Mario Sasso, pittore e videoartista, ha via via fatto dell’esplorazione espressiva dei nuovi linguaggi tecnologici l’ambito privilegiato della sua esperienza. È tuttavia noto anche al grande pubblico per essere il più sensibile “art director” della grafica televisiva, attività nella quale fin dagli anni Sessanta e in particolare per Rai-Radiotelevisione italiana, ha trasfuso la ricchezza della sua ricerca plastica. Sasso è in effetti l’artefice principale dell’“immagine” della televisione pubblica italiana: di quel particolare modo di presentarsi e di farsi riconoscere, di là dai programmi, in segni peculiari e impaginazioni grafiche che l’artista stesso ha concettualmente contribuito a ideare: innovando e proponendo in modalità inedite i linguaggi della televisione nascente. Sue sono infatti le prime “copertine”, le prime “sigle” della Rai e dei suoi programmi di punta; così come tutta una serie di innovazioni espressive che hanno segnato la storia dell’audiovisivo. Operazioni, inoltre, di destrutturazione e di intersezione dei linguaggi artistici che hanno contribuito a costruire l’identità del medium in Italia anche prima dell’affermazione ufficiale delle arti elettroniche e fino all’esperienza pionieristica di RaiSat.
Mario Sasso, pittore e videoartista, ha via via fatto dell’esplorazione espressiva dei nuovi linguaggi tecnologici l’ambito privilegiato della sua esperienza. È tuttavia noto anche al grande pubblico per essere il più sensibile “art director” della grafica televisiva, attività nella quale fin dagli anni Sessanta, e in particolare per Rai-Radiotelevisione italiana, ha trasfuso la ricchezza della sua ricerca plastica.
Muovendo dalla sua esperienza pittorica ed esaltandola nell’attraversamento del linguaggio cinematografico e di quello televisivo – sin dagli esordi come negli odierni immaginari numerici realizzati con il computer – Sasso è in effetti l’artefice principale dell’ “immagine” della televisione pubblica italiana: di quel particolare modo di presentarsi e di farsi riconoscere, di là dai programmi, in segni peculiari e impaginazioni grafiche che l’artista stesso ha concettualmente contribuito a ideare. Sue sono infatti le prime “copertine”, le prime “sigle” della Rai e dei suoi programmi di punta; così come tutta una serie di innovazioni espressive che hanno segnato la storia dell’audiovisivo e della tv, in Italia e non solo.
È stata una esperienza straordinaria – ha raccontato l’artista in una conversazione del 1994 – del tutto nuova, assolutamente priva di punti di riferimento o di esempi da seguire. Affascinante, per me pittore astratto, che venivo da Jesi, dalla provincia, partecipe appassionato – come tutti allora – al confronto tra le ricerche avanzate del gruppo Forma 1 di Perilli, Dorazio, ecc. e i “realisti” Vespignani, Calabria, Guttuso.
Un’esperienza figlia degli anni Cinquanta e del dibattito sulla pittura, sulla forma, sulle nuove esigenze di socialità dell’arte che io sentivo moltissimo: e su quella cosa nuova che era la televisione.
Sono stato presentato. Un dirigente che lavorava alla Rai (allora c’era una sola Azienda e un solo Canale, il Nazionale) ha portato i miei quadri in redazione, e sono piaciuti. E mi hanno chiesto di lavorare per loro.
L’ “immagine” della televisione italiana era stata fino ad allora seguita dall’architetto milanese Carboni, che se l’era inventata dal nulla, ma le sigle erano pochissime, non per programmi, ma per grandi spezzoni di programmazione: per il Tg, per il programma della sera, per il quiz di Mike Bongiorno. L’immagine della Rai era tutta, quel poco che allora interessava, per l’esterno: era un modo di far pubblicità al nuovo mezzo e alla nuova Azienda radiotelevisiva. Le tecniche e gli esempi da seguire erano quelli dell’animazione cinematografica; ma più che alle avanguardie si pensava a Walt Disney; e riferimenti culturali erano il film e la sua storia, più che la pittura.
Io ho cominciato nel 1959 con Telescuola, la struttura che si occupava dei programmi di alfabetizzazione popolare. Il mio primo contratto fu una collaborazione come illustratore; portavo i disegni da casa e ne seguivo l’animazione in pellicola a passo uno. Nel 1960 ho realizzato la prima parte di una sigla che nel tempo divenne popolarissima: Non è mai troppo tardi di Alberto Manzi. Il segmento da me realizzato nacque dalla esigenza di allungare la sigla preesistente su richiesta della direttrice di Telescuola e Non è mai troppo tardi, dottoressa Puglisi. Mi preme sottolineare che, per rispetto dell’altro autore della sigla, non ho mai apposto la mia firma sul lavoro grafico da me realizzato. Un’esperienza fondamentale, anche perché è stata la prima volta nella quale si è dovuto affrontare il problema di come costruire la “copertina” di un programma. Tutto il lavoro è stato un’esperienza decisiva: dalla scelta di accostare un linguaggio propriamente cinematografico con elementi grafici animati, all’incontro con i conduttori della trasmissione e con i tecnici di studio. Lì ho fatto esperienza della “diretta” televisiva, di un programma audio-visivo per il grande pubblico (ed era un pubblico di adulti analfabeti, dato lo scopo della trasmissione) condotto e realizzato interamente in diretta. Il mio lavoro in quella occasione non è stato solo di disegnare la sigla, ma di seguire e ideare tutta la parte grafica, ad esempio i cartelloni didattici che servivano al maestro per insegnare la lingua italiana. Una grande responsabilità, per tutti, e un impegno delicatissimo.
Questa è stata la mia scuola in tv: e miei maestri le maestranze di studio, i macchinisti, i tecnici, gli operatori. Con loro ci siamo inventati una sorta di animazione in diretta, una regia visiva primordiale ma efficace, con grandi cartelloni – pareti intere – di disegni e scritte che quattro o cinque persone sfilavano di volta in volta davanti alla macchina da presa a illustrazione delle parole del maestro Manzi… In Telescuola ero illustratore, scenografo, regista, grafico a seconda delle esigenze; e il più delle volte e tutte queste cose insieme.
Solo alla fine degli anni Sessanta si è sentita la necessità di fare della grafica in tv qualcosa di più preciso, di darle un ruolo più evidente e significativo, non di semplice – per quanto importante – ausilio ai programmi. Una esigenza interna allo sviluppo della televisione e del suo palinsesto, cresciuta anzitutto con l’introduzione delle “rubriche” di approfondimento giornalistico e quindi con la necessità di inventare delle “copertine” specifiche per questi programmi, di dar loro dei logotipi riconoscibili, un senso preciso.
A me questa comunicazione corta, veloce incisiva, di taglio giornalistico, interessava moltissimo: anche la mia pittura stava muovendo verso una forma di comunicazione rapida e di approfondimento visivo. Rimanevo pittore, ma in tv. Anche se continuavo a dipingere e a esporre in galleria. E le due esperienze si coniugavano perfettamente1.
Da allora, fino alla prima metà degli anni Novanta, Sasso ha ideato e realizzato centinaia di sigle, i loghi audiovisivi del Tg2 (1984), del Tg3 (1986), l’impostazione grafica di RaiDue (1986 -1989), l’impaginazione grafica del Tg3, l’impostazione grafica di RaiSat e del Dse (1990-1993); e tra il 1993 e il 1995 l’impaginazione grafica di San Marino Rtv presieduta da Sergio Zavoli.
Sulle sigle per i programmi televisivi in Italia si è iniziato a riflettere proprio grazie al lavoro pluriennale di Sasso e in occasione della sua antologica personale che curai al Lingotto di Torino2.
Non sono molti gli studiosi che si sono occupati di questi prodotti, tuttavia in due decenni l’interpretazione si è precisata: anche grazie alle ricerche dei più giovani e alla disponibilità degli Archivi Rai e non solo.
Scrive Vittorio Fagone: «Luogo essenziale della televisione breve, la sigla è obbligata a una istantanea riconoscibilità e a svolgere funzione di segnale in grado di isolare, nel flusso continuo della comunicazione elettronica, particolari programmi, generi e modelli»3. Io, d’altra parte, notavo:
Le “sigle” di Sasso non sono prodotti ausiliari a un programma ideato da altri, ma introduzioni d’autore a programmi d’autore, opere in sé compiute che concentrano autonomamente i temi del programma che le segue e vi intervengono creativamente. La nozione fondamentale è la sintesi, la condensazione di senso, una messa in relazione di associazioni visuali e concettuali tra immagini e immagini, immagini e colori, immagini e suoni: che non solo informa su questioni e dati essenziali relativi al programma introdotto, ma propone visoni globali, si propone come unità di senso4.
Due anni dopo, Aldo Grasso interviene, a sua volta, sull’argomento: «La sigla per un programma televisivo è una breve sequenza formata da immagini ed elaborazioni grafiche, quasi sempre commentate da un brano musicale, che introduce (sigla di testa o di apertura) o chiude (sigla di coda o di chiusura) un programma televisivo: varietà, fiction, informazione»5.
Il processo di valorizzazione della sigla da prodotto di servizio a oggetto dalla significazione plurale e, magari, anche estetica, non è stato tuttavia agevole. Passano vent’anni, ma, come opportunamente osserva Chiara Mari, «Le sigle televisive hanno rappresentato, fin dalle origini della tv, un campo di intersezioni sperimentali sull’immagine in movimento e un peculiare terreno di confronto tra progetto grafico e medium tecnologico»6.
Se oggi, nell’ambito della televisione digitale e della Web tv, la sigla è divenuta parte integrante della programmazione di flusso, di cui rappresenta una simbolica punteggiatura (e per questa sua nuova funzione si è codificata in una estetica essenzialmente grafica e volutamente priva di significati narrativi o simbolico-concettuali: spesso solo decorativa anche se patinata in HD e 3D) per tutti gli anni Sessanta-Novanta, in particolare alla Rai e in particolare per quelle firmate da Mario Sasso, la sigla ha assunto, invece, una funzione linguistica precisa nell’organizzazione del palinsesto – circoscrivere l’appuntamento televisivo e isolarlo nella sua individualità – nonché una precisa connotazione estetica e spesse volte anche ritmica e narrativa. Nel caso di Sasso anche, inevitabilmente, artistica: come gli è stato internazionalmente riconosciuto con i premi ottenuti con questi suoi lavori al Festival di Arte Elettronica promosso dell’Università di Camerino (1986), al Festival Ars Elettronica di Linz (1990), al VideoArt Festival di Locarno (1995), ad Arte & Comunicazione. Biennale internazionale delle Arti elettroniche e della Tv di qualità di Roma (1998 – 2002).
Articoli e pubblicazioni specializzate («Marcatrè», «Domus», «Casabella», «Controspazio», tra le altre) dagli anni Settanta in avanti indicano e valorizzano le contiguità tra le diverse sperimentazioni (anche in ambiti apparentemente distanti: cinema, video, design, architettura, urbanistica, moda) le quali, anche trascinate dai nuovi immaginari e dai nuovi linguaggi dischiusi con la transizione tecnica dalla chimica all’elettronica, in quegli stessi anni hanno saputo riflettere sulle molteplici possibilità: di porre in relazione lo spazio urbano, gli ambienti domestici con lo stesso palinsesto televisivo, nelle sue sempre più elaborate articolazioni; o la grafica editoriale e advertising con l’immagine filmica prima, video analogica poi e numerica; “virtuale”, digitale oggi.
Un processo di ricerca sulle “possibilità proprie e specifiche” del nuovo linguaggio del medium televisivo nascente. Processo auspicato, fin dagli albori della messa in onda, dai più sensibili e anticipatori tra i critici d’arte o gli studiosi dei linguaggi cinematografici. Fin dal 1955 Carlo Ludovico Ragghianti nota – occorre ricordarlo – come il nuovo linguaggio espressivo del medium tv debba, auspicabilmente, configurarsi come un linguaggio di intersezioni e scambi interdisciplinari di echi e orizzonti inediti e di confronti tra le arti:
Fatte salve le ragioni della televisione come mezzo di informazione di svago audiovisivo, di didattica e quant’altro si voglia, credo che anche ai fini del suo pratico successo, per eliminare convenzioni e monotonia, e per costituirle un patrimonio di risorse che potranno anche essere impiegate per arricchire lo spettacolo ordinario, la televisione avrebbe tutto da guadagnare […] dal prendere più sicura e precisa coscienza di sé e delle proprie capacità autonome di espressione7.
Vicenda complessa ed effettivamente molto articolata, quella della televisione e in particolare di quella italiana8. Così come complessa è la relazione tra arte e televisione. E tuttavia, come nota Marco Senaldi «Uno dei modi per intendere il rapporto tra arte e tv potrebbe essere quello di considerare gli artisti che hanno per primi impiegato il televisore all’interno di una opera d’arte o una installazione»9. In questa direzione potrebbero anche essere valorizzate le operazioni concettuali che non solo hanno inserito l’oggetto televisore in una opera, ma lo hanno semplicemente evocato, per de-strutturarlo ante litteram: come è accaduto nelle pitture e nei manifesti teorici di Lucio Fontana dal 1952, di Pablo Picasso nel 1963 o nelle videoinstallazioni di Paik o Wostell, sempre del 1963. Una linea ricordata in particolare da Sandra Lischi nel capitolo Per un’altra televisione del suo più recente volume10. Nonché efficacemente ribadita nel numero monografico della rivista «Link» del 201911.
Se è evidente che le produzioni e le idee originali di Sasso per la Rai – le sigle quanto il progetto dei countdown d’artista per RaiSat, nonché le “impaginazioni di Rete” – sono fortemente orientate dalla personalità e curiosità artistica del loro autore, capace di integrare in queste opere una pluralità di linguaggi della contemporaneità apparentemente lontani tra loro e tuttavia efficacemente interagenti (pittura, grafica, film, musica, fotografia, video, audiovisivi d’archivio, linguaggi elettronici e digitali), è altrettanto evidente che queste opere – fin dagli anni Sessanta – non si sono poste come prodotti semplicemente introduttivi al programma successivo, quanto come autentici e sintetici “programmi” in sé: anche se in forme necessariamente “brevi” ma esteticamente e narrativamente autonome.
Alla funzione descrittiva, introduttiva e dunque di servizio propria della sigla, quelle di Sasso si sono qualificate anche per la loro capacità di sintesi dei temi elaborati nel programma introdotto così come capaci di fornire, in un tempo necessariamente molto concentrato, un punto di vista “ulteriore”.
Queste tre funzioni coesistenti (di servizio, di sintesi, di interpretazione soggettiva), sostenute da una caratterizzazione estetica fortemente identificata ancorché eclettica nei rimandi simbolici e nei linguaggi espressivi utilizzati, è la caratteristica originale delle sigle di Sasso per la Rai. Ciò che va sottolineato è che questi prodotti – e realizzati in questo specifico modo – sono prodotti originali della Rai e rappresentano un unicum a livello europeo e probabilmente mondiale. E li rende tanto importanti il fatto che per più di trent’anni essi hanno “funzionato” sia a livello estetico (tanto da essere presentati in Musei, Festival e gallerie di varie parti del mondo come vere e proprie opere d’arte “videoartistiche”), sia a livello comunicativo e informativo: conservando e confermando presso il grande pubblico tutta la loro efficacia.
In esse, in effetti, è concentrata una storia dei linguaggi espressivi e audiovisivi della seconda metà del Novecento, nonché le loro intersezioni con altri filoni estetici: dalla pittura al cinema, dalla videoarte all’arte acustica e digitale; inoltre, è raccontata una storia della programmazione Rai nel suo evolversi in generi, programmi, serie, cicli. Grazie all’efficacia comunicativa del prodotto di Sasso, i grandi autori dei programmi Rai hanno, in effetti, sempre scelto questo artista come riferimento privilegiato per l’apertura dei loro programmi: tutti oggi “di culto”, dal reportage al Tg, dall’intrattenimento alla fiction.
In queste “sigle”, tra l’altro, è esplicitamente individuabile un “modello produttivo”, e di sperimentazione sia tecnologica che espressiva, praticato alla Rai sin dagli anni Cinquanta: modello fondato sull’intreccio dei linguaggi e la collaborazione di professionalità diverse ma specifiche; sulla sperimentazione di nuove tecnologie, sulla collaborazione tra intuizioni artistiche e funzionalità del prodotto: a garanzia della libertà di espressione.
Attraverso questi lavori di Sasso si può, in effetti, ripercorrere la storia, non solo dell’immagine e della sua evoluzione, ma anche dei momenti eticamente più alti della tv pubblica italiana: nei quali i concetti di responsabilità sociale, servizio al pubblico, educazione all’immagine ed educazione civile: i quali, uniti alla consapevolezza critica e alla capacità propositiva e comunicativa dei linguaggi artistici, hanno potuto efficacemente – anche se a volte problematicamente – coesistere.
Tra i decenni Settanta e Ottanta, come ricorda bene non solo Sasso, ma anche il ben più giovane Fabio Fazio: «La tv era un foglio bianco nell’ora di disegno dei bambini, avevi tutti i colori e inventavi […] c’era una quantità di linguaggi al suo interno, che era un po’ come andare sulle giostre»12.
Una libertà creativa e una pluralità di linguaggi da scoprire curiosando e sperimentando con le nuove tecniche – come su una pagina bianca o su una tela da cavalletto – di cui Sasso ha ampiamente approfittato: innescando, come sulle giostre, operazioni non solo di comunicazione e di pratica espressiva, nonché di educazione pubblica, quanto di destrutturazione e dislocazione delle immagini video che hanno contribuito a costruire originalmente il linguaggio della televisione in Italia anche prima dell’affermazione ufficiale delle arti elettroniche e fino all’esperienza pionieristica di RaiSat nella prima metà degli anni Novanta.
Non rinunciando mai a sentirsi ed essere “pittore”, proponendo negli studi Rai le esplorazioni di tecniche e forme elaborate nel suo studio d’artista. In effetti, la pittura – da cavalletto a quella video e poi digitale degli scanachrome o del Paintbox, anticipata dall’amore per il cinema o dalla memoria del Rinascimento e del Barocco – è sempre stata al centro del lavoro di Sasso. Anche perché la pittura, come ha ricordato spesso Gino De Dominicis – ovviamente suo amico – è una storia tutta italiana. Che non è andata in crisi – si è, semmai, metamorfizzata – neppure con l’Arte povera o concettuale, con le foto e i video, con le installazioni o la performance. La pittura è al centro, nella storia italiana, anche con le nuove tecnologie. Una storia che, anche per Sasso, come per i maestri dell’arte italiana nel secondo dopoguerra, muove dagli anni Cinquanta della composizione geometrica e dell’area segnica informale, in un percorso di andata e ritorno da Roma a Torino, attraverso Bologna e Milano. Lasciti estetici tra neorealismo e astrattismo, tutti precipitati nelle sue sigle tv, ma anche nei grandi quadri digitali del suo XXI secolo: postisi “oltre” la pittura come “oltre” la televisione. Percettività cromatiche vibranti, simboli reiterati, ossessione per le linee – alle quali ha dedicato tutta una vita, declinandole, intersecandole, quasi sincopandole musicalmente con altri segni – sguardi sempre obliqui o verticalmente “a piombo” su squarci di città o paesaggi: a sintetizzare il dramma dell’esistenza, la percezione inquieta di essa, l’alienazione – fino all’assenza – della figura umana.
Anche sul piano delle definizioni teoriche Mario Sasso ha dato il suo contributo, come negli anni Ottanta, quando con RaiDue, ha coniato il concetto di “impaginazione di Rete”. Quando, infatti, le Reti tv erano fortemente identificate, quasi politicamente identitarie – effetto della lottizzazione politica ma anche delle scelte di linguaggio, programmi e palinsesti delle diverse Direzioni – Sasso ha suggerito di trattare RaiDue (e successivamente RaiSat) proprio come una rivista d’arte: da sfogliare e dunque da “impaginare” graficamente con segni, simboli, loghi, caratteri, narrative riconoscibili dal pubblico anche prima di ascoltare gli annunci o seguire tg e programmi.
Cos’altro è, in effetti, il gomitolo multicolore della sigla del Tg2, composto raccogliendo i fili colorati e materici nella allegoria della sfera-mondo: quasi a rivendicare la pluralità transculturale di una informazione che intende essere globale? O la testina Ibm rotante nello spazio, la sfera-informazione del Tg3: accompagnata dal sonoro “spaziale” in loop di Brian Eno? O le luci che progressivamente si abbassano su una città geometricamente astratta e decolorata in bianco e nero apparsa al fondo del tunnel virtuale de La notte della Repubblica?
Oggi una tale esperienza comunicativa ed espressiva si è persa del tutto: in favore di una grafica più omologata e a-significante piuttosto che narrativa. Forse perché – nell’epoca del Web, dei social media e delle piattaforme – è tutto più frammentato, rapido, dis-locato, a-temporale. E forse perché lo “zapping” degli anni Novanta si è trasformato nella fruizione “on-demand” di oggi. Al punto che i concetti stessi di rete tv o di canale televisivo – un tempo forti anche sul piano istituzionale – iniziano a non avere più senso. Almeno per le fasce di pubblico giovanissime che libri, giornali, radio, tv, film, musica, video, attualità ed eventi, li fruiscono – mescolandoli – solo attraverso il web e tramite i dispositivi mobili.
Nel 1986 Mario Sasso recupera, ad esempio, una pratica dai padri nobili dell’arte contemporanea, reinterpretando, originalmente, per la televisione, quel “mostrare il meccanismo”, quel dichiarare gli elementi costitutivi del dispositivo linguistico e percettivo sul quale si è costruita l’opera, come parte integrante dell’opera stessa. Per il principale programma d’arte di RaiUno, Grandi Mostre, ha “messo in mostra”, sull’immagine della Gioconda (evocata come simbolo stesso dell’Arte, perché conosciuta anche dal grande pubblico) il meccanismo della colorazione e della grafica elettronica: l’allora neonato Paintbox. Negli anni Novanta, per la sperimentazione RaiSat, esplicita il countdown: i dieci secondi di “conto alla rovescia” che il pubblico in genere non vede, ma che il programmista della messa in onda utilizza per il suo lavoro. Dieci secondi di immagini. E su un tempo così apparentemente stretto, Sasso ha convinto altri artisti a concentrare una narrazione che fosse introduzione al programma di riferimento e interpretazione – assolutamente libera sul piano artistico – del “genere”. Su questo tempo brevissimo – i “video d’artista” più corti della storia – si sono misurati, senza rinunciare alle rispettive poetiche e al “segno” distintivo di ciascuno, anzi amplificandoli: Gianfranco Baruchello (Film), Alighiero Boetti (Memory), Mario Canali (Documentary), Enzo Cucchi (Soap Opera), Emanuele Luzzati (Theatre), Ugo Nespolo (Musica Jazz, Pop, Rock), Nam June Paik (Proxima), Luca Patella (Scienze Nature), Fabrizio Plessi (Fiction), Giacomo Verde (Classical Music), Studio Azzurro (East Europe) e lo stesso Mario Sasso (Magazine e Ballet).
Dal punto di vista produttivo gli autori hanno realizzato uno storyboard delle dieci immagini, Sasso ne ha seguito la lavorazione in post-produzione elettronica e il compositore Nicola Sani ha ulteriormente interpretato le immagini con sequenze musicali e sonore specifiche per ciascun video. Una operazione a suo modo rivoluzionaria, al tempo stesso di inedita scrittura televisiva, di interpretazione del palinsesto e di de-strutturazione del flusso.
Quando incontro gli artisti che hanno partecipato a quella esperienza, sento che manca loro lo spiazzamento che creammo nella routine del lavoro artistico cui erano abituati, che manca lo stimolo che l’esperienza di RaiSat diede loro; e questo, anche se alcune delle nostre idee di allora sono state molto banalizzate sia nelle reti Rai che su quelle delle tv private, è una soddisfazione per quanto abbiamo fatto13.
- M. Sasso, Autoritratto. Una conversazione con Marco Maria Gazzano, in M. M. Gazzano (a cura di), Mario Sasso. Architetture elettroniche. La Città, la Televisione, catalogo della mostra, Sedac/ Associazione Mara Coccia, Roma 1994, pp. 115-123. ↩
- Cfr. M. M. Gazzano (a cura di), Mario Sasso. Architetture elettroniche. La Città, la Televisione, cit. ↩
- V. Fagone, L’artista visuale nell’età dei media elettronici, in M. M. Gazzano (a cura di), Mario Sasso. Architetture elettroniche. La Città, la Televisione, cit., pp. 15-16. ↩
- M. M. Gazzano, La vocazione intermediale di un pittore in tv, in Id. (a cura di), Mario Sasso. Architetture elettroniche. La Città, la Televisione, cit., pp. 11-13. ↩
- Cfr, A. Grasso, La Televisione, Garzantine, voce “Sigle tv”, Garzanti, Milano 1996. ↩
- C. Mari, “Visualità tecnologica”: percorsi di ricerca sulla grafica delle sigle televisive nei primi decenni di trasmissioni Rai, in «AIS/Design. Storia e Ricerca», n.8, ottobre 2016, pp. 1-23. ↩
- C. L. Ragghianti, La Televisione come fatto artistico [1955], in Id., Arti della visione, I: Cinema, Einaudi, Torino 1975. ↩
- Cfr. A. Grasso (a cura di), Storie e culture della televisione italiana, Mondadori, Milano 2013. ↩
- M. Senaldi, Arte e televisione. Da Andy Warhol al Grande Fratello, Postmedia books, Milano 2009, p. 29. ↩
- Cfr. S. Lischi, La lezione della videoarte. Sguardi e percorsi, Carocci, Roma 2019, pp. 35-53: capitolo nel quale si ricorda, tra gli altri contributi, anche quello di Mario Sasso. ↩
- Aa. Vv., Contro la TV. Venticinque miti da sfatare, «Link. Idee per la televisione», n. 25, novembre 2019. ↩
- F. Fazio, Riparto da RaiTre, è stata la mia scuola, a cura di Silvia Fumarola, in «la Repubblica», 17 luglio 2020, p. 32. ↩
- M. Sasso, Autoritratto, in M. M. Gazzano (a cura di), Mario Sasso. Architetture elettroniche. La Città, la Televisione, cit., p. 121. ↩