Interrogandomi sui presupposti del fare ricerca come lavoro, individuo tre fattori che orientano il mio percorso. In primo luogo, la dimensione affettiva, ovvero l’urgenza che induce a studiare, indagare, conoscere. La dinamica affettiva mette in moto un processo cognitivo-analitico – il secondo fattore – grazie al quale i dati sperimentali sollecitano ipotesi, descrizioni, ragionamenti, portano a far emergere fenomeni non ancora messi a fuoco dagli studi, a perfezionare metodologie per sviluppare l’osservazione e l’analisi, per controllare le ipotesi e per condividere competenze relative a un particolare fenomeno. Il terzo elemento di una pratica di ricerca è la valutazione degli effetti pragmatici che ne scaturiscono.
Non si tratta di aderire a (o di rinnegare) uno pseudo radicalismo, che contrappone l’opera all’esercizio, che demonizza il prodotto e il tempo efficace, glorificando invece il processo, l’improduttivo. Il rapporto fra idea e azione è tutto da evidenziare. Una ricerca prende l’avvio da un problema, sostiene Popper. E, aggiunge Feyerabend: «Prima abbiamo una idea, o un problema, e poi agiamo […]. Dobbiamo attenderci, per esempio, che l’idea di libertà possa essere chiarita solo per mezzo di quelle stesse azioni che dovrebbero creare la libertà»1 Il processo (conoscitivo e creativo) non è guidato da un programma ben definito, quanto da una passione.
A partire dalla mia esperienza – di studio come lavoro e di lavoro come ricerca – cito i tre testi base che mi hanno guidato in questa direzione. Oltre a Paul K. Feyerabend, Contro il metodo (Feltrinelli, Milano 1979), Aldo Gargani, Il sapere senza fondamenti (Einaudi, Torino 1975) e Thomas Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche (Einaudi, Torino 1978). E tutto gira intorno all’interrogativo: quando avviene che una scoperta scientifica venga acquisita e riconosciuta?
Questa incorporata deontologia ha guidato le azioni che hanno prodotto il secondo numero di Sciami/ricerche. In ordine di apparizione, vengono pubblicati cinque testi che segnano un fare produttivo, una collisione con i feticci epistemologici, un tracciare mappe nelle zone d’ombra.
Didier Plassard (storico del teatro e specialista di teatro di figura) interviene con un contributo critico, Su alcuni vantaggi e svantaggi della nozione di post-drammatico, a proposito di un testo che in versione italiana è apparso qualche mese fa per CUE Press, nella traduzione di Sonia Antinori: Postdramatisches Theater di Hans Thies Lehmann (Verlag der Autoren, Frankfurt a.M. 1999); è un volume che, secondo Plassard: «ha potuto acquisire rapidamente la statura di una teorizzazione generale della creazione teatrale contemporanea». Cosa ha contribuito al successo di questo studio e al rapido formarsi di una doxa?
Il contributo di Linn Settimi, Il coro come soggetto negato e l’eterno conflitto con l’individuo nel teatro di Einar Schleef, ha il merito di presentare la visione potente di questo regista tedesco, generalmente ignorato in Italia al di fuori della cerchia degli studiosi di germanistica. Il pensiero e la pratica teatrale di Einer Schleef, esemplificati attraverso l’analisi di alcuni suoi spettacoli, ci interessa particolarmente, perché propone un pensiero sul tragico, sulla comunità, sulla relazione fra collettivo e individuo, temi surclassati dal postmodernismo.
L’attenzione agli studi sulla vocalità è segnalata dalla pubblicazione in italiano di un testo che possiamo considerare “archeologia”: La voce, di Guy Rosolato, introdotto, curato e proposto da Piersandra di Matteo; una riflessione che dialoga con Mimo di voci, mimo di corpi: intervocalità in scena, il contributo di Helga Finter, pubblicato in Sciami | Ricerche n. 1.
Le fonti, i metodi e le narrazioni della storia della videoarte in Italia negli anni Settanta. La Terza Biennale Internazionale della Giovane Pittura, Gennaio ’70, è un saggio di Lisa Parolo, estratto da un capitolo della sua voluminosa tesi di dottorato (tutor Cosetta Saba, Università di Udine). Il contributo di Lisa Parolo propone uno studio attento delle fonti, per ricostruire un fenomeno importate di produzione e diffusione di videoarte in Italia. E apre a un campo di ricerca di cui daremo conto: Video arte e film d’artista in Italia – mappa degli archivi, delle collezioni e dei fondi.
L’Atlante iconografico-sonoro, a cura di Lucia Pinzani, raccoglie un campione di architetture sonore, dal famoso Padiglione Philips (realizzato da Le Corbusier per l’Esposizione Internazionale di Bruxelles del 1958, dove le musiche di Edgar Varèse e di Iannis Xenakis si fondevano con le immagini), passando per l’installazione di Max Neuhaus Fan Music (sui tetti di palazzi a New York, nel 1968) fino alle passeggiate “di ascolto” in cuffia di Janet CArdiff a Londra nel 1999, Map for The Missing Voice, (Case Study B).
- Peter Feyerabend, Contro il metodo, Feltrinelli, Milano 1979, p.23. ↩