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n. 8 – ottobre 20, Video

La tv come casa dell’arte. Sperimentazioni e utopie

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https://doi.org/10.47109/0102200102

Fabio Mauri, Il televisore che piange, 1972, in Happening di Enrico Rossetti.

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ABSTRACT

Il coinvolgimento dell’arte nei dispositivi della tv viene esaminato da un duplice punto di vista: da un lato l’impiego della tv come strumento di divulgazione che mette a confronto storia dell’arte, intrattenimento e spettacolarizzazione; e dall’altro l’interpretazione della tv come strumento di sperimentazioni artistiche. L’ipotesi di un uso culturale delle potenzialità della comunicazione audiovisiva viene elaborata in particolare da numerosi storici dell’arte, con iniziative diverse che riflettono le varianti della nozione stessa di storia dell’arte e di critica d’arte. L’ipotesi della tv come possibile strumento per fare arte secondo inedite modulazioni linguistiche parte da Lucio Fontana nel contesto delle teorizzazioni spazialiste per poi svilupparsi autonomamente nello specifico di nuovi linguaggi tecnologici: i programmi, i dispositivi e la fisicità stessa del televisore sono stati infatti il primo “materiale” che gli artisti hanno utilizzato per elaborare quella che è passata alla storia come “videoarte”. Nei percorsi delineati da questo breve saggio la televisione ha assunto le valenze di un medium fortemente simbolico, nell’alternanza di messaggi e modelli diversi e non di rado contrastanti, collegati a una varietà di prese di posizione culturali e ideologiche.

Il rapporto tra il mondo dell’arte e quello della televisione non è mai stato facile e tantomeno lineare. Un percorso comunque vivace, articolato nel tempo e nei paradigmi di riferimento, puntellato da progetti, esperienze e abbandoni, utopie e tecnologie, riflessioni teoriche, estetiche e sociologiche. La complessità del discorso – nella necessaria ristrettezza di questo spazio – può ricevere soltanto alcune indicazioni di fondo, dal duplice punto di vista della tv come istituzione culturale e come strumento delle sperimentazioni che caratterizzano gli esordi della videoarte.

Nel 1952, quando iniziano le trasmissioni sperimentali della Rai tv italiana, l’ipotesi di un coinvolgimento dell’arte nei dispositivi del nuovo medium audiovisivo viene messa a fuoco da prospettive diverse. Tra le voci più interessanti un artista, Lucio Fontana, e uno storico dell’arte, Carlo Ludovico Ragghianti. Fontana si colloca nell’ambito di un’idea di arte intenzionalmente innovativa, al di fuori dei parametri tradizionali che identificano l’opera con un oggetto compiuto e immodificabile e all’interno invece di ardite relazioni delle immagini con lo spazio e con il tempo, mediate da nuovi dispositivi. L’impiego della televisione è segnalato come parte integrante di una radicale evoluzione dell’arte fondata su una sintesi tra la scienza (come dimensione teorica del moderno), la creatività (come dimensione spirituale e subconscia dell’arte), e le applicazioni tecnologiche (come mezzo della trasformazione materiale della vita).

«Né radio né televisione possono essere scaturiti dallo spirito dell’uomo senza un’urgenza che dalla scienza va all’arte», afferma il Primo manifesto dello Spazialimo (1947, firmato da Beniamino Joppolo, Lucio Fontana, Giorgio Kaisserlian e Milena Milani). «Trasmetteremo per radiotelevisione espressioni artistiche di nuovo modello», ribadisce il testo del Secondo Manifesto Spaziale (18 marzo 1948); nel 1950 la Proposta di un regolamento del movimento spaziale (2 aprile 1950) propone di «raggiungere una forma d’arte con mezzi nuovi che la tecnica mette a disposizione degli artisti… la radio, la televisione, la luce nera, il radar e tutti quei mezzi che l’intelligenza umana potrà ancora scoprire1.

Il 17 maggio 1952, infine, è la data della partecipazione di Lucio Fontana a una trasmissione sperimentale per la Rai tv di Milano, in cui le prime tele bucate dei suoi Concetti spaziali sono utilizzate per la realizzazione di immagini luminose in movimento. Un’esperienza straordinaria, accompagnata dal Manifesto del movimento Spaziale per la televisione: «Noi spaziali trasmettiamo, per la prima volta nel mondo, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d’arte, basate su concetti dello spazio […]. La Televisione è per noi un mezzo che attendevamo come integrativo dei nostri concetti»2.

Nello stesso periodo Carlo Ludovico Ragghianti pubblica sul secondo numero della rivista «seleArte» un articolo intitolato Radio e arti in cui analizza l’importanza dell’introduzione dell’immagine in movimento nel contesto fino ad allora unicamente sonoro della radio, ponendo il problema della potenzialità della comunicazione audiovisiva per far conoscere l’arte a un pubblico vasto3.

La televisione, scrive Ragghianti, «potrà presentare sullo schermo, con diapositive o per mezzo della trasmissione di documentari, le opere d’arte quasi in carne ed ossa. E magari anche precisando con sensibilità avvertita i loro punti di vista, fissando l’attenzione su dettagli significativi, analizzandole con aderenza»4. Il progetto è in sintonia con la sua attività di storico dell’arte impegnato nella realizzazione di film/documentari d’arte che egli stesso definisce critofilm: film che non sono semplicemente finalizzati alla divulgazione ma a una dimensione critica e interpretativa, una «critica d’arte (penetrazione, interpretazione, ricostruzione del processo proprio dell’opera d’arte o dell’artista) – scrive Ragghianti – realizzata con mezzi cinematografici, anziché con parole»5. In sostanza Ragghianti propone di applicare nei programmi della televisione la particolare metodologia del critofilm. Fontana, invece, vuole assumere la televisione come strumento di un’arte nuova, in stretto collegamento con le idee e i propositi dello Spazialismo. Tra le due ipotesi ha un immediato rilievo quella di Ragghianti, mentre la radicalità dell’appello di Fontana non trova spazio nei palinsesti tv. Continua infatti e si prolunga negli anni successivi il discorso sulle possibili (o impossibili) relazioni tra arte e tv, ma intendendo quest’ultima prevalentemente come uno strumento di divulgazione e non di creazione; un contenitore e un tramite di presentazioni, informazioni, celebrazioni attraverso vari tipi di documentari. Soprattutto agli esordi si riscontra un impegno culturale vivace nei confronti dell’arte in tv, tant’è vero che tra i programmi inaugurali della Rai, il 3 gennaio 1954, viene trasmesso un documentario su Giambattista Tiepolo, condotto da Antonio Morassi per la serie Le avventure dell’arte. Sulla linea della divulgazione si aprono successivamente varie iniziative, con la partecipazione di storici dell’arte, critici, registi, filosofi: da Morassi a Ragghianti e a Umbro Apollonio, da Roberto Longhi a Cesare Brandi, da Emilio Garroni a Franco Simongini, da Anna Zanoli a Luciano Emmer, da Federico Zeri a Philippe Daverio, in una serie piuttosto ampia di esperienze che assumono via via una sempre più accentuata spettacolarizzazione e che meriterebbero un’analisi specifica e approfondita6.

Una posizione che vale la pena di ricordare per la sua esplicita chiarezza è quella di Giulio Carlo Argan; uno storico e critico d’arte che non cura programmi sull’arte ma interviene in diverse e specifiche trasmissioni, in particolare quando riveste la carica di sindaco di Roma.

Argan crede nell’importanza della televisione in quanto mezzo di comunicazione per la cultura, ma mantiene tuttavia le sue riserve, come si evince, tra l’altro, da uno scritto degli inizi degli anni Settanta, Televisione e cultura visiva. In questo testo, inedito e solo recentemente pubblicato da Tommaso Casini7, Argan pone il problema dell’arte in televisione in termini di metodo e di linguaggio, non risparmiando le critiche. Il messaggio visivo della tv, egli scrive,

nel fatto, si dimostra fiacco, incoerente, empirico e sgrammaticato, sempre noioso e non di rado fastidioso o repellente; in ogni caso privo di stile, e dunque, alla radice, di metodo […]. La mancanza di una metodologia di base è provata dal fatto che i tecnici della comunicazione per mezzo dell’immagine, gli artisti, non vengano chiamati a collaborare al sistema se non occasionalmente e saltuariamente, per la scenografia o la regia di qualche spettacolo d’eccezione; non comunque alla funzione principale che rimane la formazione di una cultura di massa7.

E inoltre: «non si capisce però perché gli artisti non lavorino sistematicamente per la televisione»8. Con queste affermazioni Argan sottolinea il ruolo culturale della tv (aderendo a una concezione che era stata fondamentale agli inizi delle trasmissioni negli anni Cinquanta), ma indica l’assenza degli artisti come un limite, toccando un problema centrale: cioè il fatto che l’arte contemporanea – quella che vive nel nostro presente – non entra in tv. Ben pochi infatti erano all’epoca e sono ancora oggi – come dimostrano anche i lavori di questo convegno – gli interventi diretti, autonomi e autoriali degli artisti contemporanei. La loro presenza ha un carattere marginale, limitato a sigle, scenografie, costumi, cornice, sfondi e pubblicità; interventi sicuramente qualificanti (si pensi ad esempio ai lavori di Pino Pascali e di Mario Sasso), ma privi di una consistenza inerente alla creatività degli artisti nella contemporaneità e al loro riconoscimento in quanto «tecnici della comunicazione per mezzo dell’immagine»9 come li definiva provocatoriamente Argan. L’arte contemporanea è presentata in genere come fenomeno di costume e oggetto di consumo assai più che come una componente fondamentale della cultura vivente.

Fin dagli inizi invece è stata decisamente più accurata l’attenzione per l’arte dei secoli passati, mostrata con maggiore ampiezza di analisi e dettagli, in un’atmosfera reverenziale, impregnata per lo più dall’aura di eventi e di personaggi straordinari, tra lezione e persuasione. L’arte che entra in televisione è infatti, salvo pochissime eccezioni, l’arte dei grandi capolavori codificati da una lunga tradizione.

Il sistema televisivo dell’arte e della comunicazione – se così si può definire – non può e non vuole alterare i meccanismi culturali che gli sono propri accettando le forme di un’arte sperimentale di non facile consumo. E tanto più in quanto nei suoi programmi e nelle reti, malgrado siano sempre più ampi e differenziati, prevale nettamente il ruolo di intrattenimento e il carattere commerciale; il criterio di giudizio estetico e critico si è appiattito su quello basato sull’indice d’ascolto. Con una crescita esponenziale di modelli di comportamento e di polarità tecnologiche che hanno fatto sì che la televisione sia stata assimilata da Marc Augé nella definizione di non luogo – luogo di transito di informazione e comunicazione non identitario e non relazionale – nella dimensione di quella «complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l’individuo in contatto solo con un’altra immagine di se stesso»10. Posizione, questa di Augé, non immune da una certa forzatura rispetto alla complessità di relazioni che fanno capo alla televisione e ai mass media.

Non va dimenticato comunque, come accennavo all’inizio, che la televisione è stata un punto di riferimento molto importante per diversi artisti che hanno inventato altri modi di impiego: i programmi, i dispositivi e la fisicità stessa del televisore sono stati infatti il primo “materiale” che gli artisti hanno utilizzato per elaborare quella che è passata alla storia come “videoarte”. Un materiale tecnologico e fortemente simbolico, che è stato un elemento fondamentale per manipolazioni e sperimentazioni collegate a prese di posizione culturali e ideologiche. Gli artisti hanno assunto come materia prima sia le immagini elettroniche e le trasmissioni, sia il contenitore fisico, il mobile tv, con un’attitudine analitica e creativa capace di coinvolgere il linguaggio, l’istituzione e le potenzialità metamorfiche del dispositivo. Si è trattato sempre di modificazioni e invenzioni ricche di coinvolgimenti e di idee, un uso improprio, destrutturante, ludico e spesso critico, soprattutto agli inizi.

Per i cosiddetti pionieri del video fare arte con le immagini elettroniche implicava infatti un confronto diretto – misto di amore/odio – con la emergente complessità dei modelli culturali televisivi, considerati da un lato omologanti e al servizio del potere e dall’altro affascinanti per le inedite potenzialità tecnologiche che permettevano e stimolavano tutta una serie di innovazioni.

Wolf Vostell, in particolare, tra la fine degli anni Cinquanta e il decennio successivo, fa un’arte di denuncia: incastra i televisori, con la loro consueta programmazione, tra frammenti e immagini di grande drammaticità (come, in un esempio famoso, oggetti e fotografie dei campi di sterminio nazisti), li fa intravedere tra gli squarci di una tela, li immerge in colate di cemento, li distrugge con il fuoco o a colpi di fucile nel corso degli happening del movimento Fluxus. Günther Uecker, esponente del Gruppo Zero, trafigge la tv con una miriade di chiodi (1963). Più tardi Fabrizio Plessi conficca nei monitor una serie di pale (ma ne fa anche l’alveo di acque scorrenti); altri la rivoltano contro il muro, Fabio Mauri fa piangere la televisione nel corso di un’eccezionale trasmissione del 1972 in Happening, un programma curato da Enrico Rossetti.

Nam June Paik adopera i televisori come oggetti con cui costruire installazioni, azioni e situazioni; li svuota e li riempie, li accumula, li trasforma in spazi di meditazione o in sculture antropomorfe, o in costruzioni e architetture animate da saettanti implosioni cromatiche; soprattutto, come è noto, altera le trasmissioni dall’interno, manipola il tubo catodico e il segnale elettronico attuando un processo di decostruzione dello specifico linguaggio del medium. Partendo dalle strumentazioni della musica elettronica inventa un sistema di segni in cui si intrecciano codici visivi e sonori, fantasmagorie, elaborazioni, nel flusso di una continua metamorfosi11.

L’atteggiamento critico della videoarte nei confronti della tv come veicolo di linguaggi e contenuti massificanti si diluisce dopo la fiammata degli esordi e va a confluire non tanto in ricerche e sperimentazioni linguistiche quanto, almeno in parte, nella controinformazione degli anni Settanta: la contestazione diventa più esplicitamente sociale e politica, mentre continuano analisi e dibattiti sulle potenzialità espressive del rapporto tra arte e tv. Uno scambio di idee importante si verifica nell’ambito del convegno Le arti visive e il ruolo della televisione (Milano 1978), in cui si confrontano i concetti e le pratiche di divulgazione, attualità e espressività negli interventi di Vittorio Fagone, Gillo Dorfles, René Berger, Paolo Cardazzo e altri12. Intanto l’impiego di televisori e monitor come componente fondamentale della costruzione di videoinstallazioni si intensifica negli anni Ottanta, configurando una temporalità spiazzante e coinvolgente in una varietà di tragitti percettivi, oggetti, spazi e tempi in cui lo spettatore sempre più è chiamato a partecipare, incorporarsi e interagire. Successivamente anche questo impiego dell’oggetto televisore tende a modificarsi quando, con il perfezionamento dei proiettori e dei videoproiettori, le vicende del video si spostano fuori dal monitor, liberandosi dalla struttura dei televisori per espandere proiezioni e multiproiezioni su grandi schermi, muri, oggetti e monumenti, dentro e fuori le gallerie e, talvolta, nei musei. Intensificando l’esperienza del rapporto con i contesti e con il pubblico.

Tornando allo specifico dei legami tra arte tv va ricordato che agli inizi degli anni Settanta l’idea di utilizzare la televisione come canale per l’arte e per la videoarte riceve alcune testimonianze, sporadiche ma piene di vitalità, come dimostrano alcuni esempi. È il caso (nel contesto italiano cui mi limito in questo mio breve intervento), di Videobelisco, un’iniziativa della Galleria dell’Obelisco di Gaspero del Corso a Roma. Inaugurata nel 1971 e attiva per un breve periodo, la VideObelisco AVR (Art Video Recording) è concepita come una sezione video dedicata alla sperimentazione tecnica ed espressiva e come offerta concreta di apparecchiature e spazi agli artisti e al pubblico. Ne dirige i lavori Francesco Carlo Crispolti che individua nel videoregistratore lo strumento che può permettere alle manifestazioni artistiche contemporanee, soprattutto quelle performative, di diffondersi attraverso la tv, al di fuori di gallerie e istituzioni.

Videoregistrazione come modulo nuovo; telecamera e videotape come memoria presa diretta provocazione, dissenso dai canali ufficiali, happening gesto presenza casualità spontaneità scatole cinesi, e infinite altre possibilità per le arti visive, questa volta inserite nel concetto più vasto di informazione. … La videoregistrazione offre un canale preciso allo sforzo dell’arte d’oggi diretto a penetrare nelle possibilità interne del flusso del reale13.

Questo affermava Crispolti presentando il 14 maggio 1971 i lavori di Gianni Colombo, Vincenzo Agnetti, Franco Berdini, Luca Patella e Attilio Pierelli, insieme a una ricostruzione elettronica del balletto astratto Fuoco d’artificio di Balla-Strawinski-Diaghilev del 191714.

Un aspetto molto interessante dell’attività di Videobelisco era dato dall’utilizzazione delle telecamere a circuito chiuso e della trasmissione via cavo condominiale che trasformavano un normale evento artistico in un confronto diretto, estemporaneo e simultaneo, degli spettatori con i nuovi mezzi. Attraverso il collegamento del videoregistratore ai canali liberi della televisione domestica con antenna centralizzata si diffondeva in diretta, da diverse angolazioni, quanto avveniva dentro e fuori la Galleria, ripetendo varie volte le diverse riprese e mescolandole con i video degli artisti.

Era la proposta di una processualità diversa tra arte, artista, pubblico e tv, come sottolineava con entusiasmo Crispolti:

La televisione come spettacolo crea immagini-oggetto, feticci-simbolo, cristallizzazioni archeologiche; la videoregistrazione come presa diretta non è solo una trasposizione della vita ma un modo di essere, una modalità percettiva della vita, un tramite percettivo di alcuni al tutto sociale… .Le possibilità offerte dai nuovi media sono infatti infinite e la dicotomia tra la cosiddetta arte figurativa e la televisione non dovrebbe più esistere perché tutti potranno semplicemente scegliersi o farsi il programma (l’«arte») che vorranno15.

Un progetto dunque che si collocava (precocemente rispetto alle recenti teorie di arte relazionale), nel segno della fusione dei ruoli tra artista e fruitore e dell’intreccio di tempo e spazio e che all’epoca sembrava particolarmente appropriato per fare e diffondere la videoarte attraverso il dispositivo televisivo. In quest’ottica si articolavano all’epoca le modalità operative di varie ipotesi di comunicazione a distanza di eventi artistici mediante tv, sperimentate in alcune mostre fondative. Rimanendo in Italia vanno ricordate Telemuseo curata da Tommaso Trini nel 1970 a Milano, Circuito chiuso aperto organizzata a Acireale nel 1971 dallo stesso Francesco Carlo Crispolti insieme a Italo Mussa; e Schifanoia-tv, realizzata dal gruppo OB di Milano a Ferrara nel 197216. E pochi anni dopo, agli inizi degli anni Ottanta, il lavoro di Mario Costa, filosofo e teorico dell’estetica della comunicazione, che sperimenta con l’artista Fred Forrest l’ampliamento del campo mediatico a livello regionale, attraverso performance video-telefoniche in tempo reale, come Bleu éctronique – Hommage a Yves Klein, al Museo del Sannio di Benevento dal 26 marzo al 14 aprile del 198417.

Negli anni Ottanta, infatti, l’attenzione degli artisti per la tv e i suoi schermi riceve altri impulsi con il diffondersi dell’accessibilità del computer, sia nella pratica di ricerche e sperimentazioni sia a livello teorico. Ad esempio nel 1983 (mentre si inaugura il Festival Arte elettronica di Camerino, punto di riferimento fondamentale dell’interazione fra arte e nuove tecnologie informatiche), il collettivo Crudelity Stoffe (Michele Böhm e Marco Tecce) si spinge a ipotizzare la tv come casa dell’arte digitale contemporanea affermando nel manifesto Appunti abolizionisti:

Non sono mai stati gli artisti a decidere ove far vivere i propri lavori, diciamo che hanno sempre optato per i luoghi dove era già appuntata l’attenzione dei loro contemporanei: che si parli di caverne o di piramidi, di chiese o di corti rinascimentali, di gallerie o di musei di stato, in fondo non cambia molto. Oggi questo luogo è ovunque, è il tubo catodico: si può ben dire che la televisione è la casa dell’arte moderna18.

Così scrivono i Crudelity Stoffe, ma avvertendo:

Bisogna distinguere fra l’arte della televisione e l’arte NELLA TELEVISIONE che è un capitolo tutto da scrivere […]. Arte nella televisione è la scommessa di affascinare l’utente con operazioni consapevoli sul raster, con colori che sono i colori puri della televisione, senza illusioni realistiche e soprattutto con un divenire che non è animazione, non è effetto, ma ridefinizione dello spazio, poligoni che si sovrappongono abolendosi. Slegare il calcolatore dal concetto di effetto speciale, dargli dignità di segno e di processo, utilizzarlo per le sue capacità di precisare ciò che sentiamo dentro. Un’arte nella televisione è possibile a patto che le cosiddette “Nuove Tecnologie” non siano in mano a tecnici specializzati ma ad artisti del software, gli unici che possono manipolare veramente questo formidabile produttore di segni19.

Le tracce di queste idee e di questi eventi si potrebbero seguire fino ad oggi, poiché molteplici e significative sono state le ipotesi di legare l’arte video nelle sue varie accezioni ai dispositivi della tv – dal tubo catodico al videoregistratore e al digitale – sfruttando e moltiplicando analogie, transiti e affinità tecnologiche. E non pochi sono gli artisti che hanno immaginato se stessi e la propria arte nella televisione, formulando ipotesi generose alimentate dalla fiducia utopica di poter contribuire a portare nuove qualità nell’industria televisiva utilizzando proprio la novità dei suoi strumenti. Ma, nei fatti, le opere video e la computer art non hanno trovato spazio nella televisione e queste feconde utopie rimangono nella memoria come occasioni mancate.

  1. Cfr. S. Bordini, Videoarte & arte. Tracce per una storia, Lithos, Roma 1995, pp. 20-25.
  2. Ivi.
  3. C. L. Ragghianti, Radio e arti, in «seleArte», n. 2, 1952, pp. 75-77.
  4. C. L. Ragghianti, Film d’arte, film sull’arte, critofilm d’arte in Id., Arti della visione, I: Cinema, Einaudi, Torino 1975, p. 225-240.
  5. C. L. Ragghianti, La televisione come fatto artistico, in «seleArte», n. 19, 1955, p. 25-31.
  6. A. Grasso, V. Trione, Arte in tv. Forme di divulgazione, Johan&Levi, Monza 2014, che pubblica gli atti del convegno Modi di vedere. Forme di divulgazione artistica in televisione, Università IULM e Università Cattolica del Sacro Cuore, Triennale di Milano, Milano 11 marzo 2014.
  7. Ivi, pp. 164-5.
  8. Ivi, p. 165.
  9. Ibidem.
  10. M. Augé, Non luoghi, Elèuthera, Milano 2020, p. 94.
  11. Tra i più recenti contributi sulla videoarte cfr. S. Lischi, La lezione della videoarte. Sguardi e percorsi, Carocci, Roma 2019.
  12. Aa. Vv., Le arti visuali e il ruolo della televisione, atti del convegno, Milano 12-13 settembre 1978, ERI/Edizioni RAI Radio Televisione Italiana, Torino 1979.
  13. F. C. Crispolti, Videolibro n. 1 [1971], in S. Bordini, Videobelisco, in V.C. Caratozzolo, I. Schiaffini, C. Zambianchi (a cura di), Irene Brin, Gaspero del Corso e la Galleria L’Obelisco, Drago, Roma 2018, p. 161.
  14. Cfr. Ivi, p. 160.
  15. Ivi, p. 161.
  16. Trai contributi più recenti Cfr L. Parolo, Video arte in Italia anni Settanta. Produzioni, esposizioni, teorie, «Sciami|ricerche», n.6, ottobre 2019 (ultima consultazione 15.IX.2020).
  17. M. Costa, L’estetica della comunicazione, Castelvecchi, Milano 1999, pp. 145 e sgg.
  18. S. Bordini, F. Gallo (a cura di), All’alba dell’arte digitale. Il Festival Arte Elettronica di Camerino, Mimesis, Milano 2018, pp. 20-21.
  19. Ivi, pp. 136-37.
Author

Silvia Bordini ha insegnato Storia dell'arte contemporanea e Storia delle tecniche artistiche alla Sapienza Università di Roma. Le sue ricerche riguardano i linguaggi artistici che fanno interferire pittura, fotografia, video e digitale. Tra le sue pubblicazioni: Storia del Panorama. La visione totale nella pittura del XIX secolo, Officina, 1984; Videoarte & arte. Tracce per una storia, Lithos 1995; Arte elettronica, Giunti 2004; Videoarte in Italia, «Ricerche di Storia dell'arte» 2006; Arte contemporanea e tecniche, Carocci 2007 (con D. Borromeo e F. Gallo); Appunti sul paesaggio nell'arte mediale, Postmedia Books 2010; Photobook. L'immagine di un'immagine (Postmedia Books 2020).

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