La prima versione di questo saggio è apparsa in inglese nel volume A Live Gathering: Performance and Politics in Contemporary Europe, a cura di Ana Vujanovic e Livia Andrea Piazza (b_books verlag, Berlino 2019). Il testo qui pubblicato è stato tradotto da Flora Petrolo e revisionato, in parte rimaneggiato, dall’autrice.
Il mio testo esplora l’idea del “domestico della performance”: facendo un uso inventivo della lingua, parlo di “domestico” per suggerire che l'insieme delle attività associate all'organizzazione, al mantenimento e all'abitare di una casa costituiscono una categoria a sé stante, e che, come per l'organizzazione, il mantenimento e l'abitare di una polis, questa categoria non è qualcosa di dato, ma un campo di lotta e di immaginazione. Propongo di pensare al “domestico” come un campo operativo e discorsivo per riflettere sulla performance come tecnica per immaginare modi di vivere e lavorare insieme, non (solo) in termini di consenso democratico, ma piuttosto in termini di prossimità, organizzazione di sussistenza materiale e modi di abitare, nel tempo e nello spazio. Questa proposta ha a che fare con la necessità di rivendicare il ruolo delle arti performative come laboratorio di riproduzione sociale, oltre che luogo di produzione, affermando essenzialmente che questi due concetti non sono affatto separati, ma intimamente connessi, complementari l'uno all'altro. Piuttosto che affrontare le “performance domestiche” – performance che si svolgono in case private, o che valorizzano la dimensione domestica rispetto alla sfera pubblica – in questo testo discuto di gesti che slegano l'idea di “casa” dall'ambito della vita privata, facendone uno strumento per pensare e costruire la vita pubblica. Tra questi la performance politica di Marichuy, il recente caso della Volksbühne di Berlino, l'opera performativa del gruppo colombiano Mapa Teatro.
Questo testo propone uno slittamento dei termini in cui il rapporto tra arti performative e politica è abitualmente affrontato e intende contribuire a una riflessione su cosa si intende per “politica delle arti performative”. Per cominciare, però, metterò da parte uno dei termini coinvolti in questo binomio, “Politica”, ponendo invece al centro della mia riflessione un altro concetto: quello di “Domestica”. Domestica è un termine che – al contrario di Politica – non costituisce un significante immediatamente associabile a una specifica sfera dell’esistenza. Nella sua versione sostantivata, l’aggettivo “domestico” in italiano indica una figura professionale, normalmente una persona addetta alla cura della casa.
Nell’accezione che tenterò di esplorare in queste pagine, invece, il termine Domestica compie una forzatura sul linguaggio, accogliendo risonanze possibili ma insolite, non intrinseche negli usi abituali. Parlando di Domestica, cioè, propongo che l’insieme delle attività volte a organizzare, mantenere e abitare una casa costituiscano una categoria in quanto tale e che, proprio come l’insieme delle attività volte a organizzare, mantenere e abitare una polis, questa categoria non sia data a priori, ma costituisca un campo di lotta e di immaginazione. Mettendo da parte il termine “politica”, nell’ambito di questo testo, non intendo affatto negare il potenziale politico delle arti performative. Al contrario, considero questo potenziale enorme. Ritengo però che per poterlo esplorare, oggi, sia necessario superare una certa saturazione linguistica che da qualche tempo caratterizza il discorso su arte e politica e i cui effetti, tuttavia, non sono meramente terminologici: è proprio il rapporto tra “il politico” e “il domestico” che a mio parere va attentamente ripensato, tanto nella politica quanto nell’arte.
Le pagine che seguono riflettono sulle possibilità insite nello slittamento del discorso da una “Politica delle arti performative” a una “Domestica delle arti performative”, tramite una ricognizione che spazia attraverso vari ambiti ed entra in dialogo con materiali diversi tra loro: procederò come se tirassi fuori dei vestiti – miei e altrui – da una cassettiera, lavandoli, provandoli, sperimentando le loro molteplici combinazioni e i loro possibili utilizzi, rammendandoli, ammucchiandoli per costruire castelli o letti temporanei, forse impacchettandoli per viaggi futuri.
Il domestico e il politico
Mentre scrivo questo testo (nell’estate del 2018) sui social media viene messa in atto una precisa strategia di denigrazione nei confronti di María de Jesús Patricio Martínez, meglio conosciuta come Marichuy, candidata indipendente alla presidenza del Messico durante le elezioni del 2018 e appoggiata congiuntamente dalle forze del Quinto Congresso Nazionale Indigeno (CNI) e dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale (EZLN). La candidatura di Marichuy è un fatto di estrema rilevanza politica: è la prima volta, dalla sua fondazione nel 1991, che l’EZLN appoggia una candidatura alle elezioni presidenziali (gli Zapatisti si sono finora mantenuti estranei alla competizione per il potere statale, privilegiando una strategia di lotta locale e progressiva acquisizione di autonomia e controllo indigeno sulle risorse regionali); è ancora più significativo che la candidata in questione sia una donna indigena, in un Paese dove da secoli sia gli indigeni che le donne vengono sistematicamente abusati, sfruttati e assassinati. Nata a Tuxpan, nello stato di Jalisco, Marichuy è erborista e guaritrice e da vent’anni è attiva politicamente nel movimento indigeno.
La strategia scelta per denigrare Marichuy su piattaforme digitali come Twitter consiste nel sostenere che assomigli a una donna delle pulizie. Su questa base nascono una serie di battute, che vanno da quanto sarebbe brava a “ripulire” il Paese dalla corruzione a quanto sia bizzarro vederla impegnata in una campagna elettorale piuttosto che ai fornelli. Il pregiudizio di classe e di razza al cuore di questa strategia è indicativo di un certo rapporto tra “politico” e “domestico”, che si manifesta prima di tutto sul piano della rappresentazione, ma il cui corollario è dato da giudizi di valore specifici rispetto alle capacità associate a questi due domini. Questa stessa terminologia è significativa di un certo modo di operare forme di violenza domestica nel dominio pubblico, spesso facilitate dall’immaterialità dei social network. La performance politica di Marichuy, d’altra parte, è significativa di una forza specifica inerente al campo del domestico.
È vero: Marichuy assomiglia a tante delle domestiche impiegate nelle case messicane, che come lei sono donne e indigene. Non è un insulto, né un segreto, né una novità: è semplicemente l’indice della vergognosa realtà su cui la società messicana, come tante altre, si basa: il fatto che il lavoro domestico sia distribuito in termini di genere e di razza. La somiglianza di Marichuy a una donna delle pulizie è quindi un fatto politico: l’associazione evocata da questi commenti razzisti è esattamente una delle ragioni per cui questa candidatura alla presidenza del Messico appare così significativa. Anche solo rimanendo a livello della rappresentazione, la pelle bruna di Marichuy, il suo modo di vestire e di parlare sono di per sé scandalosi. La sua candidatura fa sì che tali commenti, che sono reazioni allo scandalo che la partecipazione di Marichuy di per sé mette in atto, espongano un semplice fatto: il re è nudo. Oltre al rimando al lavoro domestico, il problema politico messo in luce dalla presenza di Marichuy nel dibattito pubblico è molto più ampio: i meccanismi di abuso e sfruttamento alla base delle relazioni domestiche sono infatti gli stessi che determinano l’espropriazione della terra e la distruzione delle risorse naturali da parte dello Stato, che da secoli, in Messico come altrove, minaccia la vita delle popolazioni indigene. Il pericolo per il pianeta che questi abusi rappresentano è un fatto denunciato dai movimenti indigeni da decenni, molto prima che il cambiamento climatico iniziasse a essere considerato una “questione politica”.
Per coloro che la denigrano, il legame esplicito tra Marichuy e una donna delle pulizie mira a mettere in discussione la sua capacità di fare politica: il presupposto di fondo è che non sia in grado di governare un Paese perché il mondo della politica le è estraneo. Appare quanto meno ironico, dunque, che in altri casi – per esempio nel debutto in politica di imprenditori come Trump o Berlusconi – lo status di outsider sia stato invece enfatizzato dai media che sostenevano questi candidati, in una logica secondo la quale una persona in grado di gestire bene un’azienda è sicuramente in grado di gestire bene un Paese. Tale equivalenza, però, sembra non valere per chi gestisce una casa: Marichuy e tutte le altre donne “che le somigliano” sono quindi utili nella sfera privata, ma sicuramente incapaci di gestire la cosa pubblica.
Fatto sta, tuttavia, che Marichuy non fa la donna delle pulizie; si occupa invece di politica, anche se le competenze che porta dentro alla sfera politica e l’esperienza che ha acquisito nei suoi molti anni di militanza sono su un’altra lunghezza d’onda rispetto alla politica intesa come detenzione del potere statale. Marichuy porta dentro alla politica un sapere propriamente domestico, nel senso che da vent’anni – in una lotta peraltro ereditata dai suoi familiari – si batte per immaginare una possibilità di “casa” per la sua comunità, in un territorio progressivamente resogli estraneo e tossico della violenza di investitori e grandi multinazionali, nel fatale abbraccio tra Stato e potere criminale. Marichuy incarna dunque la capacità di farsi casa anche quando la casa è stata rubata, distrutta, violata: una capacità di rinnovamento che le popolazioni indigene praticano da secoli e che solo di recente i media internazionali hanno iniziato a definire in termini espressamente “politici”.
Farsi casa significa anche farsi cassa di risonanza per altre voci: non è un caso che, in linea con la strategia comunicativa zapatista, Marichuy appaia sempre circondata da altre donne indigene, le quali anticipano le sue parole con il coro “todas somos Marichuy!” (“siamo tutte Marichuy!”). La “dignità ribelle”1 di Marichuy non funziona in una logica politica, almeno non se intendiamo la politica nel quadro di una temporalità legata al concetto di evento. Così come non funziona in una logica di rappresentanza: Marichuy presenta e rappresenta se stessa e milioni di altre perché è un milione di altre: la sua Domestica funziona non solo per loro, ma attraverso di loro. Anche se decidessero di non votarla alle elezioni, lei sarebbe tutte le donne delle pulizie evocate da quei tweet razzisti. Non rappresenta un’identità, ma piuttosto una soggettività in divenire: una soggettività politica capace di formarsi e trasformarsi di fronte a nuove emergenze. Marichuy è, anche, tutte le donne uccise durante la lunga campagna elettorale del 2018 e prima e dopo di essa: una dopo l’altra, come accade in Messico da decenni. Una dopo l’altra, come nella lunghissima, terrificante, ridondante descrizione clinica di cadaveri femminili rinvenuti nel deserto di Sonora, ammucchiati in una serie apparentemente infinita di pagine nel romanzo 2666 di Roberto Bolaño: uno dopo l’altra, uno spettacolo troppo faticoso da immaginare, che l’autore rende quasi insopportabile tollerare per chi legge, affinché non sia consentito dimenticare quanto impossibile sia anche solo parlare, leggere, pensare a queste serie infinita di femminicidi. Marichuy non si è neppure avvicinata a competere per la presidenza del Messico: non ha raccolto il numero di firme necessario ed è dunque stata esclusa dalla competizione elettorale. La sua Domestica, però, funziona nella logica di un’altra temporalità e non può essere misurata secondo parametri di efficienza o di successo: il suo è un processo di apprendistato e di costruzione di solidarietà, in Messico ma anche a livello internazionale. La Domestica di Marichuy traccia diversi confini della realtà, marcando la sfera pubblica attraverso lo sforzo collettivo di nominare una realtà del possibile, una realtà che esiste già da tempo immemorabile anche se non è mai stata riconosciuta come pubblica. Il suo farsi pubblico, in un certo senso, può considerarsi un atto performativo della Domestica incarnata da Marichuy: la sua performance politica funziona cioè al di là del linguaggio, o meglio è tesa a liberare il linguaggio – quello delle parole e quello dei corpi – da certi limiti, per evocare ciò che forse è ancora impensabile ma, di fatto, è perfettamente possibile.
Verso una nozione non addomesticata di domestico
Dal sostantivo latino domus, casa, l’aggettivo “domestico” designa letteralmente ciò che “appartiene alla casa”. In molte lingue, il termine “domestico” identifica anche le attività che si svolgono all’interno di una nazione, come nel caso dell’inglese domestic flight (volo nazionale). Un ulteriore significato del termine è legato all’idea di “domesticazione”, ovvero le pratiche di addomesticamento degli animali ai modi di vivere degli esseri umani. Il termine domestico porta con sé una lunga storia di disprezzo: fortemente associato a una divisione del lavoro in termini di genere e di razza, è un aggettivo particolarmente svalutato nel sistema patriarcale capitalista. È anche inscritto in un ordine linguistico fondato su una serie di dicotomie apparentemente naturalizzate e raramente viste per quello che sono, ovvero il risultato di processi storici: la distinzione tra privato e pubblico, tra locale e globale, tra riproduzione e produzione, tra banalità quotidiana e creatività indisciplinata.
Almeno a partire dalla rivoluzione industriale e con il simultaneo sviluppo dei centri urbani, l’organizzazione e la rappresentazione dell’attività creativa degli uomini nella vita pubblica è stata resa possibile da una separazione ideologica e pratica tra la sfera urbana e quella domestica. Tale separazione si basava da una parte su una retorica che pone qualità quali la mobilità, l’imprevedibilità e la libertà come intrinseche alla vita pubblica (Il pittore della vita moderna di Baudelaire è un esempio emblematico in tal senso) e la sicurezza, la routine e la stabilità come caratteristiche proprie della vita domestica. D’altra parte, tale separazione si basava sulla disponibilità di una massiccia forza lavoro domestica la quale, ironia della sorte, era costituita prevalentemente da donne migranti, dunque in movimento, che lasciavano le loro case per lavorare come domestiche in case altrui, nelle città. Questo è un processo che conosciamo bene e che persiste fino ai nostri giorni: la forza lavoro migrante a livello globale costituisce infatti la spina dorsale dell’economia internazionale. Ci è altrettanto familiare il lavoro domestico non retribuito che le donne da secoli svolgono nelle proprie case, durante il loro cosiddetto “tempo libero”: un lavoro di riproduzione messo in luce in quanto cruciale questione politica già dagli anni Sessanta, nella società come nel mondo dell’arte, da una lunga genealogia di teoriche e attiviste femministe (come Silvia Federici e l’International Wages for Housework Campaign) e artiste (come Mierle Laderman Ukeles nel suo Manifesto for Maintenance Art, 1969).
Nel riabilitare l’ambito del domestico mi interessa prendere in carico tutto il peso del disprezzo che il termine si porta dietro storicamente e mettere in discussione l’idea che la “sfera domestica” sia qualcosa di estraneo alla creatività, all’anomalia, allo straniamento e all’ignoto. Come suggerisce Krasny, oggi più che mai occorre riaffermare che “il domestico è politico”2. Allo stesso tempo, mi interessa espandere il campo semantico di questo termine verso significazioni che finora gli sono rimaste estranee: mi interessa pensare alla Domestica come dominio di immanenza radicale, come alternativa alla flessibilità globalizzata delle relazioni e del lavoro, come avamposto per ripensare il concetto stesso di casa. Desidero insomma inventare per questa parola una diversa politica di uso, rammendando da un lato il suo destino storico di discriminazione e dall’altro esplorando possibilità di riscatto futuro per tutte le attività a essa legate.
Desidero inoltre sganciare l’idea del domestico” dalla nozione di domesticazione, intesa come processo di restrizione, controllo e limitazione, secondo il significato che sottolineano, ad esempio, Deleuze e Guattari, nel cui paesaggio concettuale il domestico viene spesso ridicolizzato (in particolare, ma non solo, quando si parla di animali) e nel quale a un “individuo addomesticato” viene contrapposta “una molteplicità selvaggia”, in un panorama in cui la sfera domestica è associata alla famiglia tradizionale e alla psicoanalisi3. La mia intenzione è di invocare un domestico non addomesticato, un domestico selvaggio, fantasioso, imprevedibile. Un domestico che esiste, dunque, al di là della famiglia e della psicoanalisi: un domestico costruito, difeso e sostenuto da una molteplicità; un domestico non fondato sull’identità, ma su un modo di esistere che rende la vita umana possibile e desiderabile.
A una lettura attenta, in effetti, non può sfuggire che l’idea di un domestico non addomesticato è del tutto affine a quello che Deleuze e Guattari chiamavano “ritornello” (ritournelle): un sentirsi a casa temporaneo in un contesto in cui la «casa non è preesistente»4, il tracciare un cerchio che segna uno spazio interiore in cui un’azione può avere luogo aprendosi al tempo stesso a un futuro, «in funzione delle forze all’opera che il cerchio protegge»5. Come «la casa della tartaruga, la carapace del crostaceo» – immagini domestiche che Deleuze e Guattari usano per evocare diverse strategie di territorializzazione – anche l’idea di un domestico non addomesticato mira a delimitare un corpo-territorio che possa tenere a bada «il caos che minaccia di irrompere»6, ponendosi come barriera linguistica e critica allo stato delle cose. Immaginando una Domestica delle arti performative, penso alla Domestica queer del documentario di Albert e David Maysles, Grey Gardens, del 1974, in cui le protagoniste, ex-aristocratiche cadute in miseria, vivono in una casa in collina circondate da procioni e boa di piume, dove tra una patina di polvere e un glamour impossibile mettono in atto strategie di sopravvivenza allucinate, facendosi precariamente strada tra abbandono e autonomia. O ancora, penso alla fantasmagoria domestica di Jack Smith, che nel suo appartamento inscenò una radicale lotta politica e poetica contro ciò che chiamava “il mondo in affitto”, mobilitando il teatro come tecnologia del tempo contro gli abusi del capitalismo sullo spazio: il fenomeno incomprensibile che chiamava “proprietarismo”, la pretesa impossibile (e a suo avviso illogica)di “pagare l’affitto che non potrà mai essere pagato”, o di completare un’opera (che non potrà mai essere completa) in modo che possa essere collocata in un museo, in un libro, in un programma ed essere così associata a un nome, divenire cioè “proprietà”. In questo senso, penso al dominio del domestico anche come lo spazio di autonomia di un’opera prima che possa essere considerata un prodotto in uno specifico mercato di consumo.
Attraverso queste immagini, voglio richiamare un immaginario domestico che sia enigmatico e carico di storia, complesso e incandescente quanto la vicenda che dà vita allo spettacolo Lippy (2014), del gruppo irlandese Dead Centre: l’immagine di quattro donne che, per motivi apparentemente sconosciuti, si chiudono in casa e si suicidano. O meglio, che muoiono ognuna da sola ma l’una accanto all’altra, avendo deciso, insieme, di lasciarsi morire di fame.La storia viene dalla cronaca: è un frammento di imperscrutabile vita domestica, la fantasia impossibile della scena di morte di quattro sconosciute, i cui corpi in scena forniscono la matrice di una singolare fantasmagoria domestica. «Nel 2000, a Leixlip, una zia e tre sorelle si sono murate in casa strette in un patto suicida durato quaranta giorni. Noi non c’eravamo. Noi non sappiamo cosa si sono dette. Questa non è la loro storia»7, commenta Dead Centre nel programma di sala. Ma, chiaramente, lo spettacolo in sé suggerisce molto di più. Al di là della psicoanalisi (intesa come gabbia domestica), al di là della possibilità di distinguere tra individuo e moltitudine, nell’evocazione scenica di un gruppo di corpi che scelgono di morire insieme si manifesta qui una particolare storia domestica: quella della fame, così cruciale nella storia irlandese, sia come metafora che come effetto della miseria; quella stessa fame che è stata usata come arma di resistenza politica nei tanti scioperi della fame che hanno scandito la storia politica irlandese del secolo scorso. Quando Lippy va in scena, va in scena in quanto esempio di teatro politico? I suoi autori lo hanno concepito come tale? Non lo so. Quello che so è che la politica di questo lavoro mi interessa profondamente, proprio perché mobilita un certo tipo di Domestica. Mi interessa proprio il fatto che questa “non è la loro storia”: le donne di Lippy non divengono oggetto di analisi, né rappresentazione diretta di un momento biografico o storico. Sono però implicate in una certa modalità epistemica, una forma di conoscenza domestica acquisita pezzo per pezzo, con gli strumenti disponibili, che magari non sono quelli giusti, ma di cui ci si può servire, così come accade in molte case, dove oggetti del tutto svalutati dal mercato conservano intatta la loro funzione. Così come accade, in altre parole, quando un’economia dell’uso sostituisce un’economia del valore di scambio e forme inattese di sapere e capacità vengono a formarsi quasi per caso, non al lavoro, ma a casa.
Sentirsi “a casa”
L’idea di casa non è un dato di fatto: una casa è una cosa complessa. Può essere una questione di privilegio o di sopravvivenza; può essere un peso, una speranza, un limite, una tomba, molto altro ancora. Domandarsi come si possa riconoscere e configurare il senso di una casa, come debba essere gestita, chi ha il diritto di abitarvi e sotto quali condizioni significa porsi delle domande immateriali e al tempo stesso estremamente materiali: sono domande che chiamano in causa problemi che hanno a che vedere con gli affetti, con la rappresentazione, con la materialità dei corpi e la loro esclusione dagli spazi. Questo è quanto mai evidente in un’epoca come la nostra: un’epoca in cui, mentre si stanziano fondi per grandi mostre sulla “questione delle abitazioni”8, c’è chi continua a venire sfrattato quotidianamente da qualsiasi tipo di rifugio abbia identificato come casa: un rudere, una piazza, un ponte. Un’epoca come la nostra, in cui i luoghi tornano finalmente a essere occupati, quantomeno temporaneamente, rendendo la questione della “casa” di nuovo una questione pubblica: vengono occupati palazzi, teatri, immobili privati da tempo disabitati. Oggi più che mai chiedersi cosa sia una casa è una domanda di cruciale urgenza politica, nella vita così come nel teatro.
Ma che tipo di casa è necessario recuperare? Come tornare a parlare di casa prendendo le distanze dal sentimentalismo, dal nazionalismo, da qualsiasi orizzonte identitario? Sono utili in tal senso alcune riflessioni sviluppate alla fine degli anni Novanta da Suely Rolnik, che di fronte al mondo globalizzato e ai suoi stili di vita denunciava la scomparsa di uno specifico affetto: il sentirsi “a casa”. Qui Rolnik non fa riferimento a uno spazio fisico (benché il numero di esseri umani privati di uno spazio in cui vivere sia innegabilmente in continua crescita): ciò che chiama “casa” è piuttosto una «consistenza soggettiva, palpabile – una certa familiarità nei rapporti con il mondo, con certi modi di vivere, con significati condivisi […]. All’intera umanità globalizzata manca questo tipo di casa, invisibile ma non per questo meno reale»9. Secondo Rolnik uno dei nodi fondamentali in gioco nella sperimentazione di nuove modalità di soggettivazione, attraverso l’attività artistica e il pensiero critico, è la possibilità di elaborare una forma di “vaccino” contro il dominio neoliberista sui corpi e sui soggetti: un “vaccino” che possa distaccare «il senso della consistenza soggettiva da un modello di identità», prendendo le distanze «dal principio identitario-figurativo nella costruzione di un “a casa”»10. Proporre di chiamare “casa” una diversa consistenza soggettiva mette in discussione l’idea che esistano dei confini stabili che delimitano un territorio e mette a fuoco, allo stesso tempo, altri modi di percepire e di stare al mondo:
Costruire un “a casa” oggi implica operazioni ormai inattive nella soggettività occidentale moderna, ma familiari per la modalità antropofagica nella sua più attiva realizzazione: essere in sintonia con le trasfigurazioni all’interno del corpo, risultanti da nuove connessioni dei flussi; navigare a vista tra gli eventi che tali trasfigurazioni innescano; sperimentare disposizioni concrete di esistenza che incarnano queste mutazioni palpabili; inventare nuove possibilità di vita11.
In linea con le riflessioni proposte da Rolnik, propongo di chiamare “casa” una struttura di intelligibilità affettiva e di riconoscimento in cui sia possibile immaginare una coesistenza. Questo appare cruciale soprattutto affrontando seriamente la questione della migrazione, questione troppo spesso trattata tematicamente, ma di rado affrontata materialmente nelle arti contemporanee: il tema della mobilità, in questo contesto, rivela un profondo problema di classe, che potremmo estendere fino a comprendere forme più o meno consapevoli di neocolonialismo. Un esempio: mentre una sorta di “oligarchia globale”12 di curatori, artisti e altri lavoratori della cultura circola liberamente attraverso spazi e contesti, i migranti sono spesso invitati ad “autorappresentarsi” sul palco, cosicché le loro identità e soggettività vengono esposte nella sfera pubblica in una coincidenza alquanto discutibile. Sembra, dunque, che esistano due differenti regimi di mobilità e di rappresentazione: uno per chi cura e organizza, chi parla e chi scrive; un altro per chi viene rappresentato nel lavoro artistico, poco importa se curi, organizzi, parli o scriva.
Raramente, inoltre, l’effetto di tale “oligarchia” sui singoli contesti locali viene problematizzato e questo appare ulteriormente sintomatico di una necessità di ripensare l’idea di una Domestica in relazione alle pratiche performative e agli spazi in cui si sviluppano. Un esempio quasi emblematico in questo senso è il caso della nomina di Chris Dercon a nuovo direttore del Volksbühne di Berlino, un teatro che da oltre cento anni è stato non soltanto una casa per il teatro politico, ma per un teatro politico di una specifica tipologia: un teatro radicato in una tradizione marcatamente socialista. Il Volksbühne si trova in una zona significativa della città: a Rosa Luxembourg Platz, centro di quella Berlino Est il cui tessuto sociale è oggi quasi scomparso, divorato da processi simultanei di gentrificazione e rimozione storica. Nel corso di decenni di lavoro come stabile di repertorio, il Volksbühne ha intrattenuto una relazione molto peculiare con il proprio pubblico, una relazione locale e di continuità, un rapporto che rischia di spezzarsi definitivamente con l’arrivo del nuovo direttore: un curatore piuttosto estraneo al teatro, soprattutto al teatro di repertorio, che è per sua stessa natura ancorato al contesto locale e a un principio di continuità sia di produzione che di consumo. Il programma presentato da Dercon privilegia invece un certo “tocco cosmopolita”: non soltanto è caratterizzato dalla centralità dell’inglese globale, ma soprattutto è costellato di produzioni sviluppate per lo più altrove che il teatro ospita, come se fosse un festival permanente, come eventi e non più come fasi multiple di un processo. La nomina di Dercon – esperto curatore d’arte contemporanea, con un curriculum notevole che stringe l’occhio sia all’oligarchia globale che alla politica locale – fa capo all’intenzione di traghettare Berlino verso un ruolo di “capitale della cultura globale”. Questo episodio è sintomatico di come i modi di produzione delle arti performative si stiano trasformando, progressivamente ma sostanzialmente, assorbendo alcuni tratti strategici dell’economia neoliberista.
Non è questa la sede per un’analisi approfondita di tale trasformazione, né del caso Volksbühne. Vale tuttavia la pena ricordare che la nomina di Dercon è stata contrastata da una serie di azioni importanti che, in modi diversi, hanno rivendicato un’idea di teatro come casa, risignificando in modo interessante l’uso, ormai normalizzato nella lingua inglese, del termine house (casa) come sinonimo di teatro stabile: la prima, nella primavera del 2015, è stata una lettera aperta firmata da tutti i lavoratori del Volksbühne, nella quale si chiedeva al sindaco di Berlino di riconsiderare la nomina di Dercon; la seconda, nel settembre del 2017, è stata l’occupazione del teatro da parte di un gruppo di attivisti, che ha costretto la città a un dibattito pubblico sul significato della trasformazione di questo teatro e, più in generale, sulle politiche culturali attuate a tutti i livelli del settore pubblico. In queste azioni non leggo una banale difesa dello status quo, ma l’interrogazione di un’idea di “teatro del popolo”, prima di tutto in termini di produzione. Alla luce di questo contesto, alcune domande cruciali possono essere articolate: come difendere una continuità di lavoro e di produzione collettiva per lo spettacolo contemporaneo, nonché un rapporto tra produzione e consumo che sia più profondo del semplice prêt-à-porter? Come evitare che le modalità produttive dell’arte contemporanea cannibalizzino quelle del teatro, in un processo in cui la danza e la performance vengano utilizzate come armi fatali per lo smantellamento di una continuità, piuttosto che alleate e sorelle della pratica teatrale? E infine, come riconoscere e inventare nuove forme di “sentirsi a casa” a teatro? Ritengo che tali domande siano vitali per articolare un dibattito complesso su ciò che è locale e ciò che è globale, ciò che è nazionale e ciò che è cosmopolita, ciò che è innovazione e ciò che è tradizione. Credo che un’analisi del tessuto di certe pratiche teatrali, così come dell’assetto e della disposizione propriamente domestica delle relazioni sociali che le circondano e le sostengono, sia essenziale per costruire un “a casa” nel teatro. Un “a casa” inteso come struttura di intelligibilità affettiva e riconoscimento in cui una coesistenza divenga non solo rappresentabile, ma effettivamente sperimentabile.
Una Domestica delle arti performative
Questo testo articola un’intuizione: che l’idea di una Domestica possa servire per riflettere sulle arti performative in quanto insieme di tecniche volte a immaginare nuovi modi di vivere e lavorare insieme, non tanto nel senso di consenso democratico, ma piuttosto in termini di prossimità, organizzazione di sussistenza materiale e modi di abitare il tempo e lo spazio. Questa intuizione ha a che fare con la necessità, che sento fortemente, di rivendicare la posta in gioco delle arti performative come laboratorio di riproduzione sociale oltre che come luogo di produzione culturale, concetti che non sono in realtà separati, ma intimamente legati, essenziali l’uno all’altro. Questo comporta anche affermare, se ancora ce ne fosse bisogno, che il carattere effimero delle arti performative non le proietta oltre le relazioni di scambio, tutto il contrario: le rende molto idonee al neoliberismo contemporaneo, dove il valore dei beni immateriali è particolarmente prezioso e il lavoro richiede soggettività sempre più flessibili, forgiate sugli stessi comportamenti e capacità comunicative degli individui13.
Rivendicare la parola Domestica per una riflessione sul potenziale politico delle arti performative significa anche contrastare, almeno a livello discorsivo, una diffusa tendenza a concepire la scena principalmente come luogo di critica o meta-commento sull’esistente: sul neoliberismo, sul lavoro immateriale, sulle istituzioni, sul genere e così via. In altre parole, significa contrastare la continua riduzione della politica delle arti performative a denuncia delle malefatte del neoliberismo da parte di un insieme di pratiche che, tuttavia, ne rispecchiano le dinamiche in termini di organizzazione, divisione del lavoro e produzione di capitale culturale e simbolico. Un rispecchiamento che, altro effetto ancora più allarmante, fa sì che il discorso sulla produzione e sul lavoro si sostituisca progressivamente sia alla produzione che al lavoro. Pensare una Domestica delle arti performative implica recuperare un’attenzione materiale propria del costruire, abitare o difendere una casa. Si tratta dello stesso tipo di attenzione che caratterizza le numerose e importanti lotte per la casa che si sono succedute nell’ultimo decennio, spesso guidate, organizzate e portate avanti da migranti, ovvero da persone che vivono uno scarto tra l’idea di “casa” e quella di “abitazione”. L’oggetto del mio interesse, dunque, non è tanto un filone di “teatro domestico”, o l’insieme di performance che avvengono in case private o che valorizzano la dimensione domestica rispetto alla sfera pubblica, quanto piuttosto i gesti, le immagini e le circostanze performative volte ad annullare esattamente quella dicotomia nella quale la sfera domestica è stata storicamente intrappolata: mi interessano i gesti che sganciano l’idea di casa dall’ambito della vita privata e ne fanno uno strumento per pensare e costruire la vita pubblica.
La Domestica come campo del desiderio, o il meraviglioso reale
Anche se poco comune, l’idea di Domestica in opposizione a, o in mimetica assonanza con, la sfera della Politica non è una mia invenzione linguistica. L’ho incontrata in un testo in cui assume una precisa politica d’uso, della quale desidero mantenere il timbro. Il testo in questione è Sade, Fourier, Loyola di Roland Barthes14, in cui l’autore considera in parallelo il lavoro di questi tre autori eponimi tentando di sottrarli dalle economie di significazione in cui sono comunemente ricevuti e normalizzati (rispettivamente il sadismo, l’utopia politica e la religione), affrontando invece ciò che li accomuna, ovvero la formulazione di nuovi sistemi linguistici. L’invenzione che Barthes riconosce come caratteristica della scrittura del Marquis de Sade, di Charles Fourier e Ignazio di Loyola è anche la base per la costruzione dei mondi inventati rispettivamente da questi autori: in tutti questi casi, quello che a Barthes interessa sottolineare è un eccesso della scrittura, capace di costringere il mondo a confrontarsi con una radicale alterità in termini di immaginazione, comportamenti, affetti e linguaggio. Barthes sostiene che tale invenzione non è valida solo a livello estetico o concettuale, ma è vitale anche per il posizionamento sociale del testo, che, come ogni testo, non è mai neutro o innocente, poiché è sempre già condannato a svolgersi nello spazio e nel linguaggio dell’ideologia borghese (come del resto le arti performative):
L’intervento sociale di un testo (che non si attua necessariamente nel tempo in cui questo testo appare) non si misura né dalla popolarità della sua udienza né dalla fedeltà del riflesso economico-sociale che vi s’iscrive o che esso proietta verso qualche sociologo avido di raccogliervelo, ma piuttosto dalla violenza che gli consente di eccedere le leggi che si dà una società, un’ideologia, una filosofia per accordarsi a se stessa in un bel movimento d’intelligibilità storica15.
Nel caso di Charles Fourier, tale violenza si manifesta nel rifiuto radicale di interagire sia con la lingua che con le strutture dell’esistente nella società in cui viveva e dall’interno della quale articolava il proprio lavoro. Una delle espressioni di questo rifiuto è la scelta di concepire il proprio progetto utopico non nel campo della Politica (la politique) ma in quello della Domestica (la domestique). Questi due termini, però, vanno colti secondo il preciso significato che assumono nel pensiero di Fourier, che Barthes enuncia in questa maniera: «il campo del Bisogno è la Politica, il campo del Desiderio è ciò che Fourier chiama la Domestica»16. Questa è la specifica politica d’uso di cui sopra, che è importante non perdere di vista.
La scelta della Domestica rispetto alla Politica, per Fourier, ha significato doversi misurare con la questione del vivere e del lavorare insieme al di fuori dell’idea dominante sia di lavoro che di vita, nel tentativo di invertire non solo il rapporto tra desiderio e bisogno, ma anche quello tra privato e pubblico, tra famiglia e comunità, tra materiale e immateriale, tra reale e irreale. Nel dominio della Domestica il reale esiste al di là sia della realtà che del realismo. Questo è ciò che Barthes, con il suo tipico tocco interpretativo, chiama “il meraviglioso reale”: «il meraviglioso reale è precisamente il significante, o se si preferisce la “realtà”, marcata, rispetto al reale scientifico, dal suo strascico fantasmatico»17. Così il rifiuto di Fourier non è un rifiuto della realtà, ma piuttosto un tentativo donchisciottesco di considerare la “realtà” nel suo eccesso.
La rivoluzione politica che Fourier pregusta, prevede e prepara nei suoi scritti non ha la qualità dell’evento: è il lavoro persistente di rendere visibile e utilizzabile il “meraviglioso reale”. Questa svolta rivoluzionaria non è esattamente un’azione, almeno non se intendiamo l’azione con Hannah Arendt, per la quale era una categoria centrale della politica: una capacità intrinseca dell’essere umano come animale politico contrapposta sia al lavoro (che per Arendt era compito necessario, di sussistenza o riproduzione) che all’opera (con la quale intendeva il fare, il produrre, e quindi anche il fare artistico). Nella Domestica di Fourier, invece, così come in quella che queste pagine provano a rispolverare e reinventare, l’azione diventa una sorta di “fare” persistente: esiste in una temporalità che scarta sia l’orizzonte dell’evento sia una nozione messianica del futuro. Si tratta di un’immanenza radicale della produzione sociale, che riesce a tenere assieme il godimento sensuale e allo stesso tempo l’esecuzione dei lavori più sporchi e ripugnanti.
Il punto di partenza dell’impegno di Fourier a immaginare un’altra organizzazione sociale era la cognizione che quella che chiamava “Civiltà” era arrivata a un punto in cui non riusciva più a superare le proprie contraddizioni. Il “mondo civile” gli appariva non solo ingiusto, basato sullo sfruttamento, sull’oppressione delle donne da parte degli uomini e sulla repressione dei piaceri, ripetitivo e noioso, ma anche “improduttivo”, ovvero nemico della produzione stessa, intesa al di fuori del mostro della civilizzazione. Sono propensa a intendere tale produzione più o meno nei termini in cui il giovane Marx dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 e Bertolt Brecht dopo di lui articoleranno come un orizzonte di “produzione” il cui principale nemico è la “produttività”: una produzione concepita al di fuori e al di là del significato datogli dal capitalismo. In sostanza, si tratta di un’idea di produzione come processo di trasformazione della materia creativa, una forma di attività umana distintamente materiale, che coniuga il tempo individuale e quello sociale, prolungando e plasmando un mondo.
Poiché il mondo della “Civiltà” era immerso nelle sue stesse contraddizioni, nella sua opera Fourier decise di rifare il mondo: non cercando di correggere i modelli esistenti dell’ordine ingiusto delle cose, ma immaginando come le cose potrebbero essere pensate e fatte diversamente. Se la fantasmagorica organizzazione del lavoro secondo il piacere descritta con dovizia di particolari da Fourier nei suoi libri18 è difficilmente immaginabile come programma politico, si presta invece molto bene come lanterna magica in grado di illuminare altre potenziali modalità di coesistenza, che nella sua opera coinvolgono non solo gli esseri umani, ma anche animali, oggetti, piante e persino pianeti. Cruciale per un’operazione di questo tipo è una specifica temporalità – della scrittura e della coesistenza sociale – in cui «il dettaglio domestico e la portata del progetto utopico»19 sono essi stessi in grado di coesistere: contribuiscono a delineare una immaginazione del dettaglio che è forse «ciò che definisce specificamente l’utopia (in opposizione alla scienza politica)»20: un appassionato soffermarsi sulla materialità del piacere che diventa la base per differenti forme di vita.
Benché la bizzarra meticolosità di Fourier nel descrivere gli oggetti e le forme del suo nuovo modello di coesistenza sia spesso stata oggetto di derisione da parte di pensatori politici, a partire da Marx e Engels ne L’ideologia tedesca, proseguendo con Adorno – per via degli excursus su meloni o pavoni, le digressioni teoriche sul bergamotto, sulle pere, o su particolari pratiche agricole, o la raffigurazione di modi per addestrare una Legione Giovanile di ragazzini tra i nove e i sedici anni a fare lavori poco edificanti come raccogliere la spazzatura – è possibile leggere nella sua curiosità febbrile verso le cose del mondo (che diventano la materia creativa per plasmare un altro mondo) un capovolgimento radicale delle procedure e del linguaggio della politica, nonché una chiave per delineare cosa potrebbe essere “una Domestica delle arti performative”. Significativamente, infatti, Barthes chiama la tecnica scelta da Fourier per realizzare la sua operazione domestica una teatralizzazione: una tecnica che «non è decorare la rappresentazione, bensì è illimitare il linguaggio»21.
Illimitare il linguaggio: sul rammendare la storia e gli strumenti domestici
Come illimitare il linguaggio? Che sorta di teatro del domestico verrebbe fuori da un’operazione di questo tipo? Quali sarebbero gli strumenti di una Domestica delle arti performative?
Mi viene in mente una scena. È la scena iniziale dello spettacolo Los Incontados: un Tríptico di Mapa Teatro, parte della trilogia Anatomia della Violenza in Colombia, un lungo viaggio composto da vari spettacoli, installazioni e altre derive artistiche intorno a episodi immaginati e sognati, ricordati e reinventati della storia colombiana degli ultimi cinquant’anni, tutti incentrati in modi diversi sul rapporto tra violenza e celebrazione. Si tratta di una storia macchiata di sangue, che a livello internazionale è in un certo senso molto conosciuta attraverso la rappresentazione spettacolarizzata della Medellín degli anni Ottanta e della figura leggendaria di Pablo Escobar, ma allo stesso tempo completamente sconosciuta, poiché avvolta, per molti, in un’imprecisa nebulosa di disordini sociali e politici in cui molti Paesi dell’America Latina si sono dimenati nel corso dell’ultimo secolo. È una storia, quindi, che arriva sulle scene internazionali come un’eco, apparentemente lontana e troppo domestica, cioè troppo interna ai fatti nazionali, per potersi rivolgere a uno spettatore non colombiano. Eppure, è proprio in virtù di un’operazione domestica che la scena che descriverò riesce ad aprire una voragine nel tempo teatrale, facendo sì che nell’incontro dal vivo con gli spettatori si dispieghi un potenziale veramente politico.
Nella scena ci sono sei bambini seduti in uno spazio apparentemente domestico, un soggiorno, addobbato come se di lì a poco dovesse esserci una festa di compleanno: l’immagine è una citazione dal fotografo canadese Jeff Wall, una di quelle fotografie troppo reali per apparire realistiche o troppo realistiche per afferire a un qualche tipo di realtà. I bambini siedono in silenzio, ognuno con in mano uno strumento che suonerà in seguito, quando tutti insieme lasceranno il palco formando una piccola banda festosa. Tutti tranne una bambina, che rimarrà sul palco per l’intera durata dello spettacolo, come una spettatrice privilegiata di questa storia, come se lo spettacolo fosse per lei: un’opera sulla fantasia e sul dolore di una rivoluzione mai avvenuta, un viaggio allucinato in un tunnel della storia che, alla fine, spezzerà la tranquilla domesticità del soggiorno. Tra i bambini, nella prima scena, c’è una donna adulta; sembra che partecipi alla scena come chiunque altro, ossia non da adulta ma da bambina tra altri bambini. Ed è questa donna che, quasi per caso, accende una vecchia radio che sta al centro del soggiorno, sul palco, e che inizia a trasmettere una voce. Alla radio ascoltiamo trasmissioni d’archivio di Radio Sutatenza, una radio fondata in Colombia nel 1947 con lo scopo di diffondere informazione ed educazione politica tra la classe operaia, i cui ascoltatori erano contadini delle zone rurali con scarso accesso sia alle notizie che all’istruzione scolastica. La voce che arriva dalla radio, sovrapponendosi e intrecciandosi con strani suoni che man mano invaderanno la scena, recita un dizionario politico, che scandisce il significato di alcune parole: spiega cosa termini quali “oligarchia”, “violenza”, “rivoluzione” o “stampa popolare” vogliano dire per le varie classi sociali. La voce articola il significato di ognuna di queste parole con attenzione e lentezza, il suono entra nella sfera pubblica e al tempo stesso nello spazio teatralizzato di un pubblico domestico: i bambini radunati sul palco sono sia i consumatori di questi suoni che i produttori dei suoni che saranno uditi dal pubblico “vero”, per così dire, che li osserva dalla platea.
Le parole che ci arrivano dalla radio sono quelle del sacerdote Camillo Torres, figura leggendaria nella storia colombiana, che predicò e praticò la lotta di classe e l’espropriazione delle terre per poi radicalizzarsi, militando nella guerriglia, e perdere la vita durante la sua prima azione nella lotta armata dell’NLA, nel 1966. “El Cura Guerrillero”, come veniva affettuosamente denominato Torres, simboleggia per i colombiani l’infanzia della rivoluzione, un’epoca la cui memoria continua a brillare dietro al fumo del conflitto armato che da quasi sessant’anni affligge la popolazione e che non sempre è stato guidato da figure poetiche e generose come Torres, visto il coinvolgimento più recente della guerriglia anche in vergognosi episodi di controllo del territorio nonché di connivenza con organizzazioni criminali. Il conflitto armato è ancora oggi una ferita aperta in Colombia, nonostante il processo di pace in corso, apparentemente sostenuto a livello internazionale, tanto che al presidente colombiano Juan Manuel Santos fu assegnato il premio Nobel per la Pace nel 2016.
Questa immagine in scena risuona molto al di là della storia domestica della Colombia. È un’eco che abbraccia altre radio militanti, altre idee di pedagogia radicale, altre situazioni in cui si è tentato di rivendicare il linguaggio come un’arma di lotta di classe. È un’eco che risuona in altri spazi domestici in cui la diffusione radiofonica è stata cruciale per informare e per attivare processi di soggettivazione politica, occupando immaterialmente – attraverso l’aria – lo spazio materiale, domestico, quotidiano dell’abitare, con l’obiettivo di trasformarlo. Questa scena non rappresenta chi ascoltava queste trasmissioni ai tempi della loro diffusione; ne evoca la realtà attraverso quello che Barthes chiamerebbe il suo “strascico fantasmatico”, e soprattutto mette gli spettatori in condizione di non poter fare a meno di ascoltare nuovamente queste parole, permettendo ancora una volta a questo dizionario di interrogare il nostro spazio uditivo. La scena crea un “sentirsi a casa” che è intertemporale e non può essere limitato a un contesto nazionale. Nel rievocarla nel contesto di queste pagine, per me risuona, per esempio, con l’appello politico articolato da Doreen Massey nel suo Kilburn Manifesto: un appello a trovare strategie per riconsiderare attentamente l’uso di certe parole, che non sono semplicemente effetti collaterali, ma parte integrante della naturalizzazione di specifici processi storici ed economici:
Alla base dell’apparente senso comune di questi elementi del nostro vocabolario economico […] c’è un’idea di mercato come entità naturale: come se, esterno alla società o inerente alla “natura umana”, il mercato fosse una qualche forza predeterminata. Tale presupposto è imperante. Esiste un linguaggio che descrive i mercati finanziari che vagano per l’Europa attaccando un Paese dopo l’altro, come se fossero una forza esterna, forse una bestia selvaggia, non certo il prodotto di particolari strati sociali e dei loro interessi economici e politici22.
Secondo Massey, costruire un nuovo lessico per l’economia – e per la vita in comune che l’economia dovrebbe rendere possibile – è oggi uno dei nostri principali compiti politici, in un contesto in cui il neoliberismo ha “monopolizzato il vocabolario” e ha intossicato il nostro modo di parlare, tanto da incidere anche su come intendiamo possibili modalità di coesistenza.
I bambini che ascoltano la radio all’inizio di Los Incontados sono allo stesso tempo “reali” e “irreali”: sono i bambini che avrebbero potuto ascoltare quelle trasmissioni ai tempi e sono quelli che le ascoltano oggi, in scena. Sono quelle ragazze e quei ragazzi di colore con addosso l’uniforme della scuola, quei bambini che studiano la storia e, forse, imparano che le parole hanno un solo significato, da memorizzare una volta per tutte; sono esattamente quei bambini sul palcoscenico, con in mano un strumento musicale, che sanno suonare e che durante le prove, gli spettacoli e i tour internazionali di Mapa Teatro ascoltano una voce proveniente dalla radio che dice che le parole potrebbero anche significare cose diverse, far muovere i corpi in modo diverso. I bambini in scena, in un certo senso, sono allo stesso tempo chi sono e chi rappresentano: per un istante sono tutti i bambini che in questo momento stanno crescendo dentro una lingua che potrebbero anche voler fare a pezzi. Nella loro attenzione, nella loro stasi dinamica, potremmo dire che questi bambini portano nei loro corpi quella capacità rivoluzionaria che Asja Lacis e Walter Benjamin descrissero nel loro Programma per un teatro proletario di bambini come forza contrapposta al teatro borghese pseudo-rivoluzionario: bambini che esistono al di là di ogni idea di domesticità, bambini la cui infanzia non è addomesticata, corpi ancora capaci di incandescenti gesti di potenzialità politica.
È forse proprio la natura domestica di questa immagine che le rende possibile illimitare il linguaggio, sia quello delle arti performative che quello del discorso politico: è un’immagine che ha cura di rimanere ancorata a un contesto locale, ma nutre allo stesso tempo la possibilità di rappresentare uno spettro più ampio; è un’immagine che ha rispetto per la specificità di una certa storia e di una specifica memoria, e per il modo in cui queste vengono riprodotte attraverso il teatro. Questa scena non è solo, né soprattutto, la celebrazione nostalgica del lavoro preparatorio per una rivoluzione che non ha avuto luogo. È piuttosto un atto che rammenda la storia nello spazio pubblico: un rammendare buchi e strappi come si farebbe con un vecchio maglione, evocando non i sentimenti intimi a esso legati, ma il sentire pubblico che ha reso possibile l’intreccio pratico e teorico di una possibile rivoluzione, in Colombia o altrove. Si tratta di una rivoluzione nel suo farsi, che ha lasciato tracce che la memoria ufficiale desidera cancellare e sviluppato tecniche accidentali che forse andranno perdute, o forse verranno recuperate con finalità diverse. Infine, si tratta di un modo per ricucire in questa storia gli strappi con il suo stesso futuro, che ora è già passato, esponendola agli echi potenziali che provengono da altri futuri possibili.
È per mezzo di questa preoccupazione domestica, di questa operazione domestica svolta in pubblico, in teatro, che queste parole possono essere riascoltate: non come semplici souvenir, ma come un richiamo al presente, una messa in discussione delle sue contraddizioni. È attraverso questa operazione domestica che queste parole possono essere selezionate dal caos della storia, organizzate e messe in scena in una struttura di intelligibilità storica e poetica, usata non per costruire un’illusione ma per allargare un’idea possibile di realtà. Nei particolari domestici che si dispiegano in questa scena è in gioco anche la materialità di un certo modo di fare teatro, un teatro che non glossa sulla storia, né si concepisce solo o principalmente come critica al presente. È teatro, quello di Mapa Teatro, che si prende il rischio di concepirsi come produzione e riproduzione: una produzione che recupera il suo status di attività al di là della produttività, nel senso che – alla maniera di Fourier, forse – utilizza e trasforma le cose del mondo per farne materia di creazione, risveglia il valore d’uso di materiali dimenticati, si realizza nella meticolosità dei dettagli, nell’attenzione materiale alla possibilità di meravigliarsi, a teatro come nella politica. È possibile scorgere in questo lavoro un’espressione del “meraviglioso reale” che una Domestica delle arti performative potrebbe rendere visibile: una micropolitica di azioni dettagliate che, tuttavia, fanno parte di un persistente fare e immaginare.
Come coesistere con le arti performative
L’utopia domestica di Fourier, il suo tentativo donchisciottesco di creare un sistema basato sull’eccesso, è stato un riferimento importante per la riflessione di Roland Barthes sulla coesistenza, che lo ha impegnato in vari modi verso la fine della sua vita, emergendo con forza in uno dei suoi ultimi seminari: Comment vivre ensemble: simulazioni romanesques de quelques espaces quotidiens, tenutosi al Collège de France da gennaio a maggio 1977. Più che abbozzare una politica di coesistenza, il seminario si concentra su varie scene letterarie che, secondo Barthes, esprimono una certa Domestica della coesistenza: la particolare coesistenza che può aver luogo tra soggetti di diverso genere, inclusa la coesistenza tra quello che Barthes chiamava “un testo” e il suo lettore. Il piacere più profondo di un testo, secondo Barthes, è infatti raggiungere una forma di coesistenza tra l’autore e il lettore, una coesistenza che, curiosamente, viene descritta come una sorta di contagio: un contagio del fare, potremmo dire. Nel pensiero di Barthes questo avviene quando la scrittura riesce a “trasmigrare nella nostra vita”, ovvero a generare dal piacere di leggere un desiderio di scrivere. Questo, in un certo senso, è anche il tratto distintivo dell’utopia di Fourier: l’eliminazione di ogni distinzione tra produttore e consumatore. Un’utopia alla quale anche il teatro di Brecht aspirava in tutto e per tutto e alla quale si avvicinò con l’invenzione del Lehrstück, “il dramma didattico”.
Quale sarebbe una forma di coesistenza con le arti performative? Forse l’attivazione di un particolare desiderio di “fare”, oltre il senso comune della produzione, forse l’intensificazione di una certa temporalità nel rifare il mondo, che non si limita alla temporalità dell’evento, ma funziona al di là della durata dello spettacolo, al di là della rappresentazione, sia nei piccoli dettagli che nell’immensa portata dell’utopia. Ma può l’utopia essere mai altro che domestica? Barthes, con leggera ironia, chiede: «può mai un’utopia essere politica?»23. Forse una Domestica delle arti performative è una forma di abitare e di anticipare il “meraviglioso reale”. È l’innesco che permette agli spettatori di estendersi oltre l’incontro con la performance; è l’insieme di tecniche per inventare modalità in cui, nell’incontro con le arti vive, è possibile “sentirsi a casa” anche senza “sentirsi al sicuro”: non al riparo da conflitti, ma in contatto con la possibilità palpabile di riconoscere e partecipare a uno specifico spazio sociale. Forse consiste nel trovare modi per sganciare, finalmente e una volta per tutte, l’idea di casa dal reame della vita privata e usare le arti performative come laboratorio per inventare modi di esistere in cui la prossimità tra gli esseri umani e le cose, così come il loro movimento, trovino riparo da una generalizzata condizione di “senza tetto”, così comune nelle forme richieste dalla soggettività neoliberista.
Coda: disturbi domestici
Molti anni fa fui contattata da uno storico dell’arte che non avevo mai incontrato prima, che lavorava in un’università dove avevo lavorato anch’io e che aveva avuto il mio contatto da qualcuno che conosceva il mio lavoro sulla performance queer e la scena newyorkese degli anni Sessanta. Lo storico dell’arte mi chiese un incontro su Skype per presentarmi un progetto nel quale voleva invitarmi a “collaborare”, un progetto sull’emergenza del soggetto omosessuale nella storia dell’arte italiana del Novecento.
La nostra conversazione su Skype si trasformò molto rapidamente in un interrogatorio da parte sua, nel tentativo di estrarre dalla conversazione con me idee, linee di indagine, riferimenti bibliografici e anche contatti professionali. Per un po’ continuai a rispondere generosamente alle domande che lo storico dell’arte mi poneva, suggerendogli idee, nomi e titoli di libri attinenti al tema del progetto: pensavo ad alta voce e mettevo le mie conoscenze e capacità intellettuali al servizio di quello che immaginavo fosse l’inizio di un percorso condiviso e di una collaborazione. Soprattutto alla luce dell’affinità politica che il tema del progetto sembrava avere con me e con il mio lavoro, non ho esitato a condividere le mie idee, né ho ritenuto necessario tutelare il valore delle informazioni che stavo fornendo.
A un certo punto della conversazione, ho cominciato a sentire dei rumori dal fondo dalla stanza dalla quale lo storico dell’arte mi parlava: un tipico salotto borghese, con qualche tocco artistico e una grande libreria piena di volumi impolverati, come nelle case di molti accademici. Mentre parlavo, ho iniziato a notare sullo sfondo dello schermo, dietro la sua testa di maschio bianco di mezza età, una figura dalla pelle più scura, che si muoveva, pulendo. Mi resi conto che era lei a produrre quei rumori: la donna delle pulizie filippina che lavorava in casa durante il nostro incontro su Skype, spolverando i libri del professore e passando l’aspirapolvere sul suo tappeto.
Lo storico dell’arte, impegnato a prendere appunti su quanto gli stessi raccontando, non si è reso immediatamente conto dei rumori né della presenza della donna delle pulizie, che a questo punto mi era ben visibile sullo schermo. Quando se ne è accorto, ha semplicemente detto: “Mi sposto con il computer nell’altra stanza, perché qui ci sono dei disturbi”. Arrivato nell’altra stanza, si è seduto per continuare la conversazione; ma l’interruzione era stata per me molto più di una pausa: mi aveva aperto il tempo necessario per rendermi conto della situazione. Non a caso, quando ho smesso di parlare e ho chiesto qualcosa in più sulle condizioni del progetto nel quale mi invitava a collaborare, ho scoperto che lo storico dell’arte mi stava proponendo di abbozzare gratuitamente per lui un progetto di ricerca: l’idea era che gli compilassi una bibliografia e che gli costruissi una rete professionale che gli permettesse di richiedere potenziali finanziamenti che, in futuro, avrebbero potuto comportare anche una borsa di studio per me.
Il disagio che ho provato durante questo incontro su Skype mi sono rimasti addosso ben oltre la durata della nostra conversazione, che ho chiuso in modo abbastanza brusco; mi sono rimasti addosso anche dopo avergli scritto una mail in cui spiegavo quanto fosse vergognoso il suo tentativo di sfruttare il mio lavoro. Nella mia memoria dell’episodio, un filo di indignazione lega il lavoro della donna che vedevo lavorare alle spalle del professore al lavoro gratuito che quest’ultimo si sentiva in pieno diritto di esigere da me: qualcuno che nemmeno conosceva, ma che appariva sul suo schermo come una giovane donna, lavoratrice cognitiva all’epoca ancora precaria.
L’associazione, naturalmente, è del tutto imprecisa, né può essere significativa di alcun tipo di legame tra me e la donna delle pulizie: da un lato, immagino che lei fosse pagata per il suo lavoro, mentre io no e non lo sarei stata; d’altro canto, sono pienamente consapevole delle differenze che ci sono tra noi in termini di classe e di razza (e della ricaduta specifica di questi termini nel capitalismo contemporaneo), differenze tali da rendere molto più complicato per lei che per me negoziare un rapporto di lavoro, o semplicemente andarsene sbattendo la porta ogni volta che si è vittima di un trattamento ingiusto. In realtà, non so nulla delle sue condizioni lavorative: forse è ben pagata per il lavoro che fa e ha un buon rapporto con il suo datore di lavoro. Tuttavia so per certo, perché è avvenuto in mia presenza, che quest’ultimo ha pressoché ignorato lei e il lavoro che stava svolgendo, classificandolo come un mero “disturbo” durante la sua riunione. Immagino che allo stesso modo il mio ritrarmi dalla nostra conversazione sia stato frettolosamente archiviato come semplice “disturbo”: un momentaneo rumore di fondo nell’allestimento del suo progetto, un capriccio fastidioso e difficilmente comprensibile nel quadro di un’economia dello sfruttamento della conoscenza che, soprattutto in Italia, costituisce una regola non scritta del lavoro accademico. In effetti, nell’“economia della promessa”24 in cui lo storico dell’arte è abituato a lavorare, immagino che la sua proposta di collaborazione fosse perfettamente accettabile: una specie di offerta di investimento in vista di un potenziale guadagno futuro.
Sia il lavoro della collaboratrice domestica che il mio (o quello di un’altra ricercatrice che accetterebbe per disperazione di lavorare gratuitamente nella speranza di una retribuzione futura) sono fondamentali per il rinnovamento quotidiano della vita e della produttività dello storico dell’arte. È questo lavoro che costituisce le condizioni fondamentali affinché la sua produzione intellettuale possa avere luogo: per questo, forse, è indispensabile che tale lavoro – sia esso corrisposto da uno stipendio o dalla promessa di uno stipendio – sia reso invisibile, non riconosciuto come tale. È per questo, forse, che, per quanto lo storico dell’arte possa pensare al proprio progetto di ricerca sulla comparsa del soggetto queer nella storia dell’arte italiana come contributo a una storia politica dell’arte, non riesce assolutamente a comprendere la profonda ingiustizia della sua stessa prassi domestica.
Non ho resistito a condividere questa piccola storia perché è esemplare di un fenomeno molto diffuso, a vari livelli, nel mondo accademico contemporaneo e che purtroppo non coinvolge solo uomini, ma anche donne: probabilmente donne che nella loro ricerca si occupano di questioni politiche, ma che non sono affatto in grado di mettere in discussione la propria organizzazione domestica – né in come gestiscono la propria casa, né in come gestiscono il proprio operato all’interno dell’università, inclusi i progetti di ricerca. All’epoca di questo episodio mi chiesi: che tipo di solidarietà politica potrebbe esserci tra me – una donna bianca, istruita, europea, lavoratrice cognitiva precaria – e la collaboratrice domestica del professore – che non posso descrivere in altrettanto dettaglio, ma posso immaginare avesse un passato di migrazione e sapevo per certo essere impiegata come donna di servizio nella casa di un uomo bianco? Lo scarto tra noi due sembrava immenso; allo stesso tempo, però, mi appariva molto chiaro quanto sarebbe stato facile, per noi, collaborare per sabotare la vita di quest’uomo. Ma come?
Non si tratta di una domanda facile e ovviamente non è nemmeno una questione nuova: quanto sia ipocrita colmare questa lacuna a livello concettuale è quanto Audre Lorde soleva denunciare in molti dei suoi interventi, soprattutto nelle conferenze organizzate e monopolizzate da femministe bianche di estrazione borghese. Nello stesso spirito, bell hooks individua la questione del “lavoro” come uno dei principali problemi che il movimento femminista ha dovuto affrontare fin dagli anni Sessanta, quando, ad esempio, femministe bianche come Betty Friedan enfatizzavano il potenziale emancipatorio del lavoro fuori casa per le donne, trascurando il fatto che molte donne di colore già lavoravano duramente e quotidianamente fuori casa (e al contempo anche dentro casa), e che questo lavoro non sempre fosse una forma di emancipazione, ma più spesso una fatica degradante. Questa domanda ci obbliga a riflettere sui rapporti tra l’enorme quantità di lavoro materiale che continua a essere svolto, dentro e fuori dal campo dell’arte, in contemporanea al lavoro immateriale sul quale spesso ci concentriamo quando parliamo di arte, di arti performative, o di politica. Il fatto che la maggior parte di questo lavoro venga svolto da donne e da persone di colore è un altro aspetto non trascurabile, tanto nella lotta politica quanto nella riflessione critica.
Dopo molti anni, non ho ancora trovato una risposta a questa domanda. Forse una possibile risposta sta proprio nel “disturbo domestico” che, seppur involontariamente, la nostra convivenza durante questo incontro su Skype ha prodotto: una breve ma significativa coesistenza che è stata per me fonte di conoscenza, se non una forma postuma di soggettivazione. La consapevolezza di questa possibilità di coesistenza non passa attraverso un discorso meramente teorico, ma attraverso l’invenzione di forme sempre nuove di solidarietà domestica, nella prassi e nella riflessione, nella produzione e nella rappresentazione. Forse Marichuy, evocata al principio di questo testo, con il suo corpo segnato e la longue durée del suo impegno domestico e politico, con la sua potenzialità di delineare i confini di un impensabile, meraviglioso reale, è davvero un ottimo punto di partenza.
- Quest’espressione appare in una dichiarazione ufficiale dell’EZLN pubblicata in data 14 Ottobre 2016 dal titolo Que retiemble en sus centros la tierra (ultimo acceso 15.X.2021). ↩
- Ibidem. ↩
- Cfr. Gilles Deleuze – Félix Guattari, Mille plateaux: Capitalisme et schizophrénie [1980], trad. it. Mille Piani: Capitalismo e Schizofrenia,Cooper e Castelvecchi, Roma 2003, p. 437. ↩
- Ivi, p. 439. ↩
- Ivi, p. 440. ↩
- Ivi, p. 450. ↩
- Cfr. la scheda dello spettacolo Lippy sul sito della compagnia (ultimo accesso 15.IX.2021). ↩
- Vedasi per esempio la mostra dal titolo Wohnungsfrage al Haus der Kulturen der Welt di Berlin del 2015, che traeva ispirazione dai saggi del 1872 di Friedrich Engels (ultimo accesso 15.IX.2021). ↩
- Suely Rolnik, Anthropophagic Subjectivity, in Arte Contemporânea Brasileira: Um e/entre Outro/s. Fundação Bienal de São Paulo, San Paolo 1998, p. 1. ↩
- Ivi, pp. 16-17. ↩
- Ivi, p. 17. ↩
- Prendo in prestito questo termine da un eccellente articolo di Sven Lütticken sull’occupazione del Volksbühne. Cfr. Sven Lütticken, Art as Immoral Institution, in «Texte zur Kunst», 3 ottobre 2017 (ultimo accesso 15.IX.2021). ↩
- Questi temi sono stati trattati approfonditamente da vari autori. Un primo riferimento, oramai classico, è Paolo Virno, che nella sua Grammatica della moltitudine (Rubettino Editore, Soveria Mannelli 2001)parla del performer come esempio emblematico di lavoratore immateriale. Cfr. inoltre Claire Bishop, Black Box, White Cube, Public Space, in «Out of Body», primavera 2016, Skulptur Projekte Münster 2017 (ultimo accesso 15.IX.2021); Giulia Palladini, Il disagio della performance. Per una tecnica poietica del lavoro vivo, in «Operaviva Magazine»,25 Aprile 2017 (ultimo accesso 15.IX.2021). ↩
- Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola [1971], trad. it. Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso, Einaudi, Torino 1977. ↩
- Ivi, p. xvi. ↩
- Ivi., p. 74. ↩
- Ivi, p. 86. ↩
- Cfr, nello specifico Charles Fourier, Théorie des quatres mouvements [1808], trad. it. La teoria dei quattro movimenti e il nuovo mondo amoroso. Scritti sul lavoro, l’educazione, l’architettura, la gastronomia, il matrimonio e l’amore nella società d’Armonia, a cura di Italo Calvino, Einaudi, Torino 1971. ↩
- Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola, cit. p. 89. ↩
- Ivi, p. 94. ↩
- Ivi, p. xii. ↩
- Doreen Massey, Vocabulary of the economy, in Ead., Stuart Hall e Michael Rustin (eds.), After Neoliberalism: The Kilburn Manifesto, Lawrence & Wishart, Londra 2015, p. 35 (ultimo accesso 15.IX.2021). ↩
- Roland Barthes, Sade, Fourier, Loyola, cit., p. 74. ↩
- L’espressione “economia della promessa” e le dinamiche che denomina vengono esplorate nel volume Economia politica della promessa, a cura di Marco Bascetta, manifestolibri, Roma 2015. ↩