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n. 8 – ottobre 20, Teatro, Video

Rincorrere per non acchiappare. Un viaggio nell’esistenza di Wile E. Coyote e Road Runner, performer

per citare questo articolo usa

https://doi.org/10.47109/0102200112

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ABSTRACT

Nell’articolo viene introdotta la teoria della strutturazione ludica del dramma, formulata dal regista e teorico russo Anatolij Vasil’ev negli anni Novanta. In seguito, l’armamentario analitico di questa teoria viene applicato sul materiale dei cartoon prodotti dagli anni Quaranta agli anni Ottanta dalla Warner Bros e diretti dal regista Chuck Jones che hanno per protagonista la coppia comica di Wile E Coyote e Road Runner. L’analisi ne enuclea alcune dinamiche costitutive e rivolge l’attenzione alla ricchezza del portato poetico di queste opere. Lo scritto si concentra infine sulla specifica funzione drammatica che vi ricopre lo strumento recitativo dello sguardo in macchina, visto come analogo cinematografico di quel particolare tipo di “a parte” che in teatro viene definito “colpo di maschera”.

Il dottore mette davanti al paziente la sesta macchia di Rorschach
DOTTORE: E di questa che mi dice, cosa le sembra? PAZIENTE: Il Coyote schiantatosi in fondo al burrone DOTTORE: ????
PAZIENTE: Ma sì, quell’animale dei cartoni animati, quello che cerca di prendere un uccello che corre, tipo struzzo, e che alla fine cade sempre in degli strapiombi.
DOTTORE: (ridacchia e, appuntando quanto detto dal paziente nel suo taccuino, scandisce a voce udibile) ani-ma-le le-so.

Tre premesse

Che servono a condividere con il lettore una serie di presupposti teorici1 indispensabili per l’intelligenza di questo studio.

  1. Il dramma è categoria utile all’analisi anche di opere cinematografiche. Il luogo dove abita la drammaturgia, dall’epoca dell’esplosione del dramma classico2, è il cinema. Nella stragrande maggioranza dei casi la cinematografia organizza le sue opere in base a plot, a storie che articola secondo l’organizzazione tipica del sistema drammatico. Si tratta di una strutturazione sostanzialmente dialettica: all’instaurarsi di una situazione conflittuale seguono una serie di azioni che tendono e portano (dopo aver fatto passare i personaggi da una serie di altre situazioni) alla conclusione dell’opera, e cioè, in genere, all’instaurarsi di una nuova situazione che però questa volta è aconflittuale. È al cinema che vediamo all’opera, più spesso che in teatro, quel respiro dialettico che si chiama dramma nel suo lavoro di articolazione di una “storia”, quando interconnette in termini consequenziali e causali un frammento di tempo (estratto dalla vita di uno o più personaggi)3.
  2. Dramma (azione) e plot (narrazione) sono livelli distinti della strutturazione dell’opera. Nelle arti rappresentative in genere ciò che viene fatto, non corrisponde a ciò che viene narrato: azione, produzione dell’opera e narrazione sono due piani differenti. Questa duplicità di livello nel cinema è praticata assai più sistematicamente ed ampiamente di quanto di solito non accada in teatro e il suo strumento principe, ma nient’affatto l’unico, è il montaggio4. Ma sebbene nel cinema tra il lavoro dell’attore e la ricomposizione narrativa che ne fanno il regista, prima, e poi lo spettatore, ci possono essere autentici baratri, questa duplicità è un principio operativo essenziale anche per creare uno spettacolo teatrale.
    È inoltre importante tenere conto di questa duplicità anche quando si parla della recezione da parte dello spettatore. Lo spettatore, infatti, interagisce non solo col livello narrativo, ma anche con gli altri livelli della creazione, dell’azione, del dramma e i procedimenti che lo connettono ai due livelli sono di tipo radicalmente differente. La connessione al livello narrativo è determinata da un accordo grammaticale (di grammatica della rappresentazione, evidentemente) tra enunciatore ed enunciatario che rende possibile la produzione e la lettura dell’enunciazione. Ad esempio: un attore (enunciatore 1) esplode da una pistola un colpo (a salve) con la canna della pistola indirizzata verso un altro attore (enunciatore 2) che a sua volta si butta a terra, rantola un pochetto, chiude gli occhi e non si muove più: il pubblico (enunciatario) è tenuto a leggere questa serie di azioni come un’enunciazione che afferma che un personaggio ha ucciso un altro personaggio.
    La connessione al livello drammatico è determinata da altro, da un aspetto processuale che ingenera simpatia e/o empatia tra chi rappresenta e chi osserva, tra l’agente e l’astante.
    Ho per ora difficoltà a definire con maggiore esattezza questa cosa che ho chiamato “aspetto processuale”, ma posso dire che esso coincide con l’azione. E l’azione è un qualcosa che si ingenera nel presente, solo quando c’è un conflitto e insorge, si produce con lo scopo, con la tensione a dipanare la condizione conflittuale, a renderla aconflittuale (il che non significa, ovviamente, che sia sempre destinata a riuscirci). Per capirlo immaginatevi mentre guardate nella finestra di un vicino. Non sapete cosa stia facendo, forse sta steso sul divano o forse fa cose che non riuscite a discernere (tipo scrivere qualcosa). Però rimanete comunque ad osservarlo. Ne cogliete l’umore, sentite l’atmosfera che regna nella stanza, dentro di lui. Se è vivo, per forza sta agendo, si sta muovendo, cerca di risolvere dei conflitti. Voi non potete dare nome a quei conflitti, non sapete che storia si stia svolgendo, non avete idea di come è iniziato e dello scopo a cui tende il suo dramma, ma seguite con interesse l’agire del protagonista, siete attratti da quel dramma (o da quella congerie di micro-drammi) che si svolge davanti ai vostri occhi. E potete continuare ad osservarlo a lungo nonostante l’inconsistenza narrativa dell’enunciato che viene fuori dalla lettura delle sue azioni, cioè l’inconsistenza della storia a cui avete assistito (è la storia di uno che si è seduto, si è alzato, è andato alla scrivania, si è steso di nuovo, ha portato le mani dietro la testa, ecc.). Questi due livelli, l’enunciato-plot e il processo-dramma, instaurano tra gli autori dell’opera (registi, montatori, tecnici, performer, ecc.) e gli spettatori due tipi, due canali di interazione differenti, ché se è il logos che articola il dramma in storie, in plot, il dramma viene invece recepito in termini inconsci, emotivi, processuali e tende ad essere ineffabile, ambiguo.
  3. Il dramma funziona in maniera diversa se per agirlo l’attore/autore si basa sulla situazione di partenza o su quella conclusiva (struttura psicologica e struttura ludica). Queste due impostazioni del dramma prevedono, per l’attore, due approcci mentali totalmente diversi. Il grande regista e teorico russo Anatolij Vasil’ev ha il suo merito storico proprio nella scoperta (teorica e pratica) di questa sistematica del dramma, che lo divide in due specie tendenziali: dramma psicologico e dramma ludico, a seconda di dove venga collocata la fonte che genera l’impulso all’azione dell’attore5. Struttura psicologica se l’impulso all’azione l’attore lo cerca ponendosi nella situazione conflittuale in cui si trova il personaggio all’inizio del dramma (l’attore qui agisce in quanto personaggio). Struttura ludica se l’impulso è il frutto del conflitto tra l’aspirazione dell’attore ad arrivare (in quanto attore) alla conclusione del dramma e la situazione nella quale si trova ad agire, che è in genere differente e contrapposta a quella finale (l’attore qui agisce in quanto persona).
    In una struttura psicologica per l’attore si tratta di operare una sorta di rimozione ad arte della conoscenza del futuro del dramma e di reagire solo a ciò che avviene, di muoversi verso un obiettivo che deve formarsi solo tenendo conto delle condizioni in cui il personaggio si trova. Un attrice scappa per i corridoi di un albergo deserto inseguita dal marito impazzito e si barrica dietro la porta, sente il marito che colpisce la porta, vede un’ascia spezzare le assi della porta e la faccia stravolta del marito affacciarsi tra le assi. Grida e cerca di colpirlo. (Shining, di Kubrik). È verosimile che l’attrice in quella sequenza abbia cercato l’impulso all’azione nella situazione spaventosa nella quale si trovava in quanto personaggio (sono vittima dell’aggressione di un pazzo/non voglio morire).
    In una struttura ludica le cose stanno diversamente. L’attore di varietà, ad esempio, va in scena, senza nessuna circostanza di situazione si definisce personaggio x (ad esempio: Fortunello, per Petrolini) e si porta appresso gli spettatori per una sfilza di invenzioni e battute sino all’ultima che, di preferenza, dev’essere la più forte. La chiamata in causa di Petrolini non è casuale. Perché se è vero che nelle macchiette, tipo Fortunello o Gastone, la situazione in cui si trova il personaggio non è neanche indefinita, è semplicemente assente, essa però è presente nel suo Nerone… Ma benché la situazione lì ci sia, l’attore recita nella stessa maniera di quando interpreta le macchiette: non tiene da conto la situazione del personaggio se non per tirarne fuori battute, scherzi, giochi d’attore. Le due strutture non solo organizzano i processi performativi interni all’attore in maniera radicalmente differente, ma instaurano relazioni differenti anche tra performer e spettatori. Tra le varie differenze è da notare che nella seconda è più facile per l’attore “aprirsi” allo spettatore, mentre per la prima, in genere, conviene recitare con la quarta parete (cosa che in cinema, ovviamente, avviene più facilmente). Nella seconda lo statuto del pubblico tendenzialmente è quello di chi partecipa ad un gioco. Nella prima tendenzialmente è quello di chi osserva una vita. L’emotività e la capacità di empatia dello spettatore vengono sollecitate in maniera differente, ché le si chiama in causa su oggetti differenti.

Fatta questa premessa che ritornerà utile poi nel prosieguo dell’articolo si può entrare nel merito del materiale analizzato: gli splendidi cartoon della Warner Bros autore dei quali è Chuck Jones6 e che dal 1948 agli anni Sessanta hanno avuto per protagonista la coppia comica formata da Wile E. Coyote e dal Road Runner.

Analisi del modulo drammatico dei cartoon di Wile E. e Road Runner

Il dramma si sviluppa per avvenimenti: succede qualcosa che suscita la necessità di qualche azione (conflitto), l’azione fa succedere qualcos’altro, questo nuovo avvenimento non esaurisce la prima necessità di agire oppure crea una nuova necessità di agire e si procede così di avvenimento in avvenimento sinché dall’avvenimento iniziale si arriva ad un avvenimento conclusivo, dove non è più necessario che accada altro.

Quindi la prima cosa da fare, per analizzare un dramma, è individuare quali sono gli avvenimenti principali, quelli che delimitano l’arco drammatico, e quali necessità d’azione (conflitti) creano.

Partiamo dagli avvenimenti.

Gli avvenimenti nei nostri cartoon si succedono ricalcando sempre (con limitate eccezioni) la stessa sequenza: il Coyote è affamato e il RR gli passa davanti; il desiderio del Coyote si appunta sul pennuto e comincia l’inseguimento. Dopo qualche metro di corsa il RR fa una brusca accelerazione e lascia il Coyote sul posto. Wile E. non va in depressione e cerca attivamente di colmare la distanza mediante trappole o dispositivi meccanici che lo potenzino7. Da qui una serie di sviluppi basati sul rapporto tra Wile E., la sua inventiva, le sue doti progettuali e di volontà e gli elementi del cosmo e del metacosmo (quello che succede, in definitiva, ha dell’irreale e si tornerà su questa parola più avanti), che sembrano congiurargli contro e favorire in tutte le maniere l’imperturbabile RR, che cade in tutte le trappole sorridendo, certo che da queste trappole uscirà illeso e che esse si rivolteranno contro il Coyote. Così infatti accade e Wile E. passa di sconfitta in sconfitta, di incidente tecnico in incidente. Alla fine, dopo una serie di sfortunati (per il Coyote) eventi, il film semplicemente si interrompe su una catastrofe più corposa delle altre.

Il film, insomma, consiste nel succedersi di fallimentari tentativi del Coyote di prendere il RR. Sicché si potrebbe parlare di struttura modulare (in ogni cartoon tre-quattro tentativi falliti).

Se questa è la sequenza obiettiva degli avvenimenti, riportati in questi termini quegli avvenimenti non sono ancora diventati dei «fatti attivi», come diceva Stanislavskij8; cioè ancora non spiegano le dinamiche, i nessi causali che generano l’azione, cioè il dramma. Insomma per come li abbiamo descritti non sarebbe possibile per un attore trovare in loro le spinte, gli impulsi all’azione. E sono gli impulsi, come si è scritto sopra, che determinano quell’aspetto “processuale”, quell’indicibile che caratterizza l’azione, e quindi che conformano il dramma.

Qual è il conflitto che provoca l’impulso che genera le azioni che producono questa serie di avvenimenti?

Come si è scritto poco sopra Vasil’ev ha introdotto una distinzione del dramma in due macroaree tendenziali, la prima, quella che lui definisce “psicologica”9, basata sulla situazione iniziale, la seconda quella ludica, basata su quella finale.

Proviamo ad analizzare i nostri cartoon secondo questi due opposti approcci.

Ipotesi di analisi in “psicologica”

Nel caso del primo tipo di macroarea, quella psicologica, dovremmo capire qual è la prima situazione conflittuale che si viene a creare, il primo avvenimento che ha in sé il conflitto che suscita la necessità di un’azione per essere risolto.

In questo caso il conflitto sembra nascere nel momento in cui il Coyorte constata l’impossibilità di prendere il RR affidandosi solo alla sua forza fisica, ai suoi dati naturali.

Infatti il conflitto essenziale tra il desiderio di Wile E. di mangiare RR e quello di RR di non essere mangiato, viene depotenziato sin dalle prime battute. È un dato che viene illustrato da subito come parte dell’ordine delle cose, come fatto generico, condizione che può sempre articolare i rapporti tra i due ma che, nel caso che stiamo osservando, non è particolarmente cogente. Tanto è vero che ne veniamo a conoscenza non dai comportamenti dei personaggi, ma direttamente da dei cartelli. Nel momento in cui, in ognuno dei cartoon, entrano in scena per la prima volta i due protagonisti, si ha un fermo immagine e compaiono delle didascalie (diverse ad ogni cartoon) che forniscono allo spettatore una sorta di comica definizione di specie dei due protagonisti. In un bizzarro pseudo latino il Coyote ad esempio può venir definito «(famishus, famishus)» (e cioè all’incirca “famelicus, famelicus”) e il RR «(delicius, delicius)» (come dire “prelibatus, prelibatus”).

Ciò che invece, sin dalle prime battute, genera veramente il conflitto drammatico è la superiorità di RR in termini di velocità: è questa che costringe Wile E. ad agire, ad escogitare una soluzione e a metterla in atto, se vuole mangiare RR. Se ne concluderebbe, quindi, che il conflitto che origina il dramma è quello tra il desiderio di Wile E. di mangiare RR e la velocità di quest’ultimo (definito anche «(speedibus rex)» nel cartoon).

Come abbiamo scritto, il primo dato, il primo impulso (e cioè la fame), non viene rinnovato né rinforzato nel corso del cartoon. Non si ritorna più sulla la condizione di indigenza o di appetito del Coyote. Il tema, una volta lanciato all’inizio, sembra essere esaurito, marginalizzato, se non proprio accantonato, e comunque dato per scontato, convenzionalizzato.

In maniera simile, per alcuni aspetti, gli autori trattano il tema dell’inferiorità fisica del Coyote. Insomma come avviene da subito per l’appetito, anche la sfida della velocità di RR cessa di essere un elemento che porta ad un’accumulazione di tensione drammatica, ad un’esasperazione dei rapporti. Non solo il desiderio di prendere il pennuto perde i connotati della fame e dell’appetito per diventare semplicemente un’aspirazione compulsiva alla cattura (aspirazione che va soddisfatta anche a costo della totale distruzione di RR, del rischio di renderlo assolutamente non edibile). Ma anche la non raggiungibilità di RR, la reiterazione, anche dolorosa del fallimento, sembra non incidere in nessuna maniera sull’andamento del dramma. Wile E. non conosce crisi, non conosce dubbi; l’azione di Wile E. non è velata da un’acrimonia che cresce con l’accumularsi dei fallimenti; Wile E. non prova mai a cambiare oggetto del desiderio (che so: un coniglio, un topo); non prende neanche mai in considerazione l’idea di abbandonare la lotta; non prova mai a organizzare alleanze con altri abitanti dei canyon…. Niente. Dopo ogni sua quasi-morte, dopo ogni distruzione subita, Wile E. ricomincia alacre e inventivo come sempre a cercare di acciuffare il RR.

L’impulso della superiorità cinetica del RR, quindi, continua ad essere alla base del comportamento di Wile E., ma non conosce evoluzione, è come venisse depurato dei suoi effetti psichici e relazionali, come venisse spostato su un piano impersonale, come non incidesse in alcun modo sulla vita dei protagonisti.

Di tutti e due.

Perché una simile totale staticità psichica e relazionale risulta anche se prendiamo in considerazione il comportamento del RR. Il RR non cessa mai di avere un’espressione soave, di muoversi con estrema eleganza. Non tradisce alcuna pressione interiore generata dagli sviluppi del dramma. Il suo offrirsi e negarsi non trova appigli in alcuna situazione pregressa; nessuna iniziativa di Wile E. gli fa mutare umore o comportamento; non ci viene dato nessun’appiglio utile a spiegare le ragioni di questo suo costante provocare.

Sicché l’evoluzione interna al cartoon rimane connessa esclusivamente alla varietà dei mezzi usati da Wile E. per raggiungere il RR (e alla varietà dei fallimenti) escludendo mutamenti interni ai personaggi o evoluzioni dei loro rapporti.

Se dovessimo quindi giudicare i cartoon in base a questo tipo di analisi, basata sulla situazione di partenza e sulla spinta che essa dà all’azione dei personaggi, dovremmo concludere che la loro struttura drammatica è basata su motivazioni estremamente schematiche e rozze e, in definitiva, gli autori non sono interessati a dare alcuna evoluzione a questi personaggi, che hanno tratteggiato appena, il cui disegno psichico è poco più, o forse poco meno che un abbozzo.

E sarebbe una conclusione corretta.

Ciò non di meno, si tratta di opere pregevoli, avvincenti. Si vede, dunque, che il loro pregio non è apprezzabile se le si considera da questo punto di vista e che è necessario cambiare il punto di vista per apprezzarle.

Ipotesi di analisi in “ludica”

Se così schematici e statici sono gli impulsi che muovono gli attori/personaggi a cercarli negli avvenimenti di partenza delle scene, e cioè analizzando l’opera conformemente ad una strutturazione “psicologica” del dramma, vediamo se le cose rimangono tali cercando i moventi, gli impulsi all’azione nel finale dei cartoon, e cioè analizzandoli come se il dramma a cui danno vita sia strutturato in termini ludici.

Qui la cosa cambia d’aspetto. Se l’avvenimento principale diventa quello finale, quello risolutivo ne viene fuori che il dramma ha il suo punto di forza su una conclusione di per sé aconflittuale, insindacabile: il Coyote subisce l’ennesima sconfitta nel tentativo di acchiappare il RR.

Qual è il portato di questa sconfitta? Come si articola il dramma per arrivare a questo finale?

Per arrivare a questa conclusione e per capirne il senso, bisogna retrocedere sino a scoprire quale avvenimento, quale situazione conflittuale questo finale risolva.

Trovarlo non è difficile, è il momento di entusiasmo, fervore e speranza che anima il Coyote quando crede di aver trovato la soluzione al dilemma: come afferrare l’inafferrabile RR?

Possiamo dunque presupporre, analizzando il dramma in questi termini, che la struttura sia:

  1. Il Coyote non può prendere il RR (finale del dramma)
  2. Per dimostrarlo lo metto a confronto col RR in maniera che avverta il gap che c’è tra loro e lo faccio visitare da una brillante idea che gli dia speranza di superarlo (avvio del dramma).

Il motivo della fame, in quest’ottica, se da una parte è indispensabile nella costruzione logica della narrazione (risponde alla domanda: perché il Coyote corre appresso al RR?), dall’altra risulta avere un ruolo assolutamente insignificante nello sviluppo del dramma. Il che giustifica il trattamento distratto e riduttivo che riceve dagli autori.

Questa struttura è radicalmente differente dalla precedente.

È una struttura, diciamo così, esemplare, che toglie i personaggi da urgenze di tipo personale.

Qui si vuole far accadere una cosa e si creano arbitrariamente i presupposti perché questa cosa accada. Come è evidente questa struttura vive assai meno contraddittoriamente la composizione modulare del cartoon di quanto non faccia la precedente. Se nella struttura psicologica, quella che originava dall’inizio del dramma, abbiamo visto che la mancanza di accumulazione interna al personaggio di vissuti e sentimenti che ri-motivassero la ripetizione dei tentativi ci metteva alle strette, ci faceva avvertire un’incongruità logico-emozionale nel procedere del dramma, ora questa seconda strutturazione si adatta meglio alla modularità. Infatti la possiamo ripetere come, se e quanto vogliamo: ogni volta che vogliamo affermare che il Coyote non può, non è in grado di acchiappare il RR, basterà aprire il conflitto facendo passare RR vicino a Wile E. (o facendolo sbeffeggiare il Coyote) e donando a quest’ultimo una nuova brillante idea per prendere RR. Insomma è una struttura che sembra adattarsi meglio ai nostri cartoon.

Con il che ovviamente non abbiamo finito. Perché se abbiamo intuito la maniera in cui è costruito il cartoon, non siamo ancora arrivati a individuarne, a riconoscerne il funzionamento drammatico, il tessuto di impulsi all’azione, insomma le ragioni gli stimoli che presiedono alle azioni dei personaggi.

Inciso importante.

E qui bisogna fare un inciso. Perché l’analisi di una struttura ludica ha leggi diverse da quelle che presiedono all’analisi di una struttura psicologica. Infatti se le molle che generano l’azione dell’attore/autore/personaggio (cioè il conflitto e la tensione a risolverlo) non sono interne ai fatti attivi che costituiscono la fabula come avviene nella psicologica, allora ne sono esterne.

Questa collocazione del conflitto drammatico modifica tutto il sistema di impulsi e, cioè, come abbiamo visto, il contenuto stesso del dramma, quello ineffabile, quello che è sotto il narrabile e spesso in discrasia con esso. In questo tipo di strutturazione del dramma, infatti, la motivazione all’azione è priva di quell’ineluttabilità che sembra avere nelle strutturazioni di tipo psicologico (“ho fame, devo mangiare, passa un Road Runner, cerco di prenderlo contro la sua volontà”), e assume un tratto arbitrario. Il che comporta che oggetto della ricerca dell’analista diventi la volontà dell’autore/attore/personaggio e non le reazioni del personaggio alle circostanze.

In questo caso, grosso modo, il sistema di impulsi all’azione che verrà attivato è costruito come in base ad una triangolazione: io, forza A e tu, forza B, conflittuali, dobbiamo muoverci insieme, rinfocolando il nostro conflitto attraverso il gioco scenico in maniera da arrivare al punto C, conclusione. Dove le azioni, quindi sono quelle da fare per riuscire a tendere al massimo il conflitto e “cadere”, arrivare catastroficamente alla soluzione finale. E il conflitto è il frutto di un accordo di gioco.

Sicché nel dramma ludico la situazione drammatica e il comportamento che hanno in essa i personaggi (liberatisi dalle strettoie causali e quindi spesso permettentisi il fantastico), essendo frutto di scelte arbitrarie, ammettono solo un’analisi che sia focalizzata sugli impulsi che vengono suggeriti dal fine, dalla conclusione, dal tema dell’opera10.

Stando così le cose il rapporto con l’astante, con lo spettatore si basa su un tipo di empatia che ha una fonte diversa: il pathos non è più relativo al destino del personaggio, ma al gioco dell’autore/attore/personaggio; la sintonia nasce sui temi e sui procedimenti che caratterizzano il gioco11.

Analisi in “ludica”

E dunque, torniamo all’analisi cercando di enucleare il confitto trasversale12 ludico dei cartoon di Wile E. e RR attraverso una riflessione sulle coppie oppositive che vi si trovano13.

Dobbiamo ammettere che l’ipotesi che il conflitto trasversale sia quello “tra l’uccello veloce e il coyote” non è assolutamente soddisfacente perché una definizione del genere sarebbe limitante, omissiva. Infatti, riconsiderando con altri occhi i comportamenti e gli attributi dei due protagonisti riconosciamo subito una serie di coppie oppositive che allarga di molto il campo del conflitto.

Il Coyote è passionale, il RR imperturbabile, soave: il Coyote gioisce, si turba dubita, si arrabbia, il RR sorride sempre. Il Coyote si trasforma in forza di una serie di eventi (urti, traumi, travestimenti), il RR mai, è sempre lo stesso. Il Coyote crea supporti tecnici per evolversi ed arrivare al livello (di velocità) del RR (rendendosi esempio con ciò della parabola dell’evoluzione umana, come si era già scritto), il RR è naturale, non ha bisogno di protesi meccaniche (e se a volte lo vediamo su un mezzo meccanico questo accade non perché il mezzo meccanico gli serva, ma perché da lì farà al Coyote uno sberleffo che, visto l’atteggiamento tecnicista di quest’ultimo, è ancora più saporito)14. Il RR è intangibile, nel senso letterale della parola, non viene ferito, non viene toccato, Wile E. è sempre ferito, acciaccato, accartocciato, in definitiva sarebbe logico morisse di continuo. L’ambiente li accomuna ma ha segni diversi per i due: privo di pericolo e fonte infinita di possibilità per RR, fonte infinita di pericoli e madre di catastrofi per Wile E. (dappertutto si può celare il pericolo: strade, ferrovie, cactus, abissi, fiumi, massi non v’è elemento che non si dimostri prima o poi ostile a Wile E.).

L’autobus con clacson che fa beep-beep che travolge Wile E. Coyote con dentro il Road Runner.

Da questa breve descrizione si capisce che i due siano stati pensati più come principi attivi antitetici, essenze antitetiche, che come personaggi in conflitto personale. Si sente, insomma, odore di ludica, e cioè di quella struttura drammatica l’analisi della quale, scrivevo sopra, si trova a suo agio spaziando nell’ambito del concettuale.

Il conflitto ludico che porta alla catastrofe finale del Coyote, quindi, lo vede contrapposto ad un essere totalmente differente da lui, ben oltre la questione della velocità.

Quali sono le interrelazioni che corrono tra questi due tipi/principi? Quali sono le motivazioni all’azione del tipo Coyote e del tipo RR?

Sappiamo che in ludica i due devono arrivare al finale, come sappiamo che il finale consiste nella frustrazione di Wile E. Ciò significa che, se è vero che RR. e Wile E. sono così incommensurabilmente lontani, allora sarà necessario creare un aggancio ludico tra loro, bisognerà trovare la maniera di metterli in relazione. Abbiamo visto che in termini di struttura psicologica le provocazioni di RR, così come la fame di Wile E. non appaiono sufficienti a supportare l’intero cartoon, ma se ci mettiamo in termini ludici ecco che la provocazione di RR diventa quell’atto arbitrario dell’autore/attore/personaggio che innesca il gioco e il desiderio di Wile E. diventa quella copertura, quel tanto di stimolo di situazione che basta a dare polvere a questo innesco. Insomma la velatura situativa giustifica e aiuta l’avvio di una relazione che però, nella sua sostanza, è puramente ludica, deliberata.

Questa provocazione (l’iniziativa di aprire il gioco, quindi, è di RR e non del Coyote), questo darsi come possibile e poi dimostrarsi irraggiungibile è dunque l’innesco del gioco a cui Wile E. partecipa a partire da una posizione ludica (cioé presa per gioco, nella quale non ci si identifica fino in fondo) che potremmo anche definire in questi termini: “visto che si condividono gli stessi spazi e che siamo ambedue esseri di questa terra io, Coyote sapiens, posso raggiungere l’oggetto dei miei desideri grazie alla mia inventiva (alla mia volontà, alla mia alacrità, ecc., insomma grazie alle mie qualità UMANE)”.

Che questo “raggiungere” si configuri in maniera distruttiva è ovviamente molto importante. Cosa significa distruggere il RR? Significa trasformarlo, renderlo da qualcosa di velocissimo, mobile, irraggiungibile, in qualcosa di statico, fermo, raggiunto. Lo si può catturare, schiacciare, acchiappare grazie a mangime imbottito di ferro e una maxi calamita, far saltare con la dinamite, spingerlo in un profondissimo precipizio, immobilizzarlo e ricoprirlo con una colata di cemento, inchiodarlo al terreno con una colla potentissima, sparargli… L’obiettivo, si è già detto, non sarà di mangiarlo, ma di trasformarlo nel suo contrario, di azzerare quella differenza che lo rende inattingibile.

E quindi, allo scopo ludico della frustrazione di Wile E. (frustrazione di cosa rispetto a cosa, ora cominciamo a vederlo bene), il Coyote e RR si mettono appositamente, con un atto di arbitrio, in relazioni di contiguità conflittuale personale (RR continua a provocare il Coyote sfrecciando avanti e attorno a lui e facendogli pernacchie e dispetti durante tutto il cartoon) così che Wile E. possa cominciare ad agire sul RR per trasformare la diversità che c’è tra loro, per azzerarla. Ma, e questo è l’importante, sia la contiguità conflittuale personale tra i due che lo scopo del coyote in realtà sono ingannevoli, ludici, ironici. Se vediamo il loro rapporto in quanto rapporto di aggregati autore/attore/personaggio, arriviamo facilmente a capire che tra i due c’è pieno accordo: in realtà il Coyote non ha l’obiettivo di azzerare la diversità fra lui e RR, bensì l’obiettivo di esaltarla e gli sberleffi di RR sono solo una mossa per aprire il gioco a cui ambedue anelano a partecipare.

Per arrivare alla catastrofe, al finale, si è già scritto, la struttura drammatica ludica (e in genere ogni buon dramma) deve aspirare a potenziare al massimo la tensione conflittuale, quello che va a negare il finale, la risoluzione del conflittto: e quindi il Coyote deve esprimersi al meglio delle sue potenzialità di creatività, inventiva, astuzia15 ecc. per raggiungere il suo obiettivo. E cioè tutte le sue doti devono tendere all’obiettivo, devono produrre il meglio, devono spingerlo sulla via gloriosa… che lo porterà alla catastrofe.

E qui va notato un fatto. Che il destino, le cose il cosmo e il metacosmo, non sono affatto indifferenti alle sorti di questo tentativo. Sono invece molto attive. Nel farlo fallire, ovviamente. Anzi sono così immaginificamente, inaspettatamente, beffardamente attive che pare in realtà sopravanzino di gran lunga il ruolo del RR nel conflitto principale. Altrimenti detto, se RR innesca il gioco, poi però a portarlo avanti sono le cose.

Insisto sulla loro attività e ritorno su quella strano neologismo che ho introdotto nell’articolo, e cioè il metacosmo. Infatti che il cosmo, le cose in cui si manifesta, sia agente attivo e cosciente e che sia una categoria non solo materiale, ma anche trascendente, e infine che a questa trascendenza appartenga anche RR lo dimostrano alcuni suoi (del cosmo) comportamenti che nulla hanno a che fare con la realtà di questo mondo.

Frequenti, infatti, sono i comportamenti delle cose, e del RR in esse, che infrangono tutte le regole della fisica, della logica e della realtà. Un esempio classico: in Gee Whiz-z-z-z (1956) Wile E. disegna una strada con un ponte rotto su un precipizio, nella speranza che il pennuto si fermi per non cadere nell’abisso e lui lo possa prendere. Ma il pennuto non si ferma e correndo sfonda la tela e prosegue lungo la strada. Il Coyote allora si lancia all’inseguimento e… cade nel precipizio che lui stesso ha disegnato16.

Così, ai danni del Coyote gli autori fanno agire anche le cose e permettono anche che si comportino in maniera da provocare fatti soprannaturali e incongrui. Per quale ragione?

Le cose, sono, in definitiva, ipostasi attive del principio conflittuale incarnato da RR, emanazioni di RR, e per questo partecipano di alcune sue caratteristiche; non sono di questo mondo, non sono dello stesso mondo, della stessa dimensione abitata dal Coyote. A quale mondo, a quale dimensione appartengano è difficile dire (l’inferno, il paradiso, l’inconscio, ecc…) fatto sta che non sono neutrali e che entrano attivamente nel gioco. Wile E. le adopera con entusiasmo perché sa che lo tradiranno, Wile E. ha fede in loro perché sa che lo distruggeranno, Wile E. ha fede nella loro potenza, perché sa che gli si rivolterà contro e non gli permetterà mai di raggiungere il RR. E infatti su questo tema c’è un’altra conclusiva, fondamentale osservazione da fare: le cose sono messe in campo (o inventate, o costruite) e trascinate nella lotta dallo stesso Wile E. ma agiscono come emanazioni di RR.

Insomma il vero – come sempre ineffabile – contenuto, senso del dramma, quello degli impulsi, ci racconta di un gioco collettivo di Coyote, RR e cosmo teso a confermare l’incommensurabilità dei due principi e l’autodistruttività di chi rimuove questa incommensurabilità e in base a questa rimozione prova a colmare il gap tra l’umano e l’irraggiungibile.

Come si vede gli impulsi all’azione, il testo del dramma, disegnano tutt’altra storia rispetto a quella che parla di un Coyote affamato ma sfortunato e di un RR appetitoso ma dannatamente veloce. E, aspetto veramente importante, gli autori collocano questi contenuti all’interno delle stesse molle d’azione dei personaggi, nel tessuto drammatico e non li demandano ad una possibile elucubrazione finale sulla metafora nascosta nella “storia”, a una morale del cartoon.

Riepilogo

Ricapitoliamo a questo punto quanto abbiamo scoperto sinora.

La struttura drammatica dei cartoon di Wile E. e RR è ludica e si costruisce sulla ripetizione di uno stesso modulo. Questo modulo tende al fallimento di Wile E. nel tentativo di raggiungere RR e con questo fallimento si conclude. Il tentativo in sé è insensato (RR è irraggiungibile dal Coyote per statuto, per dato di fatto assoluto) e tutti lo sanno (RR, il Coyote, lo spettatore). Il dramma comincia nel momento in cui l’autore/attore/personaggio Wile E. prende arbitrariamente (e per gioco) per vera la provocazione ludica (cioè fatta per gioco, finta) dell’ autore/attore/personaggio RR e arbitrariamente assume la posizione ludica: “sì, è raggiungibile, basta che io metta in campo la mia genialità, inventiva, capacità tecnica, alacrità, ecc.”. Questa posizione ludica (falsa) dà il via ad una serie di peripezie che si concluderanno con l’esito PREVISTO (DA TUTTI!!!!) e perseguito dagli attori (e, vedremo, emozionalmente anche dagli spettatori) del catastrofico fallimento del Coyote. Infine la resistenza attiva, la forza propulsiva che porta all’esito catastrofico i tentativi esperiti dal Coyote non è esercitata direttamente dal RR, bensì dalle “cose”, cioè da ciò che viene messo in campo dal Coyote stesso e che agisce, però, come emanazione, come ipostasi di RR, dell’elemento drammatico conflittuale al Coyote (più concretamente, dai siti naturali scelti per le trappole, dalle macchine ideate e/o acquistate dal Coyote – i componenti delle quali sono forniti sempre dalla stessa ditta [!!!] che ha il non casuale nome di «ACME» -).

Chiudiamo il cerchio su questa analisi.

Il conflitto drammatico dei cartoon di Ch. Jones è tra l’umano e un campo di difficile delimitazione che potremmo definire “l’irraggiungibile”. L’irraggiungibile si offre all’umano e l’umano si ingegna costruendo e acquistando, con abbondanza, mezzi che a rigor di logica gli dovrebbero permettere di raggiungerlo. Ma tutto ciò che l’umano escogita (tutti i mezzi che permettono la sua evoluzione a dimensioni che vanno oltre le sue possibilità naturali) si rivolta contro questa sua aspirazione con effetti devastanti su lui stesso. Questo succede molte volte e ogni volta l’umano, nonostante la “tranvata” subita, ricade nella provocazione dell’irraggiungibile e si rilancia nel tentativo, con tutte le sue doti, con tutto il suo enorme potenziale inventivo (che arriva all’/dall’ACME) e con il suo eroico coraggio.

Gratuita parentesi esegetica (birdseed for free)

Il potenziale archetipico di questa dialettica è tanto più vasto quanto più astratto è il contesto nel quale agisce. Alle traversie di questi due strani animali che definizioni pseudolatine trasformano in buffi esemplari di specie, traversie che si svolgono in vallate fuori dalla storia e dalla civiltà, lo spettatore in vena di speculazioni esegetiche potrebbe associare campi vastissimi. Propongo quattro esempi, i primi che mi vengono alla mente. Ma il campo delle associazioni possibili non è affatto delimitato a queste quattro varianti.

  1. Il primo che viene in mente è relativo alle potenzialità dell’uomo che ha raggiunto un ACME del suo potere, della sua gloria tecnica giusto cinque anni prima del primo cartoon di Wile E., ma si è accorto pienamente delle implicazioni di questo raggiungimento solo un anno dopo, quando il lancio di una sua invenzione sulla città giapponese di Hiroshima a fatto capire a tutti che da questo ACME rischiava di scivolare assai rapidamente nella definitiva autodistruzione.
  2. Difficile poi non associare al cartoon una parabola sociale. Wile E. (che non mangia mai, ma che lavora tantissimo per riuscire a mangiare) acquista (ma la transazione di denaro è rimossa, non si vede mai) dalla ditta ACME (e cioè da qualcosa che sta “in alto”) delle macchine che in genere sono caratterizzate dall’essere tecnicamente all’avanguardia e mostruosamente potenti17. Queste macchine servono a raggiungere l’irraggiungibile. Sono, cioè, ciò che rende l’acquirente tanto “super”, tanto veloce quanto lo è l’oggetto che vuole raggiungere. In epoca di piena motorizzazione di massa, la supervelocità è ciò che non si può permettere un’utilitaria ma si può permettere una supermacchina, status symbol di chi è padrone di un superportafoglio e cioè di quei signori che nell’immaginario diffuso vivono in mondi diversi da quelli abitati dalla middle class e stanno al di sopra della sua vita quotidiana dozzinale e piena di regole, di limiti18. Così come una macchina potente/status symbol l’uomo della middle class la può comprare (in questi casi si aggiunge “in comode rate”), ma a costo di autodistruggersi perché compromette la propria salute economica e la propria tranquillità, anche le velocissime, potentissime e nuovissime macchine della ACME portano Wile E. al livello di RR, con gli stessi effetti catastrofici e lo stesso profitto che può avere sulle tasche di un normale lavoratore un mutuo per comprarsi una Ferrari. Paradosso dell’alienazione dove la macchina assemblata con sudore dal lavoratore serve al padrone (perché lo nutre)19, prostra l’operaio, veicola i segni culturali del padronato e ne fa così trionfare anche l’ideologia, rendendo inoppugnabile l’assunto della desiderabilità e al tempo stesso della radicale alterità della condizione del padrone20.
  3. Gli assalti di Wile E. al RR, d’altronde, hanno un’eco ben più antica. Non si può non vedere Wile E. come quello che il filologo classico e poeta simbolista russo Vjačeslav Ivanov definirebbe un bogoborec21, e cioè un “lottatore contro dio”. Dove il dio, carico di ironica crudeltà, è chiaramente RR e il destino che si abbatte su Wile E. con la forza delle cose che non funzionano altro non è che la nemesi, l’effetto della malevola vendetta del dio per il peccato di hybris commesso dal Coyote. E infatti come non associare le imprese di Wile E. alle imprese di quegli eroi i cui miti sono esempi di hybris? Come non pensare a Icaro? Come non compararlo a Fetonte? Come non vederlo nei panni di questi due eroi, sempre impegnato com’è in fallimentari, tragici e altissimi voli? Come non rimanere avvinti dal suo coraggio? Dalla sfida che continua a muovere a questo fato divino, assieme beffardo e distruttivo, anzi assassino, come fa Sisifo, il fuggitivo dall’Ade22? Questa terribile parentela è confermata dallo stesso Chuck Jones, secondo quanto testimonia Robin Williams che gli consegnò nel 1996 l’oscar alla carriera. Nel back stage di quella cerimonia, parlando con i giornalisti, Jones parò di Wile E. come di un eroe tragico tipico. Disse: «Il Coyote è veramente l’eroe tragico, sempre in conflitto con gli dei, arrabbiato con loro… solo che durante i suoi assalti spesso ha un incontro ravvicinato con un’incudine»23.
  4. Infine ci sono anche altri livelli di associazione, più profondi, più primari, connessi a categorie che la psicoanalisi ha studiato e sulle quali non mi addentro. D’altronde non si può non vedere come il fantastico presente nei cartoon sia chiaro rimando all’onirico. E poi è evidente che tra le categorie messe in campo dal gioco architettato da Chuck Jones ci sono anche il desiderio, il plesso eros/thanatos, la rimozione dell’esperienza e la coazione a ripetere.

Del fatto che Jones flirti con le categorie della psicanalisi, mi pare sia testimonianza esemplare il finale del penultimo cartoon della serie, Soup or sonic, firmato da Chuck Jones all’età di sessantotto anni nel 1980, dopo quasi vent’anni dagli ultimi cartoon (con la sola eccezione di un cartoon nel 1979).

Durante il solito inseguimento Wile E. e RR si infilano in un tubo che va restringendosi sempre più. Quando escono dall’altro capo del tubo sono diventati piccolissimi e il loro velocissimo muovere le gambe esalta la loro ridicola lentezza: infatti stanno correndo sullo sfondo di piccoli oggetti (barattoli di pelati, mozziconi di sigaro) che a questo punto in confronto a loro sembrano diventati enormi. Il Coyote si ferma, si guarda intorno, si gratta la schiena come spesso fa quando è perplesso, poi si mette due dita in bocca e fischia al Road Runner. Quello si ferma, si volta, e Wile E. gli fa cenno di tornare di nuovo indietro e re-imboccare il tunnel in direzione inversa. RR fa dietro front, passa davanti al Coyote, questi lo lascia passare e poi si lancia di nuovo al suo inseguimento. I due rifanno la strada all’indietro e RR esce dal tubo avendo riacquisito le sue dimensioni normali. Dopo qualche secondo esce dal tubo anche Wile E., ma le sue dimensioni sono rimaste ridotte: è piccolissimo. RR si volta, si accorge delle dimensioni del Coyote e si ferma. Quello prosegue la sua corsa, scavalca di slancio le zampe del RR, ogni dito del quale è alto come tutto lui, prosegue un po’, poi capisce che il RR si è fermato ritorna indietro di corsa e abbraccia felice l’enorme zampa. A questo punto fa una risata maligna, tira fuori tovagliolo, forchetta e coltello e si accinge ad incidere la zampa. Qui, però, capisce quello che è successo. Dopo nemmeno un secondo c’è uno stacco: il Coyote (o meglio, la macchina da presa, in soggettiva) fa una lunghissima panoramica all’insù, su per le gambe del RR, sino ad arrivare alla testa e al becco. Da lì, da sopra, sorridente e pure terrificante, RR lo guarda, si china, dice un «bip bip» (che risuona più lento e due ottave sotto, come prodotto da un giradischi rallentato), mentre il suo becco enorme occupa tutto lo specchio e le sue pupille riflettono due piccoli Wile E. Segue un altro stacco su Wile E. in piedi accanto all’enorme gamba: gli cadono forchetta e coltello dalle mani e guarda in macchina con un’espressione che sta tra lo spaventato, lo stupefatto e l’indispettito. Con un raccordo sull’asse, la macchina da presa va in primo piano sul Coyote e questi, sempre guardando in macchina, tira fuori due cartelli: il primo, che dice: «okay, wise guys, – you always wanted me to catch him –» (“va bene, geni, avete sempre voluto che lo prendessi”) e di lì a poco, a seguire, il secondo che chiude: «now what do I do?» (“e ora che faccio?”). E su questa inquadratura parte il mascherino conclusivo.

Il rapporto con il desiderio (la felicità dell’abbraccio di Wile E. unita al sorriso maligno e alla voglia di mangiarsi RR), l’assoluta impraticabilità del desiderio di Wile E. che qui si declina in termini di grande e piccolo e non di veloce e lento (impossibile sfuggire alla tentazione di definire edipica l’incredibile panoramica in soggettiva di Wile E.)24, l’onirico che permea tutti questi cambi di dimensione, sono dati che spingono ad associare questa sequenza a un viaggio nell’inconsio.

Il fatto stesso che si tratti di immagini, di cartoni animati, ci porta immediatamente nell’ambito del sogno, dell’irreale.

In definitiva un clown che cade mentre prova a camminare sul filo dove ha poc’anzi danzato una splendida ballerina è protagonista dello stesso gioco di Wile E. e del RR, ma il gioco a cui partecipa è necessariamente meno estremo, meno violento. Sia perché la ballerina, nelle sue evoluzioni, ha comunque dei limiti umani (e non può, ad esempio, diventare La géante di Baudelaire come invece, si è visto, è dato di fare al RR), sia perché il clown può cadere quanto si vuole ma non deve farsi male. A RR e al Coyote, invece, può capitare di tutto e, al tempo stesso, quel che gli capita non impedirà mai loro di essere sani e pronti alla nuova battaglia nella sequenza immediatamente successiva del cartoon. Il che agli uomini succede solo nella dialettica sogno/realtà: lì, nel sogno, può succedere loro di tutto, ma qui, il mattino dopo, tutti in piedi e per il mondo, nel loro più o meno gratificante tran tran25.

La funzione dello sguardo in macchina

Ora, e arriviamo finalmente allo sguardo in macchina, l’esempio del clown che si avventura sulla corda non è casuale. Se si immagina una scena del genere in un circo, non si tarderà a visualizzare dei momenti nei quali il clown “guarda in macchina” ovvero dà un “colpo di maschera”, come si dice nel lessico della commedia dell’arte e forse farà anche qualche battuta indirizzata al pubblico, un a parte.

Lo sguardo del Clown e quello di Wile E. funzionano allo stesso modo.

Osserviamo uno dei moduli canonici che si ripetono per tre o quattro volte all’interno di un cartoon (quella che va dalla provocazione del RR, e dalla conseguente pensata geniale del Coyote, alla catastrofe) e vediamo come viene scandita dagli sguardi in macchina. I tipi principali di sguardo in macchina sono cinque, li elenco a seguire, non nell’ordine in cui vengono prodotti nei cartoon. Importante la seguente annotazione: quasi mai ci sono tutti e cinque in un solo modulo. Spesso alcuni sguardi sono omessi, ma se vediamo l’intero cartoon o se abbiamo dimestichezza con gli altri episodi della serie, possiamo immaginare facilmente che i personaggi/attori li producano anche se poi di fatto non ci sono.

Il primo, di commento esteriore, è quello del Road Runner, alla fine dell’episodio, davanti ad un’evidente disfatta del Coyote. Il Road Runner, non guarda mai in macchina se non a commento di una sconfitta evidente del Coyote, o meglio, a commento dell’ultima delle sue evidenti sconfitte, quella che conclude il cartoon.

Al contrario il Coyote guarda spesso in macchina. A volte, secondo tipo di sguardo in macchina, sembra più che sia la macchina a guardarlo che lui a guardare la macchina.

Sguardo in macchina del secondo tipo. Wile E. Coyote guarda in macchina senza comunicare direttamente con lo spettatore: sta pensando al da farsi.

Come se lo sguardo in macchina non fosse un diretto mettersi in contatto dell’attore con lo spettatore, ma piuttosto una posizione “casuale”, naturale, grazie al quale lo spettatore può vederlo alle prese con quello che gli capita dentro. Tra lo sguardo in macchina e il primo piano. Altrimenti detto è una sorta di soliloquio, di monologo eseguito in non-comunicazione, in una disposizione interiore non condivisa, chiusa all’esterno. Insomma non è quella che Casetti definisce con parola orrenda, tipica della semiotica, «interpellazione» dello spettatore26. Questo tipo ambiguo, non dichiarato, di sguardo in macchina lo si ha in diversi frangenti. O mentre il Coyote pensa a come acciuffare il Road Runner o nel bel mezzo dell’azione quando cerca disperatamente di risolvere un intoppo che si è venuto a creare27.

C’è poi un terzo tipo di sguardo in macchina. Sono sguardi che in genere o succedono ad una geniale pensata del Coyote, o accompagnano la decisione di risolvere un intoppo sul processo di attuazione di una di queste geniali pensate.

Sguardo in macchina del terzo tipo. Wile E. Coyote ha preso una risoluzione sul da farsi.

Il quarto tipo accompagna la catastrofe ed in genere è prodotto un secondo prima che questa accada, quando è già evidente a tutti, compreso il Coyote, quello che sta per accadere.

Sguardo in macchina del quarto tipo. Wile E. Coyote mentre constata il prossimo effetto della sua brillante risoluzione28.

Infine c’è l’ultimo, il quinto, quello che accompagna l’uscita di scena del Coyote dopo una delle varie catastrofi che accadono all’interno del cartoon. In genere questo sguardo è prodotto da un Coyote trasformato, ridotto in condizioni terribili (bruciato, ammaccato, ridotto una fisarmonica, occhi che compaiono da sotto ammassi di terra come unica testimonianza di un corpo sepolto, ecc…).

Sguardo in machina del quinto tipo. Wile E. Coyote dopo aver subito l’effetto della sua brillante risoluzione guarda lo spettatore con il quale aveva condiviso l’impulso a portarla ad effetto (questo tipo di sguardo in macchina può essere omesso o evitato ma è comunque presupposto condiviso con lo spettatore)

A volte, raramente, soprattutto quando si tratta dell’ultima catastrofe, quella con cui il cartoon si conclude, questo sguardo del Coyote è accompagnato – a volte addirittura sostituito – da un altro tipo di comunicazione diretta allo spettatore (una bandiera bianca, un cartello con una scritta)29.

Questi, i cinque tipi principali di sguardi in macchina. Sottolineo la parola “principali”, ché il Coyote guarda in macchina molto spesso e anche in altre occasioni. Si tratta però di occasioni più episodiche, che si ripropongono meno sistematicamente di quelle che ho citato.

Lo sguardo del Road Runner, l’ho messo tra i principiali, ma anche questo in realtà è raro. Funzionale ad un sistema ma non sistematico, non lo si trova sempre, non “regge” la struttura drammatica come gli altri quattro e la sua collocazione tra i “principali” ha una giustificazione differente, che spiego in seguito. È chiaro ciò non di meno che lo sguardo conclusivo del Road Runner, sguardo che va ad interpellare lo spettatore precedentemente interpellato da Wile E. Coyote, denuncia la consustanzialità dialettica dei due personaggi, denuncia, nel momento in cui lo conclude, la comunità, la condivisione del gioco che i due disegni animati hanno appena condotto.

I quattro tipi di sguardi in macchina differenti di Wile E. e (che in realtà poi sono raggruppabili in due tipologie più grosse: uno che non comunica direttamente con lo spettatore e tre che lo fanno) sono coordinati ed articolano articolano diversi momenti, diversi stadi, diverse fasi dello sviluppo del modulo drammatico che viene ripetuto per diverse volte all’interno di ogni cartoon. Semplicemente quello “inerte”, introflesso, denuncia che internamente al personaggio sta accadendo lo stesso gioco che gli sguardi “interattivi” condividono con lo spettatore, con l’effetto di arricchire la sua azione di (ludica, ironica) profondità psicologica.

Facciamo un esempio di questa articolazione. Nel cartoon There they go-go del 1956 Wile E. ha costruito una sorta di botola in cima ad una gola e ci ha collocato sopra una gran quantità di massi. Sotto la botola, ad esca, ha messo una ciotola di mangime per il Road Runner. Il Road Runner arriva, becca il mangime. Wile E. tira la cordicella che tiene chiusa la botola, la botola si apre… ma i massi rimangono inspiegabilmente appesi in mezzo alla gola. Il Road Runner finisce di beccare e corre via. In questo momento Wile E. guarda lo spettatore; il suo sguardo esprime furia per l’ingiusto intoppo e annuncia la decisione di risolverlo (terzo tipo di sguardo in macchina). (Inciso: questo, ovviamente, è quello che vediamo noi – che tendiamo naturalmente a leggere “narrativamente” la sequenza – e non quello che fa l’attore. Questi, come sappiamo, invece sta solo portandoci verso il suo ennesimo e clamoroso fallimento, scopo della sua azione drammatica.) E dunque Wile E. condivide mediante lo sguardo in macchina qualcosa con lo spettatore che, in termini narrativi, definiremmo: la sua indignazione, il suo senso di disdetta, la sua muta imprecazione contro l’ostilità delle cose e la sua determinazione a piegare quest’ostilità. Dopo di che sale in cima al mucchio di sassi e comincia a saltarci sopra. Quelli però non si smuovono, non cadono. Allora ritorna sotto, prende una pertica e da sotto comincia a sollecitarli, a pungolarli per farli cadere. Ad un certo punto cominciano a cadere dei sassolini. Wile E. allora intensifica la sua azione provocando un’ulteriore e più corposa caduta di sassolini… Qui il Coyote si ferma, guarda in macchina ed estrae un cartello sul quale c’è scritto: «in nome di Dio, cosa sto facendo?» (quarto tipo di sguardo in macchina). Poi velocissimo (in meno di mezzo secondo) sostituisce il cartello con un ombrellino e un momento dopo la frana gli cade addosso e lo seppellisce. Dal mucchio di sassi emerge una pertica sulla quale sventola bandiera bianca (sguardo in macchina del quinto tipo – omesso, però, e sostituito dalla comunicazione diretta allo spettatore costituita dalla bandiera bianca -).

Gli sguardi in macchina del terzo e del quarto tipo (e quello omesso del quinto), articolano qui un’unica sequenza.

Ora, un’osservazione.

Guardando il video, ho notato prima quello di quarto tipo e poi quello di terzo. Vedendo Wile E. correre sopra il mucchio di massi e saltarci sopra, entrando già nell’attesa di una qualche catastrofe che si sarebbe abbattuta su di lui, e arrivando finalmente e allo sguardo in macchina che la precede, ho avuto netta la sensazione che quello sguardo e quella battuta («in nome di Dio cosa sto facendo?») fossero stati preceduti da un altro sguardo in macchina di segno opposto. Sicché sono andato a ricontrollare e, puntualmente, scorrendo all’indietro il film ho trovato lo sguardo di terzo tipo, quello infuriato.

Perché racconto di come l’ho trovato? Perché questa procedura, questo tornare indietro, questo presagire un inizio da una fine è il sintomo di una mia abitudine: quella di rinvenire nell’opera la strutturazione drammatica ludica, e cioè quella struttura che vede il suo punto di forza, la sua energia di propulsione nel finale. Quando entriamo in uno di questi cartoon strutturati in “ludica” ne conosciamo ormai bene le dinamiche30, benché non abbiamo ancora un’idea esatta di quali saranno le peripezie, le invenzioni, le (dis) avventure che porteranno al finale. Sicché tendiamo a dare per scontato l’innesco e rivolgiamo tutta la nostra attenzione alle peripezie. È giusto e normale che sia così, tesi come siamo verso la fine; ma è funzionalmente indispensabile per il dramma che la catastrofe finale abbia un suo innesco. Il dramma, infatti, ha bisogno di un suo sviluppo e il finale deve sempre risolvere il conflitto caricato(si) nell’inizio. E questo vale anche per le strutture ludiche.

Ora, visto che ci troviamo appunto in una struttura ludica, dove l’empatia, il peso emotivo della tensione drammatica non grava sulla situazione iniziale ma su quella finale, in termini di strutturazione drammatica, non è il secondo sguardo in macchina ad essere una conseguenza del primo, ma il primo ad essere pensato in funzione del secondo. Il personaggio/attore/autore sa che il risarcimento dello spettatore (e suo), il senso di quello che sta succedendo è nella catastrofe finale, ma per procurare questo risarcimento, per dargli peso, per far sì che questo risarcimento sia significativo, deve caricare lo spettatore (e se stesso), deve creare una tensione, un’intenzione, una speranza che vadano nella direzione opposta, rispetto a quanto accade nel finale. E quindi prepara e rinforza questa catastrofe con quel primo sguardo che comunica la determinazione a risolvere l’intoppo, vincere l’opposizione delle cose, anche se ormai il RR è passato.

Ma di quale risarcimento si parla?

Osservando lo sguardo in macchina che abbiamo definito sopra di terzo tipo, quello di Wile E. illuminato dall’ennesima trovata geniale per prendere RR, sguardo che apre il gioco, si dovrà ammettere che la comunicazione allo spettatore che vi è contenuta è ambigua, opaca.

Cosa sta mettendo in comune con lo spettatore Wile E. ? La gioia, la sicurezza nel successo? La promessa di farvi assistere ad un redde rationem come si deve? Il compiacimento per la propria diabolicità? La voglia di riscatto su RR e sulle cose? Il desiderio di vendetta?

Difficile dirlo, perché quella, appunto, non è una comunicazione segnica, ma processuale. È insomma un’azione inserita in una struttura drammatica (ludica) e quindi va compresa in termini di impulsi e non di definizioni. E, abbiamo visto, l’impulso ludico è quello che si organizza appositamente (e “falsamente”, cioè per gioco, ludicamente) per contrapposizione al finale allo scopo di arrivarci con più fragore.

Sicché al di là di un suo significato narrativo nominabile, la realtà, piuttosto e più semplicemente, è che quello sguardo che subito ci fa sorridere ha il suo senso nell’operazione di agganciarci, promettendoci e prefigurandoci la catastrofe finale; la sua funzione è di portarci dentro questo gioco terribile e comico dell’uomo con l’irraggiungibile, gioco che immancabilmente si concluderà con la catastrofe dell’uomo.

(Lo sguardo, peraltro, è prodotto ogni volta in una situazione concreta [e cioè dopo che RR è sfrecciato sotto il naso affamato di Wile E., o dopo che questi ha subito l’ennesima catastrofe] e questo ci mette in leggera empatia anche psicologica con il personaggio, riconnettendoci all’impulso drammatico classico che ci parla di desiderio, voglia di rivincita, ostinazione, ecc. Ma questa della situazione è solo una coloratura leggera che ci serve per muovere le nostre associazioni, le nostre energie di spettatori).

Sicché, agganciati dallo sguardo in macchina di terzo tipo e avendo grazie ad esso condiviso col Coyote sia l’impulso situazionale che quello ludico, noi spettatori ci muoviamo insieme a lui, lanciati verso l’inevitabile catastrofe: a questo punto la catastrofe è un problema anche nostro.

In termini fattivi, operativi, dunque, lo sguardo in macchina di terzo tipo, dopo aver aperto la sequenza e aver promesso (e messo in comune) il risarcimento finale, permette all’attore di tenere agganciato lo spettatore durante le peripezie del cartoon e di traghettarlo verso la catastrofe finale.

Alla catastrofe finale, però, ci si arriva passando attraverso un’altra operazione di grande effetto: lo sguardo in macchina di quarto tipo (e cioè quello sguardo che precede immediatamente la catastrofe e che nell’episodio dei massi incastratisi nella gola veniva accompagnato dal cartello con sopra scritto: «In nome di Dio, cosa sto facendo?»).

Questo secondo sguardo crea un ponte a ritroso con il precedente (quello vittorioso, carico di ottimismo e di fiducia… ma già preannunciante la catastrofe). Ce lo ricorda e al tempo stesso lo rinforza con il patetismo comico per la sofferenza incipiente, la tragicità della catastrofe incombente, lo sgomento per la sconfitta subita. (Comico, il patetismo, perché sofferenza, senso tragico e sgomento altro non sono che negazioni ludiche del fatto che dolore catastrofe e sconfitta erano proprio lo scopo perseguito). E dopo aver rinforzato la negazione ludica dell’aspirazione al finale ci proietta violentemente nella catastrofe, nel rivolgimento aspettato e pregustato sin dall’inizio del cartoon.

E qui abbiamo il risarcimento. Il Coyote, il suo (nostro) desiderio di irraggiungibile, di incommensurabile, la sua (nostra) voglia di riscatto rispetto ad esso, che hanno nutrito e colorato l’azione fallimentare, riconfermano la eterna parabola di una coazione a ripetere idiotistica. Wile E. disegno, immagine, fatto della stessa materia dei sogni, dell’anima, si getta nella rovina per rinascere e rovinarsi un’altra volta, come facciamo noi quando per l’ennesima volta la nostra anima si sabota, si mette in un’impresa che sa, sin da principio, essere negata dalla realtà delle cose, dalle sue possibilità, ecc.

Ci muoviamo insieme, noi e Wile E., agganciati dal suo sguardo, e insieme precipitiamo…. ma a distruggersi è solo Wile E., per davvero, totalmente, deformandosi (e facendo, in quanto disegno, ciò che il clown, l’uomo non può fare). Wile E. rimane in fondo al precipizio mentre noi, come su una montagna russa, risaliamo liberi di giocare e di ridere e anche di ricominciare, se vogliamo. Salvi insomma, e per questo felici e leggeri31, ma anche consci e padroni di questo impulso, distanti e ironici, sicuri e capaci di gestirlo.

L’ultimo sguardo di Wile E., quello del quinto tipo, che di solito segue la catastrofe, è una conferma di questa nuova condizione (ludica) divaricata.

Trasformato, deformato, Wile E. ci guarda con uno sguardo niente soddisfatto né di sé né di noi. Questo sguardo non amichevole, non è più teso a condividere la sua sofferenza o il suo ottimismo o altro, ma è solo intento a constatare qualcosa (sebbene come sempre presupponga una condivisione del gioco); come ci dicesse che in effetti lui è ridotto proprio in questo stato, nel che non c’è niente di buono e quindi non c’è niente da ridere. Da esso spira come un vago senso di offesa nei confronti dello spettatore (forse perché questi, invece, ride proprio o forse perché lo fa dopo aver condiviso il suo primo sguardo, quello del terzo tipo, quello in cui si era partiti emozionalmente assieme verso una gloriosa e vincente avventura e ora ci si trova in situazioni così diverse: lui così e lo spettatore libero e divertito).

A questo sguardo in macchina, non sempre, ma di grande peso quando succede, segue lo sguardo in macchina di RR, quello che ho catalogato come primo tipo. È uno sguardo in macchina che conclude il cartoon. La comunicazione che vi è contenuta, come sempre, è ineffabile. In genere è connessa ad una sensazione di vittoriosa ironia nei confronti di Wile E.32.

È uno sguardo veramente conclusivo e filosofico: tira le somme di tutta la vicenda ponendo una domanda sull’Uomo allo spettatore. Il suo peso non è attenuato, anzi è rinforzato, dalla soavità, dal distacco con cui il RR lo produce.

Concludendo sullo sguardo in macchina.

Il dramma ludico della vicenda di Wile E. e del RR, formulato in moduli che si ripetono, è messo in comune, in condivisione con lo spettatore mediante lo sguardo in macchina. Lo sguardo in macchina è un dispositivo che proietta lo spettatore lungo l’arco del dramma ludico e lo rende parte emozionalmente attiva in esso, interlocutore empatico privilegiato dell’autore/attore/personaggio durante la sua performance. Perché ciò accada è meglio, è desiderabile che conformemente al principio dell’ironia tragica lo spettatore conosca il cartoon, ovvero abbia capito come funziona, perché allora il dispositivo ludico (teso verso un finale che si conosce, o si prevede, o si presente) agisce pienamente. Per questo i cartoon di Wile E. e del RR presentano per due, tre o anche quattro volte lo stesso modulo: perché il primo, nel caso lo spettatore non sia già un aficionado, serve a conoscere il dramma.

Quello che accade allo spettatore è sostanzialmente simile a quello che accade all’attore. Ambedue giocano lo stesso gioco, un gioco che si muove grazie agli stessi contenuti, articola la stessa area semantica. La differenza è che l’attore gioca con l’anima e col corpo (e, non in questo caso, con la parola) mentre lo spettatore gioca solo con l’anima.

L’empatia nello spettatore c’è, è piena, ma è con il giocatore che scherza, entrambi giocano con i destini del personaggio (come fosse una palla) a un gioco che riverbera un senso, ma che di per sé ha regole abbastanza chiare, semplici e condivise. Lo strumento che crea questa empatia è lo sguardo in macchina con cui l’attore mette lo spettatore a parte del gioco e lo dispone nelle varie posizioni che il gioco esige che lui occupi33.

  1. Si tratta di presupposti teorici di derivazione stanislavskiana, e quindi, di fatto, basati su un’osservazione empirica dei processi performativi. Una bibliografia sull’argomento nelle lingue occidentali comprenderebbe sicuramente tutte le opere di K.S. Stanislavskij (in particolare Il lavoro dell’attore sul personaggio, Bari, Laterza, 1988), le opere di Marija Knebel’ (M.O. Knebel’, Slovo v tvorčestve aktëra, Iskusstvo, Moskva 1954, trad. spagnola La palabra en la creacion teatral, Editorial Fundamentos, Madrid 1998; M. Knebel’, O dejstvennom analize pesy i roli, Iskusstvo, Moskva 1959 trad. italiana L’analisi della pièce e del ruolo mediante l’azione, Ubulibri, Milano 2009; A. Bergamo, Marija Knebel’ e «L’analisi della pièce e del ruolo mediante l’azione», in “Biblioteca teatrale”, n. 86-87 aprile-settembre 2008, Bulzoni, Roma 2009) e quelle di Anatolij Vasil’ev (A. Vasil’ev, A un unico lettore, Bulzoni, Roma 2000; Libri di regia, volume 1 (1995-1996), a c. F. Quadri, Ubulibri, Milano 2001 [capitolo dedicato al lavoro di Vasil’ev sui Dialoghi di Platone]; A. Vassiliev, Sept ou huit leçons de théâtre, P.O.L., Paris 1999; il numero monografico dedicato a Vasil’ev di “Théâtre-Public”, n. 182, Genevilliers, Paris, 2006). Non tedio il lettore con una bibliografia sull’argomento in lingua russa, limitandomi a dire che sicuramente potrebbero tornare utili i volumi di Aleksej Dmitrevič Popov e quelli di Georgij Aleksandrovič Tovstonogov.
  2. La crisi funzionale del dramma classico “aristotelico” tra fine XIX e inizio XX secolo e la sua successiva dissoluzione a favore di una deriva “epica” sono oggetto del celebre saggio di P. Szondi, Theorie des modernen Dramas, Frankfurt am Main, 1956, trad. italiana Teoria del dramma moderno, Torinom Einaudi 1962.
  3. Ovvio che avvenga anche in teatro che il dramma sia raccordato ad un plot. Ma innanzitutto avviene meno spesso e poi spesso non avviene negli spazi artisticamente più avanzati.
  4. Il famoso e pioneristico esperimento di Kulešov, il cosiddetto “effetto-Mozžukin”, postula proprio il presupposto di questa non corrispondenza. Vi si dimostra che grazie al raccordo di montaggio due inquadrature abitate da persone o cose che fanno cose differenti in contesti differenti possono convergere a narrare una storia unitaria. Nel concreto l’esperimento consisteva nel mostrare tre sequenze a tre pubblici diversi e nel registrare gli effetti che sortivano. Le tre sequenze erano costituite ognuna da due inquadrature: la prima era sempre la stessa, un primo piano assolutamente inespressivo del divo del cinema muto pre-sovietico Mozžukin, la seconda invece era diversa: nella prima sequenza c’era una donna semivestita, nella seconda un bambino morto, nella terza un piatto di minestra. I tre pubblici attribuivano al primo piano dell’attore un’espressione differente, a seconda dell’inquadratura che gli succedeva: desiderio nel primo caso, disperazione nel secondo, fame nel terzo.
  5. Sulla teoria del “teatro ludico” di Vasil’ev cfr. le opere citate nella nota 1 a questo scritto.
  6. Chuck Jones (1912- 2002) nei titoli compare come «director» e firma tutti i 26 cartoon (tutti della durata media di 7 minuti) della coppia Wile E. Coyote e Road Runner prodotti tra il 1949 e il 1964. Tra il 1965 e il 1966 la Warner produce altri 14 cartoon: uno firmato da Frtz Freleng, due da Robert McKimson (il primo dei quali, Rushing Roulette, a livello di quelli di Jones) e undici da Rudy Larriva (di qualità notevolmente inferiore). Poi la serie si interrompe sino al 1979 quando Chuck Jones firma un nuovo cartoon della coppia. Poi ne fa ancora un altro nel 1980 e infine uno nel 1994. In tutto, quindi, firma 29 cartoon della coppia.
    Le altre persone importanti nel team degli anni ‘49-’64 sono Michel Maltese, lo sceneggiatore, e il lay-out man Maurice Noble. Fornisco qui una breve bibliografia sulla sezione cartoon della Warner e su Chuck Jones. L. Maltin, Of Mice and Magic: A History of American Animated Cartoons, New York, Plume, 1987; M. Barrier, Hollywood Cartoons: American Animation in Its Golden Age, Oxford, Oxford University Press, 1999; J. Beck, W. Friedwall, Looney Tunes and Merrie Melodies: A Complete Illustrated Guide to the Warner Bros. Cartoons, New York, Holt Paperbacks,1989; C. Jones, Chuck Amuck : The Life and Times of an Animated Cartoonist, New York, Farrar Straus & Giroux, 1989.
  7. È la via dell’evoluzione umana quella di costruirsi delle protesi che evolvano le potenzialità del corpo: se vuole andare sott’acqua l’uomo inventa le bombole e i respiratori invece di aspettare i millenni necessari a che l’evoluzione lo doti di branchie. Va detto peraltro, per pura associazione e incidentalmente, che l’ambiente dove si svolgono le traversie di Wile E. e RR è lo stesso in cui lo scimmione incontra il monolito e scopre l’intelligenza e la tecnica in 2001 odissea nello spazio di Kubrik.
  8. Sui “fatti attivi” cfr. M. Knebel’, L’analisi della pièce e del ruolo mediante l’azione, Ubulibri, Milano 1009, pp.172-173.
  9. In realtà, col procedere degli anni, Vasil’ev sempre più spesso definisce questo tipo di struttura: “situativa”, visto che qui l’attore prende gli impulsi all’azione dalla situazione d’origine del dramma. La prima definizione, quella di “psicologica” era motivata dal fatto che questo tipo di struttura è quella adatta a studiare i rapporti psicologici tra i personaggi. E proprio per questa sua valenza però, che io preferisco adottarla, ché la ritengo più ricca di indicazioni e quindi più utile agli scopi di questo scritto.
  10. Affinché un’analisi tematica possa funzionare anche su un’opera pensata per essere performata in base ad una struttura drammatica psicologica, l’analisi deve essere condotta sul plot e non sugli impulsi. E cioè deve essere un’analisi della narrazione che risulta dal dramma e non delle dinamiche stesse del dramma.
  11. È noto quanto negativamente Brecht si pronunci sul concetto di empatia e con quanto disprezzo lo associ al piacere, definendo “culinario” il teatro che si basa su questo connubio e tacciando di indegnità lo spettatore che va a teatro a goderne (B. Brecht, Il teatro moderno è il teatro epico [Note all’opera Ascesa e rovina della città di Mahagonny], in Scritti teatrali, Einaudi, Torino 1962, pp. 25-29). Eppure l’empatia suscitata nello spettatore da questi cartoon, lo vedremo più avanti, non è relativa al destino del personaggio, ma al gioco che conduce, e quindi, in qualche maniera, è prodotta da un’attitudine “epicizzata” dell’attore, che infatti qui viene definito attore/autore/personaggio. Credo il tema sia degno di qualche riflessione, anche se ovviamente non è questo il luogo per svilupparlo. Credo infatti non si possa pensare il teatro di Brecht (e qualsiasi teatro) al di fuori di un rapporto empatico tra pubblico e attori. La visione di Kuhle Wampe o di Mutter Courage del Berliner Ensemble sembrerebbe confermare questa affermazione: difficile non provare emozioni nel vederli; ma cosa provoca queste emozioni, a cosa sono connesse (a qualcosa dovranno pur essere connesse, visto che queste emozioni insorgono durante la visione di quelle opere)? E quindi, forse, in un teatro “epicizzato” l’empatia c’è, ma è relativa a qualcosa di diverso rispetto all’empatia prodotta da un “dramma aristotelico”, forse si crea da un’intesa tra attori e spettatori su aspetti che sono connessi alla vicenda dei personaggi, anche se esterni al loro destino privato (non sempre, peraltro).
  12. È il conflitto principale, quello che attraversa il dramma dall’inizio alla fine e che determina l’azione trasversale dei protagonisti. Ne Le smanie per la villeggiatura di Goldoni potrebbe essere il conflitto tra il desiderio che ognuno dei personaggi ha di partire per la villeggiatura in condizioni di massima corrispondenza all’idea perfezionistica che ha di se stesso e il fatto che ognuno di questi desideri, per realizzarsi, ha bisogno che il desiderio degli altri personaggi venga frustrato.
  13. Le coppie oppositive sono quegli aspetti dell’opera che essendo in mutua disposizione conflittuale costituiscono delle spie che ci permettono di risalire al conflitto, di individuarlo.
  14. Ad esempio nel finale di Zip ‘n snort del 1961, RR guida un treno che insegue Wile E.; nel primo, Fast and furry-ous, del 1949, il RR saluta Wile E. dal lunotto posteriore di un bus che lo ha appena travolto, notevole che il Coyote si sia fatto travolgere perché invece che produrre il suono tipico del clacson il bus faceva il verso del RR e, avendolo sentito, il Coyote era saltato in mezzo alla strada.
  15. Il nome Wile E. alla lettura suona nella stessa maniera di wily e cioè “astuto”.
  16. Questo in Gee Whiz-z-z-z del 1956. In Stop! Look! And Hasten! 1954, Wile E. taglia, da sotto un ponte con la sega, disegnando un cerchio attorno al RR che sta mangiando dei semi messi lì da Wile E. come esca, in una ciotola. Sarebbe logico che RR sprofondasse nel baratro, ma il risultato è che crolla tutto il ponte (travolgendo ovviamente anche il Coyote) e RR rimane sospeso in aria su un piccolo cerchio di legno con la sua ciotola di mangime. E così via.
  17. Moltissimi i vettori a reazione. Aspetto che rinforza quanto scritto nell’articolo qualche riga sopra a proposito di Hiroshima: anche i vettori a reazione, che nel 1949 datavano pochissimi, avevano avuto come prima applicazione delle operazioni belliche.
  18. In un episodio di Zip Zip Hooray! (1965) RR, passa così veloce che… sposta le lettere scritte su un cartello di limite di velocità. Dopo il passaggio di RR il cartello ha dentro di sé un tale groviglio che la precedente scritta («56 miles») non è più leggibile.
  19. Peraltro, paradossalmente, quasi sempre nei cartoon, per fermare RR nel posto dove deve essere raggiunto da una delle sue geniali macchine, Wile E. offre al pennuto del cibo, indicandone la posizione con cartelli che annunciano “semi gratis per uccelli” (birdseed for free, appunto). Insomma paradossalmente Wile E. non mangia mai mentre RR mangia spesso. E ad offrire è sempre Wile E.
  20. Sarebbe interessante un confronto approfondito con la serie sovietica Nu pogodi! che vede come protagonisti un lupo e un coniglio e che ha dinamiche molto simili (il cartoon si apre con un incontro tra i due e con la nascita nel lupo del desiderio di mangiarsi il coniglio; durante tutto il film il lupo prova a prendere il coniglio, ma non ci riesce mai). La serie conta 16 film di circa 10 minuti l’uno, il primo dei quali è del 1969 e l’ultimo, simbolicamente, del 1986 (l’anno del plenum del PCUS con cui Gorbačev avviò la perestrojka; l’inizio della fine dell’URSS, insomma). Il regista dei film era Vjačeslav Kotenočkin e gli sceneggiatori Feliiks Kamov, Aleksandr Churljandskij e Arkadij Chajt. Il fatto che la serie Nu pogodi! cominci qualche anno dopo l’interruzione della serie di Wile E. e RR potrebbe ingenerare qualche sospetto di filiazione della prima dalla seconda. La serie americana era sconosciuta al pubblico russo e un qualche specialista più informato avrebbe potuto approfittarne per rubare l’idea ai colleghi americani senza dover pagare alcuno scotto per il plagio (non sarebbe stato un caso unico nella storia della cultura di massa sovietica). Però non ho alcuna possibilità di affermare con certezza che sia andata veramente così. D’altronde quello che veramente suscita interesse, proprio per l’estrema somiglianza delle due serie, sono le differenze tra esse. Sono differenze molto significative e la comparazione potrebbe suggerire qualche riflessione su alcune delle contrapposizioni culturali tra la società capitalista e l’ormai scomparsa società socialista. Enumero alcune delle differenze: la vicenda si svolge in città, i due sono tipi sociali molto ben definiti: il lupo è un teppista, un ragazzaccio di strada, il coniglio è un bravo ragazzo. Nessuno ha superpoteri, e quindi il coniglio parte svantaggiato, e i mezzi usati dal lupo sono più realistici e adeguati all’ambiente in cui si trova e alle sue condizioni sociali. Il coniglio non è superiore alla situazione, se ne rende conto e ha (esprime) paura del lupo, però utilizza meglio il cervello e si cava d’impaccio lì dove il lupo, che fa appello, rozzamente, alla sua forza bruta e al suo sprezzo delle regole, finisce sempre per trovarsi nei guai. Insomma il coniglio è più simpatico di RR. (le simpatie degli spettatori tendono a distribuirsi equamente tra i due) e vince perché è più intelligente ed è più attento alle compatibilità sociali (gli atti sconsiderati del lupo spesso lo portano ad essere arrestato – senza che nel suo arresto sia direttamente coinvolto il coniglio -o a creare danni che si riversano contro di lui – spesso grazie anche alla sagace opera difensiva del coniglio -). La superiorità del coniglio, quindi, non è un dato ontologico, come nella serie di Wile E. e RR, ma un auspicio sociale, una direttiva, un insegnamento, una morale: usate la testa, siate ligi e solidali con la vostra società (socialista sovietica) e la scamperete sui prepotenti.
  21. V. Ivanov, Po zvëzdam, Ory, Peterburg 1909, pp. 45-47.
  22. E come Sisifo costretto a ripetere all’infinito la frustrazione del suo sforzo… frustrazione che spesso coincide con un masso che rotola o precipita, in genere con lui sotto. Va aggiunto che Sisifo, celebre per la sua alacre inventiva, ricco di espedienti, viene definito “il più astuto tra gli uomini” da Omero (Iliade, libro VI, versi 153-155). Astuto, che in inglese è “wily”; e cioè la parola che risulta dalla lettura del nome del coyote: “Wile E.”
  23. L’intervista di Robin Williams è nel film Chuck Jones extremes & inbetweens, a life in animation, un interessante documentario prodotto e diretto dalla regista Margaret Selby nel 2000.
  24. Lo sguardo di Wile E. da sotto sale verso il volto del RR percorrendone le lunghissime e grandissime zampe, scorrendo lungo il corpo, che relativamente alle più vicine gambe sembra corto – come nei disegni dei bambini – e appuntandosi sul volto e sul becco di RR. Questi sorride e si piega avvicinandosi a Wile E. Il suo becco diventa enorme, di dimensioni mostruose. Il sorriso di RR non riesce a rendere quella vicinanza meno terrificante per Wile E.: con un solo colpo l’uccello potrebbe dilaniarlo e distruggerlo se lo ritenesse ostile, se lo ritenesse colpevole per il suo desiderio di mangiarlo, per averlo inseguito.
  25. Ed è proprio questa reversibilità dei corpi animati, questa loro consustanzialità al sogno, che permette che le loro terribili vicende siano in realtà lievi. Quando nei film non d’animazione i corpi degli attori subiscono traversie così estreme e crudeli che sarebbero ammissibili solo per dei cartoon, il genere di umorismo cambia radicalmente e si va in quel tipo di humor nero che viene definito “splatter”, quello per capirci, di cui ogni tanto è maestro Q.Tarantino.
  26. F. Casetti, Dentro lo sguardo (il film e il suo spettatore), Bompiani, Milano 1986.
  27. Esemplare per capire la differenza tra uno sguardo in macchina di questo tipo e uno più ambiguo, la sequenza di Ready… Set…Zoom, del 1955, quando il candelotto acceso di dinamite cosparso di colla si attacca prima ad una mano, poi all’altra, poi ai due piedi di Wile E. che cerca di staccarlo e Wile E. si ritrova a camminare sugli ischi cercando di gettarsi in un fiume con l’acqua del quale spera di spengere il candelotto (che invece, ovviamente, esplode mentre è in volo, prima che possa raggiungere l’acqua). Nei 32 secondi di questa sequenza, si succedono in un crescendo esilarante, questo tipo ambiguo di sguardo in macchina, un altro, che qui non ho classificato, intermedio, che condivide con lo spettatore lo stadio di avanzamento del pericolo, e il quinto tipo di sguardo in macchina, quello che succede la catastrofe (prodotto da un Coyote bruciacchiato pochi attimi prima di cadere nell’acqua del fiume). O anche quando in Stop! Look! And hasten!, del 1954, dopo aver constatato la superiore velocità del RR, il Coyote riflette su come prenderlo.
  28. Questo tipo di sguardo in macchina precede il 90% delle catastrofi subite da Wile E., lo si può vedere uno qualsiasi dei cartoon citati sopra.
  29. In Scrambled Aches, 1955, poco prima dell’impatto finale con uno schiacciasassi il Coyote guarda in macchina e innalza un cartello con sopra scritto «questa è la fine!»; in Guided Muscle del 1955 dopo l’ennesima esplosione nella quale è incappato, Wile E. mette sul cratere creato dalla dinamite un cartello con sopra scritto «cercasi un Coyote ingenuo, rivolgersi al direttore di questo teatro»; in Gee wizz-z-z-z del 1956, chiede la grazia di interrompere il cartoon prima dell’impatto col suolo; ecc.
  30. Che ci sia da aspettarsi una ripetizione dell’attuazione degli stessi meccanismi drammatici, Chuck Jones ce lo fa capire subito aprendo ogni volta i cartoon con lo stesso tipo di sequenza: i due fermo-immagine del Road Runner e di Wile E. Coyote con le didascalie in pseudolatino che interrompono per qualche secondo l’inseguimento.
  31. Conscio della crudeltà di questo gioco nel cartoon Gee Whiz-z-z-z del 1956, Wile E., mentre precipita, guarda in macchina e chiede, con un cartello, se è possibile interrompere qui il cartoon e mentre parte il mascherino finale, tira fuori un altro cartello e ringrazia. Come a dire: “Avete capito come va a finire? Bene! Ora però, almeno, potreste evitarmi l’impatto”.
  32. In Wild About Hurry del 1959; in Fastest with the Mostest del 1960; in Stop! Look! And Hasten! del 1954 e in diversi altri.
  33. Di questo articolo è stata pubblicata sette anni fa una prima versione incompleta in una miscellanea dedicata alla Professoressa Emma Scoles (Per una poetica dello sguardo in macchina (ovvero sull’a parte). Secondo episodio: Wile E. Coyote e Road Runner, in Aa.Vv., “Pueden alzarse las gentiles palabras”. Per Emma Scoles, a cura di Ines Ravasini e Isabella Tomassetti, Bagatto libri, Roma 2013, pp. 29-59). La revisione che ha prodotto questa nuova versione deve molto ai consigli redazionali che mi ha dato il regista e pedagogo Salvatore Cardone, che qui ringrazio.
Author

studioso, regista e pedagogo di teatro. Ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia Teoria e Tecnica del Teatro e dello Spettacolo presso la Sapienza con il prof. Ferruccio Marotti. Si è formato lavorando come assistente regista di Anatolij Vasil’ev e affiancando il pedagogo Jurij Alschitz. Ha pubblicato diversi saggi e monografie incentrate soprattutto sul teatro russo. Oltre a diversi saggi (su Stanislavskij, Ejzenštejn, Piotrovskij, Radlov, Annenkov, Pasolini, Platone e Stan Laurel e Oliver Hardy), i volumi della monografia sugli spettacoli rivoluzionari di piazza del 1920 e delle edizioni italiane di libri di A.Vasil’ev e M.Knebel e degli scritti di E.B. Vachtangov. È stato professore a contratto presso l’Università della Tuscia e presso l’Università della Calabria. Attualmente è docente di Storia dello spettacolo dell’Accademia di Belle Arti di Frosinone.

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