Nel 2017 muore il cantante e attore francese Johnny Halliday. I suoi funerali si tengono il 9 dicembre a Parigi e sono seguiti da circa un milione di persone. L’evento è trasmesso in diretta televisiva. In questo articolo si accosta l’evento mediatico alle opere di videoarte dell’artista Nam June Paik. Un pretesto per riflettere sull’estetica televisiva, la figura iconica di Halliday e le azioni artistiche di avanguardia di Paik stesso. A differenza di Halliday e Paik, l’arte video (seppure attraverso in forme diverse) continua a vivere? Questa è la conclusione, aperta, dell’articolo.
Come in un film di Truffaut, tutte le sue mogli erano presenti, benedicendo ognuna a suo turno il feretro dopo essersi scambiate un abbraccio. Ciascuna stretta alle braccia dei propri figli, testimoni/successori di una vita infiammata. Ecco, per quel che riguarda il Cinema.
Come in uno spettacolo satellitare di Nam June Paik, decine di telecamere hanno seguito le numerose scene della cerimonia, fornendo senza tregua migliaia di immagini per gli schermi della Diretta, obbligata a farsi in quattro per cogliere ogni singola briciola dello spettacolo. Ecco, per quel che riguarda il Video. Voglio dire l’Arte Video, che non è mai così forte, così pura, così sensazionale come nelle sue manifestazioni originarie: televisive. Un quattordici luglio moltiplicato per dieci incontri di calcio in simultanea. Meglio: per tutte le tappe del Tour de France messe insieme, in un solo momento. Paik lo aveva sognato, Johnny l’ha fatto.
Lo split sceen, lo schermo diviso: ecco il vincitore dell’evento che quindici milioni di telespettatori hanno appena visto davanti ai loro televisori. Cinquanta per cento di audience, nell’insieme dei canali. Un francese su quattro, contando anche i neonati. Senza dubitare, salvo qualche esteta del mio stampo, del vostro anche, cari lettori, che stavano assistendo alla più gigantesca opera d’arte (video) mai creata. Un’opera senza autore, involontaria, strutturale, completamente collettiva… quale modernità! Arte moderna e contemporanea al loro vertice, nel punto di incontro tra massa ed élite, mescolate nel turbamento dello Spettacolo della Morte concesso da una ben meritata celebrità. Il fervore di tutto un popolo di fedeli confortato dall’assoluzione generosa di tutta una chiesa.
Era meglio di un Nam June Paik! Una formula che Paik stesso, nel vedere questi funerali digitali, avrebbe potuto sottoscrivere; lui, l’adepto del meglio di come titolo di una serie di installazioni (Meglio di Godard, Meglio di Hitchcock, Meglio di Beuys, etc.) e che considerava che la sola delle sue opere che sarebbe senza dubbio passata alla posterità sarebbe stata il suo piano/cinepresa (si suona il pianoforte con l’obiettivo della cinepresa, trallallà e su uno schermo posto a lato si ammirano i tasti premuti). Perché proprio quella, in effetti? Perché si tratta di qualcosa che ognuno può rifare, copiare, firmare o meno, appropriarsene. E anche concludere, ridendo: questo è meglio di Cage, non è vero? Sì, pensavo (nel mio Play it again, Nam, 1990, Canal Plus).
Sì, Good Morning Mr Hallyday (9 dicembre 2017) è stato meglio di Good Morning Mr Orwell (31 dicembre 1983/1 gennaio 1984). Non erano presenti Laurie Anderson, Sapho, Urban Sax, Merce Cunningham, Beuys, Cage, Ben, ma c’erano Père Gilbert e la sua giacca nera, M e la sua chitarra, Jean-Jacques Debout e i suoi ricordi, Michel Drucker e il suo chewing-gum, Sarkozy e la sua Carla (in pantaloni di pelle nera), e soprattutto al posto del Big Brother (is watching you) decine di telefoni/telecamere che filmavano/sbirciavano il feretro all’interno del carro funebre trasparente. E tutto questo non su uno schermo a volte miseramente diviso in due, ma su quattro finestre con sketch sempre nuovi, in contemporanea su più canali che trasmettevano immagini diverse tra loro, come si poteva verificare facendo zapping da una rete all’altra. Con tutti questi telefoni in azione abbiamo assistito ad una mise en abyme della Televisione, ogni dispositivo trasformato in una personale stazione emittente cha fabbricava immagini in diretta (per l’eternità). Segnalava un commentatore che perfino i reparti di polizia, invece dei manganelli, tenevano alzati i loro cellulari in direzione del corteo. E Claude Lelouch, membro del corteo e quindi non costretto a osservare dai lati, con il suo apparecchio filmava la famiglia in un lento travelling a piedi. E poi, ancora: al posto del Centre Pompidou e le sue strutture tubolari, scelto da Paik come teatro di tutte le modernità, c’era la grande ruota panoramica di Place de la Concorde, con i suoi raggi, attraverso i quali una louma1 puntava sugli Champs-Elisées. La ruota gira, era il caso di pensarci: gli astuti ingranaggi inventati da Tinguely per la fontana di Niki de Saint Phalle si vedevano ingranditi fino quasi a toccare il cielo. Come ti amo, Johnny Paik.
Sì, Bye bye Johnny è stato meglio di Bye bye Kipling (1986). Invece di una partita a polo sul dorso d’elefanti in onore del mitologo delle Indie, noi abbiamo assistito all’ultima passeggiata di colui al quale nessun padre aveva detto: tu sarai un uomo, figlio mio, e che si era fatto da solo il proprio destino di rock star. Invece di un dialogo tra due gemelle divertenti (Twin Art) abbiamo sentito il Canto delle lumache (Prévert) che partendo d’inverno per andare ad un funerale vi arrivano in primavera (letto per Jean Reno, molto emozionante). Invece di una corsa automobilistica in Irlanda, che ad ogni giro scandiva la pianificazione degli spettacoli convocati da Paik, siamo stati allettati da un acrobata che avanzava passo a passo su un cavo metallico sospeso tra il palazzo Chaillot e la torre Eiffel, a causa di Téléthon (diretta quest’anno da Zazie, paroliera d’Allumer le feu). Un’impresa alla quale faceva eco, senza saperlo, la citazione di Nietzsche («L’uomo questo funambolo su un cavo teso al di sopra dell’abisso») lanciata da Philippe Labro come Introibo ad altare Dei. Piuttosto di Keith Haring e dei suoi omini, abbiamo potuto contemplare grazie ai primi piani sui fan i tatuaggi “johnnieschi” e “hallaydiani” con canzoni intere incise sulla pelle. Invece delle arie di Lou Reed, siamo stati sommersi, ad ogni inquadratura della folla, da cori improvvisati che scandivano dei Que je t’aime, dei Allumer le feu (già cantato alla vigilia dalla corale dei Pompieri di Parigi), dei Quelque chose de Tennessee, dei Oh Marie si tu savais che ha fatto cappotto dell’insolente ripresa di Pascal Lelièvre (anche lui omaggiato, in una certa maniera, a ogni ritorno di questa canzone che agli occhi del vescovo di Parigi valeva il biglietto d’ingresso alla chiesa della Madeleine malgrado, o in ragione, della rivendicazione di una vita da peccatore). E si potrebbe continuare così, divertirsi a segnare dei punti comparando gli spettacoli di Paik e di Johnny. Per esempio, trovare che i quattro chitarristi e l’armonicista che facevano battere le mani a tutti i parrocchiani di questa effimera e affollata chiesa della Madeleine, da Bruni a Macron (ma senza Sarko e Hollande) passando per Jean-Louis (Aubert), Laetitia e David (Hallyday) erano comparabili (ed anche meglio) delle campane a morto di Philip Glass suonate per il cinquantesimo anniversario della morte di Kipling (1936). Sei d’accordo, Nam June?
Sì, e bisogna ancora aggiungere che questo Wrap around the Gaule, e la manciata di canali franco-francesi, poteva realmente competere con il mondialismo di Wrap around the World e i dieci paesi collegati nel 1988 da Paik in occasione dei Giochi olimpici di Seul. Oppure con una qualsiasi Eurovisione della canzone (esercizio che mette in trance gli artisti video Alain Bourges et Richard Skryzak, come da loro confessato nel Dialogo di Marsiglia). Perché… da schermo diviso in schermo diviso è stata rivelata la più completa, «wrapante», immagine della Francia e dei suoi Territori lontani. E ciò perché i partecipanti all’evento hanno mostrato tutte le gradazioni della diversità francese: ricchi e poveri, donne e uomini, bambini, figli del boom delle nascite, motociclisti, fan del rock e del blues, di Brel e di Brassens (come lo era anche Johnny), di Piaf e di Line Renaud, celebrità e gente comune, bianchi e neri, e anche francesi di seconda e terza generazione, quelli «di ceppo non francese» per dirla come Finkielkraut. Grazie a quei primi piani di visi in lacrime o a bocca aperta per cantare. Tutti magnificamente, ordinariamente, differenti. Fino al sagrestano della chiesa della Madeleine, che somigliava stranamente a Henri Salvador.
Johnny è la Francia, tutta la Francia, non solamente quella di destra: lo scrittore Daniel Rondeau, ex militante maoista, già autore-lavoratore in fabbrica, e amico di Johny per quarant’anni, ha voluto rimarcarlo nel suo discorso prima della messa: dopo un concerto a Thionville, Johnny ha donato l’incasso dello spettacolo ai lavoratori in sciopero di un’impresa locale, i quali per ringraziarlo, hanno accompagnato la sua partenza con un picchetto d’onore. Santo Johnny dei macelli! Chi sarà il suo Brecht? Cantava alla Festa de l’Humanité, etc. Non era solo l’amico di Chirac, Sarkozy; non rifiutava di cenare all’Eliseo in compagnia di Hollande. E dopo avere lungamente abbracciato la vedova, l’attuale presidente era fiero di farle dedicare un applauso da tutti i francesi, da tutta la Francia, alla fine del suo discorso sul piazzale della chiesa. Nelle strade adiacenti, una raffica vorticosa di applausi, ben orchestrata dal regista Joseph Revon, uno dei migliori artigiani delle dirette in Francia. E poi, di nuovo, la famiglia, la strada, il boulevard des Italiens, i musicisti, la piazza della Concorde, gli Champs-Élisées, le persone in massa, gli amici, sono tutti suoi amici, coloro che entrano in chiesa e chi ne resta all’esterno. Senza contare coloro che applaudivano davanti alla televisione. Che Auditel! Mi immagino Chirac che, bloccato a letto, imprecava vedendo Sarkozy posizionarsi a un metro dal feretro. Che fortuna che ha questo Macron. Mi immagino Chirac mentre sperava che almeno nella trasmissione dei Guignoles gli avrebbero poi permesso di riversare all’antenna tutto quanto stava ruminando di fronte allo schermo.
Chi l’avrebbe detto, cari lettori, cari videofili, che un giorno avremmo trovato nell’Idolo dei Giovani (ai tempi degli Yéyé, io ero piuttosto per Brel/Brassens/Ferré/Bécaud/Sylverstre/Vassiliu) un gusto non di Tennessee (Williams) ma di Papa (coreano) dell’Arte video, grazie alla sontuosa Diretta dei suoi funerali (d’altri tempi). Certo, l’Arte video non è solamente la Diretta, ma anche la lira degli effetti speciali elettronici. Dei quali il primo è lo schermo diviso. In due, per cominciare, come l’aveva fatto dalle sue prime «impaginazioni» Averty, per esempio in Elle est terrible, cette fille-là, cantata in duo da Johnny e Sylvie. L’impaginazione dei funerali, certo ricca di quattro finestre, mancava un po’ di effetti avetryani o paikiani, di colori psichedelici, di avvitamenti, stridori, di arcobaleni digitali, di furtive grafiche disintegrartici, di eterogenei raggi traccianti, di tutti quegli interventi che danno alle immagini della nostra terra sembianze di paradisi (artificiali). Detto altrimenti, se dovessi esprimere una riserva sarebbe questa: visto che si era già nel pieno del kitsch, si sarebbe potuti andare ben più lontano. Ma adesso, è agli artisti video, quelli veri, che appartiene il compito di realizzare, in differita, questo programma. Dovremmo vederne già qualche ricaduta nei prossimi festival di Clermont, di Marsiglia, e altrove. Alleluia…
- Louma è una gru snodata per riprese video, in cima alla quale è fissata una macchina da presa o una telecamera munita di controllo a distanza. (NDT) ↩