella variante cinematografica, invece, è il corpo a raccordare da sé e su di sé le inquadrature, a farle insistere sulla propria “ipercinesi” e sulle proprie “immobilità” e, dall’interno dell’inquadratura, a farle catalizzare sulla propria variazione scalare: muta cioè, senza soluzione di continuità, la “dimensione”, mettendo in variazione la relazione tra profondità e superficie. La composizione dell’immagine cinematografica si decostruisce attraverso gli scarti visivi dal troppo lontano al troppo vicino, mediante le figure di impedimento dello sguardo (Don Giovanni, 1970) e con la de-figurazione di volti, corpi, oggetti, paesaggi (Nostra Signora dei Turchi) per il tramite di linee di interferenza semiotiche e transtestuali fra teatro, cinema e videografia, come si evidenzia nella serie operale dell’“Amleto”.
2. Testi
La messa in forma discorsiva dei differenti blocchi di spazio-tempo sub specie theatri o sub specie cinematografica non è separabile dalle immagini visive e sonore in cui tali blocchi consistono, ma è a essi immanente e nondimeno, concretamente, si rende visibile/leggibile in forza di queste e dei loro mezzi espressivi. Nondimeno, nel passaggio da un mezzo all’altro, l’immagine visiva e l’immagine sonora variano non tanto per la mutazione delle tecniche espressive d’innesco (teatrali o cinematografiche che siano), quanto per idiolessi.
Nella pratica di Carmelo Bene, il progetto, il processo, la serie delle opere e la loro variabilità estensiva, la ripetizione come differenza (di cui ha scritto Gilles Deleuze), l’irripetibilità insita nell’istituto stesso della ripetizione (evidenziata da Maurizio Grande), l’uguale contraffatto dalla dissomiglianza (come nota Pierre Klossowski)3, la contraddizione tra augēre e agěre (come rileva Piergiorgio Giacché)4 si dischiudono in evento. Si è esposti a “ce qu’il arrive”, all’inatteso, a ciò che non si esaurisce nell’opera, ma vi si traccia rimanendo processualmente aperto in essa e attraverso di essa. In questo movimento si dà il passaggio da un linguaggio all’altro, si produce una trasformazione dell’uno nell’altro, mettendo in variazione continua specifiche caratteristiche formali attraverso lo spostamento dei procedimenti tecnico-espressivi, per déplacement dei codici e destrutturazioni di convenzioni e modi enunciativi. Modi operazionali che, come si dirà, su base testuale e trans testuale, attengono alla messa in relazione di elementi eterogenei, agendo sulle potenzialità semiotiche di un certo mezzo di espressione, creando qualcosa che si ripete e che viene ripreso attraverso un altro mezzo espressivo in modo autonomo o assumendo una molteplicità di forme linguistiche per interferenza, sovrapposizione, spostamento, migrazione. Lavorando sui dispostivi mediali, sugli apparati tecnologici e sulle procedure tecniche di un dato mezzo espressivo, la pratica beniana stessa funziona, sul piano formale, come “medium” che sposta e trasforma le relazioni tra le proprietà intrinseche di un mezzo in quelle di un altro mezzo (fare del cinema o del teatro con altri mezzi, ad esempio), implicando una trasposizione di uno o più sistemi di segni in un altro sistema di segni, oppure riportando nel linguaggio di un medium ciò che intrinsecamente è proprio al linguaggio di un altro medium. Inoltre, si aggiunga, in questo suo trasferire i “caratteri” di un mezzo espressivo ad un altro, disappropriandoli, Bene trasforma i linguaggi e agisce sul piano enunciativo anche, anzi soprattutto, attraverso la dimensione transtestuale. Detto altrimenti, nel suo opus, il cinema, il video, o l’arte, il teatro o la letteratura non sono un campo di applicazione, ma una sperimentazione di eterogeneità, un’eterogenesi attivata in chiave testuale e transtestuale.
La pratica di Carmelo Bene eccede le forme che fondano storicamente e culturalmente il Novecento, ma tale eccedenza, come si è anticipato, non si pone in una condizione aliena e irrelata, bensì si rivela critica radicale, vis decostruttiva e ossessiva orientata ai testi che ci introducono ai linguaggi entro i quali si esperisce il mondo, come l’arte. Bene non ha fatto che decostruire testi, cioè “leggerli” e “riscriverli” incessantemente, cercando di disarticolare il gioco autoritario del quale sono sempre portatori (come evidenzia Gilles Deleuze)5. Si tratta probabilmente di una delle possibili derivazioni della strategia transtestuale che attraversa l’opus beniano: è una strategia che evita le strade battute, si snoda tra impasse e percorsi interrotti, ricercando nel “già detto” e nel “già visto”, nei testi e nelle opere altrui, ciò che rimane “da pensare” (si legga “de-pensare”) e ne fa parte del proprio pensiero inventivo che è operatore di aperture e di chiusure, filtro, bordo, limite, soglia che mette in relazione modi espressivi e testi. Il pensiero non è interpretazione, ma è, deleuzianamente, sperimentazione inventiva e operazionale che nomina ciò che non si esaurisce nell’attualizzazione dell’operazione, nella concretezza dell’operato, nell’insieme di relazioni non separabili le une dalle altre, ma in ciò che nell’opera rimane aperto. Tutto ciò può essere osservato attraverso i processi operativi inscritti nel materiale video non montato dell’Otello (1979) o constatato nella documentazione video delle sessioni di prove del Macbeth (1984) al Centro Teatro Ateneo di Roma (dell’Università La Sapienza). Qui si tracciano i modi in cui Carmelo Bene mette in relazione elementi eterogenei ridefinendoli in un insieme, ossia si vede diversamente disimplicata una metodologia, che fa parte delle opere in fieri, ma che non vi si esaurisce. Attraverso tale metodologia egli elabora rigorosamente – per interferenze, stratigrafie, distaccamenti – altri testi, compresi i propri, decostruendoli in scena e/o in video, rendendo così possibile l’inatteso quando le diverse serie espressive dispiegate, i differenti linguaggi convocati su diversi piani, precipitano e si stratificano attraversati dalle linee di fuga che il testo in fieri dell’opera dischiude. L’opera è un modo di produrre le condizioni di leggibilità e di visibilità di ciò che vi si produce, è tracciare la lettura di altri testi, processualità transtestuale contestuale e contestualizzante. In un tale orizzonte, si è letti da ciò che si legge in una trasformazione. Si tratta, nel complesso, di una metodologia rigorosa che inerisce la mutazione di statuto dei concetti di “opera” e di “testo” che non concerne l’accezione barthesiana6 né il testualismo postmodernista7.
La “transtestualità” – definibile, in senso genettiano, come tutto ciò che mette un testo in relazione manifesta, allusiva o segreta, con altri testi8 – è la conditio prima dell’opus di Bene, teoria e prassi di riscrittura e di ritestualizzazione radicale, che pertanto porta alla perdita irreversibile della fonte o al depistaggio deliberato, alla falsificazione. Bene sostiene che «si riscrive perché non si può più scrivere» perché, à la Borges, non è più possibile esprimere, ma soltanto citare. Si tratta più precisamente di scrivere la lettura dei testi9. Non solo. Infatti il “testo” implica anche un’operazione decostruttiva. Secondo la definizione derridiana, si dà “testo” non appena la decostruzione è messa in atto, così il testo viene a implicare un processo, un contesto, una rete di relazioni. In tale prospettiva, la pratica beniana opera decostruttivamente, prende posizione critica e trasforma la dimensione molteplice del suo opus attraverso l’incremento e la mobilità delle connessioni transtestuali.
Su questa base Carmelo Bene ha sempre analizzato sino al loro limite i linguaggi dell’arte, costruendoli e decostruendoli in una ininterrotta modificazione del limite stesso, trasformandolo in soglia, in passaggio, in varco verso qualcos’altro da sperimentare/pensare con il rigore di una ricerca quasi impossibile. Non ha ricercato alcun superamento dell’arte, ha perseguito invece la decostruzione dei suoi linguaggi interfacciandoli al proprio fare multiespressivo, intaccandoli, trascinandoli in un movimento erosivo sotterraneo che si snoda secondo percorsi rizomatici e che affiora manifestandosi nel proprio opus in forma di idioletto.
3. Operazioni decostruttive
Di ciò che si dice “arte”, alta o bassa che sia, Carmelo Bene rifiuta polemicamente la dimensione consolatoria alla quale contrappone una lucida accettazione della logica mercificata che la sottende e la muove, illuminando con la sua stessa pratica lo snodo ideologico dell’autonomia e dell’eteronomia dell’arte: il mercato è una forma nella quale si esprimono i rapporti sociali secondo una logica culturale di equivalenza e di intercambiabilità valoriale, nell’evidenza che l’opera d’arte è anche merce e attività (lavoro) e che l’attività artistica è una modalità della forza-lavoro. È un punto di emersione, questo, della forza politica ed estetica della pratica beniana quale effetto specifico di un complesso legame con molteplici processi storici del contemporaneo (e non solo) – la cui inerenza biopolitica è ravvisabile nella centralità assunta dal corpo – che nondimeno tende a disperdersi in una dimensione transtorica o, più precisamente, come accade attraverso il cinema, rivela il cadere nel tempo, il tempo come un “fuori assoluto”. Il tempo né Chrónos né Aiôn in cui le immagini cinematografiche beniane talvolta precipitano. La loro dimensione performativa e cinematica, il cui vettore segnico è lo stesso corpo in immagine di Carmelo Bene, disassa la narrazione e produce un flusso enunciativo che scardina l’ordine tra passato, presente e futuro, il piano tra immaginazione e realtà (irreale/ reale), i livelli tra verità e falsità. Posto fuori da schemi narrativi, il corpo, proprio o altrui, diviene il luogo dello sfaldamento della funzionalità del «corpo attanziale» o del «corpo dell’attante» (secondo la definizione di Jacques Fontanille)10 che tende a sconnettere le “singolarità” pre-individuali, ovvero prende a decostruire i ruoli (quali significati di relazioni) che precedono il personaggio, mettendo in evidenza come ci sia sempre un personaggio che precede la persona, come ci sia sempre un’autorità che precede l’autore e come sempre il potere (anonimo?) strategicamente si esercita precedendoci11.
Non si tratta più e solo del dominio del potere con regole, codici e convenzioni in concatenamento con il dominio del sapere, ma di regole, codici e convenzioni “facoltative”, scelte in quanto attengono al potere e al sapere esercitati su di Sé, al rapporto col Sé. Non c’è Soggetto, ma produzione di soggettività individuale e/o collettiva, soggettivizzazione, modi di esistenza. Il Soggetto prima della sua articolazione enunciativa è la casella vuota, il vuoto in cui trova il proprio spazio il dispositivo semiotico dell’istanziazione distintiva dell’ego, hic et nunc e, al contempo, è il campo di oggettivizzazione dei concatenamenti tra saperi e poteri e dei loro punti di emergenza e di dispersione. La soggettività è costruita (interiorizzata) e derivata (dall’esterno), è la dimensione dell’anonimato il cui precipitato storico è ciò che si enuncia e ciò che si vede, ed attiene ai modi che trasformano gli esseri umani in soggetti.
Molto è stato detto e scritto sulla centralità del corpo, su che cosa può il corpo nella pratica beniana. Carmelo Bene non mostra come i saperi e i dispositivi di potere si articolino direttamente sul corpo, ma ne mostra la reazione, mostra che cosa può un corpo e agisce performativamente il Sé, il rapporto con il Sé, il Sé come rapporto. Da un lato, egli opera decostruttivamente, per via interdiscorsiva e transtestuale (attraverso certi testi letterari, teatrali, musicali, cinematografici, artistici e filosofici) sui modi di soggettivizzazione e sul corpo, proprio o altrui, quale “teatro” della moltitudine in cui l’Io consiste. Dall’altro lato, pratica l’artificio della vita, ne agisce le virtualità, vi reagisce esperendo una autobiografia immaginaria, in cui biografia e immaginazione in reciproco rimando e continuo scambio, sono le dimensioni distinte ma coesistenti di uno stesso percorso esistentivo in divenire. Posta in gioco enunciabile è la distruzione di quel vuoto in cui il Soggetto trova il proprio spazio al di fuori dell’enunciazione stessa che lo definisce e che dischiude la dimensione impersonale, anonima della storia che ci precede (esemplarmente in Lorenzaccio, al di là di De Musset e Benedetto Varchi, 1986). Attraverso il filtro della sua pratica, Carmelo Bene ha incrociato il percorso foucaultiano, sperimentando come gli enunciati siano in connessione con una referenzialità che non è costituita immediatamente da cose, da fatti, da realtà o da esseri, ma da condizioni di possibilità, da leggi, da regole di esistenza per gli “oggetti” (cose, fatti, realtà, esseri o corpi) che vi si trovano nominati, designati, affermati o negati. Qui si situa la questione del Soggetto attraverso i piegamenti, i dispiegamenti e i ripiegamenti discorsivi entro il pensiero filosofico dalla logica del fondamento (da Cartesio a Husserl), sino al collasso di tale fondamento (dopo Nietzsche e dopo Heidegger che ripensa Nietzsche). Si tratta, per Carmelo Bene, di frequentare l’impossibile unitarità dell’Io e la correlata impossibilità di presa di congedo dal Soggetto, ma si tratta anche di reagire ai limiti del corpo, ai processi di soggettivazione o produzione di modi di esistenza presi nei circuiti di cattura della logica di dressage, di (auto)assoggettamento e di desoggettivizzazione (S.A.D.E. ovvero libertinaggio e decadenza del complesso bandistico della gendarmeria salentina, 1974).
Tutto questo ha a che vedere con la decostruzione dei tipi di discorso, dei modi di enunciazione, dei generi cui appartengono i testi convocati, delle loro dimensioni architestuali ecc. operata da Bene. Egli pone in relazione di compresenza due o più testi attraverso una rete di operazioni trasformative che mettono in causa l’immagine, il farsi e il disfarsi a vista della figurazione. Tale operazione decostruttiva investe i dispositivi della rappresentazione e della figurazione e ne esibisce, opacizzandole, le segnicità e la portata discorsiva.
In Capricci (1969), ad esempio, viene posta la questione dello statuto dell’arte come puro ornamento, disdetto attraverso la semiologia barthesiana dei miti d’oggi («la cucina di Elle») e l’istanza critica brechtiana contro l’appagamento estetico che pacifica (soddisfazione «gastronomica»). Capricci sembra mettere in gioco criticamente non solo la questione del kitsch, del camp, ma anche – per vie warholiane (e non solo) – le operazioni in chiave New Realism/ Pop art.
In Capricci, Clarke (Tonino Caputo), il pittore di Arden of Feversham (secondo Bene) sa dipingere immagini dai colori che uccidono chi le guarda. Dipinge su oggetti e corpi concreti, “reali”: «muove i pennelli sugli oggetti veri per farli assomigliare a quelli dipinti […]». Per Maurizio Grande si tratta di un’eversione critica dell’impressione di realtà, dei codici realistici, del (supposto) referenzialismo iconico. E questo accade proprio mentre nei convegni internazionali di Pesaro, (che si tennero nell’ambito della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema nel 1966 e nel 1967), la semiologia del linguaggio cinematografico trovava, ancorché problematicamente, il proprio fondamento teorico sulla realtà o sull’analogon della realtà. Non solo. L’operazione di inversione dell’analogon tra gli oggetti dipinti e gli oggetti veri sembra avere un sottile contraccolpo decostruttivo anche rispetto alle questioni ontologiche rilevate da Arthur C. Danto attraverso il caso di indiscernibilità ictu oculi degli oggetti estetici warholiani Brillo Box (scatole di compensato esposte alla Stable Gallery di New York, nel 1964) dalle scatole di cartone delle pagliette Brillo del designer James Harvey, già artista espressionista astratto, che essi mimano e spettacolarizzano. Nondimeno, i primi sono riconoscibili in ordine alla forma artistica, mentre le seconde sono distinguibili in rapporto alla forma pubblicitaria. Si tratta di una discernibilità non data, ma prodotta in forza di una certa definizione ontologica dell’arte, dalla quale deriva una differente portata economica.
Questo per provare a descrivere come, qui e altrove, la pratica beniana prenda posizione critica e trasformi la dimensione molteplice del suo opus attraverso l’incremento e la mobilità delle connessioni transtestuali. Si tratta di un’operazione decostruttiva che investe il processo dell’immagine anche a teatro, soprattutto nel corso degli anni Sessanta. Prima del passaggio al cinema, la dimensione teatrale – al Teatro Laboratorio, a Roma – è sperimentata attraverso l’happening. Degli happening, praticati da Allan Kaprow, Jim Dine, Claes Oldenburg, Robert Whithman, Carolee Schneemann, George Brecht, Yoko Ono ecc., scrive nel 1962 Susan Sontag descrivendoli come un incrocio tra la mostra d’arte e lo spettacolo teatrale, che trova spazio in differenti luoghi – loft, gallerie, cortili ecc. – davanti a un pubblico – e si concretizza temporaneamente in «[…] a dense object-clogged setting which may be made, assembled or found or all three»12. Nonostante la radicale giustapposizione degli elementi compositivi, delle situazioni messe in atto e degli accadimenti che ne scaturiscono, Sontag rileva “una unità formale” riconducibile principalmente al «treatment (this is the only word for it) of the audience», che mira aggressivamente alla presunta “anestesia emozionale” del pubblico. Anche topograficamente il Teatro Laboratorio diviene un luogo liminare in cui il pubblico è esposto a se stesso, piuttosto che all’impermanenza dell’accadimento, comunque estenuato nella sua interminabile temporalità. Carmelo Bene ricorda: «Si finiva sempre a tavola. In scene e fuori scena». «C’era una tavola apparecchiata, di quelle da osteria». Manlio Nistri «faceva da mangiare in scena, in tempo reale, senza dar confidenza (la spesa la faceva il mattino al mercato di San Cosimato) e senza rinunciare al frac e alle ghette, le camicie, mezze maniche sommate. Ci mettevamo così tutti a tavola. Antipasto, primo e secondo». «Vogliamo fare un caffè, signor Carmelo?, m’interpellava con aria complice il signor Nistri? “E perché no, Manlio, facciamolo pure…”. Senza recitare. Come se la quarta parete fosse murata. Quelli [del pubblico], ridotti a guardoni, aspettavano l’ebollizione della ‘napoletana’, e d’altra parte avevano pagato per questo. Volevano soprattutto testimoniare l’esito. Alla fine del pranzo si sparecchiava per bene e ce ne andavamo. Dopo un tempo interminabile rientravo come a cercare qualcosa che avessi smarrito13. Delle dimensioni happening o Materialaktion (nella pratica artistica di Otto Mühl) Carmelo Bene sembra elaborare decostruttivamente il posizionamento del pubblico entro un dispositivo insieme teatrale (non rituale) in cui dilaga l’uso di materie e di sostanze alimentari, di utensili, di vernici ecc., attraverso alcuni moduli performativi entro date configurazioni situazionali in variazione. L’uso di materiali occasionali e deperibili li definisce come un “aggregato” che rende indistinguibile la funzione di tali materiali sul piano della “messa in scena” – differenza tra oggetti, oggetti di scena, costumi – e li fa agire (li rende agibili) attraverso le loro proprietà sensoriali. Da tale assemblaggio dei materiali discende una ibridazione dello spazio scenico, così come dagli atti performativi e dalla serie di accadimenti dalle imprevedibili durate, incidenti sospensivi, impasse creative o cerimoniali che investono il pubblico, si produce un concatenamento ambientale ed evenemenziale che non lascia “resti” utilizzabili o perché non ce ne sono, o perché letteralmente investiti sugli spettatori (come accadeva in Cristo ‘63).
Entro un tale orizzonte, la transtestualità sub specie imaginis pone una serie di questioni, soprattutto nella dimensione cinematografica, che non concernono tanto ciò che si vede puntualmente dietro l’immagine – per tracce palintestuali o per stratificazione fossili –, quanto attengono all’operazione decostruttiva che si produce attraverso un’immagine che si pensa criticamente e trasformativamente in relazione a un’altra immagine. Non si tratta solo dell’aprirsi di spazi di intertestualità che, come scrive Grande, è la «forma moderna della contaminazione e della citazione, del dialogo fra testi, forme estetiche e linguaggi», ma è anche la «scrittura critica che scova la profondità nella superficie, stana il classico nella parodia. L’intertestualità funziona ad almeno due livelli: uno palese e superficiale, dichiarato e smentito nella forma della citazione; l’altro occulto e profondo, annidato nella forma della allusione. E così come la forma palese della citazione consiste nel trasportare pezzi di testi da un luogo all’altro, da un’opera all’altra, allo stesso modo il dispositivo occulto della allusione consiste nella ramificazione polimorfa del senso in un linguaggio assonnato, eppure vigile, che dà luogo alle forme critiche del moderno: il fraintendere e l’equivocare»14.
In Don Giovanni (1971), ad esempio, l’immagine della madre (Lydia Mancinelli) è presa in circuiti temporanei di ripetizioni differenti, di variazioni in figura del corpo “vestito-nudo”: i costumi «sono dei Rembrandt, dei Cranach, degli Ingres, ecc. La coprono solo davanti. Dietro è nuda. L’inattendibilità della veste, ma anche della pelle». Le citazioni pittoriche – La Primavera di Botticelli, la Venere allo specchio di Velázquez, La Baigneuse di Ingres – sono richiami svuotati di senso. Essi nondimeno si collocano “entres-image”, nello scarto dell’immagine tra cinema e pittura; non ne focalizzano i dispositivi, bensì mettono in evidenza la trasformazione che li investe, sul piano intertestuale, proprio attraverso la figurazione: viene in evidenzia come la trasformazione di una materia nell’altra si produca attraverso un processo intertestuale in immagine. La transtestualità introduce una presa di posizione critica tracciando delle zone di variazione tra i testi attraverso cui far passare qualcosa che sfugge ai codici, alle convenzioni, al repertorio iconografico e iconologico dell’arte, in questo caso pittorica. Ma la transtestualità è un ductus, un complesso tracciato modale di “letture” e “visioni” relazionali. Le questioni puntuali che attraverso di essa pone l’opus di Carmelo Bene, non affrontabili qui, attengono anche alla decostruzione delle immagini rispetto al come vedere l’immagine in sé o a ciò si vede dietro l’immagine operando, in Capricci, ad esempio, sulla relazione triadica indice, icona, simbolo (sulla quale sembra insistere il tracciato enunciativo del film) o sull’“immaginale” di certe immagini (di Pierrot le fou, 1964, o di Week-end, 1967, di Jean-Luc Godard ad esempio) producendo un diasassamento dei piani dell’espressione e del contenuto entro una correlazione segnica connotativa deformata rispetto alla loro provenienza testuale.
Un’altra modalità della decostruzione si manifesta attraverso la performatività del corpo, in figura, in immagine, ma come se la relazione transtestuale non avesse un supporto d’iscrizione localizzabile. Non si tratta di risignificazione, ma del modo in cui si traccia il processo di rienuncianzione che dice quel che dice prendendo posizione critica rispetto a sé e a altro. Come sembra accadere attraverso la figura del bambino in Nostra Signora dei Turchi (1968), nel passaggio filmico in cui, preceduto dall’irrompere di un pianto infantile fuori campo, “Lui” (Carmelo Bene), assente e insieme dolcemente protettivo, prende meccanicamente tra le braccia un bambino, mentre fuochi d’artificio illuminano, assordanti come bombe esplose, il cielo notturno. Differentemente da quanto accade nel romanzo omonimo, nell’opera cinematografica il passaggio autobiografico beniano è interferente ad un’altra autobiografia, quella di Pier Paolo Pasolini nell’incipit di Edipo re. Qui il bimbo lasciato solo si alza dal letto e traballante raggiunge il terrazzo, aggrappandosi alle sbarre/grate della ringhiera affacciata sul vuoto di un cortile. Di fronte le finestre illuminate a schermare voci e musica e a inquadrare i genitori stretti in una danza-abbraccio; forse, spaventato dai rumori e dalle luci dei fuochi d’artificio il bimbo scoppia in un pianto disperato, inconsolabile. La relazione transtestuale opera decostruttivamente, critica il processo di formazione in immagine della figurazione, così come della figurabilità dell’Edipo. «Nessuno è padre ad un altro»: questa frase di Elsa Morante, che Carmelo Bene non smette di ripetere, non è il sottotesto, ma la linea di fuga che, qui e altrove nell’opus benaino (e non solo nell’“Amleto”), deterritorializza la matrice edipica del discorso freudiano, del debito infinto, dell’analisi interminabile, ovvero del contagio intersoggettivo dell’Edipo nella sua trasmissione da padre a figlio. Si tratta di una deterritorializzazione che sembra procedere nella direzione anti-edipica di Deleuze-Guattari, poco frequentata tuttavia da Bene, nella quale irrompono storicamente le resistenze al sociale, all’economia politica, nelle forme impensate e tatticamente sottrattive di un anti-potere fuori misura, senza conflitto15. L’Edipo-struttura radicata nella mente dei padri e delle madri è colonia interiore, formazione coloniale intima, che una volta di più mette in campo, attraverso i corpi, i processi di soggettivizzazione, il rapporto con il Sé. E ciò accade attraverso l’apertura critica dell’immagine; immagine che mette in crisi un’altra immagine, crisi dell’immagine come tale che, nondimeno, è evento d’immagine, sensibilmente percepito senza passare dunque attraverso i filtri enunciativi della rappresentazione e della narrazione. Attraverso l’immagine, tra il leggibile e il visibile, l’alterazione della messa in forma traccia e segna la presenza intensiva di ciò che nel blocco spazio-temporale dell’immagine filmica accade. Quel che si apre davanti all’immagine, per una sorta di illuminazione interna, mette in rilievo il clivage figurale nell’immagine.
4. Figura e figurale
Come scrive Gilles Deleuze rispetto al circuito cinema-corpo-pensiero e all’immagine-cristallo «“dare” un corpo, montare una cinepresa sul corpo» acquista nel cinema di Bene un altro senso; «non si tratta più di seguire e inseguire il corpo quotidiano, ma di farlo passare attraverso una cerimonia, di introdurlo in una gabbia di vetro o di cristallo, di imporgli un carnevale, una mascherata che ne fa un corpo grottesco, ma ne estrae anche un corpo grazioso o glorioso, per giungere infine alla scomparsa del corpo visibile»16. L’opera filmica è la «gabbia di vetro o di cristallo», in cui performativamente e cinematicamente accade che i movimenti nello spazio sprofondino nel tempo, dove Bene introduce il (proprio) corpo attoriale per farlo oggetto, anzi per oggettivarlo, fino ad arrivare al punto in cui non ha più alcuna importanza dire “Io”. Nel cinema di Bene, sostiene ancora Deleuze «il corpo non è più l’ostacolo che separa il pensiero da se stesso, ciò che il pensiero deve superare per arrivare a pensare. Al contrario è ciò in cui affonda o deve affondare, per raggiungere l’impensato17.
È dal proprio corpo che Carmelo Bene procede verso la sperimentazione dell’irrappresantabile: in scena, come sul set, il cogliersi dell’attore in un gesto o il suo sorprendersi a ripensare criticamente a ciò che sta dicendo rende impossibile il rappresentare, lo stare al posto di un altro (o anche l’essere l’altro di un altro che viene insieme evocato e cancellato dalla rappresentazione), e fa sorgere come un automatismo la parodia (para-odé, un “parlare accanto”). Si determina così uno scontro, un dissidio critico tra ciò che l’attore sta dicendo, o facendo, e ciò che va opponendo a ciò che va dicendo o facendo; questo origina una difformità che rende impossibile l’assunzione di un’identità, di un ruolo. Tutto questo concerne il posto vuoto del Soggetto dell’enunciazione che si dispiega nella scissione costitutiva di un Io e di un Tu che Carmelo Bene prende a decostruire attraverso il “corpo proprio”, in tutti i linguaggi convocati nel suo opus. È il paradosso dell’essere al contempo e reversibilmente un Io e un Tu attoriali e autoriali: scissura complessa tanto irreversibile quanto automatica e autocontestativa. Per mezzo delle piattaforme tecnologiche-mediali della strumentazione fonica a teatro e le tecniche cinematografiche e videografiche, il dissidio tra augēre e agěre che investe il “corpo proprio” di Carmelo Bene si precisa nella direzione già evidenziata da Klossowski, secondo il quale è «l’uguale che si tratta di contraffare [e disintegrare] implicando una dissomiglianza»18 nel gesto e nella voce. Il cinema è insorgenza della macchina attoriale e delle pratiche di de-soggettivazione del corpo che sono ferite reali-irreali inferte all’Io e al Tu. Il “corpo proprio” di Bene è l’uguale (o, forse, non è già più l’uguale), che prende a differirsi in proliferazioni di altri da sé. È un corpo dissociato, attraversato dalla incongruità delle relazioni fra gesto e azione, dell’atto che manca l’azione. In ciò consiste anche la distanza, rispetto ai temi dell’inorganico, da certe pratiche artistiche nelle quali invece l’azione si installa nel corpo e diviene corpo, come accade nei differenti percorsi della Body art. Tuttavia, quantomeno tra gli anni Sessanta e Settanta, come si è anticipato, nella pratica beniana sembrano convocati, per via transtestuale e in chiave decostruttiva, alcuni modi enunciativi dell’Happening, cui si è fatto cenno, e dell’Azionismo viennese. Lo spostamento del processo pittorico sulla pelle, sul corpo proprio del performer (il corpo dipinto di bianco di Günter Brus, ad esempio), ad esempio, passa dal corpo/volto degli spettatori e delle spettatrici in Addio Porco e in Cristo ’63, ai volti truccati a mimare scarnificazioni in Il Rosso e il Nero o ferite rosso-sangue, al volto calcinato dello stesso Carmelo Bene in Nostra Signora dei Turchi. Le Aktionen rituali che dal 1962 Herman Nitsch inscena attraverso performer passivamente “crocifissi” e cosparsi di sangue trovano elaborazione critica, come si è anticipato, in Cristo ‘63 e sono successivamente trasformate da Carmelo Bene in un impossibile auto-martirio, nell’“autocrocefissione” in Salomé dove il Cristo-Aspirante Crocifisso19 tenta di inchiodarsi da sé, i piedi e una mano, ma l’altra?
Sembra trattarsi, per via transtestuale, di una operazione decostruttiva che Bene opera rispetto all’Azionismo viennese in merito ai modi di soggettivitazzazione artistica concentrati sul potere, sul potere che non si esercita sui corpi, ma che transita attraverso di essi. Decostruzione che opera una critica radicale della violenza enunciativa dei corpi e che è enunciata dai corpi resi soggetto-oggetto nelle sessioni solipsistiche o collettive dell’Azionismo viennese: la violenza è messa in scena quale regressione, afflizione, degradazione, automutilazione dei corpi ed è ritualizzata attraverso l’azione artistica che si incarica di agire contro le forme del controllo sociale sui corpi (azione che, nondimeno, resta iscritta entro un registro sessista patriarcale). Schematizzando, le forme del controllo sociale (filtrate attraverso la rimozione repressiva della cultura postfascista europea rispetto al recente passato) venivano contrastate denunciando una struttura ancora binaria di dominazione (dominanti/ dominati), quando si assisteva all’emergere di una produzione molteplice e multiforme di rapporti di dominio che agivano non più e solo in termini di “dressage del corpo”, ma attraverso la costruzione di individui in corpi docili. Contro i rituali e le con-figurazioni performative delle Aktionen, per via transtestuale, la pratica beniana sembra operare decostruttivamente, come da un altrove, in relazione ai processi di soggettivizzazione che tali azioni mettono in campo attraverso le ferite fisiche e simboliche del corpo.
Diversamente, nella pratica beniana, le ferite sono inventate, ferita è la benda; come in Macbeth: il rosso-sangue è già sempre una macchia di bende e lenzuola. «Ferita era la benda e non il braccio. Ecco un braccio bendato. Una ferita? E svolgi svolgi questa benda, svolgi, svolgi: bianco bianco men bianco un po’ di rosso rosso rossorosso più rosso (è qui la piaga?) Svolgi svolgi men rosso meno rosso meno rosso Bianco bianco più bianco e via la benda Niente […]». Oppure, come accade in Salomè, dove si confondono wildianamente «macchie di sangue e petali di rosa». Le «cadute volontarie» in Nostra Signora dei Turchi non schiantano il corpo e le loro traiettorie sono invisibili; il crash automobilistico non sfalda la carne, le lamiere non tagliano in Capricci; i fili metallici che intrappolano il corpo non lo invadono in Don Giovanni; il togliere la pelle in Salomè è l’esfoliarsi dell’immagine, non del corpo.
Ciò che è preso di mira dalla pratica beniana è il posto vuoto del Soggetto enunciazionale dal quale fa emergere attraverso situazioni (che più non sono i personaggi) i processi di soggettivizzazione (si pensi alla situazione “Lady Anna” in Riccardo III, o alla situazione “Lady Macbeth”) attraverso una rete discorsiva le cui connessioni attengono a una referenzialità che non è immediatamente costituita da cose, da fatti o da esseri, ma dai testi, dalle condizioni di possibilità e dai concatenamenti politici ed estetici che vi si trovano affermati o negati in termini di relazioni tra “arte” e “vita” (o “non arte”)20 . Ed è su tale dispositivo che Carmelo Bene opera decostruttivamente attraverso linee di fuga deterritorializzanti come è stato rilevato, e non solo, da Deleuze.
Certe pratiche artistiche novecentesche hanno sottoposto a scrutinio le relazioni di sapere e di potere nel loro intreccio con altri tipi di relazioni (di produzione, di alleanza, di famiglia, di sessualità ecc.) analizzando come esse passino, avanzino, moltiplichino le loro connessioni ed effetti direttamente attraverso i corpi. Ma – come evidenziano Foucault, Deleuze e Agamben – tali relazioni avanzano attraverso punti d’appoggio che non concernono affatto la forma disciplinare dell’interdetto e della punizione o la logica del controllo. Esse passano attraverso complessi processi di soggettivizzazione: è rispetto a tali di passaggi che, in modo discontinuo in tutto il suo opus, la pratica di Carmelo Bene sposta il campo discorsivo dal Sapere, dal Potere e dal Soggetto, alla relazione col Sé.
In quell’opera molteplice – letteraria, teatrale e filmica – in cui consiste Nostra Signora dei Turchi, ad esempio, sul piano dell’enunciazione21 è significativo l’uso della terza persona (“egli”, “lui”) che distanzia il corpo proprio di Carmelo Bene, oggettivandolo, entro una data situazione spazio-temporale, da una prospettiva mantenuta in prima persona. Nel romanzo ciò accade attraverso l’uso del discorso indiretto libero: «[…] si provò a volare, dal piano del tavolo al letto. Non toccò la sponda e cadde riverso. Essendosi librato a mo’ degli angeli, ne seguì una caduta rovinosa che gli valse la frattura di una gamba. Si trascinò carponi verso l’armadio dei medicinali, ne trasse una garza che imbevve nel whisky e se ne fasciò dal piede destro alla coscia […]»22. Si tratta dell’introduzione letteraria al “monologo dei cretini”, introduzione che nel passaggio filmico di Nostra Signora dei Turchi sembra operare decostruttivamente attraverso le questioni poste dal rapporto tra il “Soggetto” e la molteplicità dell’“Io” (“Lui”, “il Martire”, “il Cavaliere”, “il Frate”, “il Morto”). Tale rapporto è complicato dal vedere, dall’essere visti, dal vedersi visti attraverso un processo in cui l’enunciazione è presa in passaggi enunciativi retti, a loro volta, da un’altra enunciazione in cui l’atto stesso del vedere si mostra in immagine, dentro lo sguardo filmico, esponendoci al contempo all’esperienza del trovarsi a “guardare il cinema che vede”. Non solo. Rispetto alle costruzioni enunciative persiste ciò di cui lo sguardo è il sintomo figurativizzato o la figura, ossia il testo quale oggetto da guardare (da leggere) e che a sua volta guarda e ci guarda.
La contraffazione del sé – o in termini klossowskiani “contraffazione dell’identico” – è una delle modalità disindividuanti che Bene gioca tra il Soggetto e le proliferazioni dell’Io; si pensi alla scena del “triplo” nella versione filmica di Nostra Signora dei Turchi. Ma non si tratta solo di far emergere “la terza dalla prima persona”. La formula rimbaudiana del «Je est un Autre» si complica: l’altro non è un “Soggetto”, bensì un “Oggetto” verso il quale tendere mediante rituali, appunto, di oggettivazione. Attraverso il cinema, il corpo sperimenta la propria inorganicità sub specie imaginis e la reversibilità Soggetto-Oggetto (Hermitage) manifesta il paradosso del linguaggio, la strategia enunciativa dell’impasse. In tal senso, una volta di più, l’impossibilità di prendere congedo dal Soggetto – perché, come sostiene Carmelo Bene, si dovrà pur esserci, per non esserci, in scena – concerne la pervasività del Linguaggio (il “si parla”), ma anche segna i bordi in cui si rende visibile la testualità della tradizione culturale occidentale, i limiti dell’«il n’y a pas de hors-texte».
Nella versione filmica di Nostra Signora dei Turchi, entro un processo già avviato in Hermitage, si traccia “in figura” il divenire Oggetto del Soggetto e viceversa, ma l’immagine sonora e l’immagine visiva, dicendo quel che dicono «sui cretini che vedono o non vedono la Madonna», dicono altro. Esse sembrano operare criticamente sulla relazione tra Soggetto e Oggetto, per via transtestuale, attraverso il filtro delle azioni di Rudolf Schwarzkogler (2 Aktion, 3 Aktion, 1965) performativamente decostruite dal copro proprio e dalla voce over di Carmelo Bene: «[…] i cretini che la Madonna non la vedono, non hanno le ali, negati al volo eppure volano lo stesso, e invece di posare ricadono come se un tale, avendo i piombi alle caviglie volendo disfarsene, decide di tagliarsi i piedi e si trascina verso la salvezza, tra lo scherno dei guardiani, fidenti a ragione nell’emorragia imminente che lo fermerà»23.
Quelli che vedono la Madonna «hanno ali improvvise», ma «quelli che vedono non vedono quello che vedono; quelli che volano sono essi stessi il volo. Chi vola non si sa». «Identità demenziale» – che «svuota l’orante del suo soggetto e in cambio lo illude nella oggettivazione di sé, dentro un altro oggetto»24.
Così, avvolto da bende e garze bianchissime, Lui/Carmelo Bene è immerso in uno spazio compresso, in un vuoto pneumatico e glaciale bianco-azzurro, in uno spazio-tempo raggelato, in una camera blu fluorescente; la segmentazione estenuante dei gesti, dei movimenti lentissimi delle cadute, dei rovesciamenti sono mostrati da punti di vista sempre differenti, così come sono differenti le angolazioni e le inclinazioni della m.d.p. Le stesse bende si fanno impedimento per il corpo attoriale che trascinandosi carponi, raggiunge nella stanza il tavolo su cui ha visto qualcosa… un vaso di fiori; passa carponi sotto il tavolo, si rialza dal lato opposto e si pone accanto al vaso dei fiori, poi finalmente sale in piedi sul tavolo: la m.d.p. lo segue e inquadra solo il volto, illuminato dall’alto, come se fosse “lui” il vaso di fiori. Altrove, Bene assume la postura di un San Sebastiano.
Schwarzkogler definiva le sperimentazioni sul proprio corpo “azioni da tavolo”. Operazioni fisiche (soffocamenti, lacerazioni ecc.) o simulate (castrazioni e morti) che siano, si tratta di sessioni performantive solipsistiche, documentate fotograficamente e/o filmicamente, consistenti nella messa in relazione di materiali chirurgici (bende, cannule, tamponi, ma anche lamette da barba, fili elettrici ecc., disposti su di un tavolo) con il proprio corpo e lo spazio circostante. È un esercizio di autocontrollo attraverso privazioni e prove di resistenza al dolore auto-causato (nel togliersi la pelle lembo a lembo, ad esempio: impossibile non pensare alla sequenza finale di Salomè, 1972).
È stato detto e scritto di come Carmelo Bene decostruisca “soggettività” e “identità” attraverso ciò che il Soggetto e la molteplicità dell’Io nominano nel suo opus. Qui si è cercato di evidenziare – per una ricerca a venire – come in chiave transtestuale, tra gli anni Sessanta e Settanta, la pratica beniana abbia messo a fuoco i processi di soggettivizzazione, prendendo posizione rispetto ad essi con una forza eccentrica al dispositivo dell’arte del Novecento – in un esercizio tattico fatto di complessità, dispersioni, situazioni inerziali, dislocazioni, interferenze, ripetizioni – ponendo a tema il rapporto col Sé attraverso le figure del corpo proprio e altrui.
Rispetto alla propria pratica, ne ‘l mal de’fiori Carmelo Bene ha scritto: «L’attentato alla forma è simultaneo alla forgia della forma stessa. Ecco quanto non è mai stato»25. E questo, forse, nelle sue conseguenze estetiche e politiche, è ciò che si traccia non solo ne ‘l mal de’fiori, ma ovunque e già sempre nel suo opus.
- C. Bene, G. Deleuze, Sovrapposizioni, Feltrinelli, Milano 1978; G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di Massimo Carboni, Castelvecchi, Roma 2010 (I ed. 1980); G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1996 (I ed. 1975); G. Deleuze, Pourparler, Quodlibet, Macerata 2000 (I ed. 1999), pp. 228-229. ↩
- H. Foster, Cos’è successo al postmoderno, in Id., Il ritorno del reale. L’avanguardia alla fine del Novecento, Postmedia, Milano, p. 213 (I. ed. 1996). ↩
- P. Klossowski, Cosa mi suggerisce il gioco ludico di Carmelo Bene, in C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 11-18. ↩
- Contraddizione che «fonde insieme (e in sé) l’inventare dell’autore e il giocare dell’attore (ovvero un aumentare la posta e un sottrarre dalla scena che si rincorrono e si smentiscono l’un l’altro»). P. Giacché, Carmelo Bene. Antropologia di una macchina teatrale, Bompiani, Milano 1997. ↩
- C. Bene – G. Deleuze, Sovrapposizioni, cit. ↩
- R. Barthes, “Dall’opera al testo”, in Il brusio della lingua, Einaudi, Torino, 1988, pp. 58-59 (I ed. 1984). ↩
- F. Jameson, Postmodernismo ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi Editore, Roma 2007 (I ed. 1991). ↩
- G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado, Einaudi, Torino 1997 (I ed. 1982). ↩
- R. Barthes, “Dall’opera al testo”, cit. p. 57. ↩
- J. Fontanille, Figure del corpo: per una semiotica dell’impronta, Meltemi, Roma 2004. ↩
- C. Bene – G. Deleuze, Sovrapposizioni, cit. ↩
- S. Sontag, Happenings: An Art of Radical Juxtaposition, in S. Sontag, Against Interpretation and Other Essays, Farrar, Straus and Giroux, New York, 1966 (I ed. in Second Coming, 1962). ↩
- C. Bene, G. Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano 1998, pp. 127-128. ↩
- M. Grande, Il disturbo del tragico, programma di sala di Hommelette for Hamlet, 1987. ↩
- Del resto Deleuze e Guattari hanno portato ad evidenza come l’inconscio si strutturi come una fabbrica, un’officina, una «macchina di produzione» piuttosto che come «teatro»; «l’inconscio non delira su papà-mamma, delira sulle razze, le tribù, i continenti, la storia e la geografia, sempre un campo sociale». G. Deleuze, Pourparler, cit., 191. ↩
- G. Deleuze, CINEMA2 – L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989, p. 211 (I ed. 1985). ↩
- Ibidem. ↩
- P. Klossowski, Cosa mi suggerisce il gioco ludico di Carmelo Bene, in C. Bene, Otello, o la deficienza della donna, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 11-18. ↩
- La figura del Cristo-Aspirante Crocifisso automartirizzantesi (quale figura troppo umana che aspira a una crocifissione impossibile) è presente nell’opera letteraria Credito italiano V.E.R.D.I. (1967), nei tentativi di “suicidarsi in croce” di Giacobbe e dischiude una serie di operazioni trasformative transtestuali attraverso Oscar Wilde (Poesie in prosa, 1894) e André Gide (I sotterranei del vaticano, 1914). ↩
- J. Rancière, Le Partage du sensible: Esthétique et politique, La Fabrique Éditions, Paris 2000. ↩
- Per quanto attiene all’irrappresentabile e al paradosso del linguaggio nell’essere al contempo “al di qua” e “al di là” della macchina da presa o al vedersi vedere e al vedersi visti entro il dispositivo video si rimanda a Cosetta G. Saba, Carmelo Bene, Castoro Editrice, Milano 2005, seconda edizione aggiornata (I ed. 1999). ↩
- C. Bene, Opere con l’Autografia di un ritratto, cit., p. 76. ↩
- Ivi, p. 77. ↩
- Ibidem. ↩
- C. Bene, ‘l mal de’fior. Autointervista dell’autore, http://www.wuz.it/archivio/cafeletterario.it/152/cafelib.htm [data ultima consultazione 03/06/2015]. ↩