Non succede certo spesso che uno spettacolo venga sospeso per le proteste di una parte dell’opinione pubblica. A Robert Lepage è accaduto due volte in uno stesso mese. La prima volta, all’inizio dello scorso luglio, è toccato a Slav, uno spettacolo musicale che raccontava la schiavitù attraverso le canzoni degli schiavi afroamericani. Dopo due repliche il Festival international de Jazz de Montréal lo ha cancellato dal suo programma a causa delle rimostranze degli attivisti del Black Lives Matter, che contestavano il fatto che dei sette interpreti solo due fossero people of colour. Ancora bianchi vestiti da neri, che seguono le indicazioni di un regista bianco in un teatro di bianchi che ne ottengono vantaggi economici. I canti degli schiavi non sono stati scritti «perché i bianchi ne traggano profitto», affermano in una lettera aperta Contre la pièce SLĀV 1, un gruppo di artisti e intellettuali, ricordando che queste canzoni sono nate dalle sofferenze di persone sottoposte a atroci abusi fisici, sessuali e psicologici praticati da un struttura di potere bianca. Lo spettacolo di Lepage sfrutterebbe questa violenza a beneficio di artisti e produttori bianchi, perpetuando lo sfruttamento e l’emarginazione subita dalla popolazione nera nel Quebec e altrove. La lettera si conclude poi con una articolata rivendicazione di un maggiore spazio per scrittori, registi e attori neri, di maggiori finanziamenti per progetti guidati da persone di colore, progetti «in cui esse possano raccontare le proprie storie piuttosto che vederle raccontare al loro posto da artisti bianchi». L’accusa è di cultural appropriation: un gruppo maggioritario si appropria della cultura di un gruppo minoritario – per di più nata dalla sofferenza che gli ha inferto – traendone un utile, economico ma non solo.
La stessa accusa e le stesse richieste si ripetono a metà dello stesso luglio 2018, in occasione di un altro lavoro di Lepage, Kanata, che il regista allestisce insieme al Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine e che non arriva neanche a debuttare. Il tema è qui la storia dei nativi canadesi. E anche qui c’è una lettera aperta in cui un gruppo di artisti e intellettuali nativi contesta la legittimità del progetto, criticando soprattutto il fatto che nell’ensemble di Ariane Mnouchkine – composto da attrici e attori provenienti da 26 paesi diversi – non ci siano nativi canadesi, il che perpetuerebbe la loro storia di esclusione.
Robert Lepage ha a sua volta protestato contro tali «censure», difendendo il «diritto alla finzione», ricordando che il teatro consiste essenzialmente nel mettersi nei panni di altri per cercare di comprenderli e magari, così facendo, comprendere meglio sé stessi. Se viene negata la possibilità di fare questo, viene negato il senso stesso del teatro. E non si può che concordare: perché che cos’è il teatro se non lo spazio in cui si sperimenta la possibilità di divenire altro, la possibilità della metamorfosi? Ma appunto qui sta il problema: nella capacità di chi fa teatro di sopportare l’alterità dell’altro che si vuole diventare. Perché molto spesso, sulla scena, ci si identifica nell’altro a partire di una certa immagine che se ne ha o se ne vuole avere. È anche questo che si intende con l’accusa di cultural appropriation.
In questa prospettiva si può vedere anche il lavoro di Grotowski, come mostra il saggio di Schechner proposto in questo numero. Grotowski ha viaggiato in Asia Centrale, in India, in Cina, in America, alla ricerca di qualcosa che ha già bene in mente: l’”essenziale”, l’”universale”, ovvero una certa sua idea di “essenziale” e “universale”, che – come scrive Schechner – «nasconde il desiderio di acquisire poteri e risorse che vengono pensate risiedere in esotici altri (per gli occidentali)». L’alterità dell’altro è esotizzata, talvolta esoterizzata, spesso addirittura banalizzata, come sosteneva Rustom Bharucha a proposito del teatro interculturale di Peter Brook, in particolare di Mahabharata, il celebre spettacolo del 1985 in cui il regista proponeva una sua lettura del poema epico indiano. Per Bharucha, lo spettacolo decontestualizzava e trivializzava la cultura indiana impacchettandola in una struttura drammatica pensata specificamente per un pubblico occidentale2 L’altra cultura viene integrata nella propria prospettiva, spogliata della sua propria alterità, piuttosto che essere accolta come sfida a aprirsi verso altri modi di concepire il mondo, se stessi, il teatro.
Questa accusa di colonialismo culturale raggiunge in polemiche come quelle sorte intorno agli spettacoli di Lepage un’altra qualità, perché esse segnalano un’altra condizione della cultura, un altro modo di vivere e considerare le identità culturali. Oggi non si tratta più di riconoscere la diversità di culture che restano distingue e distinguibili, di lavorare per un dialogo tra esse che non sia a senso unico, come dice Bharucha. In questa visione interculturale, ogni cultura è un mondo a sé, il proprio e l’estraneo sono chiaramente separabili. L’estraneo è tutto collocato all’esterno della propria cultura, escluso e consumato esoticamente, oppure criminalizzato quando si avvicina.
Le richieste formulate nelle lettere aperte contro Lepage possono – e dovrebbero – essere lette come un invito a mutare questa prospettiva: i firmatari chiedono uno spazio all’interno della società in cui già vivono, della cultura alla quale già partecipano. Contestano alla maggioranza egemone l’esclusività di quello spazio, l’egemonizzazione di quella cultura. La invitano ad aprirsi alla dimensione transculturale della società canadese, di tutte le società contemporanee, dimensione sulla quale insiste con intelligenza Günther Heeg nel saggio che proponiamo in questo numero e nel suo ultimo libro3.
C’è tutto un teatro oggi che ci chiede finalmente di riconoscere che l’estraneo ha già un posto all’interno della propria cultura, ci chiede, in altre parole, di riconoscere la molteplicità interna di ogni cultura, di prendere atto del fatto che ogni cultura è un insieme di elementi eterogenei e ogni individuo – come diceva Brecht – «un insieme contraddittorio in continuo sviluppo, simile a una massa». Non è un caso che la International Brecht Society abbia deciso di dedicare il suo prossimo congresso al rapporto tra Brecht e l’estraneo4. L’estraniamento da sé, l’incontro con la propria estraneità e quindi la messa in dubbio della distinzione tra estraneo e proprio sono un momento centrale del teatro moderno a partire da Brecht. Il quale lavorava per un teatro che permettesse agli attori, come agli spettatori, di allontanarsi da se stessi, affinché non venisse a mancare il «terrore» che per lui «è necessario alla conoscenza». Il terrore di comprendere che non c’è proprio e non c’è estraneo su cui proiettare le nostre paure, le parti rimosse e maledette di noi stessi.
La «singolarità del singolo», diceva ancora Brecht, è garantita soltanto dall’«appartenenza a più di una collettività». Si appartiene a molti gruppi, perciò non si appartiene mai del tutto nessuno di essi e a ognuno si resta sempre un po’ estranei. Perciò se si definisce l’identità a partire da una sola appartenenza (ai bianchi o ai neri, alle donne o agli uomini ecc. ecc.), si oscurano altre appartenenze (culturali, politiche, sociali, sessuali, di classe) e si produce un’identità culturale basata sull’esclusione, sull’esclusione anche di parti di noi stessi dall’immagine che di noi stessi ci facciamo. Il che non può non generare nevrotici disagi e fatali insincerità. Perciò bisogna chiedersi chi ha interesse a favorire la contrapposizione tra bianchi e neri, o tra “noi” e gli “stranieri”, e quali altre differenze vuole nascondere. Se non si comprende che la questione etnica, la questione dell’identità culturale, serve anche a distogliere l’attenzione da altre questioni, da altre differenze, come quella sociale, di classe, allora si soggiace al discorso della maggioranza contro cui magari ci si ribella, si assume la posizione che essa ci ha assegnato.
Mi pare che questo avvenga in un certo senso ai firmatari delle lettere aperte contro gli spettacoli di Lepage: singoli che si ergono a rappresentanti di un gruppo – i neri, i nativi – che deve la sua identità, appunto, al discorso e all’azione della maggioranza contro cui protesta. La loro identità e la loro protesta, come anche la loro pretesa di parlare per tutti i neri o per tutti i nativi, sono il frutto del discorso dell’altro. In questo senso Gayatri Chakravorty Spivak, in quel classico della teoria postcoloniale che è Can Subaltern speak? (1988), critica il ruolo degli intellettuali nel movimento politico e culturale dei subalterni, appunto perché essi finiscono per riprodurre all’interno di quel movimento i rapporti di egemonia e subalternità che sono l’oggetto della loro critica. E così tradiscono il fondamento dell’identità del subalterno: la sua irreparabile differenza. Nella misura in cui, prendendo la parola per tutti, costruiscono un gruppo subalterno omogeneo, riproducono in quel gruppo un rapporto di subalternità. Il vero subalterno è chi resta senza voce all’interno della propria comunità di subalterni. Chi parla a loro nome, invece, finisce per partecipare, volente o nolente, al «discorso del padrone», come lo chiamava Lacan. Pretende di parlare per tutti e vorrebbe quindi imporre agli altri il silenzio. Parla a nome di tutti gli appartenenti alla sua comunità e rivendica solo per questi il diritto di parola sulla propria storia.
Ma se soltanto agli appartenenti di una comunità fosse consentito parlare della propria storia, le storie e le culture resterebbero chiuse in se stesse. Si tratta, invece, di riconoscere che – come suggerisce Lepage – gli altri sono indispensabili per capire noi stessi e quel che ci è accaduto. Ma bisogna tener bene in mente che ogni rappresentazione dell’altro, ogni appropriazione estetica dell’altro ha sempre un risvolto etico: chi si assume il rischio di parlare con la voce di un altro deve anche saper mettere in dubbio se stesso e il proprio punto di vista. In questo ha ragione Bharucha con la sua critica 5.
Perciò bisogna anche chiedersi se quando qualcuno racconta la nostra storia sta compiendo in ogni caso un’espropriazione; e anche se ogni limitazione a parlare della storia di altri costituisca sempre una censura, come dice Lepage. Il teatro non può e forse neanche dovrebbe rappresentare tutto. Ci sono certe cose che forse non dovrebbero essere rappresentate senza il pudore, il riserbo, la titubanza che nasce dal riconoscimento profondo dell’alterità dell’altro che si porta sulla scena. Non possiamo mai rappresentare la storia degli altri nel modo giusto. Ma questo non significa che gli altri, i subalterni, i senza voce, una volta conquistata la scena, sarebbero in grado di dire la verità su di sé e sulla propria storia. Quante vittime si fanno sostenitori dei propri aguzzini? Recentemente ha fatto discutere la costituzione di un’associazione di ebrei, “Juden in der AfD”, all’interno della Alternative für Deutschland, il partito di estrema destra, islamofobico e negazionista, che negli ultimi anni ha sconvolto il panorama politico tedesco. La comunità ebraica tedesca ha subito stigmatizzato quest’iniziativa, che nella sua assurdità ripropone la questione della rappresentanza delle vittime. Chi può parlare a loro nome?
Quale delle voci di un popolo che è stato vessato e perseguitato può rappresentare la storia e le istanze di questo popolo in modo adeguato? Esiste una rappresentazione adeguata dell’oppressione? I discendenti di un popolo oppresso che rappresentano la storia dei loro avi non compiono anch’essi, in un certo senso, un’appropriazione culturale? Non sono le sue, di chi sale sulla scena, le sofferenze cui egli dà voce; non è lui colui che le ha patite. Rappresentare è un privilegio di chi è rimasto illeso, di chi è sopravvissuto, di chi non ha subito una violenza – o vissuto un’esperienza – che divide chi rappresenta da colui o da ciò che viene rappresentato.
Perciò non può esserci rappresentazione dell’altro che non sia anche appropriazione culturale, cioè proiezione del proprio. Poiché l’altro è sempre prodotto di una rappresentazione, non può esserci neanche un riconoscimento profondo della sua alterità, una reale immedesimazione nel suo orizzonte. Forse per questo Brecht – come fa notare Nikolaus Müller-Schöll nel saggio che qui proponiamo – insisteva tanto sulla differenza tra chi mostra qualcosa (l’attore) e colui che egli mostra (il personaggio). Voleva che fosse esibita, che l’attore recitasse mantenendo sempre acuta – in sé stesso e nello spettatore – la consapevolezza che lui era lì, sulla scena, per far apparire un altro, in un certo modo e per certi motivi. Alcune forme di teatro documentario o Reality Theatre degli ultimi anni – penso soprattutto a Rimini Protokoll – tendono a cancellare questa differenza facendo salire sulla scena «esperti del quotidiano» a raccontare della propria vita, chiedendo loro di non essere che se stessi. Mai poi questa vita «propria» si riduce una finzione che non sa di essere tale, l’essere se stessi all’interpretazione di un ruolo costruito dai registi e dagli stereotipi sociali. Invece che di appropriazione culturale, qui si dovrebbe parlare di espropriazione teatrale. La realtà biografica delle persone chiamate sul palco viene integrata in un disegno registico, piuttosto che interrompere la cornice della rappresentazione, facendo emergere qualcosa che altrimenti da quella scena è escluso, e aprendo così nuovi spazi possibili di riflessione.
Che un effetto tale lo possa avere anche un’operazione di appropriazione culturale lo mostra uno spettacolo di Anta Helena Recke che debutta ai Kammerspiele di Monaco nell’ottobre del 20176. Lo spettacolo si chiama Mittelreich e copia integralmente l’omonimo spettacolo di Anna Sophie Mahler, che era stato presentato due anni prima presso lo stesso teatro7 e riadattava per la scena il romanzo omonimo di Josef Bierbichler uscito nel 2011, dove vengono raccontati traumi, crimini e abusi che hanno segnato la storia tedesca del Novecento a partire dalla vicenda di una famiglia in un paesino di contadini in Baviera. Recke, giovane regista bavarese di colore, riproduce in tutto e per tutto la messinscena di Mahler, operando un unico, piccolo e illuminante cambiamento: tutti gli interpreti sono people of colour. Un gesto critico che rende palpabile un presupposto tacito e non discusso del sistema teatrale tedesco (e non solo tedesco): il fatto che tutti coloro che lavorano a teatro, sulla scena e dietro la scena, sono bianchi. Qui invece ci sono dei neri che si appropriano del lavoro di bianchi per esibire il razzismo strutturale e inconsapevole che lo contraddistingue. Recke si richiama ai procedimenti sviluppati dalla cosiddetta Appropriation Art, che ha ormai una lunga storia nelle arti figurative, dagli ingrandimenti di manifesti pubblicitari di Andy Warhol e Roy Lichtenstein, alle copie delle opere di Warhol, Rauschenberg e altri approntate da Elaine Sturtevant, fino alle fotografie di fotografie proposte da Louise Lawler o Sherrie Levine. Ma qui l’intento dell’appropriazione non è la messa in dubbio dell’idea di autorialità o di originalità, del concetto di proprietà intellettuale o del copyright capitalistico. Quel che conta in questo caso è il gesto autoriflessivo che si compie mediante l’appropriazione: l’arte esibisce i meccanismi di esclusione su cui si fonda, rivelando così il desiderio e la necessità di ridefinirsi, di mettersi radicalmente in discussione. Ci si può appropriare dell’opera di altri per portare l’arte, oltre i limiti che si impone, mostrando che essa diventa qualcosa di più e di diverso quando riconosce le regole e le premesse che la fondano e la limitano. È questa la sfida preziosa di un teatro di subalterni che prendono la parola per raccontare storie di altri e, attraverso questa inversione, fanno rientrare nel campo della rappresentazione qualcosa che vi era escluso e la necessità di creare in essa più spazio: per altri corpi, altri gesti, altri modi di parlare, che sono estranei solo quanto lo sono i nostri.
- https://goo.gl/forms/7afRVSdkFZkpP8BR2 ↩
- Rustom Bharucha, Peter Brook’s “Mahabharata”: A View from India, in “Economic and Political Weekly” Vol. 23, No. 32, (Aug. 6, 1988), pp. 1642-1647. ↩
- Günther Heeg, Das transkulturelle Theater, Theater der Zeit, Berlin 2018. ↩
- https://cct.gko.uni-leipzig.de/brechtunterfremden ↩
- Rustom Bharucha,Theatre and the World. Performance and the Politics of Culture, Manohar, New Dehli 1990. ↩
- https://www.muenchner-kammerspiele.de/inszenierung/mittelreich-recke ↩
- https://www.muenchner-kammerspiele.de/inszenierung/mittelreich ↩