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n. 2 – ottobre 17, Teatro

IL POSTDRAMMATICO, OVVERO L’ASTRATTO

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https://doi.org/10.47109/0102220102

Ivo van Hove, I dannati, from La caduta degli dei by Luchino Visconti, 2016

ABSTRACT

La teoria proposta da Hans-Thies Lehmann di un teatro post-drammatico, per qualificare le evoluzioni della scena degli ultimi decenni del Novecento, ha avuto un grande successo: perché consentiva di pensare insieme gli aspetti drammaturgici e scenici dell'arte teatrale, ma anche di superare la falsa antitesi modernismo / post-modernismo (che, originata nell'architettura, non faceva senso per le altre arti). Questa teoria rimane però costretta in uno schema hegeliano di continui superamenti; una organizzazione retorica che ha perso ormai ogni attendibilità nel pensiero storico-politico, e alla quale si deve perciò rinunciare quando si scrive la storia delle arti. Infatti, osservando le pratiche teatrali del nuovo millennio, è facile individuare mutamenti e nuove esplorazioni che non si possono considerare come ricerche "post-drammatiche". Per uscire da questo schema inadeguato, viene proposto un parallelo fra la funzione storica dell'arte non figurativa all'inizio del Novecento e quella del teatro "post-drammatico" negli anni '70 –‘90: in entrambi i casi, non si tratta di un mutamento estetico definitivo, ma di una esplorazione radicale del proprio linguaggio, destinata ad entrare in tensione con le altre componenti, sia figurative che narrative, della creazione artistica.

Sostenere che una o un’altra forma d’arte debba invariabilmente essere superiore o inferiore ad un’altra significa giudicarla prima di farne esperienza. Tutta la storia dell’arte testimonia la futilità delle regole di preferenza stabilite a priori e dimostra l’impossibilità di prevedere l’esito dell’esperienza estetica.
Clement Greenberg
Astrazione, figurazione e così via …1

Hans-Thies Lehmann, Postdramatisches Theater, 1999
Hans-Thies Lehmann, Postdramatisches Theater, 1999

Su alcuni vantaggi e svantaggi della nozione di post-drammatico

Grazie alla sua griglia di analisi che consente di pensare insieme le sperimentazioni compiute a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, sia dal lato della scrittura teatrale che da quello delle pratiche sceniche, la nozione di teatro post-drammatico elaborata da Hans-Thies Lehmann ha potuto acquisire rapidamente la statura di una teorizzazione generale della creazione teatrale contemporanea, e perfino di una nuova “doxa” estetica, che suscita le più categoriche prese di posizione. Oltre alla notevole potenza euristica, in campi diversi come il trattamento del linguaggio, del corpo, dello spazio o del tempo teatrale, molti fattori hanno contribuito al suo successo. Ne citerò solo due: il primo, ben conosciuto, è il prolungamento offerto alla Teoria del dramma moderno di Peter Szondi, che alla metà degli anni Cinquanta aveva proposto una delle più stimolanti sintesi della storia del teatro europeo di circa tre secoli; il secondo fattore, anch’esso evidente ma la cui importanza è sottovalutata, è il proficuo superamento che la nozione di teatro post-drammatico ha permesso di operare, in rapporto ai magri risultati cui aveva condotto l’applicazione delle teorie postmoderniste allo stesso terreno.

A differenza di queste ultime, che si caratterizzavano per una opposizione fittizia e sterile ai modernismi della prima metà del XX secolo, l’idea di un teatro post-drammatico legge i mutamenti apparsi dopo la fine degli anni Sessanta come retaggio diretto o indiretto delle avanguardie storiche, riannodando i fili di una storiografia più ampia e coerente. Il superamento attuato da Lehmann si spiega d’altronde facilmente: le caratteristiche stilistiche considerate postmoderne (eclettismo, ironia, de-gerarchizzazione, citazione, ecc.) venivano direttamente dall’urbanismo e dall’ architettura; e l’opposizione che esse permettevano di stabilire fra le realizzazioni di un Rem Koolhaas o di un Ricardo Bofill, da una parte, e quelle di un Adolf Loos o di un Le Corbusier, dall’altra, faticava a trovare il suo equivalente nel teatro, nella letteratura o nelle arti plastiche. Si può sognare un miglior compimento di questa estetica «postmodernista», in effetti, dell’Ulisse di Joyce, dei Cantos di Pound, dell’opera di Picasso o del movimento Dada nella sua interezza? Oppure, per quanto riguarda il teatro, della scena Merz di un Kurt Schwitters, dei landscape plays di una Gertrude Stein, delle opere di Ribemont-Dessaignes e del primo Vitrac, del Teatro della Sorpresa dei futuristi italiani, delle regie della FEKS a San Pietroburgo? Poiché il momento modernista non ha seguito lo stesso percorso nel campo dell’architettura che in quello delle altre arti, l’idea di una letteratura, di una pittura o di un teatro postmoderni semplicemente non reggeva – tranne, naturalmente, per chi rifiutava di far discendere il postmodernismo dal modernismo, il che non favoriva molto la loro comprensione2.

Georges Ribemont-Dessaignes, Il canarino muto, regia Jindřich Honzl, Teatro Liberato, Praga, 1926
Georges Ribemont-Dessaignes, Il canarino muto, regia Jindřich Honzl, Teatro Liberato, Praga, 1926

Eppure, il bagaglio concettuale di Hans-Thies Lehmann, con la sua maggior ampiezza di vedute, se appare come una efficace forma di sintesi e di superamento degli strumenti critici con cui si è scritta finora la storia del teatro del XX secolo, non riesce a mio avviso a dare completamente conto dei diversi cambiamenti compiuti dalla fine degli anni Sessanta, e che continuano a compiersi, nelle arti sceniche. Non mi alleo però alle varie confutazioni fatte al Teatro post-drammatico, basate per esempio sulla querelle circa i ruoli rispettivi dell’autore e del regista nella nascita e lo sviluppo delle nuove estetiche teatrali 3: piuttosto, ritengo necessario ricollegare le sue analisi all’interno di un quadro concettuale leggermente modificato.
Una prima riserva che si può opporre alle tesi sostenute da Lehmann è che la rappresentazione teatrale, in quanto opera collettiva realizzata davanti a una collettività radunata, si iscrive in un’economia pesante e complessa, spesso istituzionalizzata, che la obbliga a venire a patti con diverse aspettative: quelle degli spettatori, quelle dei suoi finanziatori pubblici o privati, quelle delle istituzioni che la producono o la diffondono, ecc. Per questa ragione, la storia dei cambiamenti estetici non è solo il prodotto di un’evoluzione interna alle arti sceniche, in un continuo processo di radicalizzazione delle pratiche più sperimentali, così come tende a far credere il Teatro post-drammatico, che sopravvaluta ogni forma di rottura estetica, mettendo in ombra o nel dimenticatoio il resto della produzione teatrale 4. Questa storia è anche, e perfino in primo luogo, quella delle funzioni che la società assegna alla creazione teatrale, e che influenzano pesantemente le condizioni di produzione: obbligo di divertimento da una parte e missione di cultura e di educazione dall’altra, per citare solo le più evidenti. Risulta allora che lo sviluppo di forme nuove non avviene secondo un asse unico, una linea di fuga tracciata in uno spazio vuoto, ma in una tensione dialettica con le abitudini acquisite, le condizioni di produzione e gli orizzonti di aspettativa istituiti, fra sottomissione, trasformazione e sovvertimento; il che porta a una grande diversità dei fenomeni osservabili.

In questo senso, per esempio, il movimento di In-yer-face-theatre in Gran Bretagna, il peso importante delle riscritture sceniche del repertorio classico in Francia e nei paesi germanici, il numero considerevole, un po’ dappertutto in Europa, delle variazioni sulle tragedie o i miti greci, lo sviluppo delle adattazioni sceniche di scenari cinematografici, partecipano anch’essi al rinnovamento dell’arte teatrale, senza che questi fenomeni possano ridursi ai modelli post-drammatici descritti da Lehmann: tutti, al contrario, dimostrano di mantenere il drammatico al cuore della creazione teatrale contemporanea – un fenomeno che non credo possa venir rapidamente spazzato via qualificandolo semplicemente «teatro tradizionale», come fa il teorico tedesco.

Ivo van Hove, I dannati, from La caduta degli dei by Luchino Visconti, 2016
Ivo van Hove, I dannati, from La caduta degli dei by Luchino Visconti, 2016

Una storiografia lineare

Per dirlo chiaramente, il problema centrale posto dal saggio di Hans-Thies Lehmann sta, secondo me, nel mantenimento di una storiografia lineare, in cui una sola forma del «nuovo» (il post-drammatico) si sostituisce a una sola forma dell’antico 5 (il drammatico). Da questo schema binario conseguono due grandi difficoltà.

La prima è l’asimmetria dei corpus osservati. È facile convenire, con Szondi, che il teatro occidentale è stato ampiamente dominato per due secoli dalla ricerca di una forma puramente drammatica, che escludesse per quanto possibile il modo narrativo e quello lirico. Anche se si deve precisare che questa analisi è valida solo per la parte più istituzionalizzata della creazione teatrale, nella sua forma ad un tempo letteraria e seria (né il vaudeville, né la “féerie”, né il monologo, né il repertorio dei teatri di burattini, pupi e marionette o delle altre forme di spettacoli popolari si piegano a questa esigenza),  resta il fatto che, anche da un punto di vista quantitativo, la ricerca di un «dramma puro» innestato sulle riletture di Aristotele, definisce perfettamente il movimento maggioritario delle scene europee fra il 1660 e il 1880 circa.

Mi pare più difficile ammettere, tuttavia, che la crisi moderna del “dramma puro”, come analizzata da Szondi, si inscriva nella medesima concezione della storia del teatro: per il periodo che copre la fine dell’Ottocento e la prima metà del Novecento, in effetti, delle considerazioni legate al prestigio simbolico di un piccolo gruppo di autori cominciavano a mescolarsi a quello che, nei secoli precedenti, si poteva stabilire su una semplice base quantitativa. Basta consultare l’elenco degli spettacoli in una grande città europea fra le due guerre mondiali per rendersi conto che la forma drammatica stava ancora sfacciatamente bene. Dunque, la storia delle modalità di rappresentazione dominanti viene progressivamente sostituita, in Szondi, da una storia costruita su un corpus prestigioso ma minoritario: quello dei grandi autori del repertorio moderno.

Questo spostamento è ancora più marcato in Lehmann, anche se la sua strategia del name-dropping ha la funzione di nasconderlo, e di far passare per una sola corrente unitaria di grande ampiezza opzioni artistiche cristallizzate in luoghi di produzione o di diffusione spesso atipici (Mickery Theater, Kaaitheater, Theater am Turm ecc.) oppure in festival, cioè in spazi più aperti alla sperimentazione, all’interno del paesaggio anch’esso protetto del teatro pubblico. Prima di esaminare l’ipotesi avanzata da Lehmann di un cambiamento di paradigma estetico, è quindi necessario prendere atto del cambiamento di paradigma storiografico che egli opera, quando oppone al teatro «tradizionale», perciò maggioritario, un teatro «nuovo» costruito come la somma dei diversi modi di procedere più radicali, presentato a un pubblico piuttosto limitato. Si dovrebbero prendere in considerazione qui le analisi di Pierre Bourdieu, che distinguono in Les Règles de l’art 6 il campo delle opere a forte capitale economico e debole capitale simbolico, da quello delle opere a forte capitale simbolico e debole capitale economico; anche se risulterebbe necessario aggiustarle in ragione delle condizioni più favorevoli alla sperimentazione che il finanziamento pubblico dell’attività teatrale offre (sarebbe più giusto dire «offriva»), soprattutto in Germania e in Francia.

Friedrich Hegel con i suoi studenti, litografia di Franz Kugler, 1828
Friedrich Hegel con i suoi studenti, litografia di Franz Kugler, 1828

Ai problemi metodologici posti da questo spostamento da un paradigma storiografico a un altro, dato che i «domini» esercitati una volta dal modello drammatico e oggi dal modello post-drammatico non sono né della stessa ampiezza né della stessa natura, si aggiungono altre difficoltà legate a quella che bisogna ben chiamare una concezione della Storia molto «moderna» (di fatto hegeliana), concepita come una serie di superamenti successivi, orientati verso un progresso continuo. Secondo questo schema, tutto quello che precede la ricerca di un dramma puro, dalla tragedia greca al teatro dell’età barocca, è per certi versi pre-drammatico; viene di seguito il teatro drammatico, che esercita il suo impero dalla metà del XVII secolo fino alla fine del XIX, poi la crisi del dramma che corrisponde ai primi due terzi del XX secolo, infine il teatro post-drammatico, dopo il quale qualsiasi ripresa della forma drammatica appare tanto improbabile – o almeno tanto estranea al suo tempo – quanto sarebbe la restaurazione della monarchia assoluta in una società democratica. L’opera pubblicata da Hans-Thies Lehmann non solo oppone, in un recente passato, la nascita di un «nuovo teatro» alle sopravvivenze di un teatro squalificato come «tradizionale»; addirittura sbarra il futuro, col definire ogni forma di ritorno al drammatico come una regressione 7.

Questa concezione lineare e vettoriale della Storia, come una «freccia del tempo» portatrice di un continuo sviluppo, ha perso da molto tempo la funzione di modello esplicativo dei cambiamenti politici e sociali: le convinzioni del progresso della ragione, della sparizione dei conflitti, della realizzazione di una società senza classi sono pressoché scomparse con il crollo del blocco comunista; e la loro ultima trasformazione, la fine della Storia teorizzata da Francis Fukuyama 8, è quasi sprofondata nell’oblio. Postulare che il teatro drammatico troverebbe il suo superamento nel teatro post-drammatico, come fa Lehmann, equivale a mantenere l’organizzazione vettoriale del tempo – se non il mito del progresso – come schema esplicativo per scrivere la storia di questa arte; il che pone il problema di interpretare le dinamiche proprie del campo artistico secondo modelli considerati obsoleti in altri campi: e perfino, paradossalmente, continuare a pensare in termini «moderni» la nascita di opere considerate «post-moderne».

Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992
Francis Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo, 1992

Un teatro astratto?

Conviene quindi, a mio parere, riprendere l’analisi proposta da Lehmann delle forme teatrali post-drammatiche liberandola dallo schema storiografico lineare in cui è ristretta. Il post-drammatico non è un superamento hegeliano del teatro drammatico, che si accompagna a un Aufhebung senza possibile via di ritorno; è una direzione presa da alcune correnti delle arti sceniche contemporanee, in modo abbastanza convergente da occupare temporaneamente, soprattutto in Germania, una vera posizione di dominio istituzionale e da rischiare così di formare un nuovo accademismo 9. Ma l’arte è un continuo processo di trasformazione; e gli accademismi si fanno sempre travolgere, in modo che si aprano nuove direzioni.

Vorrei ora cercare di circoscrivere meglio, sotto forma di un rapidissimo schizzo, quello che mi sembra caratterizzare questo orientamento «post-drammatico», assunto da un certo numero di produzioni sceniche contemporanee. La mia ipotesi è che i cambiamenti descritti da Hans-Thies Lehmann compiano, nel campo della creazione teatrale, una forma di passaggio all’astratto paragonabile a quello che ha traversato le arti plastiche negli anni 1900-1930, con l’abbandono del figurativo 10.

Intendo qui «astratto» nel senso più semplice, come si è imposto nella storia dell’arte: quello di un’assenza di rapporto mimetico tra l’opera presentata e il mondo in cui viviamo. Si deve ricordare che questa assenza è spesso soltanto apparente: è apparente dal punto di vista della concezione dell’opera, dato che il rapporto mimetico (Aristotele lo notava già per la musica 11), si può stabilire al di fuori di qualsiasi figurazione materiale, fra le strutture interne della composizione e le emozioni umane; lo è dal punto di vista della sua ricezione, dato che il movimento dell’interpretazione è infinito e mette in moto le potenzialità della immaginazione, della memoria individuale e del retaggio culturale, per farci scoprire in ogni oggetto una possibile dimensione iconica 12. In questo modo Michael Fried, nel suo celebre saggio Art and objecthood del 1967, può rimproverare a Robert Morris e Tony Smith di mantenere una forma di antropomorfismo e perfino di teatralità nelle loro sculture minimaliste, con il gioco delle proporzioni o delle posizioni di semplici blocchi parallelepipedi 13.

Per la storia del teatro, i primi frutti di questo passaggio all’astratto sono da ricercare nei primi decenni del XX secolo. È possibile ricordare, in particolare, che un gran numero di artisti pittori che fondarono l’arte astratta pensarono ai loro possibili sviluppi sulla scena: è il caso di Kandinskij, con le sue Composizioni sceniche prima della prima guerra mondiale o la sua regia dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij nel 1928; di Malevič, che realizzò scene e costumi per l’opera futurista Vittoria sul sole di Kručënykh e Chlebnikov nel 1913; o ancora di Mondrian, che pensò alle possibilità di uno spettacolo di proiezioni neo-plastiche, all’inizio degli anni Venti, poi a una regia di L’effimero è eterno di Michel Seuphor, senza la presenza di alcun attore vivente. O di tanti altri ancora, pittori futuristi italiani, compagni di Dada, maestri e allievi della Bauhaus, costruttivisti e formalisti. All’indomani della seconda guerra mondiale, comincia una nuova fase di esplorazione delle possibilità di un teatro astratto, in spazi dove la sperimentazione scenica e l’esplorazione drammaturgica si sviluppano prima in maniera separata (events, happening e performance negli Stati Uniti, teatro detto «dell’assurdo» in Francia ecc.), ma si re-incontrano dalla fine degli anni Cinquanta, con le regie di Jacques Poliéri, per esempio.

Piet Mondrian, Progetto di scenografia per “L’Effimero è eterno” di Michel Seuphor, 1926
Piet Mondrian, Progetto di scenografia per “L’Effimero è eterno” di Michel Seuphor, 1926

Il teatro post-drammatico degli anni Settanta e seguenti si inserisce direttamente nel prolungamento di queste esperienze, portandole a un superiore livello di concezione e di elaborazione, di circolazione internazionale e di visibilità istituzionale, ma senza che gli orientamenti profondi della ricerca artistica siano veramente modificati. Per cui le avanguardie storiche e le neoavanguardie posteriori al 1945 non costituiscono una «preistoria» del teatro post-drammatico, come suggerisce Hans-Thies Lehmann, che d’altronde non le evoca che molto vagamente (solo il nome di Schwitters viene menzionato fra parentesi); piuttosto il momento della sua apparizione, come gli studi di RoseLee Godberg sulla performane art hanno dimostrato da molto tempo.

Il processo messo in opera da questo teatro post-drammatico, che Lehmann descrive come altrettante forme di autoriflessione, di decomposizione, di separazione 14 o di sparizione delle componenti della scena «tradizionale», secondo la logica dell’Aufhenbug hegeliano, possono secondo me essere considerate delle operazioni di scollegamento 15 di certi funzionamenti simbolici, che non escludono la possibilità di una loro ricomparsa sotto forma di nuove strutturazioni. Una delle più evidenti operazioni di questo tipo è lo scollegamento della narratività: gli elementi e gli avvenimenti testuali o scenici non sono più strutturati in funzione di un intreccio, foss’anche questo composto, come nel teatro preclassico, dall’incrociarsi di storie diverse. Non è solo lo svolgimento completo di un’azione (esposizione, crisi e conclusione) che viene scollegato dalla scrittura teatrale o distrutto dalla regia; è la sua stessa concatenazione, cioè la possibilità data allo spettatore di collegare, con le vie della logica o quelle dell’immaginazione, le diverse informazioni che riceve.

Eppure, se la stragrande maggioranza delle drammaturgie contemporanee trascura le abilità artigianali della costruzione d’intrecci, segnando così la loro distanza dalle produzioni cinematografiche o televisive, non ne consegue che esse abbiano perso ogni dimensione narrativa, come si pensa troppo spesso. Se c’è scollegamento, esso riguarda la macrostruttura del testo o della rappresentazione, mentre a livello microstrutturale continuano a essere mobilitati aneddoti, racconti di vita, fatti di cronaca, avvenimenti storici, miti e altri topoi narrativi. Analogamente, la diminuzione del ruolo del testo nell’economia della rappresentazione teatrale non impedisce neanche, come si afferma a volte, la capacità di raccontare: l’integrazione del video in scena, delle reti di comunicazione, della danza o della performance sposta e riconfigura le modalità della narrazione, non le fa scomparire. Lo «scollegamento della narratività» designa quindi un processo di trasformazione per cui la varietà delle azioni sceniche cessa di fondersi in una totalità organizzata, portata soprattutto dalla lingua. Questo processo è d’altronde avviato da così tanto tempo che tende ormai a lasciare il posto, da una ventina di anni, a nuovi modi di costruzione drammaturgica, più complessi e allo stesso tempo più diversificati: le scene del Québec (Lepage, Danis, Mouawad), quelle belghe (il Groupov, Cassiers, Murgia) o italiane (Castellucci, Delbono) attestano, fra molte altre, il ritorno di una forte drammaticità, basata sull’urto delle figure e su situazioni fortemente disegnate, i cui gli effetti di continuità narrativa possono associare elementi verbali e non verbali, per esempio iconici o coreografici.

Guy Cassiers, Sunken Red, dal racconto di Jeroen Brouwers, 2004
Guy Cassiers, Sunken Red, dal racconto di Jeroen Brouwers, 2004

Un altro processo facilmente identificabile in questo movimento verso l’astratto è lo scollegamento del rapporto attore/personaggio, dato che le scene contemporanee moltiplicano, da molti decenni, le modalità con cui la configurazione drammatica proposta dal testo si decompone e si ricompone sul palcoscenico. Incastonatura delle identità, trasmissione del ruolo da un interprete all’altro, demoltiplicazione degli interpreti per uno stesso ruolo, variazione dei registri di presenza che mescolano attori reali e sostituti elettronici, trattamento corale delle voci … L’evento teatrale scioglie le modalità abituali di attribuzione della persona, della maschera individuale e del suo atteso radicamento nel corpo di un attore. Tuttavia, la presa in considerazione di questo fenomeno non deve portare a giudicare ogni forma di rielaborazione del legame fra la figura e l’interprete come una regressione o come un compromesso: la fase di decostruzione radicale degli anni Ottanta e Novanta – quella, per esempio, di un Einar Schleef – è ormai alle nostre spalle, e oggi si vede più spesso, in una stessa produzione, un doppio movimento di congiunzione e disgiunzione della coppia attore/personaggio, che compone lo spazio di una teatralità apertamente convenzionale, al servizio della drammaturgia.

Bertolt Brecht, Il signor Puntila e suo servo Matti, regia di Einar Schleef, 1996
Bertolt Brecht, Il signor Puntila e suo servo Matti, regia di Einar Schleef, 1996

Una terza direzione del teatro post-drammatico consiste in quello che si potrebbe chiamare lo scollegamento del patto della finzione scenica: l’evento scenico smette di strutturarsi in finzioni di personaggi, di spazio o di tempo, per proporre agli sguardi una mera successione di azioni chiuse su se stesse, il cui carattere di simulazione tende a sciogliersi. Queste forme performative, come vengono oggi chiamate, rimettono in causa le codificazioni più stabilmente fissate della rappresentazione teatrale, spostando le frontiere del reale e della sua mimesi per ritrovare, anche se fuggevolmente, certi modi operativi del rituale. Eppure, nella seconda metà del XX secolo, happening e performance sono andati molto più lontano in questa direzione: basta, per esempio, confrontare le azioni di un Rodrigo García con quelle di un Hermann Nitsch, di una Angelica Lidell con quelle di una Gina Pane o di un Chris Burden. Perciò, piuttosto che un cambiamento totale e irreversibile delle pratiche sceniche, l’evoluzione che oggi attraversa il campo della creazione teatrale segna piuttosto un processo di ripresa delle esplorazioni compiute nelle sfere artistiche sperimentali degli anni Cinquanta-Settanta, insieme a una cancellazione dei confini fra i rispettivi territori del teatro, della danza, della performance e dell’installazione. Su questo punto, come sui precedenti, è importante non ridurre la storia della scena teatrale a quella delle sue più radicali zone di sperimentazione.

Questi tre aspetti – dimensione narrativa, coppia attore/personaggio, patto di finzione – costituiscono indiscutibilmente da molti decenni l’oggetto di un processo di decostruzione così totale, da sembrar rimettere in questione la definizione stessa del teatro: alla mimesi di un’azione drammatica viene sostituito il compimento da parte degli attori di atti non simulati, senza relazioni apparenti. Questa riduzione delle arti della scena alle loro costituenti minime – corpi, gesti, un palco di fronte a degli spettatori – è l’equivalente di quella che realizzarono, negli anni 1910 e 1920, gli inventori della pittura non figurativa, spingendo fino alle estreme conseguenze il celebre assioma di Maurice Denis: «Ricordarsi che un quadro – prima di essere un cavallo di battaglia, una donna nuda o un qualunque aneddoto – è essenzialmente una superficie piana ricoperta di colori montati in un certo ordine 16.»  In entrambi i casi, un’arte esplora le possibilità che possono nascere dalla sola disposizione interna dei suoi elementi costituenti, al di qua di ogni forma di rappresentazione.

Ma, come si sa, le opere di Kandinskij, Malevič, Mondrian o Kupka non hanno costituito un punto di non ritorno nella storia della pittura, facendo precipitare tutta questa arte nel regno dell’astratto: esattamente al contrario, essa ha continuato a rinnovarsi esplorando diverse vie (figurative, parzialmente figurative, non figurative), che hanno tutte assunto, per prolungarlo, smarcarsene o riesaminarlo, il lavoro di decostruzione compiuto nei primi decenni del Novecento. C’è da scommettere quindi che, similmente, lo sviluppo delle poetiche sceniche del XXI secolo continuerà a esplorare i procedimenti di scollegamento tipici del teatro post-drammatico degli anni Settanta-Novanta, anche assumendo alcune delle funzioni maggiori legate alla narrazione, alla figurazione e alla rappresentazione, senza le quali il pubblico si farebbe sempre più raro.

  1.  Clement Greenberg, «Abstraction, figuration et ainsi de suite», Art et culture, Macula, Parigi, 1988, p. 149.
  2. È ciò che indebolisce in particolare lo strano tentativo fatto da Christophe Bident («Et le théâtre devint postdramatique : histoire d’une illusion», Théâtre/Public, n. 194, Gennevilliers, settembre 2009, pp. 76-82): ridare vigore al «postmodernismo» invece e al posto di «post-drammatico».
  3. Vedi soprattutto i testi riuniti da Jean-Pierre Sarrazac in La Réinvention du drame (sous l’influence de la scène) (Études théâtrales, n. 38-39), Centre d’Études théâtrales, Louvain-la-Neuve.
  4. Fra le maggiori figure del teatro degli anni dal 1970 al 2000 passati sotto silenzio: Giorgio Strehler, Dario Fo, Matthias Langhoff, Antoine Vitez, Patrice Chéreau, Krystian Lupa, Piotr Fomenko, Lev Dodine. O, dalla parte degli autori: Thomas Bernhard, Bernard-Marie Koltès, Edward Bond. Mi baso qui sull’indice dei nomi nell’ edizione originale. Qualche nome avrebbe potuto essere aggiunto nelle diverse traduzioni (ad esempio, per la Francia, quelli di Duras e Koltès). Lo squilibrio delle scelte operate da Lehmann appare in modo ancor più chiaro se si traccia la lista degli artisti citati più di 10 volte nell’opera: sono Artaud (12), Beckett (11), Brecht (36), Brook (13), Jan Fabre (24), Grüber (11), Handke (13), Lauwers (11), Mallarmé (14), Müller (39), Schleef (17), Wilson (40).
  5. Vedi su questo punto l’articolo di Pierre Franz, «Le théâtre est-il un’art de l’image?», Critique n. 699-700, éditions de Minuit, Parigi, agosto 2005, pp. 584-595.
  6. P. Bourdieu, Les Règles de l’art. Genèse et structure du champ littéraire, Le Seuil, Parigi, 1992.
  7. Così Anne Montfort, che tenta di definire quello che potrebbe essere un superamento del teatro post-drammatico, è obbligata a chiamare «neo-drammatiche» le opere del Groupov o di Falk Richter; tuttavia, le caratteristiche che attribuisce loro (ibridazione della finzione e della realtà, auto-finzione) si distaccano male dalle direzioni aperte dalla crisi del dramma (il teatro epico di Piscator e Brecht) o dal teatro post-drammatico (Heiner Müller). Vedi A. Montfort, «Après le postdramatique : narration et fiction entre écriture de plateau et théâtre néo-dramatique», Trajectoires, n. 3, 2009 (http://trajectoires.revues.org/392).
  8. F. Fukuyama, La fin de l’histoire et le Dernier Homme, Flammarion, Parigi, 1992.
  9. È segnatamente ciò che denuncia Bernard Stegemann in «Nach der Postdramatik», Theater heute, n. 10, Friedrich Verlag, Berlino, ottobre 2008. Articolo disponibile anche sul sito Internet della Schaubühne: https://www.schaubuehne.de/de/uploads/Nach-der-Postdramatik.pdf
  10. Rimando qui alle analisi molto suggestive che, già nel 1989, sviluppava Valentina Valentini nella sezione “Il problema dell’astratto” del suo libro Dopo il teatro moderno (Giancarlo Politi Editore, Milano, 1989, pp. 8-16).
  11. Aristotele, Politica, libro VIII, cap. 5.
  12. Cfr. E.H. Gombrich, «Méditations sur un cheval de bois ou les origines de la forme artistique», Méditations sur un cheval de bois et autres essais sur la théorie de l’art, Editions W, Mâcon, 1986, pp. 15-32.
  13. Vedi l’analisi di Georges Didi-Huberman, Ce que nous voyons, ce qui nous regarde, éditions de Minuit, Parigi, 1992, pp. 85-102.
  14. H.-T. Lehmann, Postdramatisches Theater,Verlag der Autoren, Francoforte sul Meno, 1999, p. 77.
  15. Riprendo qui alcune delle categorie accennate in un precedente articolo dedicato al teatro delle avanguardie storiche: D. Plassard, «Du théâtre, et de l’abstraction», in Théâtre et art plastiques, entre chiasmes et confluences, Presses Universitaires de Valenciennes, 2002.
  16. M. Denis, «Définition du néo-traditionnisme», Théories 1890-1910, L. Rouart et J. Watelin, Parigi, 1920, p. 1.
Author

Didier Plassard è professore di studi teatrali presso l'Università Paul-Valéry di Montpellier. Il suo lavoro si concentra sul teatro moderno e contemporaneo (scrittura, messa in scena), sulle relazioni del teatro e di altre arti (arti visive, cinema, video), sul teatro dei burattini e sulle nuove tecnologie.