L’articolo affronta il genere teatrale del Trauerspiel (dramma barocco, o dramma luttuoso), a partire dai lemmi che lo compongono – il gioco e il lutto. Lungi dall’identificarsi con il genere tragico o con un’anticipazione di stilemi romantici, il Trauerspiel matura una sua autonomia come forma espressiva dei traumi della soggettività della prima era moderna alle prese con turbamenti religiosi e politici. Sfruttando l’indagine compiuta da Walter Benjamin nell’Ursprung des deutschen Trauerspiels, l’articolo discute alcuni fattori costitutivi della messinscena barocca quali la sovranità, la colpa, l’empatia, allargando l’analisi alle teorie del gioco di Johan Huizinga e Georges Bataille.
Breve storia di un genere sfuggente
Come definire il Trauerspiel? Cosa fu davvero questo genere teatrale, se propriamente di genere si tratta? Di certo fu un testo letterario seicentesco che contò reviviscenze quanto mai lontane dall’originale nei secoli seguenti – erano Trauerspiele nel secondo Settecento taluni drammi borghesi di Lessing1, mentre fu Friedrich Schlegel a specificare nel 1802 che il suo Alarcos era Ein Trauerspiel, o Heiner Müller, pochi decenni orsono, a rivalutarne il concetto per definire dal di dentro le sue trame («qui stanno recitando una tragedia. Questo è un Trauerspiel»)2. Il termine cominciò a farsi valere come concetto a sé nel tardo XVIII secolo, complice la suggestione romantica di guardare al Seicento europeo per rielaborarne alcune forme espressive anche in scena. Ma se Trauerspiel fu sicuramente concetto filosofico, esperimento teologico-politico, fu soprattutto forma scenica, pur dall’eco drammaturgica limitata.
In linea introduttiva, è opportuno notare come il termine stesso di Trauerspiel presenti notevoli difficoltà di traduzione. Si pensi già alla resa italiana del lavoro di abilitazione che Walter Benjamin nel 1925 dedicò al Trauerspiel – tema essenzialmente tedesco nella lingua e nell’ispirazione: Ursprung des deutschen Trauerspiels. Ogni traduzione – ben tre ha sempre preferito esaltare il carattere barocco di poetica e messinscena, rendendolo appunto con “dramma barocco”3. Ma il caso non è isolato. Basti pensare che invano si cercherà una voce Trauerspiel nella Storia della letteratura tedesca di Ladislao Mittner. Nella Parte quinta che tratta il Seicento, allorché vengono trattati temi e costanti di autori come Opitz, Gryphius, Lohenstein, il termine usato è “tragedia”4.
Nelle classificazioni storico-teatrali più diffuse, il Trauerspiel è stato quindi volentieri eluso come etichetta, oppure ha vissuto di un equivoco vistoso: è apparso come l’espressione generica di una teatralità barocca, o ancora come la designazione puntuale di un dramma regionale prodotto da letterati «che conoscevano e temevano la corte», fino alla «condanna della vita politica in blocco» e fin «troppo legati alla teologia della loro età», tanto da «credere ancora reali le apparizioni soprannaturali»5.
I Trauerspiele nacquero infatti in Slesia, una regione che fu «teatro di conflitti politici e religiosi, prima con la Guerra dei Trent’anni e in seguito con i tentativi imperiali di ricattolicizzazione del territorio, divenendo nell’immaginario dei suoi scrittori paesaggio esistenziale emblematico, ora traslato in un altrove geografico e storico […], ora concretamente declinato nella denuncia pessimistica della vanitas»6. È qui, tra le cosiddette prima e seconda scuola (separate per prassi classificatoria dalla pace di Westfalia del 1648), nella conversione forzata dei protestanti al cattolicesimo asburgico e nell’inevitabile mescolanza di tratti confessionali, che matura la forma-Trauerspiel. Accanto a rifacimenti di opere antiche (Opitz ripropose le Troades di Seneca in versi alessandrini – Die Trojanerinnen, 1625 –, e poi l’Antigone nel 1636, dislocando nell’antico la considerazione della guerra come destino di dolore inflitto agli uomini per le loro colpe), compaiono drammi storici, messinscene della sovranità e dell’onore, popolate da intriganti cortigiani, dominate da crudo machiavellismo e gusto dell’orrido. Destinati a un pubblico di piccola e media borghesia perlopiù ignaro della vita di corte, realizzati con mezzi modesti7, i drammi luttuosi svolgevano trame storico-politiche (Hauptund Staatsaktionen) intrecciate a intrighi amorosi dove erano l’eccesso, lo sfarzo e la perfidia a farla da padrone, fino a trasposizioni storiche che vedono i silesiani Gryphius e Lohenstein gareggiare in un «raccapricciante teatro del martirio»8.
Resta che all’orecchio tedesco non criticamente avvertito il lemma ormai da secoli pare – come si legge in un Theaterlexicon edito a metà Ottocento – una germanizzazione del termine “tragedia” («der deutsche Ausdruck für Tragödie»). Naturalmente ciò non spiegherebbe affatto la scelta operata dalla lingua a cavallo tra il tardo Cinquecento e il primo Seicento, di impiegare i due termini Trauer – tristezza, lutto – e Spiel – gioco, messinscena – per tradurre il vocabolo greco “tragedia”, notoriamente anch’esso di matrice complicata e di etimologia incerta. Qui si seguirà, cercando di spiegare la scelta col progredire dell’argomentazione, l’opzione più semplice: tradurre unicamente i due termini che compongono il lemma evitando di aggiungere “barocco”: “dramma luttuoso”, dunque.
Proprio per distinguerlo dal genere greco-antico, l’autore della voce Trauerspiel nel summenzionato lessico ottocentesco insisteva: «il Trauerspiel moderno può distinguersi dalla tragedia classica come una tragedia romantica»9. Da cui segue una prima domanda, per quanto elementare e fuorviante se posta all’inizio della discussione: davvero il carattere romantico è determinante per il Trauerspiel? Davvero a livello definitorio una forma teatrale, letteraria, ideale, affermatasi nel tardo XVIII secolo può funzionare per definire la morfologia e l’essenza di un genere nato centocinquant’anni prima? Per rispondere a tali quesiti e operare distinzioni centrali non si può fare a meno di Walter Benjamin, che in pieno Novecento decise di rivalutarne il significato per spiegare la genesi della modernità (per fare del Trauerspiel in qualche modo, suggerì Lukács, l’allegoria in controluce delle avanguardie a lui contemporanee). Benché miseramente fallito nell’intento accademico, quello studio vale tuttora come il contributo più rilevante per chi voglia intenderne i tratti notevoli. Sin dalla scansione nelle due parti fondamentali – il divario con il genere tragico nella prima, il ruolo dell’allegoria nella seconda –, il saggio benjaminiano offre le coordinate per cogliere la specificità di questa peculiare forma drammatica. Nell’impossibilità di trattare esaurientemente il tema, può essere utile concentrarsi su alcuni concetti che ne formano la costellazione teorica, in una chiave che prenderà spunto da Benjamin, ma cercherà ulteriori spunti ermeneutici altrove. Gioco, sovranità, colpa ed empatia vanno a costituire un quartetto che può giovare a restituire, tra teoria del teatro e filosofia politica, tra sociologia della religione e psicologia della scena, almeno un profilo di questa forma.
L’elemento ludico: il barocco di Huizinga
Il Trauerspiel non è una tragedia romantica. Benché sussistano molte buone ragioni per tracciare un nesso profondo tra barocco e romanticismo, la definizione fornita dal lessico teatrale ottocentesco è forzata, e porta fuori strada. È innegabile che la forma del Trauerspiel rappresenti originariamente una dimensione radicale del barocco seicentesco, e che ogni sottolineatura di un accento romantico, o meglio pre-romantico, finisca per minimizzare la specificità del fenomeno originario. Pur con tutte le specificità “nazionali” – e la situazione tedesca era davvero peculiare, tanto più in assenza di una nazione e di ogni retorica al riguardo –, il dramma luttuoso appartiene innanzitutto a una dimensione teatrale barocca storicamente determinata.
Proprio l’elemento del “gioco” insito nel Trauerspiel – apparentemente e corrivamente “romantico” –può agevolmente rappresentare un che di positivo nella direzione di coglierne la determinazione storica, perché l’obiettivo di definire il dramma luttuoso come genere non può evitare di rilevare e indagare la funzione storica del gioco tanto nel termine quanto nel concetto. Nel saggio sull’Origine del dramma luttuoso tedesco, nella prima sezione del capitolo che reca il titolo di Trauerspiel und Tragödie, Walter Benjamin sottolinea precisamente la dialettica di lutto e gioco per individuare il tratto discriminante rispetto alla tragedia. E lo fa ampliando lo sguardo sul teatro europeo e rimandando ai drammi di Calderón: «L’esattezza con cui il lutto (“Trauer”) e il gioco (“Spiel”) si accordano l’uno con l’altro è un elemento tutt’altro che trascurabile nel determinarne il valore – il valore del termine come quello dell’oggetto»10. Teorizzato questo accordo, Benjamin traccia le coordinate della «pratica artistica profana (weltliche Kunstübung)» che viene rappresentata sulla scena. Parla dell’intensità con cui gli autori di drammi luttuosi del Seicento mirano all’incondizionato, una volta appurato per inversione teologica il carattere non serio, bensì “giocoso” dell’esistente, che non può nutrirsi della trascendenza se non en travesti.
[L’intensità] ha così sottolineato ostentatamente il momento giocoso del dramma, e ha dato l’ultima parola alla trascendenza soltanto dissimulandola sotto vesti profane, come gioco nel gioco (als Spiel im Spiel). Non sempre la tecnica è evidente, nel senso che si apre una scena nella scena, o lo spazio degli spettatori (Zuschauer-Raum) viene inglobato nello spazio scenico11.
Viene qui compiuto un primo passo per intendere il ruolo dell’elemento ludico nella tecnica tanto letteraria quanto teatrale dei drammi barocchi, che riduce la trascendenza a “macchinazione” con cui dissolvere il lutto. Per ragioni teologiche, il gioco diventava dunque tratto dirimente del barocco.
Negli stessi anni in cui Benjamin cercava di fissare le dinamiche tra “gioco” scenico e lutto nel Trauerspiel, cominciava a ragionare sul gioco come costante umana Johan Huizinga. E anche il polistore olandese non mancò di tracciare il legame tra gioco e barocco. Difatti nel suo capolavoro Homo ludens, di un decennio successivo alla Habilitationsschrift di Benjamin, Huizinga definì appunto il barocco secondo il suo «bisogno di passare i limiti (Bedürfnis nach dem Übersteigerten), spiegabile per il valore intensamente ludico dell’impulso creativo». L’essenza propria del barocco sarebbe dunque ludica, ove l’elemento eccessivo, esuberante, è centrale: «l’idea di barocco richiama una visione di cose coscientemente esagerate, appositamente impressionanti, notoriamente fittizie (von etwas bewußt Übertriebenem, absichtlich Imposantem, anerkannt Unwirklichem)»12. L’esagerazione insita nel barocco non si esercita secondo Huizinga in munere alieno, trova bensì un elemento fertile in cui insinuarsi, se è vero che il fattore ludico dell’eccesso seicentesco va a sommarsi a una struttura esornativa quasi trascendentale, un «nostro quasi istintivo e spontaneo bisogno di ornare (Schmuckbedürfnis), che a ragione possiamo chiamare funzione ludica (Spielfunktion)»13.
Ma davvero gli elementi funzionali del barocco, che si traducono in espressione – letteraria, scenica –, vanno a replicare e accentuare una determinata, strutturale tendenza umana? Potrebbe obiettarsi, come fa Huizinga stesso discutendo la teoria di Schiller di un «impulso innato verso il gioco», che attribuire al gioco, in questa chiave tanto primitiva quanto determinante di atto «sbadato, appena consapevole» – un’«arte della noia»14 –, una qualche esaustività definitoria – l’umanità è gioco – potrebbe interessare una psicologia, semmai, non invece chi volesse argomentare l’universalità delle funzioni ludiche nell’arte per calarle nei processi storici15. Eppure, a prescindere dalla qualità fondante o meno del gioco per una teoria della cultura (e dell’arte), resta che nel dramma luttuoso è evidente come il gioco assuma un ruolo drammaturgico proprio nel piacere dell’ornamento, dell’«espressione più ampollosa (des hochtrabendsten Barocküberschwang)» che Huizinga riconosce anche negli esempi “seri” dell’epoca16. E di questa contaminazione tra serio e giocoso risente ovviamente la componente luttuosa messa in scena dai componimenti teatrali degli autori delle corti (tedesche in primo luogo).
Come il gioco, anche l’elemento del lutto merita dunque di essere chiamato in causa in chiave introduttiva, nella sua matrice e determinatezza storica. Si può richiamare il giudizio di Samuel Weber secondo cui l’interesse benjaminiano al Trauerspiel ha a che vedere col tentativo di leggere il Seicento come una «risposta alla condizione problematica di un sé disgregato»17. Una condizione che Samuel Weber descrive come un incubo causato dal crescente peso della Riforma in Europa e dalle risposte articolate dai poteri religiosi e politici durante le guerre di religione. L’enigma della forma perlopiù fallimentare – sul piano dell’efficacia storico-teatrale – del dramma luttuoso scaturisce dall’intreccio complessivo di dottrine della grazia, teorie giuspubblicistiche e soluzioni teatrali ardite; una forma i cui migliori esempi, tra l’altro, non sono reperibili in Germania, ma altrove (nell’Inghilterra elisabettiana, nella Spagna di Calderón de la Barca). Eppure è in Germania che troviamo il “tipo”, vale a dire i modelli espressivi che restituiscono al meglio i tratti della forma-Trauerspiel. In particolare in Slesia. I nomi più celebri sono quelli di Martin Opitz (1597-1639), Andreas Gryphius (1616-1664), Daniel Casper von Lohenstein (1635- 1683), Johann Christian Hallmann (1639/40-1704), August Adolph von Haugwitz (1647- 1706). Letterati e teatranti sovente non originari della Slesia, ma che trovarono nelle corti silesiane le fonti materiali e le condizioni ambientali dei loro lavori – sovente riletture di tragedie latine, in particolare di Seneca, o comunque drammi storici con una forte accentuazione martirologica delle figure regie.
Ed è proprio in questa chiave storico-politica che può inquadrarsi appieno, dopo la funzione del gioco, il ruolo del lutto nella determinazione del concetto di Trauerspiel. Proprio Benjamin (e con lui, più recentemente, Bettine Menke18) ha ribadito la centralità del fattore luttuoso per cogliere la differenziazione tra tragedia e Trauerspiel. La mera equiparazione delle due forme teatrali portata avanti dal linguaggio comune e da taluni lessici tace circa l’assenza del lutto nella teoria aristotelica del tragico19. In uno dei passaggi del suo libro che più è debitore delle teorie del giurista eccentrico Florens Christian Rang (1864-1924)20, Benjamin rivendica il carattere costitutivamente impuro del lutto, poggiando su un verso di Die beleidigte Liebe oder die großmütige Mariamne di Hallmann del 1670 (II, 529-530): «solch Trauer-Spiel kommt aus deinen Eitelkeiten (Questo dramma del lutto viene dalla tua vanità!)». Nel dramma luttuoso il lutto si mostra dunque subito «disponibile per queste combinazioni» coi sentimenti più vari, legandosi agli oggetti cui si accompagna. E se la tragedia esprime tanto nel silenzio dell’eroe quanto nella sua parola «un grado preliminare della profezia» che si mette alla prova e che si avvera nell’esperienza tragica del destino, a differenza della tragedia il dramma luttuoso è «pensabile in termini di pantomima». Si indirizza cioè non ad affliggere uno spettatore già in lutto di suo per l’impossibilità teologicamente sancita dalle dottrine luterane di agire nel mondo, bensì all’intendimento dello spettatore, ai vissuti che sperimenta rispetto a ciò che è in scena. Non è dunque, il Trauerspiel, uno «spettacolo che rende tristi, quanto quello in cui il lutto trova il proprio soddisfacimento: uno spettacolo per tristi (Spiel vor Traurigen)»21, che non può essere interpretato in chiave psicologistica, quanto semmai fenomenologica. Osservando come il lutto si fa gioco, prende gioco sul palco.
L’ambiguità anfibia del lemma Trauerspiel è palese. Vi è qualcosa di artificiale, di ostentatamente ironico nella disposizione scenica. Come rilevò il giurista cattolico Carl Schmitt nel saggio Hamlet oder Hekuba. Der Einbruch der Zeit in das Spiel (1956, in buona parte una replica obliqua e quanto mai tardiva alla monografia che Walter Benjamin gli aveva inviato nel 1930), «vi sono due fonti dell’accadere tragico: una è il mito nella tragedia antica, che comunica gli avvenimenti tragici; l’altra – come nell’Amleto –, è il presente storicamente effettivo, che coinvolge poeti, attori e spettatori»22. Gli eventi del dramma luttuoso, secondo Schmitt, vengono quindi tratti senza mediazione dalla storia: gli spettatori ne sono già scossi, sono individui storicamente “tristi” che si sentono in colpa per la loro disgrazia, per la loro tristezza. E che non sanno – in epoca di somma confusione confessionale e dottrinale le cui ripercussioni politiche e belliche erano sovente immediate – se debbono fare qualcosa, se le azioni contano.
Sovranità
Nel dramma luttuoso non c’è un eroe che agisce. Non c’è una vittima. Ma c’è un sovrano, o almeno qualcuno che gli somiglia, che reca i suoi ornamenti, le sue vesti, e progressivamente assume i tratti del martire. Dopo che nell’ambito della “prima” scuola Martin Opitz ebbe colorato di accenti luttuosi i drammi pastorali (come nell’adattamento di Dafne nel 1627), nella seconda scuola slesiana la sovranità entra in scena come protagonista in drammi storici in cui il monarca è identificato quale vittima sacrificale (come nel Carolus Stuardus di Gryphius, scritto a pochi mesi dalla decapitazione di Carlo I, nel 1649). Ma quei Trauerspiele risentono di accenti eterogenei, forniti ad esempio dalla recente fortuna europea del romanzo picaresco23. Tonalità simili si rintracciano nella caratterizzazione dei cortigiani che animano i ristretti gabinetti consiliari dell’epoca, in cui la cameralistica e la Polizeiwissenschaft che tanto significarono per le discipline giuspubblicistiche sono in germe24. Tra gli intriganti, «libero di perseguire la propria soggettività fino all’estremo, il sovrano è pronto a giocare la parte del tiranno o del martire» – a volte entrambi i ruoli nello stesso dramma25. Per quest’ambivalenza del soggetto, la “sovranità” si caratterizza come uno dei concetti più controversi della monografia benjaminiana. Il primo capitolo dell’Origine del dramma luttuoso tedesco prende propriamente le mosse dalla discussione del tema teologico-politico sollevato nel 1922 da Carl Schmitt, tema che ha sollevato speculazioni non solo teorico-letterarie, ma anche biografiche riguardo alle “relazioni pericolose” tra i due autori26.
Nel paragrafo Teoria della sovranità sono tre i rimandi puntuali alla Teologia politica schmittiana. Il primo rinvio è un distillato del patrimonio teorico schmittiano dei primi anni Venti, ma in un contesto storicamente delimitato.
Se il moderno concetto di sovranità conduce a un potere esecutivo supremo da parte del principe, quello barocco si sviluppa a partire da una discussione sullo stato di eccezione, e considera una delle più importanti funzioni del principe quella di evitarlo27.
Le conseguenze dell’eccezionalità della figura del principe barocco – cui per così dire, ed è paradosso fondante, spetta per norma di evitare l’eccezione – vengono ulteriormente ribadite quando Benjamin evoca un «sovraccarico della trascendenza» come effetto di contrasto allo svuotamento del mondo immanente.
Nel modo di pensare teologico-giuridico che è così caratteristico di questo secolo si esprime quel sovraccarico dilatorio della trascendenza (Überspannung der Transzendenz) che è alla base di tutti i provocatori accenti mondani del barocco. Poiché di fronte a esso sta, in antitesi all’ideale storico della restaurazione, l’idea della catastrofe. E a questa antitesi è improntata la teoria dello stato d’eccezione. […]. L’individuo religioso del barocco si avvinghia tanto al mondo perché si sente trascinato verso una cascata insieme a esso28.
Il credente nobiluomo non di estrazione borghese – non legato cioè a una condotta etica quotidiana sostanzialmente improntata a principî quietisti – può solo avvinghiarsi al mondo, ma senza capacità di presa effettiva. Può anche essere un principe, ma non avrà qualità sovrane. A questo proposito è certo curioso che la famigerata relazione pericolosa tra Schmitt e Benjamin si fondi in ultima analisi su una contrapposizione quanto mai aspra. Perché il principe, il sovrano, non ha alcuna facoltà di decidere. Il suo archetipo è Amleto. Che non fa nulla. È melanconico. Consapevolmente o meno, Benjamin delinea l’incubo di Carl Schmitt – un sovrano dotato di potestà esecutiva, ma tendente alla malinconia, o alla follia. Un signore dunque, che può essere tiranno, folle e dotato di potestà esecutiva follemente applicata, ma non sovrano se non nel titolo – che non realizza pertanto alcuna analogia teologico-politica. E che mette così in questione l’intero apparato concettuale della sovranità in senso moderno. Perché nel frangente storico che interessa Benjamin è l’intero genere umano a vedersi come creatura. E il sovrano non fa eccezione. La creaturalità si rivela come il concetto decisivo che segna la differenza tra tragedia e dramma luttuoso.
Il senso della rovina martirologica non è la trasgressione etica, ma la stessa condizione dell’individuo creaturale. Una rovina di questo tipo, così diversa da quella straordinaria dell’eroe tragico, è ciò che avevano in mente i poeti quando definivano un’opera “dramma luttuoso” (“Trauerspiel”)29.
Colpa
All’inizio della terza sezione del suo scritto di abilitazione Benjamin approfondisce nel dettaglio il problema della morale immanente all’epoca delle guerre di religione, spiegando le implicazioni della dottrina della grazia luterana per i diversi ceti sociali.
I grandi drammaturghi tedeschi dell’epoca barocca erano luterani. Se nei decenni della restaurazione controriformistica il cattolicesimo aveva compenetrato con tutta la forza della sua disciplina la vita profana, il luteranesimo aveva invece assunto da sempre, nei confronti della vita di tutti i giorni, una posizione contraddittoria (antinomisch). Alla rigorosa eticità della condotta di vita borghese che prescriveva si contrapponeva la sua presa di distanza nei confronti delle “opere buone”. Nel negare il loro particolare e miracoloso potere spirituale, nel rinviare l’anima alla grazia della fede, e nel fare della sfera profana e statale (weltlich-staatlich[er] Bereich) il banco di prova di una vita soltanto indirettamente religiosa, destinata all’attuazione di virtù borghesi, il luteranesimo ha instillato nel popolo un rigoroso senso del dovere, ma nei grandi la malinconia30.
Il problema approcciato da Benjamin in questo inizio di sezione è quello della svalutazione dell’azione intramondana da parte protestante, sulla base del principio sola fide. Se il mondo non reca in sé un senso immanente, sorge il lutto, che può essere definito come un «atteggiamento per cui il sentimento rianima il mondo svuotato nella forma di una maschera (die entleerte Welt maskenhaft neubelebt), per attingere a un enigmatico compiacimento alla sua vista»31. È stato Nikolaus Müller-Schöll a determinare ulteriormente il lutto, con formula efficace, come «contemporanea posizione ed esposizione del mondo come vuoto. Il lutto è la lingua della comunicazione dopo la Caduta»32. Ma occorre rilevare di rimando che non si tratta di un sentimento soggettivo (né dei personaggi né del pubblico), «ma [di] un sentire libero da ogni soggetto empirico e intrinsecamente legato alla pienezza di un oggetto»33. Nella sua accezione più genuina il lutto del Trauerspiel, secondo la definizione di Benjamin, risponde a una struttura, a una complessione del mondo. È un’attitudine (una Gesinnung), che costruisce il mondo, non un sentimento che lo rispecchi. In riferimento a quest’attitudine costruttiva Benjamin cita Hamlet, in particolare la sua teoria dell’animalizzazione dell’umano nel mondo svuotato.
Che cos’è l’uomo/ se il suo maggior bene e il migliore impiego del suo tempo è / per lui, mangiare e dormire? Una bestia: niente altro./ Certo, chi aprì alla nostra percezione un così vasto orizzonte/ che vi si può comprendere e scoprire il prima e il poi, / non ci accordò il privilegio divino della ragione/ per lasciarlo, trascurato, ad ammuffire34.
Benjamin rileva come questo passo shakespeariano sia al contempo «filosofia di Wittenberg» e «rivolta contro di essa»35. È in questo quadro che si insinua la coscienza della colpa. Meglio, la questione della colpa può essere interpretata come un contraccolpo in riferimento a questo mutamento epocale nel contegno etico determinato da fattori religiosi, che per il tramite della svalutazione delle opere apre il tempo della vita alla noia e alla melanconia in diversi strati sociali. Il nobile saturnino, il borghese che replica ogni giorno il suo dovere s’interrogano ripetutamente sull’origine della condizione statica in cui versano, il peccato originale.
Cosa accade al soggetto morale in questo contesto? Può dirsi libero, anche se colpevole? Un ulteriore confronto con le teorie di Carl Schmitt può preparare il terreno per fornire qualche risposta. Nel suo studio del 1919 sul Romanticismo Politico – coevo della dissertazione benjaminiana sul Concetto di critica d’arte nel romanticismo tedesco, a mostrare un orizzonte d’interessi quantomeno affine –, Schmitt propone la sua lettura del Romanticismo come manchevole di un “pensiero ontologico”. A puntellare la sua interpretazione, il giovane giurista ricorre in modo quanto meno singolare, per l’anacronismo intenzionale, all’immagine di Prospero nella Tempesta di Shakespeare, che «tiene tra le mani il gioco meccanico (Maschinenspiel) del dramma». Per poi proseguire sulla stessa falsariga leggendo in quella sorta di ludus theatralis intrigante e ironico un archetipo dell’«invisibile potenza della libera soggettività» romantica, «segreta, irresponsabile e giocosa»36. Certo, si tratta di esempi (e aggettivazioni) dalla sicura eco primo-ottocentesca. E il comune percorso di Benjamin e Schmitt dal romanticismo al barocco, nella stessa faglia temporale, può suggerire anche conclusioni comuni. Ma, tornando alla domanda già posta in partenza, la fascinazione dei romantici (in particolare tedeschi) per il barocco, e il notevole utilizzo che fecero del concetto di Trauerspiel per definire i loro drammi è davvero significativo per una lettura corretta del dramma luttuoso e del suo concetto? In Benjamin è palese il tentativo di fornire una lettura non soltanto romantica del Trauerspiel, contro ogni facile retroproiezione del XIX secolo al Barocco. E qui rientra in gioco quanto affermato sul nesso tra colpa e creaturalità nell’orizzonte delle dottrine della giustificazione e della grazia.
Nella teoria della soggettività barocca, che Benjamin va delineando nella sua monografia, il concetto della “colpa” è infatti un secondo, decisivo strumento teorico per intendere appieno l’immagine di un soggetto etico che tiene il “gioco” tra le mani. La colpa appare qui come un’ulteriore chiave per distinguere il dramma luttuoso dalla tragedia (Benjamin può qui agevolmente connettersi tanto all’Estetica hegeliana quanto al giovane Lukács), e per svuotare la sovranità del suo elemento centrale – la decisione.
Secondo Benjamin, il Trauerspiel illustra tale questione al meglio nei “drammi del destino” (Schicksalsdramen). Se la storia è al contempo un terreno con e senza grazia, a seconda dell’elezione delle creature, «nello spirito della teologia restaurativa della Controriforma» il destino diviene propriamente una storia naturale, ossia, nelle parole di Benjamin, «la violenza elementare della natura nell’accadere storico, che non è di per sé del tutto natura, poiché lo stato creaturale riflette ancora il sole della grazia. Rispecchiato, però, nella pozza della colpevolezza adamitica»37. Se la storia è il territorio dove la grazia appare e non appare, a seconda delle diverse regioni e delle loro confessioni, se essa è “storia naturale” di un’unica caduta, teatro spoglio di senso della dialettica infeconda tra la grazia e l’eco della colpa, allora la colpa svuota il soggetto morale e il suo rappresentante politico, il sovrano-tiranno, che dovrebbe tenere la “macchinazione” tra le mani. Costringe il sovrano tra lande desolate, lo sveste di ogni abito tragico. «Nel destino e nel dramma del destino è di casa la colpa, attorno a cui si è spesso articolata la teoria del tragico. Questa colpa, che secondo gli antichi ordinamenti doveva ricadere sugli uomini dall’esterno, attraverso la sventura, nel corso dell’evento tragico un eroe la assume su di sé e al proprio interno». Diversamente, il protagonista del Trauerspiel non è né sovrano né eroe. «Il dramma luttuoso non conosce eroi, ma soltanto costellazioni. La maggior parte dei personaggi principali che troviamo in tanti drammi barocchi – Leone e Balbo nel Leo Armenius, Catharina e Chach Abas in Catharina von Georgien, Cardenio e Celinde nel dramma omonimo, Nerone e Agrippina, Massinissa e Sofonisba in Lohenstein – è del tutto priva di carattere tragico, ma adatta allo spettacolo triste (untragisch, dem traurigen Schauspiele aber angemessen)»38. Come dunque non si dà decisione sovrana, non vi è colpa realmente soggettiva: non solo nel senso tragico – quello in cui l’eroe sceglie la colpa, l’assume su di sé – ma anche nel senso insieme triste e “macchinale” della colpa del genere. In perfetta antitesi alla lettura kantiana di Genesi delineata nel saggio del 1786 Inizio congetturale della storia degli esseri umani, la colpa “irresponsabile” (non decisa, o almeno replicata, da un soggetto che assume la caduta del genere come atto di libertà) diventa funzione della strumentalità del “gioco” teatrale. Manifesta la presenza di una causalità come fatalità inarrestabile che “fa gioco”.
Nucleo del pensiero del destino è piuttosto la convinzione che sia la colpa, che in questo contesto è sempre colpa creaturale – in termini cristiani: peccato originale – e non una mancanza etica di chi agisce (stets kreatürliche Schuld – christlich: die Erbsünde –, nicht sittliche Verfehlung des Handelnden), a innescare, con la sua manifestazione anche fugace, la causalità, come strumento degli eventi fatali nel loro inarrestabile svolgimento39.
Se dunque non c’è una qualità soggettiva della colpa – una libera azione, una responsabilità di cui rendere conto –, l’elemento destinale nel dramma luttuoso funziona in modo tale da far sì che la colpa si attacchi, aderisca alle cose. Ne segue che quella “mancanza ontologica” di realtà che Carl Schmitt leggeva nel romanticismo non può essere identificata con il procedimento del barocco. Esiste una realtà barocca che è «presagio di morte»: «nel dramma del destino la natura dell’uomo si esprime nella cieca passione, così come quella delle cose nel cieco caso (in dem blinden Zufall), sotto la comune legge del destino»40.
Per questa ragione il fattore principale del procedimento allegorico – il secondo fondamentale corno dell’interpretazione benjaminiana, strumento semiotico fondamentale della poetica del Trauerspiel – è la colpa stessa, che vive mediatamente nell’oggettività. Allegoria, realtà, colpa formano un triangolo senza soluzione di continuità, di matrice cristiana, estranea a ogni realtà tragico-pagana.
È la colpa che nega all’oggetto allegorico di trovare in sé un qualsiasi riempimento di senso. La colpa non risiede soltanto in chi considera allegoricamente le cose, e tradisce il mondo per amore del sapere (der die Welt um des Wissens willen verrät), ma anche nell’oggetto stesso della sua contemplazione. Questa visione, fondata sulla dottrina della caduta della creatura, che trascina con sé l’intera natura, è il fermento della profonda allegoresi occidentale41.
Se questo è il profilo di identificazione del mondo delle cose con lo sguardo semiotico del melanconico che considera i realia tutti allegorie integrali della Caduta, il problema della colpa collassa con la logica del giudizio sul bene e il male: «L’unità tra colpa e significato nasce con il peccato stesso, davanti all’albero della ‘conoscenza’, come astrazione. L’allegorico vive di astrazioni, e come astrazione, come una facoltà dello spirito stesso del linguaggio, è di casa nel peccato (ist es im Sündenfall zu Hause)»42. Astrarre, dare un significato “altro” alle cose, è la replica stessa della colpa di essere “nella” storia.
Empatia: Benjamin, Brecht e gli spettatori
Se la triangolazione allegoria-significato-accessori (scenici, verbali) designa lo spazio in cui lo spettatore fa esperienza con l’autore, col personaggio, del proprio lutto creaturale, occorre tuttavia chiarire come il procedimento messo in atto dal dramma luttuoso non coincida con una ricerca dell’immedesimazione del pubblico nei personaggi. Certo, non può non notarsi come il tema dell’empatia o immedesimazione – Einfühlung –, sia quasi assente, menzionato solo nella Premessa del Trauerspielbuch43. Eppure, se anche il lemma Einfühlung non prende la scena, in quel testo possono rinvenirsi i presupposti della più tarda critica dell’empatia che Benjamin muoverà in compagnia di Bertolt Brecht.
Il presupposto fenomenologico di questa critica, che troneggia nel libro sul dramma luttuoso tedesco, è certamente l’analisi, nello spazio scenico barocco, dell’attitudine emotiva del principe e del cortigiano-intrigante. Ambedue, a più riprese, connotate da spiccati tratti accidiosi. E l’acedia, così diranno le tarde tesi Sul concetto di storia, è il sentimento costitutivo alla base dell’empatia44. La precedente dissoluzione della funzione decisionista della sovranità moderna trova la sua tonalità emotiva.
Come accidia, la malinconia del tiranno si presenta in una luce nuova, più nitida. […] Perlopiù, l’indecisione del principe non è altro che accidia saturnina. […] Corona, porpora, scettro sono in definitiva degli accessori di scena (Requisiten) nel senso del dramma del destino e portano con sé un fato, a cui il cortigiano (Höfling) è il primo a sottomettersi, come suo augure. La sua infedeltà verso gli uomini corrisponde a una fedeltà cieca, sprofondata in una sorta di dedizione (Ergebenheit) contemplativa, verso queste cose45.
Come ha notato Romain Jobez nel suo fondamentale studio sui drammi tedeschi e francesi del Seicento46, l’acedia struttura emotivamente non solo i personaggi principali del dramma, ma anche gli spettatori (Beschauer) del Trauerspiel, che vanno distinti secondo Benjamin dal pubblico (die Zuschauer) tragico.
Se il pubblico (Zuschauer) della tragedia è richiesto e giustificato dalla tragedia stessa, il dramma barocco va inteso invece a partire dallo spettatore (Beschauer). È quest’ultimo a sperimentare come sulla scena – uno spazio interno (Innenraum) del sentimento del tutto slegato dal cosmo – gli vengono presentate insistentemente alcune situazioni47.
Non si tratta dunque, nel dramma luttuoso, di una particolare qualità psicologica insita nello sguardo dello spettatore, quanto della capacità intrinseca al lutto di penetrare e dominare il mondo dello spettatore attraverso le parole e gli orpelli di scena – le “situazioni”. La ripetizione delle “situazioni” nello spazio intimo del sentimento è proprio ciò che frena ogni disponibilità all’azione. Ma la sua condizione emotiva è l’acedia – la “fedeltà” contemplativa al mondo delle cose, un mondo saputo in lutto perché investito dal lutto creaturale della colpa.
Il sodalizio con Brecht andrà nella direzione di guadagnare distanza da tali “situazioni”. È noto come pochi anni dopo Benjamin abbia raccomandato, a livello di tecnica teatrale, l’interruzione del modello aristotelico, dei meccanismi di identificazione, empatia o flusso di sensazioni (i vari termini per dire immedesimazione), per favorire una presa di posizione critica e politica. Il pubblico empatico del dramma deve trasformarsi in spettatore di drammi didattici. Nella seconda stesura del saggio sul “teatro epico” brechtiano (del 1939, di otto anni successiva alla prima), Benjamin spiega Brecht attraverso l’antica distinzione tra dramma luttuoso e tragedia, sottolineando il piano emotivo dello spettatore (che, si noti, sul piano terminologico, viene qui chiamato Zuschauer).
Ciò che viene tolto di mezzo nell’opera drammatica di Brecht è la catarsi aristotelica, la scarica degli affetti tramite la partecipazione (Einfühlung) al commovente destino dell’eroe. L’interesse rilassato del pubblico (das entspannte Interesse des Publikums) per il quale sono previsti gli spettacoli del teatro epico ha la sua peculiarità nel fatto che non si fa quasi appello alla facoltà d’immedesimazione (Einfühlung) dello spettatore (Zuschauer). Per il teatro epico l’arte sta appunto nel suscitare al posto dell’immedesimazione lo stupore. Per dirla con una formula: invece che immedesimarsi nell’eroe, il pubblico deve piuttosto imparare a stupirsi delle situazioni in mezzo alle quali questi si muove48.
Negli spettacoli teatrali concepiti dal teatro epico, gli intervalli sono funzionali a instaurare un conflitto con l’acedia e l’immedesimazione, per guadagnare infine la giusta distanza. Come rilevato con sufficiente understatement (e attitudine palesemente benjaminiana) da Susan Sontag alla fine del suo ultimo lavoro che prende lo spunto dalla fotografia di guerra: «there’s nothing wrong with standing back and thinking. To paraphrase several sages: “Nobody can think and hit someone at the same time”»49. Pensare, in questa chiave d’interruzione del flusso del sentimento, resta un gesto critico. Suscitare il pensiero è dunque un motivo che trova il suo presupposto nella diga opposta al sentimento: «nascono intervalli che compromettono l’illusione del pubblico. Disturbano la sua disponibilità all’immedesimazione»50.
Gli interventi critici di Benjamin sulla tecnica teatrale brechtiana rifondono il materiale teorico accumulato nel libro sul Trauerspiel con l’esplicita intenzione di lasciar abitare politicamente lo spazio intermedio tra immagine scenica e significato, tra il gesto e il corpo nello spazio (nell’aldiquà scenico, e teologico-politico) e la sua interpretazione. Si tratta dunque di pensare, con Brecht, una trasformazione del lutto con cui si inaugura la modernità teatrale in un sentimento radicalmente diverso, che accompagni la messa in questione della subordinazione e dell’oppressione. Si tratta di pensare una forma diversa di tecnica della scena che non si armonizzi al lutto.
Huizinga, Bataille, Benjamin: giocare con la colpa
Resta un’ultima questione. Sancita la fine dell’alleanza della drammaturgia col lutto del mondo e l’acedia, sua complice soggettiva, lo spazio materiale delle parole drammaturgiche intesse ancora un rapporto con il gioco? E se alla fine del testo di Benjamin ancora leggiamo di un ruolo del gioco, di quale gioco si tratta?
Per rispondere a questa domanda è opportuno chiamare in causa nuovamente Huizinga e la sua accezione del gioco. Proprio la sua determinazione del fenomeno ludico può essere utile a spiegare l’ultimo passaggio del Trauerspielbuch, ovvero l’intimo movimento dialettico che Benjamin individua nel dramma luttuoso. Un moto, una dialettica che parimenti, come visto, lo indurranno ad andare oltre l’interesse per il Trauerspiel, verso soluzioni che lo avvicinano a Brecht. Occorre dunque tornare a Huizinga, che proprio in quegli anni faceva del gioco una funzione strutturale dell’agire umano, ma anche alla sorprendente lettura che ne diede Georges Bataille – colui a cui Benjamin affidò il suo legato, prima di fuggire da Parigi occupata dai nazisti nel giugno del 1940.
Nella prefazione a Homo ludens, vergata a Leida nel giugno 1938, Huizinga ricorda come il suo discorso di rettorato in quella università recasse come titolo Sui limiti del gioco e del serio nella cultura. Ricorda altresì che «il gioco è considerato qui come fenomeno culturale»51. Il gioco è visto come espressione, piuttosto totalizzante, della Kultur. Ed è visto in contrapposizione all’Ernst, alla serietà – Huizinga avrà agio a rimarcare l’opposizione greca tra lavoro e diagogè, a ribadire come l’ozio nel pensiero greco sia “preferibile al lavoro” perché questo ha un telos, mentre il gioco, a suo avviso, è azione «secondo una regola volontariamente assunta, e che tuttavia impegna in maniera assoluta, che ha un fine in se stessa; accompagnata da un senso di tensione e di gioia, e dalla coscienza di “essere diversi” (Anderssein) dalla “vita ordinaria”»52.
Nell’estate del 1951 Georges Bataille, che aveva individuato nel gioco (e nella poesia, nell’erotismo, nel riso, nella violenza) un’espressione di ciò che chiamava sovranità – una dimensione dell’esistere estranea ai ritmi della produzione, della strumentalità –, si getta su Homo ludens, appena tradotto in francese. Coglie immediatamente quale sia la posta in gioco per puntellare la sua stessa posizione, e i frutti che quel 1933 aveva gettato per entrambi (Huizinga col suo discorso rettorale, La notion de dépense per Bataille, il saggio dove aveva difeso lo “spreco” contro l’accumulo, in una chiave anticapitalista che molto doveva al Saggio sul dono di Marcel Mauss) vanno finalmente a confrontarsi. L’umano e il ludico nell’umano altro non sono, secondo Bataille, che lacerti di un gioco più grande, di un’economia generale della dissipazione. «Non sono solo gli animali a giocare, la natura tutta può esser vista come un gioco… Questi frammenti straordinari, i loro colpi di scena infiniti, e questa profusione di forme inutili, brillanti o mostruose non sono soltanto dei giochi nel bagliore dello spirito: sono oggettivamente dei giochi, nella misura in cui non hanno fine»53.
In questa chiave l’a-teleologia della sfera ludica è il primo elemento dell’analisi di Huizinga a colpire Bataille, assieme agli elementi della “febbre” e della “gioia” che accompagnano quell’esperienza. Ma subito Bataille va nella direzione di connettere l’idea-cardine di Huizinga (la serietà con cui si gioca, apparentabile alla serietà cultuale) al sacro. Col plauso di Bataille, Huizinga unisce il bambino, il poeta e il primitivo nella «sfera del gioco sacro»54. Proprio in tale accezione, Bataille coglie però un limite nella proposta di Huizinga: vale a dire che il gioco abbia una tendenza all’ordine. E che quest’ordine si esprima nella tendenza di Huizinga a considerare il ludico come una funzione del culturale.
Ma se vogliamo giudicare a partire da una cultura così estesa, occorre partire dal fatto che essenzialmente essa si è poggiata su dei terrori primitivi, il cui effetto immediato si manifestava sotto forma di interdetti. Sono gli interdetti molto generali che distinguono in maniera fondamentale gli uomini dagli animali. […] Potremmo esser tentati di percepire qui i limiti del pensiero di Huizinga: tutto sarebbe gioco nella cultura ad eccezione degli interdetti55.
Qui, nel rifiuto di Huizinga di leggere insieme gioco e divieti, si colloca la ratio della presa di distanza di Bataille. Il gioco ha a che fare con gli interdetti. E se il sacro ha a che fare col gioco, è proprio perché considera dialetticamente al proprio interno il disordine, non l’ordine: «se la sfera del sacro è quella della regola, lo è nella misura in cui è quella del dérèglement». Il gioco è dunque sacro in quanto è la regola della deregolamentazione: «credo al contrario che gli interdetti testimonino innanzitutto dell’esuberanza umana, non sono veramente dei giochi, ma le reazioni che risultano dall’urto di un’attività utile, seria […]. Il gioco è, mi sembra, un disordine limitato»56. E questo disordine con regole è quanto viene condiviso da chi gioca e da chi guarda il gioco, nei termini di un’energia che non si fonda su presupposti psicologici, sull’empatia, ma su un’interazione nelle cose che vede spettatori e attori espropriati di una finalità nel gioco, eppure giocatori.
Il gioco mette all’opera l’energia eccedente dei partecipanti (attori e spettatori): presuppone da parte loro un eccesso di energia sufficiente per non dare loro l’impressione di essere sovrastati, che l’orrore, la ripugnanza e la paura saranno troppo forti57.
Tanto più “violento”, tanto più il gioco sarà giocato. Per questo Bataille ricorre all’esempio della corrida. Nella lettura batailleana della corrida come gioco “sovrano” che coinvolge spettatori e protagonisti, è l’exubérance, l’eccesso ad abitare il gioco. Che va a scavalcarne le regole e gli interdetti. La soggettività del dominio viene così “tolta” da una figura che può dirsi sovrana solo nel senso di Bataille (e non di quel Carl Schmitt che leggendo Benjamin insisteva, in Amleto o Ecuba, sull’alterità radicale tra politica – serietà – e gioco). Si tratta, nel giocatore, di un sovrano che non domina, ma è attraversato dall’esuberanza energetica in atto.
Solo in questa direzione giocosa, eccessiva e antinomica può cogliersi il grand final dialettico e “serio” del Trauerspielbuch. Secondo Benjamin, portato all’estremo, lo sconcerto melanconico dell’allegorista – dell’individuo morale agli albori del moderno – arriva a mettere in discussione la “colpa” e giocandola, mettendola in scena, si ritrova «sotto il cielo».
E il mondo che si era consegnato e arreso al profondo spirito di Satana è il mondo di Dio. L’allegorista si risveglia nel mondo di Dio. […]. Si perde però, per l’allegoria, anche tutto quello che le apparteneva nel modo più proprio: il sapere privilegiato e segreto, l’arbitrio sulle morte cose, la presunta infinità di uno spazio vuoto di speranza. Tutto è spazzato via in un unico capovolgimento (Umschwung), in cui la contemplazione (Versenkung), è costretta ad abbandonare anche l’ultima fantasmagoria dell’oggettivo e, rimessa del tutto a se stessa, si ritrova non più per gioco (spielerisch) in un mondo terrestre di cose, ma sul serio (ernsthaft) sotto il cielo58.
Serietà e gioco si confondono quindi, in una modernità che si avvia a una nuova svolta, come soggetto e oggetto. Non vi è arbitrio, né decisione soggettiva, ma «questo tempo dell’inferno viene secolarizzato nello spazio (im Raume säkularisiert)»59. Una simile inversione non riguarda (soltanto) la “colpevolezza” (l’esser caduta) della creatura, ma concerne il superamento dialettico di ogni colpa in un mondo che affonda certo le sue radici nell’orizzonte del Cristianesimo60, ma che ha cominciato a giocare con queste radici, e proprio nel senso che Georges Bataille ha attribuito al gioco. Nell’energia performante del gioco il teatro barocco mette in scena un soggetto che ha preso sul serio la trasgressione del peccato originale, che vede insieme divieto e trasgressione e ne è espropriato. Così finalmente il Trauerspiel nel suo movimento profondo supera il lutto della colpa creaturale, suggerendo margini d’azione, spazi di libertà che non domina né governa.
- Ne fece ampio studio P. Szondi, Die Theorie des bürgerlichen Trauerspiels im 18. Jahrhundert: Der Kaufmann, der Hausvater und der Hofmeister, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1973. ↩
- H. Müller, Anatomia Titus Fall of Rome. Ein Shakespearekommentar (1985), scena 9, in Id., Werke, vol. 5, Die Stücke 3, pp. 99-188: 159; trad. it Anatomia Tito Fall of Rome. Un commento shakespeariano, a cura di F. Fiorentino, L’orma, Roma 2017, p. 107. ↩
- W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels [ed. orig.: Rowohlt, Berlin 1928, già presentato come Habilitationschrift all’Università di Francoforte nel 1925], in Gesammelte Schriften, hrsg. von R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser, 7 voll., Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1972-1991, vol. I, Abhandlungen, t. 1, pp. 203-430. La prima e la seconda traduzione (a cura di E. Filippini, Einaudi, Torino 1971; a cura di F. Cuniberto, Einaudi, Torino 1999, abbreviano il titolo in Il dramma barocco tedesco; la terza, a cura di Alice Barale, prefazione di F. Desideri, Origine del dramma barocco tedesco, Carocci, Roma 2018, è quella che seguiremo). Nella pianificazione dei Werke und Nachlaß. Kritische Gesamtausgabe, Suhrkamp, Berlin 2008-… il testo, previsto come vol. 6 (s.d.), verrà riedito alla luce dei molti reperti rinvenuti nei decenni. ↩
- L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, Einaudi, Torino 1964-1977, vol. I, Dai primordi pagani all’età barocca (750-1700), t. 2 (1964), pp. 768-776 e 828-857. ↩
- Ivi, pp. 830-831. ↩
- G. Tadeo, Slesia, in Atlante della letteratura tedesca, a cura di F. Fiorentino – G. Sampaolo, Quodlibet, Macerata 2009, pp.473-479: 476. ↩
- L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, vol. 1, t. 2, cit., p. 829. ↩
- J. O. Newman, Benjamin’s Library. Modernity, Nation and the Baroque, Cornell University Press, Ithaca-New York 2011, p. 172. ↩
- H. Marggraff, Trauerspiel, in Allgemeines Theater-Lexikon oder Encyklopädie alles Wissenswerthen für Bühnenkünstler, Dilettanten und Theaterfreunde, a cura di R. Blum, C.-G.-R.Herloßsohn, H. Marggraff, Expedition des Theater-Lexikons, Altenburg et al. 1842, vol. VII, pp. 128-132: 128. ↩
- W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 260; trad. it. Origine del dramma barocco tedesco, cit., p. 132. ↩
- Ivi, p. 261; trad. it. cit., p. 132. ↩
- J. Huizinga, Homo ludens. Vom Ursprung der Kultur im Spiel [1939], Rowohlt, Hamburg 1956, pp. 174-175; trad. it. di C. van Schendel, Homo ludens, saggio introduttivo di U. Eco, Einaudi, Torino 1973, p. 214. ↩
- Ivi, p. 162; trad. it., p. 198. ↩
- Ibidem. ↩
- Esiste una lettura del medesimo passo nella recensione di Homo ludens vergata da Georges Bataille all’inizio degli anni Cinquanta, che ne discute il nucleo mettendo acutamente il rilievo il ruolo dei divieti nell’ambito del gioco: secondo Bataille anche gli interdetti avrebbero a che fare con l’«esuberanza umana» (G. Bataille, Sommes-nous là pour jouer où pour être sérieux ?, in Œuvres Complètes, XII voll., Gallimard, Paris 1970-1987: vol. XII, pp. 100-125: 110). Torneremo in conclusione su questo punto. ↩
- J. Huizinga, Homo ludens, cit., p. 175; trad. it., p. 215. ↩
- S. Weber, Theatricality as a Medium, Fordham University Press, New York 2004, p. 168. ↩
- B. Menke, Das Trauerspiel-Buch. Der Souverän – das Trauerspiel. Konstellationen – Ruinen, transcript, Bielefeld 2010, p. 27. ↩
- W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 297; trad. it. Origine del dramma barocco tedesco, cit. p. 174. ↩
- Si veda nella nuova edizione di Origine del dramma barocco tedesco i documenti raccolti da Alice Barale nella sezione “Lo scambio con Florens Christian Rang”, ivi, pp. 403-417. ↩
- W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit. p. 297; trad. it. Origine del dramma barocco tedesco, cit., pp. 174-175. ↩
- C. Schmitt, Hamlet oder Hekuba. Der Einbruch der Zeit in das Spiel, Diederichs, Düsseldorf-Köln 1956, p. 51; trad. it. di S. Forti, Amleto o Ecuba. L’irrompere del tempo nel gioco del dramma, a cura di C. Galli, il Mulino, Bologna 1983 (20122), p. 92. Anche qui, quanto al titolo, si noti la necessità avvertita dalla traduttrice di rendere il termine Spiel con un duplice vocabolo (“gioco del dramma”). Si noti altresì come l’autore insiste a lungo sulle similarità tra Spiel e play, per sottolinearne comunque l’impermeabilità con l’Ernstfall, il caso serio, d’emergenza. Il secondo excursus del testo, Sul carattere barbarico del dramma shakespeariano, discute qualche passo dell’Ursprung des deutschen Trauerspiels. Carl Schmitt aveva ricevuto già nel dicembre 1930 una copia dello scritto benjaminiano, accompagnata da una lettera e una dedica, ma non aveva mai risposto Benjamin vivente (cfr. W. Benjamin, An Carl Schmitt, in Id., Gesammelte Briefe, 6 voll,, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1995-2000: vol. III, p. 558) ↩
- Un accento valorizzato già da L. Mittner, Storia della letteratura tedesca, vol. 1, t. 2, cit., pp. 831- 832. ↩
- B. Menke, Das Trauerspiel-Buch. Der Souverän – das Trauerspiel. Konstellationen – Ruinen, transcript, Bielefeld 2010, pp. 106-107. ↩
- B. Hoxby, Baroque Tragedy, in J. D. Lyons (ed. by), The Oxford Handbook of the Baroque, Oxford University Press, Oxford 2019, pp. 516-539: 527. ↩
- Prima ricostruzione al riguardo fu lo studio di S. Heil, “Gefährliche Beziehungen”. Walter Benjamin und Carl Schmitt, Metzler, Stuttgart 1996. Ulteriori elementi per una corretta impostazione del rapporto furono forniti poco più tardi da H. Bredekamp, From Walter Benjamin to Carl Schmitt via Thomas Hobbes, in «Deutsche Zeitschrift für Philosophie», 46, 6, 1998, pp. 901-916. Il tema complessivo della relazione divenne di lì occasione per riflessioni teologico-politiche che non hanno evitato una certa confusione tra due autori aspramente contrapposti. Per una messa a punto cfr. D. Gentili, Lo stato d’eccezione come regola. Walter Benjamin come rovescio di Carl Schmitt, in G. Fazio, F. Lijoi, Critica della teologia politica. Voci ebraiche su Carl Schmitt, Quodlibet, Macerata 2019, pp. 31-46, che nota (ivi, p. 45), come lo spettro della dottrina schmittiana sia l’assenza di una soggettività personale, il “nessun chi”. ↩
- W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 245; trad. it. Origine del dramma barocco tedesco, cit., p. 115 (il rimando è al primo capitolo della schmittiana Politische Theologie, Duncker & Humblot, München-Leipzig 1922, p. 11 sgg.). ↩
- W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, p. 246; trad. it. Origine del dramma barocco tedesco, cit., pp. 115-116 (trad. mod.). ↩
- Ivi, p. 268; trad. it., pp. 139-140 (trad. mod.). ↩
- Ivi, p. 317; trad. it., p. 197. ↩
- Ivi, p. 318; trad. it., p. 198. ↩
- N. Müller-Schöll, Das Theater des ‚konstruktiven Defaitismus‘. Lektüren zur Theorie eines Theaters der A-Identität bei Walter Benjamin, Bertolt Brecht und Heiner Müller, Stroemfeld/Nexus, Frankfurt a. M–Basel 2002, p. 115. ↩
- W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, p. 318; trad. it. Origine del dramma barocco tedesco, cit., p. 198. ↩
- «What is a man/ If his chief good and market of his time/ Be but to sleep and feed? A beast, no more./ Sure, he that made us with such large discourse,/ Looking before and after, gave us not / That capability and godlike reason /To fust in us unused.» (Hamlet IV, 4), cit. ivi, p. 317; trad. it., p. 197. ↩
- Ibidem. ↩
- C. Schmitt, Politische Romantik [1919], Duncker & Humblot, Leipzig 19986, p. 88. ↩
- W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 308; trad. it. Origine del dramma barocco tedesco, cit., p. 186. ↩
- Ivi, pp. 310-311; trad. it., pp. 188-189. ↩
- Ivi, p. 308; trad. it., p. 186. ↩
- Ivi, p. 311; trad. it., pp. 189-190. ↩
- Ivi, p. 398; trad. it., p. 291. ↩
- Ivi, p. 407; trad. it., p. 301. ↩
- W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., pp. 222 e 234 ; trad. it. Origine del dramma barocco tedesco, cit., pp. 87 e 100. ↩
- «Non si può caratterizzare meglio il procedimento con cui il materialismo storico ha rotto. È il procedimento dell’immedesimazione (ein Verfahren der Einfühlung). La sua origine è nell’indolenza del cuore, l’acedia (Sein Ursprung ist die Trägheit des Herzens, die acedia), che dispera d’impadronirsi dell’immagine storica genuina, che balena fugacemente» (W. Benjamin, Über den Begriff der Geschichte, in Werke und Nachlaß, cit., vol. 19 (2011), a cura di Gérard Raulet, Tesi VII, p. 72, trad. it. Sul concetto di storia, in Senza scopo finale. Scritti politici 1919-1940, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 239-255: 243). ↩
- Id., Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit.., pp. 332-333; trad. it., pp. 214-215. ↩
- R. Jobez, Le théâtre baroque allemand et français, Garnier, Paris 2010, p. 542. ↩
- W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 299; trad. it. Origine del dramma barocco tedesco, cit., p. 175. ↩
- Id., Was ist das epische Theater? (2), in Gesammelte Schriften, cit., vol. II, 2, pp. 532-539: 535; trad. it. di E. Filippini, Che cos’è il teatro epico? (seconda stesura), in Opere Complete, a cura di E. Ganni, Einaudi, Torino 2000-2014, vol. VII, Scritti 1938-1940, pp. 352-358: 355. ↩
- S. Sontag, Regarding the Pain of Others, Penguin, London 2004, p. 106. ↩
- W. Benjamin, Was ist das epische Theater, cit., p. 538; trad. it., p. 358 (trad. mod.). ↩
- J. Huizinga, Homo ludens, cit., p. 7; trad. it. Homo ludens, cit., p. XIII. ↩
- Ivi, p. 37; trad. it., p. 35. ↩
- G. Bataille, Sommes-nous là pour jouer où pour être sérieux ?, cit., p. 100. ↩
- Ivi, p. 102 e p. 104. ↩
- Ivi, p. 109. ↩
- Ivi, p. 110. ↩
- «Le jeu met en œuvre l’énergie excédante des participants (acteurs et spectateurs): il suppose de leur part un excès d’énergie suffisant pour ne pas leur donner l’impression qu’il seront dépassés, que l’horreur, la répugnance ou la peur seront trop fortes», ivi, p. 111). Validi spunti di lettura sulla funzione ‘segnaletica’ degli interdetti nel gioco in Ch. M. Gemerchak, The Sunday of the Negative. Reading Bataille Reading Hegel, SUNY, New York 2003, pp. 61-64. ↩
- W. Benjamin, Ursprung des deutschen Trauerspiels, cit., p. 406; trad. it. Origine del dramma barocco tedesco, pp. 299-300. ↩
- Ibidem; trad. it., p. 299. ↩
- D. Weidner, Kreatürlichkeit. Benjamins Trauerspielbuch und das Leben des Barock, in Id. (a cura di), Profanes Leben. Walter Benjamins Dialektik der Säkularisierung, Suhrkamp, Berlin 2010, pp. 120-140: 136-137. ↩