Negli ultimi dieci anni si è assistito nella scena europea a un radicale ripensamento delle modalità narrative e di fruizione dell'opera teatrale e performativa. Le pratiche di artisti come Milo Rau, Tino Sehgal, Marten Spangberg, Rabih Mrouè, Amir Reza Koohestani, Richard Maxwell si strutturano intorno a una riflessione sul tempo e sul modo in cui questo viene restituito sulla scena. "Un altro ordine del tempo" è un testo in tre parti, che muove dall'analisi del lavoro di una serie di artisti e punta a far dialogare questi lavori con lo stato attuale dell'indagine sul tempo da un punto di vista filosofico, sociale e scientifico. In quali modi l'arte performativa disegna oggi il nostro costituirci in quanto individui, attraverso la relazione con il tempo? Come si configura il racconto collettivo attraverso questa narrazione, artistica e utopica allo stesso tempo? Di quali strumenti di analisi bisogna dotarsi per poter effettivamente incontrare queste opere?
Ascolto consigliato: Erik Satie, Vexations1
“Ogni crisi del dramma è una crisi del tempo.”2
Oggi, come sempre è avvenuto in passato in ogni momento di forte crisi identitaria, la società e gli individui hanno iniziato a interrogarsi di nuovo sulla loro relazione con il Tempo e lo Spazio.
Da una parte le teorie e le scoperte scientifiche della fisica teorica ci offrono un ritratto dello Spazio – Tempo che ancora oggi, a più di cento anni di distanza dalla teoria della relatività ristretta di Albert Einstein, continua a far fatica a entrare nel nostro immaginario, a dialogare con la nostra esperienza quotidiana della dimensione spaziotemporale. Dall’altra i media, la società e i mezzi di comunicazione ci comunicano una sensazione di “ingabbiamento” all’interno di un presente che pare sempre più infinito e immediato, “l’immenso presente allargato della simultaneità” di cui parla Stephen Kern3, a partire dal quale tutto si struttura e all’interno del quale tutto finisce per scomparire. Si potrebbe dire che è il presente il tempo del nostro tempo: mai come oggi, i due gesti fondamentali per la definizione del sé, quelli dell’ interpretazione del passato e dell’ immaginazione del futuro sembrano strutturarsi sempre di più a partire dal presente4.
Forse è anche per questo motivo che tra tutte le arti, in questo momento, quelle performative sembra si stiano strutturando come il campo di indagine ideale per una riflessione sul Tempo. Il Tempo è effettivamente al centro della loro stessa esistenza, alla loro base c’è una condivisione di presente: l’atto estetico e quello della sua percezione si attuano nel loro stesso attuarsi, sulla base di un principio di esperienza condivisa all’interno di un tempo e uno spazio definiti. Quale luogo migliore per immaginare e provare a realizzare pratiche di slittamento di modalità percettiva, pratiche di trasformazione della percezione del Tempo che possono arrivare a tradursi in possibilità utopiche di intervento sul reale?
Questo testo rappresenta un primo tentativo di avvicinamento a un campo d’indagine che in veste di artista e di spettatore sto indagando da circa un anno: il rapporto tra nuove forme di drammaturgia spettacolare e la riflessione che queste attivano sul Tempo e sulle possibili modalità di relazione con esso attraverso la condivisione dell’atto performativo.
Una delle sfide più interessanti che oggi l’arte performativa e numerose esperienze di time-based arts stanno affrontando sembra essere proprio quella di provare a ricollocare l’essere umano all’interno del doppio asse dello spazio-tempo, attraverso spettacoli, pratiche di natura condivisa, performance, installazioni che presentano al cuore della propria ricerca modalità diverse di relazione con il fattore Tempo, alternative e in molti modi opposte a quelle di cui si fa esperienza nella quotidianità.
L’ indagine sulla natura del Tempo sta radicalmente trasformando sia le modalità del racconto teatrale che le modalità di fruizione dell’evento teatrale stesso. E’ un’indagine che l’arte performativa porta avanti dagli anni ’20 del XX secolo, in maniera parallela e consapevole con gli studi delle scienze umanistiche, della filosofia e della fisica teorica in generale e che in questo momento sta riaffiorando in maniera particolare.
Queste pratiche indagano la caratteristica fondamentale del teatro e della performance, ovverosia la condivisione di un momento presente, per elevarla a contenuto e tema della rappresentazione stessa. In esse si utilizza la specificità della performance come luogo di condivisione esperienziale per fare del Tempo in quanto tale, del Tempo come Tempo, l’oggetto stesso dell’esperienza estetica dell’atto performativo.
Cosa significa provocare in scena i limiti della nostra concezione e percezione abituale del passaggio del Tempo? Quali sono le possibilità di interpretazione e riappropriazione del passato e quali modalità utopistiche di relazione con il futuro passano per una riflessione (e un’azione conseguente) sul Tempo presente? Quali sono le possibilità immaginative e drammaturgiche che il teatro sta sperimentando per attivare una riflessione sul Tempo, per estendere e confondere le sue direzioni? Cosa succede alla possibilità di racconto, di immaginazione e di esperienza estetica nel momento in cui si vuole introdurre una diversa modalità di relazione con il Tempo, e di conseguenza con lo Spazio?
Il campo d’indagine individuato muove dall’osservazione e dall’esperienza diretta fatta negli ultimi due anni di lavori e percorsi di artisti incontrati in Europa e in Italia. Si tratta di spettacoli, performance, pratiche performative condivise che ho avuto occasione di incontrare innanzitutto come spettatore: è dall’osservazione e dall’esperienza di questi lavori che muove l’intuizione e il desiderio di affrontare questo argomento: indipendentemente dalle estetiche dei singoli artisti, profondamente diverse tra loro.
Gli artisti e le opere selezionate sono stati scelti senza alcuna pretesa di sistematicità. Si può parlare piuttosto in questo caso di esemplarità. Pratiche artistiche che stanno indicando una direzione e un metodo sempre più diffuso nel campo delle performing arts. Un metodo di selezione, questo, che è anzitutto una scelta di gusto: quelli che verranno analizzati sono progetti, spettacoli, performances incontrate per caso o perché fortemente desiderate. Si tratta di artisti che lavorano da anni e che in questo momento più di altri stanno riflettendo sulla questione del Tempo; artisti dal percorso più recente, per i quali la riflessione sul tempo rappresenta il cuore della ricerca; persone incontrate con le quali sono state attivate collaborazioni.
Si tratta di pratiche interdisciplinari, dove viene attuata non solo una cancellazione dei confini tra generi, ma anche la creazione di generi e pratiche inedite o abbandonate da tempo e recuperate e trasformate al punto tale da non essere più riconoscibili. Nella maggior parte di questi casi non si arriva nemmeno a parlare di spettacoli, ma di progetti di ricerca e di indagine, all’interno dei quali il momento spettacolare rappresenta solo un punto specifico di un’indagine più grande.
Un campo di indagine incredibilmente vasto e tuttora in fieri che si vuole iniziare qui a mappare, per cercare di intuire quali proposte, quali utopie, quali possibilità l’arte performativa sta aprendo oggi passando per una rimodulazione e reinvenzione del nostro rapporto con il Tempo e, di conseguenza, con il fatto teatrale.
Quando pensiamo al Tempo, il tratto che naturalmente emerge è il suo carattere di molteplicità, di stratificazione, di relatività culturale: il Tempo è un artefatto storicamente e culturalmente definito. Norbert Elias osserva che “l’attuale figura complessa del tempo deriva dalla relazione tra tre distinti tipi di divenire: quello delle scienze della natura, e in particolare della fisica; quello sociale collettivo rappresentato dalle scienze umane nel loro complesso; quello della sensibilità individuale.”5
Effettivamente, rispetto alla grande questione di cosa è il Tempo e dei modi attraverso i quali possiamo farne esperienza, sembra che nella cultura del Novecento vengano a stabilirsi a questo proposito alcune grandi famiglie di riflessione.
La prima appare legata all’evoluzione della riflessione filosofica sullo statuto della soggettività e in particolare sulla finitudine e su come l’io si costituisce in relazione alla memoria e alla relazione con il tempo. Si tratta di una linea rossa, nemmeno troppo sottile che sta al cuore della riflessione filosofica occidentale fin da Aristotele e Agostino, che passa per le due linee di tradizione filosofica di riflessione sul tempo, quella Hegeliana e quella Heideggeriana, e arriva ad Husserl, Bergson e a nostri contemporanei come Tristan Garcia.
La seconda pertiene alle modalità di relazione con il tempo imposte dalla struttura societaria all’interno della quale viviamo: il tempo è qui inteso come il reticolo all’interno del quale si strutturano le relazioni sociali nel loro divenire. E’ il tempo mondano, destinato al prendersi-cura, all’affannarsi intorno alle cose e agli oggetti. E’ il tempo che condividiamo quotidianamente con i nostri simili.
La terza famiglia deriva dai percorsi del sapere scientifico. Quali teorie, quali rappresentazioni del reale discipline come la fisica teorica, la neurobiologia, hanno sviluppato negli ultimi anni per descrivere la nostra relazione con lo spazio-tempo? Quali di queste teorie sono state dimostrate empiricamente?
Hannah Arendt ha sintetizzato queste tre grandi famiglie della riflessione sul tempo distinguendo appunto quelli che lei chiama, inserendosi all’interno di una tradizione che parte da Aristotele e passa per Sant’Agostino, il tempo dell’anima, il tempo del mondo e il tempo del cosmo.
Queste categorie possono tornare utili nella forma di macro-contenitori che permettono di suddividere il vasto campo d’indagine delle pratiche che quest’analisi affronta; esistono inevitabilmente sconfinamenti e attraversamenti di campo da parte di alcuni artisti, ma come punto di posizionamento iniziale possono tornare utili. L’articolo si sviluppa dunque su tre capitoli.
Nel primo, il “tempo dell’anima” ricadono pratiche di artisti che mettono al centro della loro ricerca la questione della presenza condivisa, nello stesso spazio e nello stesso tempo, per arrivare attraverso la condivisione dell’esperienza a trasformare o anche soltanto a far scoprire nuove modalità di relazione con il tempo e di strutturazione della propria identità in rapporto ad esso. Si analizzeranno, tra gli altri, Work/Travail/Arbeit, la Slow walk di Anne-Teresa de Keersmaker; La Substance, but in English e Natten di Marten Spangberg; Le plein di Tino Sehgal; Turning di Alessandro Sciarroni; Dog Days are Over di Jan Martens.
Il secondo, il “tempo del mondo” incontra pratiche che indagano la questione del rapporto tra relazione col tempo individuale e quello della società; le modalità attraverso le quali il gesto al presente può strutturare una riflessione sul passato e una sua re-interpretazione; la relazione tra biografia individuale e storia collettiva; le modalità di declinazione del concetto di archivio nel corpo del performer: Archive di Arkadi Zaides, Caen Amour di Trajal Harrel, Die Letzten Tage der Ceausescus e Die Moskauer Prozesse di Milo Rau, Oblivion di Sarah Vanee, 33 rounds and a few seconds di Rabih Mrouè.
Nel terzo capitolo dedicato al “tempo del cosmo” vengono analizzati percorsi che in maniera più o meno espressa si strutturano su modalità drammaturgiche che sembrano dialogare con le rappresentazioni della fisica teorica e della neurobiologia sul rapporto tra spazio-tempo e identità: These Associations di Tino Sehgal, Dance on glasses e Timeloss di Amir Reza Koohestani, The evening di Richard Maxwell e Danse de nuit di Boris Charmatz.
L’ analisi osserva quali trasformazioni stiano avvenendo da un punto di vista linguistico negli spettacoli e nelle performances prese in considerazione. Un’indagine dunque che vuole partire da uno studio linguistico per poter arrivare ad affrontare questioni di natura tematica e politica, dove per politico si intende lo stesso fatto artistico: mettere in questione il rapporto con il passato e con il presente in queste opere significa innanzitutto mettere in discussione il rapporto con il futuro e con l’idea stessa di utopia insita nel fatto artistico. L’indagine vuole lavorare da cartina di tornasole per capire che tipo di rapporto con il presente e con il reale questa nuova generazione di artisti sta strutturando. Quale idea di lettura e di esperienza del presente e di immaginazione del futuro propongono questi artisti attraverso la loro riflessione sul tempo? Che responsabilità si assumono questi artisti e queste pratiche, nell’affrontare la questione del tempo, quali identità tracciano e quali utopie di pensiero e di pratiche offrono allo sguardo e al pensiero di uno spettatore che si immagina e si vuole sempre più parte di una comunità sognata, immaginata, desiderata?
Il tempo dell’anima
Ascolto consigliato: John Cage, Organ2/aslsp (as slow as possible)6
Cosa ci è dato quando ci si dà tempo? Si chiede e noi con lui, Carlo Rovelli, nel suo ultimo libro dedicato alle più recenti scoperte della fisica teorica sul concetto di spazio-tempo. Secondo una tradizione che parte da Agostino e arriva fino a Husserl, di base, è dato un sentire. “Ciò che ci è dato è il tempo che appare, una dimensione interna di tempo immanente al flusso di coscienza. L’io e il tempo si co-appartengono in e grazie a questo ora del presente. La percezione di questo vissuto non è istantanea, possiede una temporalità fenomenologica avvertita dal soggetto che percepisce, diversa da quella misurata dall’orologio. Il sentimento del tempo, innanzitutto, richiede temporalità.”7 “In te, anima mia, misuro il tempo”8 affermava Agostino nelle sue Confessioni, riprendendo la tradizione neoplatonica: “l’impressione che le cose passando producono in noi”: secondo il teologo e filosofo di Ippona è questo che che noi misuriamo quando misuriamo il tempo. Presente, passato e futuro esistono solo nella mente che opera questo processo: esiste solo il presente dell’anima, in essa vive l’attesa del futuro, la memoria del passato e l’attenzione del presente.
Nelle pratiche degli artisti che prenderemo in esame in questo capitolo, ciò che viene offerta, in maniera più o meno diretta, è proprio l’esperienza di una temporalità allargata che permetta, sopra ogni altra cosa, una diversa percezione del tempo e di se stessi in relazione ad esso. Pratiche che svincolandosi dalla dimensione narrativa costruiscono un continuum lineare persistente del tempo che contribuisce kantianamente alla strutturazione dell’unità del soggetto: un percepire durativo dove il ricordo presente e recente è un fenomeno del tutto analogo a quello della percezione dell’istante.
Il tempo qui diventa oggetto di un’esperienza diretta: si cerca di far emergere l’enigmatica presenza sottostante del tempo, di renderne percepibile la stoffa, la grana, proprio violandone la trasparenza, normalmente causata dal tempo della narrazione. Esperienza del tempo come apparizione dunque, epifania, attraverso lo stare delle cose e degli esseri, insieme, per un tempo determinato, nello stesso luogo.
Camminare piano
Un grigio giorno di aprile dello scorso anno chi si fosse trovato a Bruxelles avrebbe sicuramente avvistato in strada piccoli gruppi di persone muoversi ad una velocità incredibilmente lenta: volendo, avrebbe potuto unirsi ad uno di questi gruppi e camminare con loro verso la Grand Place, il centro simbolico della città; una volta arrivato lì, dopo non meno di due ore di slow walking, si sarebbe trovato coinvolto in una serie di azioni collettive dirette attraverso un megafono dalla coreografa e danzatrice Anne Teresa de Keersmaker.
Si trattava di gesti semplici il cui obiettivo era quello di occupare lo spazio pubblico attraverso il movimento condiviso dei partecipanti: muoversi velocemente da una parte all’altra della piazza; cercare di occupare tutti gli spazi vuoti nel minor tempo possibile; sedersi a terra tutti insieme, danzare liberamente. La Keersmaker, circa un mese prima, a pochi giorni di distanza dagli attentati di Bruxelles del 22 marzo, aveva lanciato una chiamata pubblica all’intera cittadinanza: si invitavano gli abitanti a ritrovarsi in strada, a riunirsi in piccoli gruppi e a muovere verso il centro camminando lentissimamente, occupando così lo spazio urbano con il tempo.
Se mai Marina Abramovich riuscirà a trovare i fondi per realizzare il suo MAI (Marina Abramovich Institute), una struttura a metà tra un’università, un teatro e un museo che l’artista intende realizzare a Hudson, cittadina ad alcune centinaia di miglia da New York, il primo gesto che il visitatore si troverà a dover compiere sarà quello di camminare lentissimamente attraverso gli spazi del museo. Il MAI, nelle intenzioni della Abramovich si costituirà come luogo devoto alla condivisione di una serie di pratiche incentrate sulla riappropriazione da parte degli spettatori del proprio tempo. Per entrare i visitatori dovranno firmare un contratto che li costringerà all’interno della struttura per minimo sei ore; una volta all’interno, dopo aver attraversato in slow motion lo spazio, si troveranno di fronte a una serie di pratiche che potranno coinvolgerli direttamente o come semplici spettatori: sedersi uno di fronte all’altro e passare del tempo a guardarsi reciprocamente; bere acqua da contenitori dalla forma inusuale; riposarsi all’interno di grotte di cristallo; guardare film, spettacoli e long durational performances, addormentarsi sospesi a mezz’aria.
Non a caso, il primo gesto che l’artista richiede ai suoi visitatori è quello di camminare lentamente; l’obiettivo, come nel caso di Anne Teresa de Keersmaker, è lo stesso: attraverso la condivisione di un gesto semplice come quello di camminare, ma rallentandone il tempo di esecuzione in maniera esasperata, si attiva uno scarto di consapevolezza della propria presenza all’interno delle coordinate spazio-temporali, scarto che offre la possibilità da una parte di uscire gradualmente dalle maglie del tempo-ritmo produttivo della società, dall’altro di aprire inedite possibilità percettive. Nel caso di Anne Teresa de Keersmaker inoltre, un esperimento di natura esperienziale si apre a una questione politica e sociale: attraverso un semplice esercizio di rallentamento temporale i cittadini si riappropriano dello spazio pubblico dal quale erano stati violentemente strappati dagli attentati del 22 marzo e dalla successiva violenta reazione di lockdown che lo stato aveva messo in campo come reazione a questi. Rallentare il tempo quel giorno di aprile a Bruxelles, ha significato soprattutto rivendicare uno spazio, semplicemente agendolo su un piano temporale diverso da quello abituale. Lo stesso obiettivo che deve essersi posto Marino Formenti, esattamente un anno prima, nel momento in cui decise di occupare gli spazi della galleria Zsenne art lab (già negozio su strada, luogo normalmente dedicato quindi a un tempo produttivo e di scambio), con la sua performance musicale Nowhere presentata all’interno del festival biennale Performatik: 12 ore di esecuzione live al pianoforte, per dodici giorni, di un repertorio di classici di Satie, Eno, Cage, Feldman e altri, dal barocco al contemporaneo: un “tentativo ulteriore di liberare la musica dalla morsa che la stringe, tra l’ufficio e l’ultimo metrò” per dirla con parole sue, la creazione di una sorta di “cappella pagana” aperta a tutti in qualsiasi momento, dove vita e musica si mescolano senza soluzione di continuità, assieme alla ineludibile drammaturgia sonora della città, mentre il tempo e lo spazio si fondono in uno.
La sostanza del pieno
“La sostanza è una quantità che non è divisibile: voglio che la performance offra un’esperienza che non sia narrativa, non sia come una linea, una serie di scene o di elementi. Le performance sono ed esistono come l’oceano, che è un tutto unico: ci sono tante cose nell’oceano, ma lui è sempre uno.”9
Uno degli obiettivi del lavoro di Marten Spangberg, coreografo e teorico danese, è quello di creare eventi performativi apparentemente slegati da qualsiasi finalità narrativa o comunicativa in nome dell’evento stesso, che, per dirla heideggerianamente, si manifesta nella sua “cosalità”: le sue performance prevedono sempre una riflessione sul tempo e sulle modalità di fruizione che questa riflessione provoca. In La Substance, but in English, del 2015, un gruppo di otto performer esegue in scena una partitura ininterrotta di quattro ore e mezza di movimenti e gesti che trasformano l’ambiente che abitano, interagendo con gli oggetti di cui sono circondati: lattine di coca cola, barattoli di glitter, colla, libri, cartoni della pizza, costumi che i danzatori cambiano in continuazione, junk food, colori, macbook: un invitante ambiente pop e festoso che ricorda la dimensione gioiosa e improvvisata di una reunion hippie ma che nel tempo si palesa per essere una precisissima partitura costruita appositamente per restituire una dettagliata esperienza multisensoriale. Natten, del 2016 è la controparte selenica e notturna de La Substance: i performer invitano gli spettatori a condividere un viaggio di sei ore e mezza (la performance attraversa la notte e termina con l’alba) all’interno di una bolla spazio-temporale che indaga la possibilità della dimensione notturna di fuggire dalla tirannia del tempo, in un’oscurità che non rappresenta la morte ma la vita stessa: “Nel buio, il tempo non sta fermo, non smette mai di scorrere; invece, scivola via e scompare, come se non fosse mai esistito. Perché nell’oscurità più profonda non esiste né il prima né il dopo, c’è solo l’ “ora” e per tutto il tempo.”10
In entrambi i lavori i performer di Spangberg abitano lo spazio scenico alternando diversi stati di presenza performativa che vengono presentati senza soluzione di continuità: l’esecuzione di precise coreografie, singole o di gruppo, allo stesso tempo mockering e rielaborazione di quelle del mondo dei videoclip R&B, si alterna ad interventi apparentemente estemporanei come cantare, dipingere, truccarsi e a semplici azioni quali bere, mangiare, riposarsi, cambiarsi d’abito. Una sequenza ininterrotta di movimento condiviso e diffuso, che cambia in continuazione in maniera impercettibile, senza rotture o violenti passaggi di stato: per Spangberg coreografia è un concetto che ha a che fare maggiormente con la costruzione di un tempo e uno spazio che con il disegno di una partitura ritmica di movimento. Le figure dei performer, spesso attraverso l’utilizzo della tecnica dello slow motion, più che abitare lo spazio scenico è come se “emergessero” dallo stesso: muovendosi, fermandosi, rimandando allo spettatore il suo stesso sguardo, attraversando passi di coreografie essenziali, dilatate, ripetute, che si scambiano l’un l’altro per poi scomparire all’improvviso, questi corpi visti in penombra, intravisti, quasi sognati, sembrano accumulare in sé stessi il tempo. Il tempo di La Substance, but in English, così come di Natten è un contro-tempo, dilatato, condiviso, accessibile a chiunque, aperto e permeabile. E lo stesso si può dire, di conseguenza, dello spazio. Entrambe le performance prevedono uno spazio allargato e condiviso, orizzontale; La Substance mantiene ancora una distinzione tra spazio dell’azione e quello del pubblico: gli spettatori sono seduti in cerchio intorno allo spazio scenico, che però può essere continuamente attraversato grazie alla possibilità offerta agli spettatori di entrare in relazione con la scenografia, ovverosia di disegnare in qualsiasi momento su una grande parete che chiude sulla destra lo spazio scenico. In Natten invece lo spazio è unico e interamente condiviso: all’interno di una dimensione notturna di penombra, performer e spettatori sono sullo stesso livello e questi ultimi possono scegliere tra diversi gradi di prossimità: il grigiore diffuso, le musiche languide a tratti sussurrate e cantate dagli stessi danzatori rende i confini ancora più impalpabili. In entrambe le performance si può entrare ed uscire quando si vuole e si può abitare lo spazio nella maniera che si crede più idonea: gli spettatori possono guardare, leggere, addormentarsi, spostarsi nello spazio. L’atteggiamento che Spangberg sembra voler suscitare nello spettatore è un atteggiamento di tipo meditativo, in opposizione a quello consacrato all’impegno, al prendersi-cura, all’affannarsi intorno agli oggetti: l’ atteggiamento meditativo è un rapporto con le cose che le rispetta nel loro disvelarsi. Le parole d’ordine qui sono diminuzione, decentramento, farsi da parte del soggetto (spettatore o artista); a esso corrisponde l’evento delle cose o l’evento dell’essere attraverso lo spazio del vedere. Lo scopo, nelle parole di Spangberg stesso è mettere il pubblico di fronte a un evento che sembra accadere suo malgrado, che nel caso di Natten arriva a legarsi ai cicli naturali, circadiani. Così, dalla percezione del corso del tempo si passa all’esperienza di un “continuous present”11 dove tutto sembra iniziare in continuazione, o non essere mai iniziato né finito: la performance prende ad assomigliare a una scultura cinetica, diventa scultura del tempo.
La stessa sensazione si prova assistendo alla performance Yet Untitled di Tino Sehgal. Chi fosse entrato all’interno dei caldi, accoglienti spazi della galleria Jan Mot a Bruxelles si sarebbe trovato per un tempo indefinito a gravitare lungo le pareti di una stanza. Al centro della stessa tre performer, alternandosi, sono impegnati ad eseguire una partitura semplice, leggera, che potrebbe ricordare ad alcuni, tratti della più banale contact improvisation: i performer sono seduti a terra, a occhi chiusi, si sfiorano, si toccano, i loro movimenti sono costruiti intorno alla dinamica azione-reazione e vengono presentati in slow motion. Ad ogni tocco, ad ogni gesto, sembra corrispondere una sua traduzione in termini sonori, veicolata attraverso la voce degli stessi performer: sussurri, sospiri, click, frammenti di canzoni pop riempiono lo spazio sonoro della stanza. Una partitura dell’affetto, verrebbe da dire, quasi della cura, tra due persone che sembrano “coccolarsi”, attraverso lo scambio di gesti e con la voce all’interno di un movimento ininterrotto e di un contatto tra i corpi continuo. I performer si alternano al centro dello spazio, si danno il cambio (due agiscono e il terzo osserva, in attesa di sostituirsi a uno dei due) in maniera tale da non interrompere mai un movimento che inizia e finisce con gli orari di apertura della galleria, per settimane. Come nelle performance di Spangberg, siamo qui di fronte all’esecuzione di una partitura fisica che sembra nascere e svilupparsi indipendentemente dallo sguardo dello spettatore: che si offre gentilmente e a-segnicamente ad esso nel momento in cui si fa presente. I performer non si rivolgono mai ai visitatori, né con i gesti, né con lo sguardo: nulla suggerisce che la nostra presenza sia indispensabile allo sviluppo della pièce, lo spettatore sembra relegato nel ruolo di osservatore esterno, sospeso in una posizione indeterminata, muto testimone di una situazione rituale che sembra appartenere ad un’altra natura. Si genera qui un tempo negativo, un tempo incerto, che si pone in contrapposizione al flusso e al decorso (narrativo, musicale, quotidiano etc…). All’interno di una dimensione museale, al posto della varietà espositiva, che ammazza il tempo (e a favore della demateralizzazione dell’opera d’arte), Sehgal, in Yet Untitled come in molte altre delle sue “constructed situations”12 presenta la fatica del guardare, che invece rende il tempo tangibile. Performance come quella realizzata per la galleria Jan Mot sono il simbolo di un tentativo di contatto sempre nuovamente frustrato di uno stato temporale al di fuori della storia, fattosi per l’occasione circolare e apparentemente infinito, che cristallizza il tempo attraverso la ripetizione e la durata, lo comprime, lo nega perfino. E’ in atto qui lo stesso processo di dis-identificazione che Sehgal applica su se stesso come artista: si crea “una sorta di scrittura oggettiva (contro la soggettività), una macchina fatta per creare una forma di vuoto che attraverso le dinamiche temporali della ripetizione, della casualità, arriva perfino a “negare la presenza di un “work of art” e quella dell’autore stesso”13
La noia
Pensiamo al mondo moderno. A come esso sia strutturato intorno a una serrata dialettica tra i due concetti opposti di attenzione e di distrazione. Da una parte, fin dai tempi della scuola dell’obbligo, la società ci trasmette il valore e l’importanza dell’attenzione; dall’altra la stessa società ci fornisce in continuazione stimoli che la minano alla base. Il mondo moderno è costituito di una crisi d’attenzione, dove le configurazioni continuamente mutevoli del capitalismo spingono in continuazione l’attenzione e la distrazione verso nuovi limiti, da una parte offrendo un’infinita serie di nuovi prodotti, fonti di stimolo e flusso incessante di informazioni, dall’altra rispondendo con sempre nuovi metodi di controllo e regolazione della percezione. All’interno di questo scenario, l’attenzione, ovverosia la capacità di allargare un presente attraverso la concentrazione della coscienza su un singolo oggetto diventa la norma prodotta dalla paura della distrazione. L’arte ha sempre giocato storicamente diversi ruoli all’interno di questa dialettica: come forma di distrazione, come l’esatto opposto della distrazione/divertimento, come forma più complessa di attenzione distratta. La domanda, per un critico d’arte come Peter Osborne è sempre la stessa: “come si può percepire l’arte in distrazione, senza che essa stessa diventi un’altra distrazione? Come distrarre dalla distrazione senza semplicemente riprodurla?”14
Una delle esperienze temporali che l’arte ha presentato negli ultimi anni per rispondere a questa domanda è quella della noia: la noia, non l’attenzione sembra essere il vero altro dialettico della distrazione. La noia è associata al mondo della possibilità: per Heidegger, nelle sue letture del ’29-’30 dovremmo comprendere la noia da un punto di vista esistenziale proprio come la sensazione stessa del possibile; lo stesso afferma Walter Benjamin negli stessi anni. La performance contemporanea in questi anni si sta riappropriando fortemente del concetto di noia lavorando soprattutto su dinamiche di ripetizione e modulazione nella ripetizione; oppure aprendo le porte a una dimensione processuale o di prova solitamente tenute interne al lavoro della compagnia o dell’artista.
All’estetica della ripetizione appartengono di certo progetti come Turning di Alessandro Sciarroni o spettacoli come Dog Days are Over di Jan Martens: in entrambi, il concetto di ripetizione, assieme a quello di resistenza nel tempo, si fa tematico. Chroma, performance parte del progetto Turning è interamente incentrato sull’azione della rotazione: Sciarroni per cinquanta minuti di performance ruota sul proprio asse modificando solamente la posizione delle braccia. Gli otto performer di Dog Days Are Over dal primo all’ultimo minuto dello spettacolo saltano insieme, su due piedi costruendo una coreografia tanto semplice quanto coinvolgente che gradualmente, proprio per l’alto livello di concentrazione e fatica richiesto, costringe a far venir fuori le persone che solitamente si nascondono dietro al ruolo di danzatori.
In entrambi i casi si attiva una fertile dinamica di natura percettiva sul rapporto con il tempo. Nel momento in cui il nostro sguardo si posa su qualcosa di apparentemente sempre uguale, ci sentiamo da un certo punto liberati dalla necessità interpretativa e aperti alla possibilità di esistenza nella cosa in sé: non più l’esperienza del passare del tempo ci viene proposta, ma quella del tempo come percezione essenziale di ogni singolo istante. Di fronte alla stessa azione che viene ripetuta con minime variazioni, si percepisce il nostro stesso sguardo come atto in continua evoluzione: guardiamo ciò che si è appena guardato in modo differente rispetto a quello che stiamo guardando al presente e a quello che ci aspettiamo vedremo nell’immediato futuro. Lo stesso gesto ripetuto, d’altronde, è inevitabilmente modificato in ogni sua esecuzione e Sciarroni, così come Martens giocano coscientemente con la dimensione della variazione nella ripetizione. Ecco allora che nella ripetizione quello che sto vedendo, l’appena visto e il ricordo di ciò che ho visto nel passato si fondono in un’unica dimensione percettiva di assoluto presente: è lo slittare uniforme e continuo che secondo Bergson dà identità alla nostra percezione che in queste performance affiora in superficie e diventa l’oggetto stesso del guardare. In questo senso la ripetizione è anche in grado di produrre una nuova attenzione, sollecitata dal ricordo di quel che è appena passato: un’attenzione alle minime differenze. L’estetica del tempo fa della scena, anche in questo caso, il luogo di una riflessione sullo stesso atto visivo dello spettatore, che si percepisce in quanto tale. Come afferma De Lillo nel suo Point Omega riferendosi alla sua esperienza di fronte alla celeberrima installazione 24 Hours Psycho di Douglas Gordon, “quel film lo faceva sentire come qualcuno che guarda un film”.15
E’ un tempo, quello proposto da queste performance, che propone e presuppone un decentramento, un farsi da parte del soggetto (l’artista e lo spettatore in egual misura) in nome dell’evento delle cose, dell’evento dell’essere attraverso lo spazio del vedere: aspira al contro-tempo dell’estasi dove la comunicazione e l’interpretazione è interrotta in nome del disvelamento e del silenzio.
Può una coreografia essere presentata sotto la forma di un’esposizione? Il teatro e il museo si distinguono per le loro condizioni spaziali, temporali e percettive. Uno spettacolo di danza tratta del tempo e si costituisce come un’esperienza con una fine e un inizio definiti; una mostra, al contrario, raramente viene vissuta nell’integrità della sua durata. La riflessione su questa differenza deve aver spinto Anne Teresa de Keersmaker a trasformare la coreografia di Vortex Temporum nel progetto Work/Travail/Arbeid che ripensa il suo spettacolo del 2013 nella forma di una mostra di nove settimane di durata (l’inaugurazione del progetto, poi replicato in altri musei nel mondo, andava dal 20 marzo al 17 maggio 2015) che occupava un intero piano del Wiels, il museo d’arte contemporanea di Bruxelles, continuamente accessibile al pubblico durante gli orari di apertura del museo.
Un ciclo di nove ore di pratica coreografica e musicale ininterrotta portata avanti da sette danzatori della compagnia e da altrettanti musicisti dell’ Ensemble Ictus: la precisa coreografia dello spettacolo della Keersmaker esplode qui in una dimensione ciclica e continua dove frasi coreografiche e musicali, individuali e collettive si alternano e si ripetono senza soluzione di continuità attraversando gli spazi del museo. La ciclicità del lavoro è sottolineata dalla coreografia stessa, costruita intorno a poche, semplici azioni come camminare, saltare, correre: semplici strutture coreografiche che si sviluppano all’interno di una logica di espansione e riverberazione. Figure come il cerchio o l’ellissi muovono dal piccolo al grande e viceversa: la rotazione su se stesso di un singolo danzatore si moltiplica lentamente fino a coinvolgere l’intero ensemble in un movimento sempre più ampio e accelerato che costringe i visitatori stessi a riposizionarsi nello spazio; intere sequenze coreografiche vengono eseguite identiche da diversi danzatori, per poi essere ri-eseguite al contrario, in una sorta di reverse coreografico. L’impressione generale, mentre da visitatori ci si muove liberamente nello spazio, è quella di trovarsi di fronte alla messa in mostra della pratica quotidiana dei performer e dei musicisti: il “lavoro” che dà il titolo all’esibizione è quello che si ripete quotidianamente all’interno del tempo di prova per ognuno degli esecutori: il lento, serio sviluppo e miglioramento di sé nel tempo attraverso la pratica e la ripetizione. La fatica della pratica coreografica viene da una parte sottolineata dalla vicinanza fisica con i performer e quindi con il loro sudore, il loro respiro affannato; dall’altra, concettualmente, dalla durata scelta per l’evento: le nove ore di apertura giornaliera della mostra rispecchiano infatti il timing classico del lavoro d’ufficio.
Ecco allora che in Work/Travail/Arbeid il tempo extratemporale della pratica e della disciplina, tempo solitamente è individuale e privato dove la ripetizione si fa strumento di conoscenza, diventa tempo pubblico e condiviso. La stessa volontà di condivisione sembra muovere Imo Dimtchev, performer, musicista, cantante, nel momento in cui decide, con la sua prima long durational performance Avoiding Delifeath di esplorare le sue attività creative preferite, solitamente private, offrendole allo sguardo dello spettatore: insegnare, scrivere, dipingere, scrivere canzoni, cantare, riprendere con la telecamera, dare interviste. Per sei giorni di seguito, quattordici ore al giorno, lo spazio creativo personale dell’artista si apre allo sguardo del visitatore, in questo caso, quasi un “passante” che, a seconda dei momenti, può trovarsi di fronte all’artista al riposo, mentre canta a squarciagola, durante i pasti o mentre si cambia di costume. Il programma di sala giornaliero (dalle 10:00 alle 00:00) prevede attività come “una specie di scrittura di una specie di poesia”, “pittura di quadri di vagine per il mio Complex Pussy Catalogue”, “concerto improvvisato con un musicista ospite” o “girare un videoclip musicale”. Una processualità aperta, strutturalmente priva di inizio, centro e fine (il programma delle pratiche si ripete identico ogni giorno), dove il tempo formalizzato esteticamente e quello reale vissuto si sovrappongono alla perfezione e vengono condivise tra performer e spettatori.
In tutti i casi attraversati, la sensazione provata di fronte a queste pratiche è una sensazione di liberazione: ci sentiamo liberati di fronte al meccanismo dell’interpretazione, liberati dalla necessità di trovare un significato, così come dalle classiche dinamiche di analisi e di critica per entrare in una rigenerante dimensione di contemplazione del fatto artistico, che aspira a farsi evento che accade per se stesso più che artefatto culturalmente definito. Una dinamica, questa che offre la possibilità di confrontarci con noi stessi e con l’ abilità di creare il proprio spazio all’interno di un evento che avviene malgrado noi, malgrado la nostra stessa presenza: “It’s not necessary to seek out a narrative but rather to find your place in it”16
Timeless within time, queste opere ospitano il potenziale, etico e politico, per una ri-temporalizzazione ad ogni loro istanza, ad ogni loro accadimento. La produzione deliberata di noia heideggeriana, l’apertura di spazi-tempi interstiziali, la de-funzionalizzazione del gesto, le estetiche della durata, della ripetizione, dello slow motion, sono solo alcune delle pratiche di temporalizzazione del fatto performativo che questi artisti mettono in campo per aprire lo spazio-tempo del possibile e dell’incontro.
Come quando, camminando in montagna, si ha la fortuna di incontrare lo sguardo di un cervo, all’improvviso, tra i rami di una foresta: un tempo sospeso si solleva, indefinito, misterioso, che ci fa sentire grati della possibilità di incontro che ci è stata offerta, anche se per un istante soltanto.
- Vexations è un brano del 1893 composto da sole 152 note che però vanno ripetute 840 volte, creando così un lavoro che a seconda degli interpreti varia dalle 9 alle 24 ore. ↩
- Lehmann, Hans-Thies, Il teatro postdrammatico, Cuepress, 2017, p. 98 ↩
- Kern, Stephen, Il tempo e lo spazio, Il Mulino, 2007, p. 404 ↩
- Allo stesso tempo, mai come oggi l’essere umano sembra demandare ad apparati tecnici esterni le due attività principali che definiscono la nostra modalità di relazione con il tempo, ovverosia la memoria da una parte e l’immaginazione del futuro a partire dall’interpretazione del presente dall’altra; da una parte cellulari e social network, dall’altra algoritmi e distopie social. ↩
- Elias, Norbert, F, Il Mulino, 1986, p.23 ↩
- Organ2/aslsp (as slow as possible) è una delle performance musicali più lunghe di tutti i tempi. E’ iniziata nel 2001 nella chiesa di St. Burchardi in Halberstadt e durerà 639 anni, finendo nel 2640. Dato che la partitura prevede una pausa iniziale, la prima nota è stata suonata dall’organo nel 2003. Il primo accordo durò circa due anni e fu suonato fino al 5 luglio 2005. ↩
- Rovelli, Carlo, L’ordine del tempo, Adelphi, Milano, 2017, p. 39 ↩
- Sant’ Agostino, Le Confessioni, Bur, Rizzoli, Milano, 1974, p. 583 ↩
- Spangberg, Marten, Moderna Museet, Stockholm ↩
- Spangberg, Marten, Natten booklet, Kunstenfestivaldesarts 2016 ↩
- Stein, Gertrude, Composition as Explanation, Hogarth Press, London, 1925, p. 3 ↩
- Le “constructed situations” di Sehgal sono opere basate sull’interrelazione tra i loro interpreti, gli spazi in cui hanno luogo e il pubblico delle diverse istituzioni dedicate all’arte in cui queste trovano compimento (…) le opere immateriali di Sehgal prendono forma nell’interazione tra gesto corporeo e concordanza ritmica” cit. Caminada Emanuele e Valentini, Francesca – Retorica corporea: le “constructed situations” di Tino Sehgal, Epekeina vol. 7, nn. 1-2, pp.1-12, International Journal of Ontology History and Critics, CRF, Palermo, 2016 ↩
- Moisdon, Stéphanie, “moi je dis, moi je dis…”, 2003 ↩
- Osborne, Peter, Anywhere or not at all – Philosphy of Contemporary Art, Versobooks, Londra, 2013, p. 201 ↩
- De Lillo, Don, Punto Omega, Einaudi, Torino, 2010, p.13. ↩
- Spangberg, Marten, Natten, ed. Kunstenfestivaldesarts 2016, Bruxelles, 2016 ↩