Dialogo con Chiara Lagani, “Inquiete, Teatro Angelo Mai”, Roma venerdì 14 dicembre 2018
Trascrizione di Margherita D’Andrea.
La conversazione tocca due temi principali: il modo in cui si esplica il lavoro di Chiara Lagani come attrice, drammaturga, traduttrice, all’interno della compagnia Fanny&Alexander, un teatro per il quale lo spettacolo si fa sulla scena, secondo una drammaturgia intermediale che produce testi fatti di immagini, suono, parole, gesti, aldilà della pagina scritta, e che compongono diversi livelli: biografia, cronaca, mito o archetipo. L’altro tema riguarda l’espressione vocale, le sue figure, posture e immagini mitiche. Fare attraversare un attore da mille voci, come avviene con il dispositivo dell’eterodirezione in cui l’attore è parlato da una voce che si impossessa di lui e detta azioni e parole, mette in campo una sperimentazione di notevole interesse in generale e nello specifico del tema trattato.
Valentina Valentini [da qui in poi VV]. Scrivere per il teatro non ha mai coinciso con essere solo scrittori, ma essere scrittori di teatro ha sempre significato praticare il teatro: la figura di Chiara Lagani si inscrive nella tradizione del teatro italiano dell’attore-autore che va da Ruzzante a Dario Fo, da Eduardo De Filippo a Franco Scaldati. Una tradizione che scavalca l’idea di una drammaturgia come testo scritto, in quanto scaturisce dalla scena come testo residuo e spesso non ha un’esistenza sulla pagina, come libro. Il teatro d’autore è un teatro per il quale lo spettacolo si fa sulla scena, e l’autore/gli autori compongono i vari linguaggi della scena, in un lavoro di gruppo, come nel caso di Fanny&Alexander.
Chiedo a Chiara: chi viene prima – biograficamente – l’attrice o la scrittrice, ossia l’autrice, che compone l’intero processo di produzione dello spettacolo?
Chiara Lagani [da qui in poi CL]. Prima di tutto viene la lettrice, sicuramente, la grande passione per la lettura. Non è una provocazione questa, ma una verità, perché sia scrivere che stare in scena per me procedono da un unico gesto, legato alla pratica della lettura, che potrei definire “l’ascolto di una voce”. Mi ricordo che da bambina i primi libri li leggevo ad alta voce e quella era già una maniera di fare teatro per me, anche quando ero da sola nella mia stanza, sentivo di poter comprendere fino in fondo un testo solamente ascoltando una voce (anche la mia) che pronunciava le parole scritte. Sia l’autrice che l’attrice (sono anche parole simili, solo una lettera le rende differenti!) hanno a che fare con la lettrice, nel mio caso particolare.
VV. La tua è una drammaturgia complessa che va dalle scritture originali alle riscritture. Mi chiedevo se hai pensato a una forma per lasciare una traccia dei testi – che non sono solo testi verbali – che hai composto per gli spettacoli di Fanny&Alexander.
CL. Non esistono testi editi dei nostri spettacoli. Abbiamo pubblicato vari libri, ma sempre costruendo racconti paralleli, che si ponessero in attrito con lo spettacolo, senza volere per forza documentare, ma piuttosto con l’idea di aggiungere un tassello ai progetti, spesso pluriennali e seriali, quasi il libro fosse a sua volta, in certo senso, uno spettacolo. Abbiamo raccontato per esempio i nostri progetti in forma di atlante, di fotoromanzo, di romanzo, di romanzo teatrale, abbiamo sperimentato tante forme. È sempre difficile raccontare quello che succede sulla scena e lasciarne traccia, perché appunto è successo altrove, sulla scena, e là è destinato a consumarsi, e così a morire e questo, la sua natura effimera, è anche una delle cose più affascinanti del teatro. Però è vero che se la lettrice è così importante in me, come dicevo prima, sarebbe forse opportuno iniziare a pensare di lasciare una traccia scritta delle parole pronunciate sulla scena, dei testi e dei gesti, una traccia che possa anche essere letta. Occorre solo capire come si potrà fare. Da quando lavoriamo sul dispositivo dell’eterodirezione è più complesso trovare una forma di trascrizione dei testi. L’eterodirezione è una sorta di composizione live di un testo nello stesso corpo dell’attore, che va in scena senza sapere cosa dovrà dire e cosa dovrà fare, perché riceve delle indicazioni su quello che deve dire e su quello che deve fare tramite un ear-monitor. Il “testo” si genera da una frizione costante tra la persona che è in scena, e chi, in consolle, impartisce le istruzioni, ed è un testo sempre fatto di una parte verbale e di una parte, altrettanto importante, non verbale, che andrebbe ugualmente registrata e trascritta, in un eventuale testo da editare. Inoltre il testo è sempre un elemento variabile, non è mai uguale a se stesso, componendosi live, appunto.
Una volta, durante un convegno di drammaturgia, qualcuno mi chiese provocatoriamente: i tuoi testi esistono oppure no? Possono essere scritti, possono essere depositati alla SIAE? Mi piacerebbe trovare una maniera per “depositare” questi testi, non tanto alla SIAE, dove pure in un modo o nell’altro li deposito, ma su una pagina scritta, un giorno. Dovrei inventarmi una forma specifica in cui riversare questa “non scrivibilità” dei miei testi. Per quanto riguarda la variabilità infinita del testo, posso dire che una delle opere letterarie che più mi affascina e che in qualche modo è anche un manifesto per me, se lo fosse almeno io lo sottoscriverei per intero, è Cent mille milliards de poèmes di Raymond Queneau. Si tratta di sonetti pubblicati in questo modo: nel libro la pagina è tutta tagliata, divisa in piccole striscioline orizzontali, libere ma attaccate alla rilegatura, una strisciolina per verso: quando il lettore apre questo libro, il sonetto si compone casualmente, a seconda della pagina che si crea dalla sequenza di striscioline che si appoggiano in quel determinato punto. Ogni verso è autonomo e componibile con gli altri e l’introduzione ci invita a una lettura potenzialmente infinita. Il tempo per una lettura totale del libro supererebbe quello di una vita umana, lo stesso autore non arriverà mai a leggere il suo libro. Io trovo questa dimensione assolutamente sincera ed esemplare, una dichiarazione d’impotenza, e al contempo di infinita possibilità, tanto più adatta per il teatro, che è un’arte dal vivo e come la vita ha infinite variabili.
VV. La drammaturgia dell’attrice/autrice/lettrice si declina come intermediale, nel senso che attraversa diversi media: la letteratura (Tommaso Landolfi, Primo Levi); la musica (John Cage, Europeras), il cinema (Victor Fleming) per cui produce testi multipli fatti di immagini, suono, parole, gesti, aldilà della pagina scritta.
CL. Ho tenuto l’anno scorso un laboratorio semestrale allo IUAV e tra gli alunni c’era una ragazza che disegnava magnificamente. Con la classe avevo lavorato proprio sull’eterodirezione e alla fine del corso dovevamo comporre una specie di scrittura della parte non verbale del testo. Lei ha creato una notazione speciale, disegnata, di tutto l’alfabeto gestuale che avevamo composto nelle settimane e nei mesi. Così ha dato vita a un codice nuovo e meraviglioso da potere utilizzare nei materiali di scena. F&A dispone di un alfabeto di forse un milione di gesti, accumulati in dieci anni di ricerca sul metodo: sarebbe bellissimo classificarli tutti, disegnarli e poi usarli come lettere di un nuovo alfabeto. Sarebbe un lavoro immenso.
VV. Nel testo che hai scritto per «Alfabeta2», da me curato sul tema del reality trend a teatro, hai messo a fuoco come interagisce nel mondo teatro di Fanny&Alexander l’archetipo mitico, «stereotipo schiacciato sulla realtà di ogni giorno (ed è una realtà che per molti versi arriva dalla televisione […] che produce una “frizione con un presente, un ‘attuale’ che già sembra essere usurato mentre lo si vive».1 E ti riferivi al lavoro su Discorso grigio, in cui «l’idea dello spettacolo era quella di far attraversare un attore da mille voci politiche componendo un testo fatto di frammenti di discorsi reali, non a costruire un blob, ma un vero e proprio discorso, immaginario e coerente. Immaginario perché, per quanto composto da frammenti reali, non era mai stato pronunciato nella realtà»2.
CL. Sono solita dire che qualunque testo teatrale ha tre livelli, più o meno visibili a seconda delle scelte stilistiche che pongono l’accento più su uno o sull’altro. Per noi è diventato un vero e proprio procedimento drammaturgico tenere ben distinti i tre livelli, o strati del testo, e poi farli deflagrare nella forma finale grazie al lavoro dell’attore. Il primo livello è quello biografico, e ha a che fare con la vita dell’attore. Il livello biografico si attualizza nel secondo, che chiamo livello della cronaca, e può appartenere al nostro presente, o anche al passato; il terzo livello è quello mitico, lo sfondo archetipico che dà profondità agli altri due, la terza dimensione. L’archetipo può essere la storia di Amleto o di Doroty (Il mago di Oz), ma anche una questione mitica meno definita, più “astratta”. Se penso a tutti gli spettacoli che amo posso riconoscere in loro i tre livelli, ben distinti, alcuni magari possono essere trattati in maniera ellittica, e allora sono quasi invisibili, leggerissimi. Parliamo di teatro impegnato e sociale a volte, ad esempio, solo perché là la narrazione si sbilancia sulla storia o cronaca, ma tutto il grande teatro in fondo è impegnato, non potrebbe essere diversamente. È che abbiamo sempre bisogno di indicare le cose battenzandole, come se solo così potessimo comprenderle, riconoscerle fino in fondo. Il testo che funziona davvero, per me, però, è difficilmente definibile, è un testo che fa mille scintille diverse, perché questi tre livelli sono sempre in attrito e non è mai possibile decidere quale prevalga.
VV. Nel teatro contemporaneo degli ultimi trenta anni il dato biografico è massicciamente presente per rispondere a un’istanza di autenticità o di verità, una ricerca spasmodica del reale. Io penso che il dato biografico – non è il caso del vostro teatro – porti a un’estensione del privato nel pubblico che non produce socialità, quanto un individualismo sempre più pervasivo che fa diventare insormontabile il passaggio dall’io al noi. La storia si ripiega nel privato, mentre l’io si disperde in una soggettività mobile ed eterogenea. Se la parola d’ordine del ‘68, era: “il personale è politico”, negli anni ‘80 la dimensione politica del sociale è collassata nel personale. Il filosofo Byung-Chul Han in un agile e lucido saggio – Nello sciame – sostiene che i media digitali hanno provocato lo slittamento dello spazio privato in pubblico e questo in uno spazio mediatico. Il che non comporta affatto una estensione delle relazioni sociali, né un perseguire il bene comune o sostenere valori di solidarietà, quanto un individualismo, che rende insormontabile spostare il discorso dall’io al “noi”.3
CL. Viviamo in una società spesso chiusa in sé e narcisistica, è vero, però io credo che il problema non sia mai il “cosa” ma il “come” vengono fatte le cose, su cosa si insiste davvero. Adoperare come leva sensibile un fatto autobiografico non è un atto per forza autoreferenziale; se lo è, o lo diventa, è perché interviene una sorta di malattia, di incapacità dell’artista o dell’autore a stringere attraverso quel fatto un legame tangibile con gli altri, con la comunità. Quando parlo di “confessione” (uso proprio questa parola, che è un termine tecnico per me) intendo qualcosa che attinge al campo dell’inconfessabile, ciò che è difficilmente comunicabile a livello sociale: è questo il tipo d’attrito che si produce nei monologhi per via di improvvisazioni o di lunghe sedute di interviste. E questo è quasi sempre il punto di partenza per la produzione degli altri due livelli di testo.
VV. C’è qualcosa, nell’ostinata e disperata ricerca del reale nell’arte, che trasforma le storie vere in storie di fantasmi incarnati: l’eterodirezione (remote acting) persegue questa strategia? Giallo. Radiodramma dal vivo, è un dialogo radiofonico, misterioso e fantasmatico tra una mutevole figura di maestra e la sua classe invisibile…
CL. Una delle questioni cardine del reality trend è l’attrazione verso il biografico, inteso come nucleo di verità, da parte di artisti e gruppi molto diversi (Maxwell, Motus, Rimini Protokoll, She She Pop, Ricci-Forte…). C’è sempre un elemento confessionale, declinato nelle forme ed etiche più varie (dalla cabina-confessionale del Grande Fratello alle sofisticate locations di Sophie Calle, letti per dormienti, diari privati, agende perdute, lettere di tradimento).
Nel lavoro di F&A chiamo confessione una pratica attoriale e drammaturgica che si nutre del sentimento dell’inconfessabile: ciò che non si può proferire o raccontare se non attraversando in maniera empirica un concreto mistero personale. È la sola forma linguistica che ad Emerald City, ad esempio, assumono le richieste sconsolate dell’umanità. Nello spettacolo Emerald City, del ciclo su Il mago di Oz, Oz resta in ascolto nella Città di Smeraldo della mutevole voce dell’umanità: è in ginocchio, nel suo studio-laboratorio privato. Dietro di lui è una parete composta da altoparlanti, coni di varia misura e forma da cui escono parole di uomini e donne: le confessioni-preghiere di tutto il mondo rivolte a Lui (Him).
VV. Passerei al secondo blocco che riguarda la vocalità e i miti che disegnano diverse figure e posture vocali. Mi attraggono i miti sulla voce: Eco è una delle ninfe delle montagne che è stata punita da Era e costretta a dover ripetere solo le ultime parole che le venivano rivolte o che udiva (l’integrità spezzata). Ma Eco è anche la voce senza corpo, pura voce perché il corpo si è liquefatto con le lacrime per il dolore di aver perso Narciso. È la voce che si è liberata dalla prigione del corpo.
Hai mai desiderato essere solo voce, e quindi hai mai percepito il corpo come resistenza all’espressività vocale? Quale voce, quale canto oggi ha un potere di seduzione tanto pericoloso come quello delle Sirene omeriche?4 Cos’è per te la seduzione della voce, la consideri come qualcosa di pericoloso?
CL. La questione dell’incarnazione della voce in teatro è molto forte: la voce e il corpo sono una sola cosa, in scena la voce è già corpo, non potrei mai pensare a una voce senza corpo. Parlavamo poco fa di lettura e di lettrici: recentemente, per la prima volta mi è capitato di tradurre un testo, e credo in definitiva che la traduzione sia una delle forme in cui si manifesta il mio amore per il teatro. Definirei dunque la traduzione proprio e ancora l’ascolto di una voce: tradurre è frequentare assiduamente per alcune settimane, alcuni mesi, anni, una voce sola, la voce di una persona viva o magari morta, continuamente con te, la voce che non ti abbandona mai, di notte e di giorno. Quella voce rimanda anche a un corpo, naturalmente, un corpo materiale, ma soprattutto fantasmatico e il compito del traduttore, che è simile a quello dell’attore sulla scena, è proprio incarnare quella voce, restituirle un corpo attraverso cui possa risuonare ancora, in tutta la sua bellezza. L’attore fa questo sulla scena, incarna dei fantasmi col suo corpo. Essere eterodiretti dunque vuole anche dire fare spazio a una voce, lasciare che la voce entri fisicamente dentro di te e poi permettere che fuoriesca di nuovo, come se tu fossi un grande e complesso amplificatore vivente. Io credo che la maggior parte delle tecniche attoriali insistano in tanti altri modi su questo stesso punto: quando si parla di possessione, dall’antica Grecia in poi, si allude a un’entità che misteriosamente si manifesta e prende il controllo di una parte di noi, modificandosi e modificandoci per dare vita a una nuova entità.
Parlavi prima anche di Eco. Eco per me è una figura specchio dello spettatore: la sua voce che ritorna spezzata ci ricorda che il senso è qualcosa di fragile, mai darlo per scontato, mai credere di potere possederlo da soli. La totalità è fatta sempre di due pezzi che si ricongiungono.
VV. Forse questa totalità non è afferrabile.
CL. Non è afferrabile nel senso che ogni volta rinnova un mistero. Il mistero è lo spazio che lasciamo tra noi e l’opera, tra lo spettatore e l’opera: è uno spazio difficile da sostenere, fa paura, ma è proprio la condizione necessaria alla vita delle opere.
VV. Come dimostra l’indagine antropologica, la voce intesa come vocalità, oltre che come parola o linguaggio, è – insieme o in alternativa ad altri gesti del corpo – uno dei possibili indicatori semantici. Uomini e donne non riservano lo stesso privilegio alla vista che, più degli altri sensi, oggettifica e domina. Stabilisce una distanza, mantiene la distanza. Nella nostra cultura, la sua supremazia su olfatto, gusto, tatto e udito ha condotto all’impoverimento delle relazioni fisiche… Nel momento in cui la vista domina, il corpo perde la sua materialità5 vale a dire si trasforma in immagine. Questa tesi è sostenuta dalla filosofa belga Luce Iragaray. Nel vostro teatro il rapporto tra l’immagine e la distanza, il maschile della vista e il femminile della voce come si armonizza, oppure come stride, oppure come convive armoniosamente?
CL. Noi abbiamo sempre avuto una strana modalità per manifestare i due lati di questa medaglia: femminile e maschile sono sempre stati tanto mescolati in noi, nelle nostre più intime nature, fin dalla scelta del nome: Fanny & Alexander. Fanny e Alexander sono due, due bambini, sono il femminile e il maschile in un unico marchio, ma è anche una coppia, il due generativo. A volte ci siamo divertiti a giocare con la reversibilità delle attribuzioni: Chiara/Fanny, Luigi/Alexander. Dicevamo che era anche il contrario, che io ero Alexander e Luigi Fanny. Noi diamo due definizioni delle nostre due competenze, drammaturgia e regia, molto simili perché parliamo entrambi di un atteggiamento concavo. Luigi parla di architettura delle scelte, io parlo di alchimia. Vedo l’immagine di un laboratorio chimico, in cui il drammaturgo abbia il compito di condurre alcuni elementi. Se ha scelto bene assisterà a una straordinaria alchimia, che però non dipende da lui, al di là della scelta iniziale. Ciò che il drammaturgo può fare è solo tutelare la sicurezza di quel luogo, delle persone coinvolte, e allo stesso tempo tutelare la qualità del processo; altro non può fare, può soltanto accogliere ciò che accade.
Riguardo alla voce e alla vista: dipende sempre da cosa si intende per vista. Se vedere è solo una forma di definizione e dunque presa di possesso della realtà, oppure se è un fatto più complesso e interiore: la vista procede allora anche per sfocature, alimenta il miraggio, l’illusione. Noi abbiamo sempre molto lavorato sull’idea di illusione, ad esempio sul 3D, su dispositivi scenici che creavano l’illusione di un’immagine: la vedevi, era lì e al contempo non c’era. Credere in quell’immagine, poterla davvero “vedere”, vuol dire forse anche affrontare il mistero dell’indefinibile, dell’invisibile, della fede nell’immaginazione. La voce invece a suo modo è sempre portatrice di una certezza, perché ha sempre un corpo, anche quando non lo vedi: sentire la voce è sentire il corpo, quindi – da un certo punto di vista – la vista è più incerta della voce, che invece ha dalla sua una potente certezza, quella del corpo che la genera.
VV. Eppure la voce ha una capacità narrativa incredibile. Ne I libri di Oz la capacità di raccontare era così potente che creava delle immagini, la suggestione narrativa di trascinarti nel racconto che era di per sé immagine. Sono convinta che la voce abbia una capacità narrativa in grado di creare immagini.
CL. Nella storia del Mago di Oz c’è una scena memorabile, quella in cui Doroty e i suoi compagni vanno a trovare il Mago. Al cospetto di Oz si è soli, non è possibile andarci in gruppo; è un rapporto di tipo ancora una volta “confessionale” con un’entità che noi vediamo come possiamo. Ognuno dei personaggi infatti vede una cosa diversa: una grande testa, una bestia feroce, una bellissima donna, una palla di fuoco. Ognuno vede quello che i suoi occhi, la sua vista, gli consentono di vedere. L’unica cosa che viene sentita e percepita nel suo essere terribile, anche se mutevole e metamorfico, è per tutti la voce. Questa voce non è localizzabile, non sai mai da dove viene, poi scopriremo che il Mago è solo un imbroglione e che anche quella voce terribile era solo un grande imbroglio, era solo un “trucco teatrale”. Eppure resta vivo il ricordo spaventoso di quella voce che riduce al silenzio e allude al senso di mancanza, al vuoto scuro che ci ha condotti là, ognuno con la sua piccola grande richiesta.
VV. Non è un problema di classificazione, mi riferisco al femminile e maschile, vista e udito, una dimensione complessa in cui nella voce c’è l’immagine, c’è il tatto, c’è questa plurisensorialità che ti offre una dimensione percettiva più complessa rispetto alla vista. Vista che, al di là del femminile/maschile, mi pare più omogenea e lineare.
CL. La voce è certo un fatto molto forte e complesso, tutte le esperienze potenti della vita si incidono nella voce: quando si sta male la voce muta, l’emozione modifica la voce, la voce è sempre la cosa più vicina al corpo, è corpo, come si diceva, così malleabile, così pronta a modificarsi. La voce è anche legata alle paure ataviche, come la paura di cadere, di soffocare…
- Chiara Lagani (Fanny & Alexander), Che cosa è la realtà?, in «Alfabeta2», Alfateatro, Reality Trend, n° 26, febbraio 2013. ↩
- Ibidem. ↩
- Byung-Chul Han, Nello Sciame. Visioni del digitale, ediz. Nottetempo, Milano 2015. ↩
- In Il silenzio delle Sirene Franz Kafka rivolge l’enigma del canto alla modernità. In questo caso, a Odisseo manca il coraggio dell’eroe omerico e si tura le orecchie come i compagni. Nella reinterpretazione del mito le Sirene hanno una nuova arma: il silenzio, una finzione di morte e di debolezza. Mancanza di eroismo, devozione verso il divino o totale ignoranza? Kafka non dà una risposta precisa, e resta il dubbio se il silenzio delle Sirene sia un preludio al nulla della vita umana o se sia Odisseo a non voler più ascoltare, rivelando la distanza dell’uomo nei confronti del divino. Bertolt Brecht in La menzogna di Ulisse continua la decostruzione del mito iniziata da Kafka e afferma che le Sirene negarono il loro canto a Odisseo, rifiutandosi di sprecare la loro arte per un uomo meschino che non poteva cedere al loro canto e che, in realtà, finse di sentire la loro voce di miele. Paragonando la poesia al canto delle Sirene, Brecht si domanda come sia ancora possibile l’arte se il pubblico non vuole essere coinvolto. L’arte non ha più una dimensione partecipativa e coesiva e l’uditorio, al pari di Odisseo, non è in grado di lasciarsi trasportare da un godimento passeggero. Una promessa di conoscenza, un suono inarticolato, pura voce senza contenuto, un canto difettoso, che è solo un invito a perdersi nell’abisso di ogni parola, un continuo inizio… le interpretazioni sono molteplici. Secondo Italo Calvino le Sirene cantano «ancora l’Odissea, forse uguale a quella che stiamo leggendo, forse diversissima». Il canto delle Sirene continua a suscitare mille domande e, forse, è proprio questo il suo segreto e la sua forza. ↩
- Cfr. Luce Iragaray, (a cura di M.F. Hans e G. Lapouge), Les Femmes, la pornographie, l’erotisme, Seuil, Paris 1978. ↩