Il saggio intende analizzare due spettacoli fra loro molto diversi: la Commedia dell’Inferno realizzata da Federico Tiezzi, che commissiona a Edoardo Sanguineti la riscrittura della prima cantica dantesca, e l’Inferno di Romeo Castellucci. Prospettiva scelta per la lettura di queste opere è lo studio delle loro drammaturgie sonore e della dialettica da esse instaurata con gli altri linguaggi che abitano la scena. Oggetto dell’indagine è, quindi, lo stratificato sistema che comprende la vocalità dei performer, intesa come insieme di suoni articolati verbalmente e gesti preverbali e ultraverbali, ma anche suoni registrati e prodotti in scena e dalla scena.
È indubbio che l’Inferno di Dante vada considerato un potentissimo luogo dell’immaginario, vale a dire un serbatoio capace di generare immagini che, nelle loro differenze, sono state veicolate e moltiplicate da ogni forma d’arte. Intendo concentrare la mia attenzione sul teatro e, in particolare, sul registro sonoro dello spettacolo, inteso come complessa stratificazione di vocalità e suoni, sia live che registrati, prodotti in scena e dalla scena. Tale indagine intende rifuggire dallo stereotipo che vuole l’Inferno un luogo senza luce, quindi più facile da rappresentare attraverso il suono. Di questo elemento, invece, sarà analizzata la possibilità di diventare dispositivo drammaturgico. Un’indagine compiuta secondo questa prospettiva si rivela strumento efficace in quanto concorre a far emergere meccanismi costruttivi sotterranei o a convocare, con maggior forza, quelli conclamati. È mia intenzione prendere in esame due spettacoli, fra loro profondamente diversi, che hanno tematizzato la prima cantica dantesca: Commedia dell’Inferno di Federico Tiezzi e Inferno di Romeo Castellucci. Non procederò isolando, in maniera artificiale, le drammaturgie sonore rispetto ai differenti elementi che abitano la scena e generano peculiari drammaturgie, ma tentando di leggere la dialettica che instaurano con gli altri linguaggi e con le scritture da questi ultimi prodotte.
1. Commedia dell’Inferno di Federico Tiezzi: logica del travestimento
Sottesa al lavoro di ricerca sulla Divina Commedia, cui Federico Tiezzi si dedica tra il 1989 e il 1991, è l’esigenza di creare un “teatro di poesia” che Lorenzo Mango definisce «un progetto di regia teso a realizzare con la lingua della scena, con la scrittura scenica, l’equivalente visivo, il correlativo, del ritmo, della costruzione e della “geometria” della poesia»1. Forte è la vocazione pedagogica che anima il regista. Su invito di Mario Rellini (allora direttore del Fabbricone, uno degli spazi del Teatro Metastasio di Prato), Tiezzi coinvolge alcuni attori italiani appena usciti dalle scuole e dalle accademie di teatro, affiancandoli ai membri storici della compagnia: Sandro Lombardi e Marion D’Amburgo. Il progetto prevede tre differenti spettacoli, in cui la riscrittura scenica delle cantiche dantesche è commissionata per l’occasione ad altrettanti poeti: Edoardo Sanguineti per l’Inferno, Mario Luzi per il Purgatorio e Giovanni Giudici per il Paradiso.
Nel corpo a corpo con Dante, Sanguineti mette in atto la strategia dichiarata sin dal sottotitolo della sua opera: Un travestimento dantesco. Travestimento, dunque, inteso come vertiginosa manipolazione del testo. Come vedremo, essa è strettamente connessa alla sonorità inesausta che caratterizza le scelte registiche di Tiezzi. A proposito di questa modalità lo stesso Sanguineti afferma:
Io dico che c’è teatro se c’è travestimento. Travestimento era anche però una categoria barocca di riscrittura di testi in chiave perlopiù non propriamente parodica ma, cosa difficilissima da designare, non c’è altra parola: travestiti. In Francia, che so, nasce l’“Eneide” travestita, in Italia l’“Eneide” travestita, ugualmente. Questo travestimento è insieme ammodernamento, sdrammatizzazione, e si applica non a testi teatrali ma a testi epici, narrativi, e via dicendo2.
Travestire è un’operazione che si pone marcatamente come attività critico-interpretativa del testo di partenza3. Tattica con cui darvi corpo è, in questo caso, una spietata frantumazione del testo, dalle cui macerie affiorano lacerti da rimontare con feroce ironia e vocazione allo spiazzamento4 dello spettatore cui il processo è rivolto. Sulla cantica dantesca Sanguineti opera rimuovendo Dante stesso, presente solo all’inizio e alla fine dell’opera, quando il poeta e Virgilio sono ridotti a una sorta di imbonitori da fiera o squinternati presentatori di varietà. Da quel momento una serie di dannati, uno per volta, guadagnano il centro della scena. Nello spettacolo è una piccola piattaforma immersa nel fango5 da cui si diramano dei praticabili per comporre la forma altamente stilizzata di un corpo umano. Si tratta già di una prima operazione di distacco realizzata da Tiezzi rispetto alla più articolata configurazione dell’ambientazione e dell’impianto scenografico cangiante previsti da Sanguineti: un circo con scale a chiocciola e altoparlanti, grotte interne, uno studio televisivo, un’oasi nel deserto, un prato verde, un lazzaretto, un obitorio in rovina.
Gli episodi del testo drammatico, così come le scene dello spettacolo, sono montati paratatticamente: «si passa di personaggio in personaggio – afferma Tiezzi –, come in una galleria di ritratti: e sono ritratti erosi, statue che hanno perduto le loro parti: episodi e situazioni di cui il drammaturgo fa aggallare solo il cuore, il centro prospettico»6. Sulla piccola piattaforma centrale le anime sembrano condannate a ripetere la loro storia attraverso blocchi che si configurano come monologhi: essi sottolineano la condizione di isolamento e alienazione delle figure che li proferiscono. Tiezzi si stacca dalle immagini proposte da Sanguineti nelle didascalie, traducendole in una forma scenica autonoma rispetto al testo. Così, solo per fare alcuni esempi, se le indicazioni di Sanguineti per la messa in scena di Capaneo si limitano a segnalare quanto debba essere gigantesco e disteso a terra, Tiezzi lo incatena a un letto di contenzione e lo rende simile a una versione rarefatta di alcuni dei protagonisti del Marat-Sade di Peter Brook; se Maometto è immaginato nella didascalia come una sorta di fantasma al centro della scena, il regista sprofonda l’attrice che lo interpreta nel fango che la lorda; se per lo scrittore Ulisse deve emergere da un lenzuolo rosso con Diomede e deve esprimersi con una voce come quella «di chi vuole, in un episodio da cartone animato, spaventare come fantasma travestito»7, sulla scena diventa una sorta di viaggiatore dei deserti ormai perso o un naufrago con tanto di occhiali da sole e gavetta.
La struttura monologica attraverso la quale i dannati si presentano impone a Sanguineti una prima revisione linguistica del verso dantesco: assecondando la necessità del tempo teatrale – tempo dell’accadimento che si concretizza nel momento della messa in scena –, tutti i verbi al passato nell’Inferno dantesco vengono convertiti in presente; allo stesso modo le terze persone che accompagnano le descrizioni dei dannati si trasformano in una prima persona: è il caso, ad esempio, di Capaneo, la cui presentazione è da Dante affidata a Virgilio8 e che, invece, sulla scena, intrappolato come tutti i personaggi nel suo monologo, deve lasciar spazio a un’autopresentazione9. Non è, questa, l’unica operazione compiuta sul testo dantesco in nome del travestimento, né la più innocua. Sanguineti vi inserisce elementi spuri che servono a dare possibilità di espressione a quei personaggi che in Dante rimangono silenti o a moltiplicare prismaticamente il senso di quanto alcuni episodi propongono, fino a provocarne un collasso. Nella trasposizione scenica dei Magazzini ne è esempio lampante l’incipit dello spettacolo: Sandro Lombardi, uno dei due imbonitori, dopo aver composto la sua bocca in un urlo muto, che segnala la difficoltà a dire, comincia a proferire il prologo. Con ampi movimenti delle braccia sembra danzare le parole, segnalando la natura profondamente sonora della sua recitazione. Insieme all’altro imbonitore, pronuncia anche le didascalie del testo che descrivono le scenografie e le indicazioni per la recitazione, evidenziando la spaccatura fra le immagini proposte da Sanguineti e quelle effettivamente realizzate da Tiezzi. Come previsto dallo stesso drammaturgo, a questo materiale verbale si aggiungono frammenti in volgare dell’Accessus, dalle Esposizioni sopra la Comedia di Boccaccio, e in latino del Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam di Benvenuto da Imola (che ritornerà anche all’inizio del secondo tempo, sempre affidato ai due presentatori). Il ricorso a testi spuri rispetto alla cantica dantesca è introdotto anche quando in scena è presente il mostro Gerione, custode di Malebolge. La sua voce è assente in Dante, ma Sanguineti gli offre la parola servendosi dell’inglese di alcuni versi tratti dai Cantos di Ezra Pound. Viene data voce anche a Paolo, silente nel celeberrimo incontro fra Dante e Francesca. A costui è affidato un montaggio di versi tratti dal sonetto Amor è un desio che ven da core di Jacopo da Lentini e di Amore e l’ cor gentil sono una cosa, tratto dal ventesimo capitolo della Vita Nuova di Dante. È, quella di Paolo e Francesca, una delle scene che nella trasposizione spettacolare dei Magazzini risulta fra le più intimamente connesse al registro sonoro. Mentre si diffonde un canto tribale, gli attori corrono in tondo, come a evocare la tempesta infernale descritta da Dante quale castigo per i lussuriosi. Una volta sedutisi in cerchio, la scena si va progressivamente saturando di voci: un bordone scandisce la mistica sillaba dell’OM punteggiata da singulti, alcune attrici pronunciano frasi dal De Amore di Andrea Cappellano, mentre sul coro si staglia la voce di Marion D’Amburgo che strazia i versi di Francesca con una recitazione ritmica, con occasionali ingolamenti del suono e con inaspettati picchi di intensità che si trasformano in urli. Un’attrice accompagna e intervalla il monologo di Francesca con un canto monodico, il cui contenuto sono le parole in provenzale di Chrétien de Troyes sull’amore fra Lancillotto e Ginevra, chiaro riferimento al libro “galeotto”. La stratificazione acustica di questa scena è esemplificativa di tutto lo spettacolo, in cui viene dispiegata una vocalità ricchissima e composta da numerose sfumature. Questa scelta mostra uno nuovo scarto rispetto all’immaginario tratteggiato da Sanguineti. Per l’autore, infatti, il registro sonoro avrebbe dovuto essere caratterizzato da una «sorta di “musique brute”, se non vogliamo dire di “musique concrète”, che lo attraversa e lo domina»10 in cui «lo spazio sonoro è privilegiatamente, e quasi esclusivamente, occupato dall’urlo e dal lamento, precisamente, da una degradata vocalità umana e demoniaca, nel registro obbligato del pianto e dello stridore di denti»11. Nella scena appena descritta, Tiezzi, invece, propone una liquefazione del verso su un piano prevalentemente sonoro, che sottrae l’abituale patetismo con cui viene letto e interpretato l’episodio di Paolo e Francesca.
L’aspetto marcatamente sonoro della recitazione si innerva su un’altra strategia operativa, propria del travestimento, messa in campo da Sanguineti e volta ad agire direttamente sull’endecasillabo dantesco. La descrive efficacemente lo stesso Tiezzi quando scrive:
Sanguineti aveva individuato il suo intervento, nella riscrittura, immediatamente sull’officio dell’endecasillabo: a cui avrebbe voluto togliere membri ritmici o di significato: specialmente nei brani più famosi e che ogni spettatore sa a memoria. Così, ad esempio, il verso di Francesca (V, 136) “la bocca mi baciò tutto tremante” sarebbe vissuto, nel teatro, senza il tutto, sostituito da una pausa ritmica dell’attore. Il celebre endecasillabo avrebbe risuonato attivamente: lo spettatore-ascoltatore sarebbe stato scosso da quella pausa più che dalla presenza della parola: il verso sarebbe stato (attraverso il cuneo di quella assenza) straniato, messo a nudo. Il suo significato si sarebbe allontanato: il significante ritmico sarebbe venuto in primo piano. […] Frammentare il verso significava dare estrema importanza alle pause, situare negli intervalli creati all’interno dell’endecasillabo la concreta esperienza recitativa dell’attore: e cioè il teatro. I vuoti dei versi sarebbero stati, teatralmente, dei pieni. Soprattutto essi sarebbero stati sperimentati dall’attore come indugi, come intermittenze di senso: lo avrebbero obbligato a costruire una phoné disintegrata, assolutamente dinamica. Questo procedimento è stato usato per la riscrittura dell’incontro fra Dante e Virgilio. I versi frammentari assuonano (più che rimare) tra loro. Si creano false rime interne, nuovi significati. Si crea una nuova musica: che attraverso il principio dell’assuono sembra più seriale rispetto a quella tonale della terzina incatenata. Più leverkühnesca. (Faustiana?)12.
Questa alterazione del testo dantesco agisce su due differenti piani che sono strettamente connessi alla parola travestita: la parola proferita spiazza lo spettatore perché «rimanda continuamente ad un’altra [quella dantesca], implicando un continuo esercizio di memoria nel lettore-spettatore, ma senza rinunciare all’immediato godimento e divertimento delle soluzioni linguistiche e teatrali»13. Allo stesso tempo esalta la phoné dell’attore senza mai diventare suono puro perché irrimediabilmente legata a un testo, quello dantesco, universalmente conosciuto. Questa esaltazione della phoné mette in luce uno dei tratti più significativi del travestimento, vale a dire la declinazione performativa, il suo proporre una lingua che cerca l’incarnazione nella voce dell’attore e che, quando è scritta, viene mutilata della componente materica per cui è stata pensata.
Voglio qui tentare di mettere a sistema due dei diversi modelli di gestione della voce in scena. Tali modelli non rappresentano un riferimento timbrico ma dischiudono una tecnica che è ricercata dal regista. È lui stesso a indicare che «Berberianamente ribobolano le parole dei versi di Sanguineti nel cavo orale dell’attore: lì divengono proiettili pronti per addensarsi al cuore e ai sensi dell’ascoltatore»14. Mi sembra che il rimando a Cathy Berberian si compia in virtù non solo del polimorfismo sonoro che contraddistingue la sua voce – un perturbante polimorfismo sonoro è sicuramente uno degli obiettivi della ricerca di Tiezzi per il suo Inferno –, ma anche di quella particolare abilità manducatoria del suono che caratterizza la voce della cantante armeno-americana. La parola non è semplicemente espulsa con l’intensità dell’urlo, ma prima aggredita come un boccone di cibo, masticata e incorporata, così come fa un altro (im)possibile riferimento evocato dallo stesso Sanguineti: Mina. Lo ricorda Sandro Lombardi:
In un laboratorio tenuto a Narni nel 1989, Ronconi insisteva sulla necessità di impugnare una per una le sillabe di certe parole: ecco, Mina riesce naturalmente, per via di intuizione fulminea, a fare quello che a molti attori richiede mesi di lavoro: spezzare le parole in sillabe senza perdere il senso della frase, determinare una scansione che disarticola e insieme ricompatta il significato di un termine al fenomeno sonoro che lo esprime, compiere un gesto vocale sempre dinamico e generatore di spazio. In perfetta sintonia con le ricerche di Carmelo Bene e Grotowski, di Luigi Nono, Cathy Berberian e Demetrio Stratos, Mina riusciva a liberare la voce da ogni intonazione prevedibile, proiettando la parola nella musica e viceversa, diventando così la vera e sola autrice dei suoi brani. Ne parlava Edoardo Sanguineti una sera a Genova dove facevamo, al Teatro della Corte, la trilogia dantesca. Il discorso di Sanguineti, che era arrivato a Mina dopo una tirata contro la triglia moribonda della Dora Markus di Montale, toccava un tasto che mi interessava parecchio: quello della dimensione in cui un interprete travalica talmente il piano dell’esecuzione di un testo da diventarne, in certa misura, il vero e proprio autore. Sanguineti rilevava il carattere onnivoro con cui Mina si appropria in blocco, azzannandoli quasi, dei materiali testuali (parole e musica) fino a farli totalmente suoi. Come Carmelo Bene, pensavo. Come quegli attori, cioè, che non si accontentano di camminare elegantemente sopra le parole di un testo, ma sentono il bisogno di penetrarne la sostanza fonico-espressiva con tutto il loro essere15.
Il continuo ribollire plurilinguistico della scena, la parola che essicca il suo significato senza tuttavia essere un lucente oggetto sonoro, la dizione che abbandona qualsiasi rapporto di necessità con gli aspetti paralinguistici della lingua, compongono uno stridente tessuto acustico che intercetta e si interseca con i suoni registrati, scelti come di consueto da Sandro Lombardi. Anche in questo caso a prevalere è una logica di moltiplicazione del senso affidata a tracce fra loro molto differenti: una selezione di brani di musica dell’antica Grecia, arrivati a noi tramite un papiro ed eseguiti nell’album Musique de la Grèce Antique dall’ensemble Atrium Musicae de Madrid guidato da Gregorio Paniagua; Palästinalied e Parti de Mal, cioè musiche dei tempi delle crociate, prelevate dall’album Music of the Crusades (Songs of Love and War) dell’Early Music Consort of London diretto da David Munrow; la nenia straniante contenuta in Boat Woman Song di Holger Czukay, che si addensa attorno alla scena di Capaneo; The Host of Seraphim, che segna il doloroso ingresso a Malebolge e il finale della scena di Ugolino, e The Writing on My Father’s Hand, che sottolinea la dolenza nella voce di un ladro, entrambi tratti da The Serpent’s Egg (1988) dei Dead Can Dance, gruppo che fa da cartina di tornasole per chiarire le scelte fin qui citate, tutte orientate su «musica vocalmente molto arcaica»16. La musica non è solo mera colonna sonora per creare la densità atmosferica della scena, ma anche dispositivo linguistico atto a moltiplicarne il senso, così come accade nella scena in cui a dilaniare la parola è Pier Della Vigna. Restando fedele all’immagine dantesca, Sanguineti lo ha trasformato in un uomo-pianta: su una scala, recita con una maschera vegetale che deforma la sua voce. Tiezzi, invece, lo fa assomigliare a un torturato legato a una sedia, bendato e colpito da un taglio di luce che ne intercetta occasionalmente la figura sofferente. A evocare la sua triste sorte concorre il tappeto sonoro offerto da Strange Fruit di Billie Holiday, in cui a pendere dagli “alberi del Sud” – il Sud della segregazione razziale – sono i corpi impiccati degli uomini di colore: atroce convergenza fra il corpo del dannato e quello degli afroamericani uccisi è allora la macabra inscrizione in un contesto vegetale.
2. L’Inferno di Romeo Castellucci: la tragedia dell’immagine sonora
Nel 2008 Romeo Castellucci è artista associato al Festival di Avignone. Per l’occasione mette in scena un ambizioso progetto basato su una rivisitazione della Divina Commedia che si compone di due spettacoli, l’Inferno, la cui première è nella corte del Palazzo dei Papi, e il Purgatorio, e una installazione, il Paradiso. Voglio rivolgere la mia attenzione al primo spettacolo. Il regista riprende una linea di ricerca che già aveva caratterizzato alcune delle precedenti sperimentazioni della Socìetas Raffaello Sanzio e che nell’Inferno, oltre a essere strategia formale, diviene contenuto stesso dello spettacolo: la tragedia dell’immagine in un orizzonte, quello contemporaneo, che ne è talmente saturo da rendere ardua la distinzione tra immagini autentiche e il resto del visibile17. La riflessione di Castellucci abbandona il testo dantesco, che si offre esclusivamente come dispositivo di costruzione dello sguardo. Doppiando la postura di Dante, il regista si pone al centro dell’opera, assumendosi ferocemente la responsabilità dello sguardo gettato sulla materia che compone il suo spettacolo. Celebre è l’incipit dell’Inferno, in cui, guadagnato il proscenio e guardando fermamente gli spettatori, il regista dichiara «Je m’appelle Romeo Castellucci». Successivamente viene aggredito da alcuni cani lupo che sembrano materialmente trascinarlo al centro della sua visione. La responsabilità dello sguardo, mutuata da Dante che, insieme a Giotto, «sont des destructeurs qui ont cassé les lignes droites et courbé le regard. Et, en ce sens, ils ont assumé la responsabilité de l’art»18, non è solo il dispositivo su cui lo spettacolo è costruito, ma anche prospettiva da tramandare a chi vi assiste. L’aspirazione politica del teatro di Castellucci non si esprime attraverso espliciti contenuti orientati in tal senso, ma nell’atto di convocazione della comunità degli spettatori, chiamati a condividere l’interrogazione delle immagini visive e sonore proposte e a completarne il senso. Secondo questa prospettiva si può leggere la scena finale dell’Inferno. Da una macchina incidentata emerge una performer con una grande maschera da Andy Warhol19, la cui presenza aleggia in molte scene. L’artista americano è, per stessa ammissione di Castellucci20, sia Virgilio, vale a dire imbattibile punto di riferimento nell’interrogazione rivolta all’immagine, sia Lucifero, punto di massima tensione della tragedia dell’immagine. Warhol ha una Polaroid al collo con cui scatta delle foto agli spettatori, direttamente chiamati in causa, e applaude. Successivamente, sale sull’auto e si getta varie volte a testa indietro, indicando la sommità del Palazzo dei Papi. Su ognuna delle finestre dell’ultimo piano vi è un televisore che trasmette una sola lettera. Insieme compongono la parola ÉTOILES, gli astri di «E quindi uscimmo a riveder le stelle» (Inferno, XXXIV, v. 139). Ad ogni caduta di Warhol fa seguito la caduta di un televisore che si infrange sul palco: prima quello con la lettera L, poi quello con la É, successivamente quello con la E, infine il televisore con la S. Nel punto più alto della facciata rimangono solo tre monitor che riportano la scritta TOI, affidando lo spettacolo allo spettatore e chiedendogli di porsi di fronte all’opera assumendosi, come Castellucci stesso, la responsabilità dello sguardo.
Fra la scena di autodenuncia iniziale e quella finale appena descritta, lo spettacolo si dipana secondo una doppia polarità: scene in cui una massa di performer, coreografati da Cindy Van Acker, si muovono lenti, sono impegnati in azioni minime (camminare, stendersi, guardare gli spettatori); altre scene in cui una singola figura si stacca dal resto: un bambino che palleggia, una donna anziana che azzanna un pallone da basket mentre dagli altoparlanti si diffonde il suono di grugniti, morsi e borborigmi, una bambina che fissa gli spettatori facendoli precipitare all’interno della cornice spettacolare perché di fronte a loro, a favore della fanciulla, è posta la parola “INFERNO”, realizzata con grandi lettere al neon.
Fra l’immagine visiva e l’immagine sonora, quest’ultima costruita grazie al sodalizio col musicista Scott Gibbons, Castellucci mette in atto una profonda divaricazione. Fra i due piani non sussiste sempre un nesso di causa/effetto, né un rapporto di necessità. Così, ad esempio, un pallone che rimbalza produce un rumore di picconate o di mattoni e vetri che a ogni palleggio si infrangono; o da un oggetto visibilmente lontano si genera un primissimo piano sonoro. Riflettendo sulle strategie compositive del suono di un precedente ciclo di lavori della Socìetas Raffaello Sanzio, la Tragedia Endogonidia (2002-2004), Chiara Guidi, una delle fondatrici della compagnia, sostiene un principio che può considerarsi valido anche per l’Inferno:
La musica non ha corpo, è aria. Quest’aria doveva fare i conti col corpo della figura. Credo che il suono […] abbia il compito di spogliare l’immagine, di rimandarla a ciò che non vedi, ma non perché l’immagine non può dire tutto, anzi l’immagine dice troppo, è oppressiva, non ti dà scampo, impone nella memoria una visione imprescindibile dalle sue fattezze. Invece la cosa interessante era togliere la matita, il confine dell’immagine. Annebbiarlo. Un po’ il processo di Cézanne: avvicinare i colori tra di loro, non dividerli col disegno e la matita21.
Il cortocircuito fra suono e immagine, la dialettica che si instaura fra i due piani, crea un movimento di apertura, genera una faglia nella composizione del senso da parte dello spettatore: il significato, allora, è spostato solo sul piano del desiderabile, si trasforma per chi guarda in una sensuale ricerca di appagamento, di raggiungimento di una quiete che esaudisca il suo desiderio. È, questo, un lavorio ininterrotto che dura anche oltre la conclusione dello spettacolo, configurando la natura dell’immagine di Castellucci come memorabile, cioè oggetto di memoria, staccata dalla conclamata piattezza del resto del visibile e dell’udibile.
Seguendo questa prospettiva possiamo leggere una scena centrale dell’Inferno. Un enorme velo scivola a coprire gli spettatori che occupano la gradinata di fronte alla facciata del Palazzo dei Papi. Il velo non occlude la loro visione, semmai li spinge a inaugurare immediatamente, come parte dello spettacolo stesso, l’esperienza della memorabilità, facendo riaffiorare quelle immagini che attendono solo di essere metabolizzate. In più, nel momento della velatura, a conquistare la centralità nell’orizzonte percettivo degli spettatori è il suono. Come nel resto dello spettacolo è di matrice elettroacustica: a venire manipolati sono rumori umani (respiri, dissezione di un corpo) e urbani (ferraglie che si accartocciano, crepitii radio, vetri infranti), ma anche suoni della natura (cicale, pietre, acqua, fuoco). Nella scena in questione, su un tappeto costituito da rumore statico emerge e si inabissa una sorta di canto gregoriano. Questo affioramento sonoro sottolinea e doppia il tema di fondo dello spettacolo – l’affioramento dell’immagine dal mare del visivo indistinto – e quindi, in questo caso, l’immagine sonora agisce in perfetto accordo con quella visiva. Ma voglio avanzare un’altra ipotesi: a fornire il paradigma ermeneutico di questa scena sembra essere la metafonia. Si tratta di una tecnica, rigettata dalla comunità scientifica, che consentirebbe di captare e registrare voci di defunti – o voci provenienti da un’altra dimensione – servendosi prevalentemente di radio sintonizzate su onde corte o registratori. Sono voci che contengono messaggi di difficile comprensione: emergono da un tessuto di rumori di fondo, sono caratterizzate da anomalie nella pronuncia, da una eccessiva velocità o lentezza nell’articolazione dell’eloquio e da timbri talvolta innaturali. L’ipotesi della metafonia è corroborata dal fatto che i suoni di Gibbons molto si avvicinano a quelli udibili in registrazioni di questo tipo, tanto da consentirmi di affermare che sia la metafonia a esserne il modello. Non solo: lo stesso musicista statunitense ha dichiarato che molti dei suoni per l’Inferno sono stati captati e registrati in un obitorio di Chicago. In tal caso la voce non è più recuperata in una declinazione morbosa o horror – non adatta all’immaginario sonoro costruito da Castellucci – ma in una dimensione affettiva: chi tenta di rintracciare le voci dei defunti seguendo questa pista è mosso dalla volontà di ristabilire un contatto con chi ama e ha perduto. Mi sembra, infatti, che a sprigionarsi da alcune sequenze dello spettacolo sia una rarefatta nostalgia, assolutamente non patetica, convocata anche – se non soprattutto – dal registro sonoro che trova il suo modello nella metafonia. In una sequenza successiva a quella appena descritta, si dispiega un bordone da cui nuovamente affiorano minimi frammenti di canto gregoriano. Alcuni performer si schierano a coppie al centro del palco. Uno dei due, di spalle all’altro, con un gesto del pollice simula il taglio della gola dell’altro, che inesorabilmente cade. Una voce acusmatica sussurra a tratti «Écoute-moi», «C’est moi», «Où es-tu?», «Je t’implore». Siamo di nuovo di fronte a una schisi fra l’immagine sonora e quella visiva, in nome di una moltiplicazione del senso prodotta dal loro cortocircuito. A chi sono rivolte quelle invocazioni gonfie di nostalgia? A Dio, totalmente assente nell’inferno dantesco? All’immagine che tenta di affiorare dall’indistinto del visivo proprio nel momento in cui esso deflagra con indicibile potenza?
Desidero ritornare ancora sulla scena della velatura – momento centrale dello spettacolo – e su quanto succede immediatamente dopo. Quando il velo viene ritirato, lo spettatore si trova di fronte a una immagine di capitale importanza: sulla scena vi è un pianoforte che va a fuoco, ma secerne acqua, mentre, in un primissimo piano sonoro, si diffonde il rumore del crepitio del fuoco e lo schiocco delle corde che si spezzano prima che si propaghi Spiegel im Spiegel di Arvo Pärt. Immediatamente la temperatura della scena cambia e dalla visione orrorifica scaturisce una dimensione più patetica. Il pianoforte è uno strumento che ritorna in tutte e tre gli spettacoli nella loro versione francese: incendiato nell’Inferno, suonato nel Purgatorio e, unica immagine del Paradiso, sottoposto a uno scroscio d’acqua che allaga tutta la Chiesa dei Celestini di Avignone. Mi sembra che, attraverso la figura retorica della metonimia – il pianoforte concreto per indicare l’astratto della musica –, a essere intercettato sia un annoso problema, la rappresentazione di Dio, che nell’intera trilogia Castellucci affronta ricorrendo a quella che è stata considerata la meno materiale di tutte le arti, almeno fino all’inizio del Novecento, quando la nascita dell’acustica ha riscattato la componente materica dei corpi sonori22.
È un’altra figura retorica, questa volta direttamente generata dal suono dello spettacolo, a caratterizzarne una scena: la personificazione. Un bambino palleggia un pallone da basket, mentre le finestre del Palazzo dei Papi si illuminano con diverse intensità, di volta in volta sostenute da una vasta gamma di suoni: colpi, crepitii, rumori, urli da cui emergono occasionalmente respiri e sospiri, voci distorte che sembrano pronunciare brandelli di alfabeto e frammenti di comunicazione, immediatamente frustrati dal loro inabissarsi nel tessuto sonoro secondo un processo che, ancora una volta, richiama la metafonia quale dispositivo costruttivo. La centralità della drammaturgia luminosa, su cui in sincrono opera la drammaturgia sonora, personifica la materia inerte del Palazzo dei Papi, rendendo le finestre occhi o bocche che si spalancano in un urlo, da cui tenta di generarsi una comunicazione perennemente frustrata.
Il suono nello spettacolo, quindi, si stratifica come dispositivo polimorfico, ora capace di scontornare l’immagine visiva aprendo varchi nella costruzione del senso, ora non solo di farsi corpo che abita la scena con la materialità dei gravi, ma anche di creare corpi personificati dal suo soffio vivificante.
3. Esodo
Desidero tornare ancora al concetto di immaginario originato dalla Divina Commedia con cui ho inaugurato questo scritto. Esaminiamo due dichiarazioni di intenti.
Parlando della sua operazione di travestimento dell’Inferno, Sanguineti scrive:
Quando Federico Tiezzi mi propose questo esercizio di realizzazione drammatica della prima cantica dantesca, in ogni caso, accolsi l’idea, in primo luogo, per la sua manifesta “impossibilità”. Non c’è gusto a lavorare, se non si pone un problema, e il gusto cresce, ovviamente, in proporzione con la sua, almeno apparente, irresolubilità. Non si trattava di disinnescare soltanto l’“intimidazione” dell’apparecchio letterario più intimidatorio di cui disponga la nostra poesia, ma, in qualche modo, per necessità, di approfittarne, rovesciandola come un guanto, puntando sopra la distanza tra il “poema sacro” e la sua scenica praticabilità concreta, suggerendo la massima divaricazione tra la “citazione” testuale e l’“incarnazione” drammatica23.
Le questioni esposte da Sanguineti sono davvero prossime a quelle di Castellucci:
[L’Inferno è un] libro perfettamente irrappresentabile. Quando una cosa è irrappresentabile diventa interessante e necessaria. Cosa c’è di più interessante se non l’irrappresentabile in teatro? È il problema fondamentale che può scatenare una vera immaginazione. Credo fosse anche il problema di Dante: porsi davanti a questo viaggio veramente impossibile nella metafisica. Ha dovuto immaginare l’immaginario per pensare a questo viaggio. […] A mia volta ho avuto, per un processo di metonimia, lo stesso problema di Dante, cioè come pormi di fronte alla sua opera, […] un oggetto perfettamente irrappresentabile24.
Per entrambi, quindi, l’opera pone un problema di “manifesta impossibilità”/”irrappresentabilità” che diventa stimolo, la cui intensità è direttamente proporzionale alla difficoltà che mette in campo, a rifare l’immaginario.
Il suono diventa, in maniera diversa, dispositivo per (ri)fare l’immaginario. Nell’Inferno di Castellucci manifesta un’istanza costruttiva irrinunciabile che lo allontana dalla funzione ancillare di colonna sonora e lo dichiara elemento drammaturgico: la sua alterazione o, peggio, la sua assenza annullerebbe il processo di vertiginosa apertura dell’immagine visiva, innervata sulla tematizzazione di un’immagine che sia scrematura del visivo/udibile. In Commedia dell’Inferno diviene strumento chirurgico principale per intervenire su un testo, quello di Sanguineti, che nasce con una profonda vocazione sonora, in quanto destinato alla precisa incarnazione nella voce di ogni singolo attore in vista di «uno Sprechgesang dilatato: inarmonico, sconcertato, disperato»25.
C’è di più. Probabilmente un impossibile punto di congiunzione di due rette parallele. In entrambi gli spettacoli, in due momenti topici, è lo stesso regista a guadagnare il palco e a parlare direttamente con la sua voce. Come ho avuto modo di sottolineare, accade proprio all’inizio dell’Inferno di Castellucci, quando la voce del regista, non amplificata da alcuno strumento tecnologico, si rivela nella sua nudità e indica il posizionamento del suo sguardo, lasciandolo in eredità agli spettatori. Succede quasi alla fine della Commedia dell’Inferno, quando Federico Tiezzi, senza alcun costume e con abiti quotidiani, appare come Frate Alberigo26, ultimo personaggio portato a galla da Sanguineti prima della visione di Lucifero, che i Magazzini non mettono in scena. Ma chi è Frate Alberigo e qual è la sua dannazione? Il «peggior spirto di Romagna» (Inferno, XXXIII, v. 154), cui Dante non pulisce gli occhi dalle lacrime cristallizzate in ghiaccio, è un traditore dei parenti, cioè un traditore della peggior specie. Incarnandosi specificamente in questa figura, Tiezzi sembra dichiarare il “tradimento” rispetto a un immaginario che è matrice. L’alterazione delle didascalie e delle prescrizioni sulla messa in scena dei personaggi, i colpi di cesoia sui versi, dichiarano l’autonomia rispetto al testo commissionato a Sanguineti, che si è già distaccato dall’opera di Dante creando un immaginario ulteriore. Anche in questo caso, ciò equivale ad assumersi la responsabilità dello sguardo. Non si tratta, sia riflettendo su Commedia dell’Inferno dei Magazzini che sull’Inferno di Castellucci, solo di accodarsi e seguire il topos novecentesco dell’autonomia della regia sul testo, ma di riflettere sul mezzo specifico con cui ciò accade – la voce del regista che deflagra in scena – e di porla in relazione alle logiche dello sguardo. Quanto l’atto di parola dei due registi calcifica in entrambi gli spettacoli è, allora, il costituirsi della voce in dispositivo di enunciazione dello sguardo.
- Lorenzo Mango, Teatro di poesia. Saggio su Federico Tiezzi, Bulzoni, Roma 1994, p. 13. ↩
- Andrea Liberovici, Intervista a Edoardo Sanguineti, in Edoardo Sanguineti – Andrea Liberovici, Il mio amore è come una febbre e mi rovescio, Bompiani, Milano 1998, p. 113. ↩
- Franco Vazzoler nota giustamente a proposito del teatro di Sanguineti che la parola travestimento, nonostante la sua efficacia, è devenuta un «facile passe-par-tout per entrare nei meccanismi linguistici e scenici di una vicenda teatrale complessa e sviluppatasi ormai lungo un arco temporale molto ampio». Franco Vazzoler, Dalla prassi alla teoria drammaturgica, in Id., Il chierico e la scena. Cinque capitoli su Sanguineti e il Teatro, Il melangolo, Genova 2009, pp. 10-11. Rimando a questo scritto per una puntuale ricostruzione delle prassi – e delle loro trasformazioni – del travestimento. ↩
- Uso volutamente il termine spiazzamento al posto di straniamento perché quest’ultimo evoca irrimediabilmente le prassi brechtiane che Sanguineti trova «una soluzione teoricamente ancora insoddisfacente». Franco Vazzoler, Dalla prassi alla teoria drammaturgica, cit., p. 33. ↩
- In un colloquio con Teresa Megale, Tiezzi stesso rivela lo stretto legame fra il fango e l’immaginario beckettiano, in particolar modo quello relativo al romanzo Com’è, messo in scena dagli stessi Magazzini nel 1987, che si svolge in una specie di Inferno di fango. «I personaggi di Beckett – spiega il regista – ripercorrono sempre passioni antiche mai sopite, combattono continuamente con la memoria, come fanno i personaggi di Dante, soprattutto quelli dell’Inferno». Teresa Megale, “La Divina Commedia in scena”. Intervista a Federico Tiezzi, «YouTube», 24 marzo 2021 (ultimo accesso 20.IX.2021). ↩
- Federico Tiezzi, Introduzione (teatrale) a commedia (cinematografica), in Edoardo Sanguineti, Commedia dell’Inferno, Costa & Nolan, Genova 1989, p. 9. ↩
- Edoardo Sanguineti, Commedia dell’Inferno, cit., p. 65. ↩
- «Quei fa l’un d’i sette regi/ ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia/ Dio in disdegno, e poco par che ‘l pregi». Dante Alighieri, Inferno, XIV, vv. 68-70. ↩
- «Io, Capaneo, fui l’un dei sette regi/ che assiser Tebe, ed ebbi, e par che io abbia/ Dio in disdegno, e poco par che io il pregi». Edoardo Sanguineti, Commedia dell’Inferno, cit., p. 42. ↩
- Edoardo Sanguineti, Canzone sacra e canzone profana, in Id., Dante reazionario, Editori Riuniti, Roma 1992, p. 310. ↩
- Ibidem. ↩
- Federico Tiezzi, Introduzione (teatrale) a commedia (cinematografica), cit., pp. 7-8. ↩
- Franco Vazzoler, Dalla prassi alla teoria drammaturgica, cit., p. 22. ↩
- FedericoTiezzi, Introduzione (teatrale) a commedia (cinematografica), cit., p. 6 ↩
- Sandro Lombardi, Gli anni felici. Realtà e memoria nel lavoro dell’attore, Garzanti, Milano 2004, pp. 42-43. ↩
- Faccio di nuovo riferimento al colloquio con Teresa Megale, “La Divina Commedia in scena”. Intervista a Federico Tiezzi, cit. ↩
- «Non tutto il visivo, tuttavia, è fatto di immagini. Esistono immagini e immagini. Alcune sempre uguali a se stesse (di cui il visivo è saturo), altre sfuggenti ed enigmatiche. Esistono quindi immagini che non fanno altro che mostrare, e immagini che si ritirano e si sottraggono. Queste ultime affiorano in un tessuto visivo e sonoro, inscrivendosi, in maniere inscindibili, nella tessitura drammaturgica della scena. Entrambe – l’immagine visiva e quella sonora – non sono evidenti nel senso corrente del termine. In scena, l’immagine che affiora alla visione non appartiene né all’ordine dell’apparente (l’immagine apparente) né a quello del permanere, riguarda semmai l’apparizione e l’impermanenza. Intrattiene pertanto un rapporto di stretta relazione con il tempo, o meglio, con il tempo necessario alla sua vibrazione divenuta visibile o udibile». Enrico Pitozzi, Estendere il visibile. La logica del suono e del colore, in Piersandra Di Matteo (a cura di), Toccare il reale. L’arte di Romeo Castellucci, Cronopio, Napoli 2015, p. 119. ↩
- Martine Siber, Romeo Castellucci, le pari fou, in «Le Monde», 4 luglio 2008 (ultimo accesso 20.IX.2021). ↩
- È chiaro il riferimento a Death and Disaster, ciclo in cui Warhol preleva dai mass media e dagli archivi della polizia foto di esecuzioni sulla sedia elettrica, suicidi e – appunto – incidenti d’auto, per poi serializzarle. Una trasposizione sul piano acustico di quelle opere è presente anche quando con movimenti lenti, da un’anonima massa di figuranti, emergono performer che, a coppie, si abbracciano, si baciano e scambiano effusioni e tenerezze, mentre si diffondono rumori di incidenti automobilistici, brusche frenate e lamiere che si accartocciano. In una scena successiva, una comparsa alla volta sale su un enorme cubo e, spalancate le braccia come in una crocefissione, si getta giù, a testa indietro, mentre sulla facciata del Palazzo dei Papi scorrono scritte luminose con titoli e anni di realizzazione di alcune opere di Warhol: Banana, 1966; Self Portrait, 1964; Marilyn Monroe, 1967; Hammer and Sickle, 1977; Empire, 1963; Vinyl, 1968; Knives, 1981. ↩
- «Durante le prove mi sono accorto che molti elementi richiamavano il lavoro di Warhol. Ha rappresentato con uno scarto, una rivoluzione copernicana, l’inferno che ci appartiene. Ha alzato lo sguardo dalle viscere della Terra, dalla profondità e l’ha posto sulla superficie delle cose, del linguaggio, la superficie che ci tiene insieme, la fragilità di questa superficie e insieme la forza di questa fragilità. Mi sono detto che quello poteva essere Virgilio, poteva essere Lucifero, poteva rappresentare una linea e comunque qualcuno e qualcosa che ha inventato uno sguardo per vedere quello che c’è già, cioè l’inferno». Dall’intervista a Romeo Castellucci di Gustav Hofer (Avignone, luglio 2008), a corredo del DVD-Video Inferno, Purgatorio, Paradiso, Arte Éditions, Issy-les-Moulineaux 2009. ↩
- Annalisa Sacchi – Enrico Pitozzi (a cura di), Incontro tra Chiara Guidi e Scott Gibbons, secondo talk del focus dedicato da Romaeuropa Festival alla Tragedia Endogonidia, «YouTube», 30 gennaio 2021 (ultimo accesso 20.IX.2021). ↩
- Scrivevo in «Perché di te farò un canto». Pratiche ed estetiche della vocalità nel teatro di Jerzy Grotowski, Living Theatre e Peter Brook (Bulzoni, Roma 2018, p. 227): «È del 1901 la scoperta dell’onda sonora che dà un forte impulso alla definizione fisica del suono. Esso è generato dalla vibrazione di corpi elastici (sorgente sonora) che produce una variazione di pressione nel mezzo circostante generando un’onda (onda sonora) in cui vi è una propagazione di energia che non sposta massa poiché ogni punto vibra attorno a una posizione fissa. Secondo questa accezione, il suono ricade nella sfera del materiale, può essere considerato un corpo, misurato e, con le virtù del “pesante”, entra direttamente in relazione con lo spazio». ↩
- Edoardo Sanguineti, Notizia, in Edoardo Sanguineti, Commedia dell’Inferno, cit., pp. 86-87. ↩
- Intervista a Romeo Castellucci di Gustav Hofer, in Inferno, Purgatorio, Paradiso, DVD-Video, cit. ↩
- Federico Tiezzi, Introduzione (teatrale) a commedia (cinematografica), cit. p. 12. ↩
- È quanto ho potuto osservare in un filmato inviatomi dalla compagnia stessa e relativo alle prove generali dello spettacolo. ↩