Il contributo offre una panoramica del modo in cui gli artisti visivi sono intervenuti nella produzione televisiva e all’interno dei suoi specifici linguaggi audiovisuali. Sullo sfondo di alcune celebri e prolungate esperienze internazionali, la riflessione è focalizzata sulla televisione italiana tra gli anni Sessanta e Settanta. Integrazione, sperimentazione, decostruzione sono alcune delle categorie in cui tali interventi possono essere rubricati, in relazione al modo in cui pittori, scultori e artisti multimediali hanno inteso rapportarsi alla tv, da un lato attirati dalle potenzialità comunicative e tecnologiche del mezzo, dall’altro critici rispetto a quel tipo di universo visuale e di offerta culturale in generale. In tale medesima posizione si colloca anche Alfredo Di Laura, regista televisivo autore della trasmissione Avanguardie ’60: un caso di studio particolarmente rappresentativo sia come innovativa lettura della seminale mostra d’arte contemporanea, Lo spazio dell’immagine, sia per la marginalizzazione nel palinsesto. L’intento del contributo, inoltre, è anche rimarcare l’inefficacia di formulazioni critiche che nell’assimilare la televisione alla tecnologia elettronica tout court assorbono peculiari esercizi formali, nati in dialettica con il pervasivo mezzo di comunicazione di massa, all’interno della più ampia storia della videoarte.
Parallelamente alla comparsa del televisore nelle abitazioni dei cittadini statunitensi ed europei, il nuovo elettrodomestico fa capolino anche nelle arti visive: dal celebre Just what is it that makes today’s homes so different, so appealing? (1956) di Richard Hamilton, agli schermi di Titina Maselli, Fabio Mauri, Mimmo Rotella, Mario Schifano, dei poeti visivi, della cosiddetta Nouvelle figuration francese, fino all’enigmatico Ming (1999) di James Turell, passando per i TV dé-coll/age di Wolf Vostell o Images from the Present Tense I (1971) di Douglas Davis. Numerose quindi le testimonianze circa l’interesse non occasionale per tale nuovo strumento di produzione e diffusione di immagini, che affianca la fotografia e il cinema e, alla stregua di quest’ultimo e della radio, entra nel sistema dei media, in un intreccio via via più rilevante di interessi economici e politici.
Tale peculiare funzione di mezzo di comunicazione di massa ispira diversi artisti, sebbene dagli anni Sessanta vi siano anche coloro che si concentrano prevalentemente sulla
tecnologia di registrazione e trasmissione delle immagini o dialogano con la struttura industriale che ne incarna il volto pubblico: la televisione. Un fenomeno che oltrepassa i cosiddetti videoartisti, basti pensare all’interesse di Andy Warhol1, culminato nella Andy Warhol’s television in onda dal 1980 al 1982 su un canale via cavo newyorkese, caratterizzata dall’impiego delle specificità comunicative del mezzo per promuovere la popolarità propria e di suoi protetti, la cui eco sembra ancora risuonare in Sopravvivere (1999) di Nicola Pellegrini in rapporto simbiotico/antagonista con la soap-opera Vivere di Canale 5, letto da Giorgio Zanchetti come tentativo «di snaturare e di rivolgere in positivo il ripetitivo meccanismo della serialità e il limitato orizzonte di scambio […] caratteristici del mezzo televisivo»2.
Televisore e televisione – nonché immagine elettronica – sono invece difficilmente separabili nei lavori di Antoni Muntadas, per esempio, che dall’inizio degli anni Settanta interagisce incessantemente con le forme e gli strumenti della seconda, ma anche con l’onnipresenza del primo tanto nello spazio pubblico quanto nell’ambiente domestico3. Un discorso analogo riguarda, ancora esemplificando, Videotape & Excerpt from La Guardia Place (1977), videoinstallazione presentata da International Local (Sarah Charlesworth, Joseph Kosuth e Antony McCall) nell’ambito della rassegna Discussion alla New York University4. E, infine, come rubricare il caso di Peter Campus che si avvicina alla videoarte proveniente dall’esperienza professionale nella televisione commerciale5? Consapevole della grossolanità di tali distinzioni, nelle pagine seguenti mi limito ad alcune considerazioni d’insieme sui modi in cui gli artisti visivi hanno collaborato con la televisione, intesa come struttura produttiva, sedotti anche dalla possibilità di raggiungere un pubblico vasto, di gran lunga superiore a quello dell’arte contemporanea, delle gallerie o dei musei; un pubblico indifferenziato, generalista per l’appunto, come notato da Pierre Bourdieu, in riferimento all’attrattiva che la tv esercita sull’intellettuale. Il quale, per certi versi, accetta la relativa perdita di libertà o meglio di “controllo” su quanto detto affidandosi a giornalisti e direttori di rete che definiscono in ultimo il contesto di tale comunicazione6. Il contributo si conclude con l’analisi di un caso di studio – la puntata Foligno ‘67 della trasmissione Avanguardie ‘60 – in cui il regista Alfredo Di Laura propone una suggestiva e originale reinterpretazione di una miliare mostra d’arte contemporanea, mettendo in campo alcune peculiarità del linguaggio audiovisivo in chiave tanto sperimentale quanto divulgativa.
Dentro la struttura produttiva
At first glance artist’s video seems to be defined by the total absence of any of the features that define television (David Antin)
Nonostante una comune matrice tecnologica e talvolta la contiguità degli ambienti professionali7, sembra ermeneuticamente poco proficuo identificare videoarte e televisione sostanzialmente perché gli artisti hanno guardato sempre con sospetto alla tv broadcasting8. È noto, infatti, che nell’impiego creativo del videotape, come si chiamava negli anni Settanta, si coagulano sia le tendenze analitiche e decostruttive tipiche dell’approccio concettuale, sia l’attivismo politico e la controinformazione. In tale ottica la prima è pensata soprattutto per essere fruita in uno spazio pubblico, come la galleria e il museo, mentre la seconda è destinata inizialmente all’accesso casuale della fruizione domestica. Riguardo al pionieristico tentativo di diffusione televisiva di sperimentazioni artistiche, come per la seminale Fernsehgalerie Gerry Schum – coincidente con la trasmissione da parte della Sender Freies Berlin di Land Art nel 1969 – Ursula Waves, collaboratrice e per un paio d’anni moglie di Schum, ha sottolineato che essa incarna il paradosso di un’«art for, and at the same time against, television – namely not with destructive intention, but rather with the aim of sounding out the possibilities of the medium itself and sharpening perception»9. In altre parole, si tratta di lavori d’arte destinati alla diffusione televisiva, ma concettualmente e formalmente in opposizione alla televisione, al linguaggio audiovisivo, ai contenuti e ai tempi, alle formule narrative e rappresentative che all’epoca la caratterizzano.
Nonostante tale reciproca diffidenza, tuttavia, vi sono anche fortunate sinergie fra ricerca artistica e televisione. Oltre al celeberrimo ma occasionale esperimento di Lucio Fontana – presso gli studi Rai di Milano nel 1952, ovvero prima dell’avvio ufficiale delle trasmissioni nel nostro paese – si ricorda almeno il lungo sodalizio iniziato negli anni Cinquanta fra Jean-Christophe Averty e il servizio radio televisivo francese; nonché l’avvio presso la WGBH-TV di Boston, dal 1967, di un programma di artisti in residenza, proseguito negli anni Settanta con il finanziamento della Rockefeller Foundation, a cui partecipa anche Nam June Paik10. L’emittente tra il 1974 e il 1993 produce il New Television Workshop, spazio di sperimentazione che accoglie autori del calibro di Joan Jonas, Lynn Hershman, Stan Vanderbeek, Bill Viola e William Wegman, tra gli altri.
Tale workshop alla stregua di Vidéographie (1975) in Belgio – primo programma televisivo europeo consacrato esclusivamente alla videoarte – non ha equivalenti in Italia11, nonostante le attività del Settore Ricerca e Sperimentazione Programmi e la breve esperienza di RaiSat. Infatti, se consideriamo più da vicino le collaborazioni degli artisti visivi – una costellazione articolata che raccoglie pittori, disegnatori, scultori, grafici e videoartisti veri e propri – con la televisione può essere utile distinguere fra coloro che applicano ai linguaggi specifici della tv la propria creatività, rispetto a quanti, invece, intendono l’intervento creativo quasi come un’incongrua intromissione nel palinsesto.
Nel contesto italiano, al primo gruppo appartengono, per esempio, le consulenze di Ketty La Rocca per la trasmissione Nuovi alfabeti della Rai nel 1973, le molte sigle televisive di Mario Sasso, dei Giovanotti Mondani Meccanici, di Pablo Ecchauren e di Ugo Nespolo – per esemplificare – nella felice stagione della cosiddetta Television Art coincidente con gli anni Ottanta12, fino ai recenti lavori del collettivo Basmati, limitandosi alla televisione pubblica. In generale sono interventi convergenti con le modalità comunicative ed espressive della televisione, volti a sperimentare nuove declinazioni formali del lavoro dell’artista, magari arricchito da componenti sonore e dalle possibilità della postproduzione. Gli studi televisivi, difatti, schiudono un universo tecnico ed espressivo per lo più precluso ai privati: da tali frequentazioni originano prodotti visivi ibridi, in cui la creatività è incanalata in una rete di significati e vincoli estetici nonché economici dovuti al contesto in cui prendono corpo per essere proposti al pubblico. È lecito chiedersi, a tal proposito, in che misura gli artisti abbiano saputo dialogare da pari a pari con la committenza, magari decostruendo l’architettura del palinsesto in quello che Françoise Parfait ha definito come scambio di strumenti versus idee, visto che «les artistes ont été disséminés, détournés, éparpillés et mixés dans le tambour de la machine»13. Se a questo si aggiunge che non di rado gli artisti medesimi hanno preferito sorvolare su tali collaborazioni, ritenute probabilmente non abbastanza autoriali, il risultato è una conoscenza puntiforme di tali convergenze, anche nell’ambito degli studi massmediologici. Mentre gli storici dell’arte si stanno affacciando solo di recente su tale terreno, ed è ancora lontano un sia pure sommario censimento limitatamente all’Italia, dove fino agli anni Ottanta esiste quasi soltanto la tv pubblica, un dato che faciliterebbe tale studio14. Lasciando da parte le numerose esperienze di tv locali alternative, diffuse soprattutto negli USA grazie alle trasmissioni via cavo e che alimentano l’entusiasmo per la controinformazione ben oltre gli anni della contestazione15, al secondo gruppo, cioè interventi che in qualche modo spiazzano le logiche del palinsesto, si possono ricondurre il Televisore che piange (1972) di Fabio Mauri16, mentre all’estero sono noti i TV Interruptions: 7 TV Pieces di David Hall (1971) e il TV Haijack di Chris Burden (1972). Quest’ultimo, l’anno seguente, propone TV AD [tv advertising], un’operazione détournante tramite la quale, dopo aver acquistato degli spazi pubblicitari televisivi, vi trasmette – privi di commento o spiegazione – brevi estratti delle riprese delle sue performance che raggiungono così una platea altrimenti inimmaginabile. Al medesimo coté di sovversione delle logiche della comunicazione televisiva appartiene anche l’Analisi di un notiziario locale per una tv via cavo, promossa da Dan Graham e Dara Birnbaum nel 198017 o il contributo di Bill Viola al New Television Workshop: ritratti domestici di spettatori televisivi, davanti al monitor, in silenzio e sostanzialmente immobili che “guardano” lo schermo. In Reverse Television (1983), infatti, Viola capovolge il punto di osservazione: il televisore guarda il pubblico a casa e lo manda in onda. Alla stregua dell’originario disagio di Land Art all’interno del palinsesto anche in questo caso a creare tensione è soprattutto il silenzio della ripresa18.
Oltre la visualità
The greatest honor we can pay television is to reject it (Douglas Davis)
Recentemente Nicolas Bourriaud, in relazione a Philippe Parreno, ha ribadito che la televisione genera operazioni artistiche peculiari, specifiche in un certo senso delle condizioni mediali, tecniche e di diffusione19. E in effetti in quanto struttura produttiva e mezzo di comunicazione la televisione pubblica italiana ha rappresentato anche una cornice nella quale sperimentare nuove forme di comunicazione e rappresentazione, in particolare in relazione alle arti visive contemporanee.
In tale prospettiva un contributo significativo viene da Alfredo Di Laura, ideatore di trasmissioni caratterizzate da originali soluzioni narrative e visuali, regista attivo negli anni Sessanta e Settanta, capace di ibridare arte alta e linguaggi della divulgazione. Dopo gli esordi, dal 1959 collabora con Emilio Garroni alla conduzione di Le avventure dei capolavori e guida la serie di Incontri con diversi artisti, fra cui particolarmente significativo quello dedicato a Emilio Vedova20: in questi casi Di Laura evita le riproduzioni fotografiche delle opere o degli edifici, preferendo riprese dal vero con il 35mm (al posto del più maneggevole 16mm), in seguito sostituito dal nastro magnetico da 2”. Con il medesimo intento anti-didascalico non inquadra gli artisti quando li intervista, lasciando spazio alle opere e costruendo piuttosto un «visto-detto»21 basato sulla stretta integrazione di registro verbale e visivo. Di Laura, inoltre, segue con regolarità le edizioni della Biennale di Venezia dal dopoguerra agli anni Ottanta, di cui è rimasta negli annali l’innovativa impostazione delle cinque puntate di Biennale rosa22, dedicate alla rassegna Attivo. Performance e dibattiti, curata da Tommaso Trini all’interno della mostra Attualità internazionali 1972-1976, in occasione della XXXVII edizione della esposizione veneziana. In questo caso, il regista adotta un approccio radicalmente diverso dal resto dell’informazione televisiva, contraddistinta da scetticismo, superficialità e travisamento delle opere, con punte di vera ostilità in particolare verso tale rassegna23. Al contrario Biennale rosa riesce a portare anche il neofita all’interno delle logiche dell’interazione fra arti visive e corpo, sfruttando sapientemente le possibilità della ripresa televisiva in rapporto all’improvvisazione e all’azione live, alternando la registrazione delle azioni dal vivo alle approfondite interviste in cui gli artisti illustrano motivazioni e obiettivi, scelte formali e assonanze, e talvolta rielaborano a vantaggio dell’intervistatore l’esperienza appena compiuta. Dal 1979 Di Laura collabora con Anna Maria Cerrato alla trasmissione Grandi Mostre mentre nell’estate di quell’anno vanno in onda le tre puntate di Avanguardie ’60, in seconda serata, sul primo canale televisivo24. La prima di esse, intitolata Foligno ’67, è dedicata alla celebre esposizione Lo spazio dell’immagine25 attraverso brevi filmati d’epoca girati negli ambienti espositivi o appena fuori Palazzo Trinci con gli artisti, e l’“esecuzione” da parte di quattro mimi delle opere d’arte «disperse, irripetibili o addirittura distrutte»26.
Al di là di tale escamotage narrativo, tuttavia, Di Laura punta alla «metafora retorica»27 sull’esempio dei Quadri di un’esposizione di Modest Petrovic Musorgskij: partendo dal «sommario catalogo» della mostra, da fotografie e riprese documentarie, il regista mette in campo un’originale strategia interpretativa/rappresentativa che consente di comprendere le radicali trasformazioni in atto intorno alla metà degli anni Sessanta nell’arte contemporanea. Il risultato è un insolito rapporto fra documentazione visiva dell’opera, spazio espositivo e corpo umano in movimento: i mimi Claudio Conti, Jerry Di Giacomo, Valerio Festi e Valeria Magli «senza intenzioni didascaliche o esegetiche, a volte agiscono fornendo concetti di spazio o di volume, oppure propongono situazioni di luce, di colore, di suono. L’azione mimica fa parte di una ricerca linguistica sulle possibilità dell’analogia televisiva»28. In altre parole Di Laura costruisce un percorso attorno alle specificità dello spazio televisivo, dei linguaggi audiovisivi e delle possibilità di montaggio e trasmissione a distanza, reso ancora più urgente dalla già richiamata scelta di opere d’arte – dalle fonti definite ambienti plastico-spaziali29 – bisognose più di altre dell’esperienza diretta e fisica, non riducibile al primato della vista. D’altronde, nell’introdurre la manifestazione, Umbro Apollonio va anche oltre: «credendo alla interdisciplinarità delle operazioni creative […] giudichiamo incongruenti ed inaccettabili quelle forme che figurano uno spazio scenografico, si riducono a mero accomodamento ornamentale oppure a semplice applicazione dispositiva»30. Mentre gli altri critici coinvolti fanno riferimento agli environment, alle strutture primarie, all’im-spazio, o allo spazio teatrale in quanto agito. E perfino alcune illustrazioni del catalogo, in effetti, sottolineano l’interconnessione fra corpo umano e opera d’arte, come nel caso di Gabbia di Mario Ceroli, di In cubo di Luciano Fabro e di 32 mq di mare circa di Pino Pascali. Pertanto, non è da escludere – oltre alla familiarità di Di Laura con questo tipo di opere e manifestazioni – che anche tali fotografie abbiano sollecitato il suo approccio originale alla mostra. Nella puntata Avanguardie ’60: Foligno ’67 – quasi un’ora che mette alla prova le odierne abitudini della spettatorialità televisiva adusa a ritmi più serrati – a parte il ricorso a musiche, suoni e rumori di carattere suggestivo che solo in qualche passaggio banalizzano l’operazione, i mimi si muovono negli ambienti storici di Palazzo Trinci con rari cedimenti alla dimensione spettacolare e piuttosto con l’impegno costante e talvolta surreale nel conformarsi alle opere d’arte di cui eseguono le interpretazioni. Valeria Magli, infatti, ricorda che Di Laura era convinto che gli ambienti non potessero essere semplicemente osservati e pertanto neppure classicamente ripresi dalla telecamera alla stregua di un quadro o una scultura31: gli ambienti esposti a Palazzo Trinci andavano esperiti, erano in relazione con il corpo e tale relazione doveva essere esplicitata anche nella rievocazione televisiva. Non stupisce il coinvolgimento di Magli, eccezionale danzatrice e performer, dedita a contaminazioni con la poesia sonora e le arti visive che l’avevano condotta a collaborare con Nanni Balestrini, tra il 1978 e il 1980, e ancora nel 1985. Mentre qualche anno più tardi interpreta VALERIAscopia o dell’amMAGLIattrice. VideoPoesia TeleBallerina, primo video della trilogia majakovskijana di Gianni Toti, prodotto dal Settore Ricerca e Sperimentazione Programmi della Rai32.
Tornando alla puntata di Avanguardie ’60 qui analizzata, Lo spazio dell’immagine è una delle mostre fondamentali nella definizione della nuova fenomenologia artistica, gli ambienti praticabili, e costituisce un’occasione significativa di confronto su questo terreno di ricerche divergenti – nota prontamente Germano Celant33 – come quelle condotte da Lucio Fontana, dagli esponenti dell’Arte cinetica e programmata, dalla cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo e da coloro che qualche mese più tardi sono raccolti sotto l’etichetta di Arte povera34. Proprio rispetto a Fontana colpiscono i pochi secondi in cui l’inquadratura è completamente oscurata dalla tela tesa in maniera imperfetta davanti all’obiettivo e sulla quale l’artista interviene “bucando” e infine tagliando con la modalità resa celebre dai Concetti spaziali. Sulla scorta di Mistero Picasso (1956) di Henri-Georges Clouzot – e ancora prima di Jackson Pollock al lavoro, immortalato da Hans Namuth – lo schermo tv viene idealmente equiparato alla superficie pittorica con, in questo caso, la retroilluminazione che esalta il procedimento innovativo e dirompente di Fontana. Tale minuto e mezzo di repertorio potrebbe risalire direttamente alla mostra del 1967 o, forse, all’anno precedente quando l’artista viene premiato alla Biennale di Venezia proprio per l’ambiente a pianta ovale realizzato con Carlo Scarpa. Tuttavia, rispetto all’assunto di apertura circa la necessità di non affidare l’esperienza estetica di tali lavori avvolgenti al primato della vista, Di Laura si trova evidentemente in difficoltà nel riprodurre la «camera nera»35 rappresentata dal ricostruito Ambiente spaziale (1949) di Fontana, ricadendo nell’impiego «dei valori di schermo o di superficie propri del quadro o di quelli di rilievo e di volume propri della scultura»36 inappropriati in tale contesto come la critica ripetutamente sottolinea e Di Laura è ben consapevole.
Riflettendo sul confronto fra l’esposizione folignate e la restituzione proposta da Di Laura, si nota anche la radicale differenza nei confronti del contesto architettonico: i visitatori della mostra entrando nell’opera-ambiente si isolavano dall’edificio monumentale, sia per la natura delle opere sia per la struttura predisposta dagli architetti allestitori, Lanfranco Radi e Fabrizio Bruno37, tanto che Lara-Vinca Masini scrive dell’environment in termini di «suggerimento di spazio, che presuppone, [ma] non investe lo spazio dell’architettura»38. Al contrario la rievocazione dei mimi proposta da Di Laura si svolge proprio negli ampi locali vuoti ma decorati di Palazzo Trinci, creando un peculiare effetto di intarsio e sovrapposizione, dagli esiti stranianti e surreali, quasi preludio a un’atmosfera postmoderna.
Oltre all’intersezioni fra linguaggi espressivi diversi, Avanguardie ’60: Foligno ’67 offre spunti di riflessione sulla “documentazione” delle mostre temporanee: la fotografia, il film e il video sono infatti strumenti essenziali per ricostruire gli spazi espositivi, le opere in mostra, il rapporto fra gli uni e le altre, nonché quello del pubblico con tale complesso di elementi. Di Laura, tuttavia, non produce una vera e propria documentazione di Lo spazio dell’immagine, ma usa il catalogo – da cui Giovanna Mainardi legge fuori campo le didascalie e qualche altro minimo passaggio testuale – foto e filmati d’epoca per una inconsueta interpretazione di una manifestazione che viene proposta come oramai irraggiungibile, perduta per sempre e le cui opere sono convocate come spettri attraverso l’azione medianica dei mimi39. Questi ultimi, ad esempio, rievocano le forme di In cubo di Luciano Fabro (figg. Copertina-1), di Tubo di Eliseo Mattiacci (accompagnato dalla lettura fuori campo della poesia Tuberie di Farfa), di Blu abitabile di Agostino Bonalumi, oppure impiegano nella loro semplice gestualità materiali analoghi a quelli dell’opera come per Interpretazione speculare di Getulio Alviani (fig. 2). Nel caso di Camera stroboscopica multidimensionale di Davide Boriani, invece, Di Laura prova a emulare l’effetto visivo con la telecamera. Inoltre, per gli ambienti che si riferiscono alla natura Di Laura indugia sulla dimensione narrativa con scene ambientate in campagna come per Tappeto natura di Piero Gilardi (figg. 3-4), Naturale artificiale di Gino Marotta o 32 mq di mare circa di Pino Pascali (figg. 5-6), oppure facendo interpretare ai mimi gli uccelli che avrebbero potuto popolare la Gabbia di Ceroli. Costante, inoltre, il ricorso a suoni e rumori che in buona misura aiutano – insieme ai titoli e a qualche breve frase di commento, dovuta probabilmente allo stesso Di Laura – a contestualizzare le coreografie dei mimi, i quali – come si intuisce da alcuni passaggi della trasmissione – sono guidati e indirizzati dal regista nelle loro interpretazioni.
È noto che, nonostante le difficoltà che l’“oggetto esposizione” presenta alla ricerca storico-critica disponiamo ormai di molteplici fonti utili all’indagine e alla sua ricostruzione40, ma nel 1979, quando le manifestazioni temporanee di vario tipo erano considerate a tutti gli effetti eventi espressivi oltre che mondani, Di Laura rilegge in maniera autoriale Lo spazio dell’immagine, con un esito originale e difficilmente classificabile, nel quale però le potenzialità espressive del medium televisivo sono esplorate in maniera intelligente pur nella semplicità della tecnologia impiegata: nella puntata, infatti, si alternano immagini in movimento, montaggio di materiali visivi e sonori di repertorio, inquadrature di dettagli, interviste, testi poetici e così via, forzando il prodotto di intrattenimento in una direzione di solito ostica al grande pubblico, come la divulgazione dell’arte contemporanea. In conclusione, si può avanzare un paragone, dal punto di vista della restituzione audiovisiva di esposizioni d’arte contemporanea, con i Videogiornali (1973) della X Quadriennale nazionale d’arte di Roma, nati come televisione dal basso – in questo caso prodotti da Francesco Carlo Crispolti all’interno della sua articolata riflessione e sperimentazione di inizio decennio su tv indipendente e telecamera portatile – in cui Crispolti si sofferma sull’interazione del pubblico con le opere, spesso mobili, sovente spiazzanti, talvolta anche ambienti-azioni come nel caso di La spia ottica di Giosetta Fioroni di cui la telecamera coglie la curiosità suscitata nei visitatori. In questo caso, come per Di Laura, è l’operatore/regista a entrare in risonanza con le opere esposte e a coglierne quindi il divenire o le relazioni con il pubblico, senza lasciarsi andare alle osservazioni superficiali che punteggiano sistematicamente la stampa generalista41 I Videogiornali, tuttavia, non si prefiggono la messa in onda televisiva, ma piuttosto mirano alla distribuzione alternativa (e addirittura “interattiva”), simile a quella immaginata da David Ross per le emittenti museali, o alla micro-televisione di René Berger42 Avanguardie ’60: Foligno ’67, invece, viene mandata in onda in una calda notte d’estate, probabilmente ignorata dalla stragrande maggioranza dei telespettatori, a riprova della più volte sottolineata tendenza a marginalizzare all’interno del palinsesto i prodotti di ricerca che lo stesso servizio pubblico sostiene, vanificandone inevitabilmente le potenzialità di aggiornamento del gusto del pubblico e delle forme della comunicazione televisiva.
- Cfr. M. Senaldi, Arte e televisione. Da Andy Warhol al grande fratello, Postmediabooks, Milano 2009, pp. 61-77; A.L. De Simone, Andy Warhol’s TV. Dall’arte alla televisione, Mimesis, Milano 2017. ↩
- Cfr. G. Zanchetti, Non c’è musica nel Texas. Incursioni tra arte, video e televisione, in Id., La poesia non è una pipa…, Unicopli, Milano 2012, p. 188. ↩
- Cfr. E. Bonet, La televisión, de frente y de perfil, in Y. Romero, M. Villaespesa (a cura di), Muntadas: la construcción del medio y la pérdida de lo publico, catalogo della mostra, s.n., Granada 2008, pp. 14-29. ↩
- Cfr. A. Nosei Weber (a cura di), Discussion, Out of London, New York-Norristown-Milano 1977. ↩
- Cfr. R. Lorber, Epistemological tv, in G. Battcock (a cura di), New Artists Video. A Critical Anthology, Dutton, New York 1978, pp. 95-102. ↩
- Cfr. P. Bourdieu, Sur la télévision, Liber, Paris 1996. ↩
- Che per esempio facilitano i tentativi di riconversioni dei laboratori video della Galleria del Cavallino di Venezia o dello Studio 970/2 di Varese, in società di produzione o studi televisivi di emittenti locali: Cfr. L. Parolo, Videoarte in Italia negli anni Settanta. La produzione della Galleria del Cavallino di Venezia, Roma, Bulzoni 2019. ↩
- Cfr. G. Battcock, Introduction, in Id. (a cura di), New Artists Video. A Critical Anthology, Dutton, New York 1978, pp. XIII-XXII. ↩
- U. Wevers, Love Work Television Gallery, in U. Groos, B. Hess, U. Wevers (a cura di), Ready to Shoot Fernsehgalerie Gerry Schum, Snoeck, Cologne 2004, p. 44. ↩
- Per un quadro d’insieme ancora attuale cfr. F. Parfait, Vidéo: un art contemporain, Regard, Paris 2001. ↩
- Il cahier de dolèance verso la televisione pubblica è costante nel dibattito interno alla videoarte italiana: a puro titolo esemplificativo cfr. V. Fagone, Palazzo Fortuny. Video e televisione in Italia a confronto [1984], ora in Id., L’immagine elettronica, Feltrinelli, Milano 1990, pp. 205-207. ↩
- Cfr. S. Lischi (a cura di), Onda Video. La televisione e le nuove tecnologie, s.n., Pisa 1986; Ead., La lezione della videoarte, Carocci, Roma 2019, pp. 35-53. ↩
- F. Parfait, Vidéo: un art contemporain, cit., p. 29. ↩
- Storicamente più sondata, invece, la divulgazione dell’arte in televisione: cfr. A. Grasso, V. Trione (a cura di), Arte in tv. Forme di divulgazione, Johan&Levi, Monza 2014 (con relativa bibliografia); G. Manzoli, C. Marra (a cura di), L’arte mediata: dal Critofilm al Talent Show, «Piano b», v.s., n. 2, 2018 https://pianob.unibo.it/issue/view/785 (ultima consultazione 10.IV.2020). ↩
- Cfr. F. Parfait, Vidéo: un art contemporain, cit., pp. 38-39. ↩
- Cfr. C. Mari, Arte e televisione negli anni Settanta. Un esempio di intervento negli spazi della programmazione scolastica della Rai. L’happening di Fabio Mauri Il televisore che piange, in C. Casero, E. Di Raddo, F. Gallo (a cura di), Arte fuori dall’arte. Incontri e scambi fra arti visive e società negli anni Settanta, Postmediabooks, Milano 2017, pp. 253-260. ↩
- Cfr. V. Fagone (a cura di), Camere incantate, espansione dell’immagine, catalogo della mostra, s.n., Milano 1980, p. 53. ↩
- Cfr. V. Valentini (a cura di), Bill Viola. Vedere con la mente e con il cuore, Gangemi, Roma 1993; http://openvault.wgbh.org/catalog/V_657905F1A6E54FE9B2047BA89B300824 (ultima consultazione 9.IV.2020); R. Bellour, L’utopia video [1986], ora in Id. Fra le immagini. Fotografia, cinema, video, Bruno Mondadori, Milano-Torino 2007, pp. 49-63. ↩
- N. Bourriaud, Art, Cable and the Net. The Post-Tv Situation, in C. Costa (a cura di), TV70 Francesco Vezzoli guarda la Rai, catalogo della mostra, Milano, Fondazione Prada 2017, pp. 423-436. Sulla situazione italiana cfr. C. Perrella, TV 70: Francesco Vezzoli guarda la Rai, in Ivi, pp. 105-117. ↩
- Cfr. Alfredo Di Laura [intervista], in L. Bolla, F. Cardini (a cura di), Le avventure dell’arte in tv. Quarant’anni di esperienze italiane, Eri, Roma 1994, pp. 139-151 (ringrazio Chiara Mari per aver facilitato l’accesso a tale testo durante il confinamento 2020); ma cfr. anche «Radiocorriere TV», n. 13, 1959, p. 34; n. 37, 1969, p. 66; n. 33, 1980, p. 83. ↩
- Cfr. Alfredo Di Laura [intervista], in L. Bolla, F. Cardini (a cura di), Le avventure dell’arte in tv. Quarant’anni di esperienze italiane, cit., p. 142. ↩
- Biennale rosa va in onda sulla prima rete nazionale, tra settembre e ottobre 1976, in seconda serata: cfr. F. Gallo, Il video nelle mani del performer: uno sguardo alla situazione italiana, in Ead., C. Zambianchi (a cura di), L’immagine tra materiale e virtuale. Contributi in onore di Silvia Bordini, Campisano, Roma 2013, pp. 125-135. ↩
- Le difficoltà dell’arte contemporanea in tv sono colte per tempo da Francesco Vincitorio, per esempio: cfr. Editoriale, in «Nac. Notiziario Arte Contemporanea», n. 4, 1972, p. 1. ↩
- Avanguardie ’60: Foligno ’67, programma di Alfredo Di Laura, collaborazione di Anna Maria Cerrato, fotografia Mario Genna, montaggio Gianni Scorzelli. Sulla trasmissione cfr. «Radiocorriere TV», n. 27, 1979, p. 124 (3.VII.1979); «Radiocorriere TV», n. 28, 1979, p. 112 (10.VII.1979: puntata dedicata al Gruppo 63 e alle radici storiche della poesia che si fa suono-parola); «Radiocorriere TV», n. 29, 1979, p. 92 (17.VII.1979: puntata dedicata a Nuova consonanza, non un documentario storico ma un racconto per immagini-suono). ↩
- U. Apollonio et al. (a cura di), Lo spazio dell’immagine, catalogo della mostra, Alfieri, Venezia 1967. La manifestazione è al centro di diversi studi storico-critici, tra cui si segnalano almeno I. Tomassoni (a cura di), Lo spazio dell’immagine e il suo tempo, Skira, Ginevra-Milano 2009; A. Troncone, La smaterializzazione dell’arte in Italia 1967-1973, Postmediabooks, Milano 2014. ↩
- Cfr. Alfredo Di Laura [intervista], Avanguardie ’60, in «Radiocorriere TV», n. 27, 1979, p. 124. ↩
- A. Di Laura in L. Bolla, F. Cardini (a cura di), Le avventure dell’arte in tv. Quarant’anni di esperienze italiane, Eri, Roma 1994, p. 150. ↩
- Cfr. «Radiocorriere TV», n. 27, 1979, p. 124 (scheda probabilmente redatta dal medesimo Di Laura). ↩
- Cfr. U. Apollonio et al. (a cura di), Lo spazio dell’immagine, cit., colophon. ↩
- U. Apollonio, Oggetti plastici-visuali e la loro predestinazione, in U. Apollonio et al. (a cura di), Lo spazio dell’immagine, cit., p. 8. ↩
- V. Magli in conversazione telefonica con chi scrive, 13.IV.2020. ↩
- Cfr. S. Moretti, Gianni Toti, prime sperimentazioni di un poetronico, in «Engramma», n. 145, 2017 (ultima consultazione 10.IV.2020). ↩
- Cfr. G. Celant, L’«Im-spazio», in U. Apollonio et al. (a cura di), Lo spazio dell’immagine, cit., pp. 20-21. ↩
- Cfr. I. Tomassoni (a cura di), Lo spazio dell’immagine e il suo tempo, cit. ↩
- G. Marchiori in U. Apollonio et al. (a cura di), Lo spazio dell’immagine, cit., p. 1. ↩
- G. De Marchis, Lo spazio dell’immagine, in U. Apollonio et al. (a cura di), Lo spazio dell’immagine, cit., p. 23. ↩
- Cfr. G. Dorfles in U. Apollonio et al. (a cura di), Lo spazio dell’immagine, cit., pp. 25-26. ↩
- L-V. Masini in U. Apollonio et al. (a cura di), Lo spazio dell’immagine, cit., p. 38. ↩
- Nell’ordine i mimi interpretano i lavori di Luciano Fabro, Lucio Fontana, Ettore Colla – l’unico con riprese fuori da Palazzo Trinci, cioè presso le acciaierie di Terni – Getulio Alviani, Gabriele De Vecchi, Tano Festa, Eliseo Mattiacci, Piero Gilardi, Gino Marotta, Alberto Biasi, Davide Boriani, Gianni Colombo, Gruppo MID, Gruppo N, Pino Pascali, Enrico Castellani, Mario Ceroli, Michelangelo Pistoletto, Agostino Bonalumi, Romano Notari, Paolo Scheggi. Tale successione non corrisponde all’ordinamento alfabetico adottato nel catalogo, con la sola eccezione di Colla e Fontana posti in apertura in ragione della funzione inaugurale delle loro ricerche per le nuove generazioni. ↩
- Cfr. T. Casini, Un panorama variabile: fonti filmate per la storia dell’arte del XX secolo, in «Palinsesti. Contemporary Italian Art On-line Journal», n. 1, 2011, http://www.palinsesti.net/index.php/ Palinsesti/article/view/20/15 (ultima consultazione 20.V.2020). ↩
- Cfr. F. Gallo, I Videogiornali della X Quadriennale, tra documentazione e autorialità, in «L’Uomo nero», n. 14-15, 2018, pp. 289-302. ↩
- Cfr. D. Ross, A provisional overview of artists’ television in the U.S., in G. Battcock (a cura di), New Artists Video. A Critical Anthology, Dutton, New York 1978, pp. 138-165; V. Fagone, Presentazione, in R. Berger, Il nuovo Golem. Televisione e media tra simulacri e simulazione, Raffaello Cortina, Milano 1992, pp. IX-XVII. ↩