Una ricognizione storico-critica (non esaustiva ma parziale e significativa), da un punto di vista prettamente intermediale, su quanto accaduto in Italia intorno al video dopo l’avvento del digitale, è il passaggio che qui si vuole tentare per abbozzare una mappa di concetti, artisti, testi, utile ad interpretare le recenti evoluzioni artistiche, critiche ed espositive del lessico e dell’immaginario videografico. La riflessione in Italia sul video è sempre stata, vedremo le ragioni, frammentaria, non sistemica, non circoscrivibile alle sole esposizioni, occorre quindi estenderla a festival, rassegne, spazi off, testi critici significativi.
Ricostruire del video un mosaico non è impresa facile, in particolare se ci si sofferma su quanto accaduto nei primi decenni del digitale, un periodo che intacca e questiona profondamente l’identità del video in quanto forma d’arte.
In Italia in particolare, una scarsa volontà a livello istituzionale di stimolare, finanziare e premiare la produzione, la ricerca, l’insegnamento, la diffusone delle arti elettroniche e digitali quale risorsa di fondamentale valore culturale (integrativa, alternativa e parallela a quella maggiormente riconosciuta del cinema), ha contribuito a far sì che il video soffrisse strutturalmente di una marginalità che ne ha reso al pubblico oscure se non ignote la storia, le caratteristiche e le potenzialità. Tuttavia, proprio in ragione di un simile vuoto sistemico, le storie che qui vengono ripercorse provano una straordinaria capacità reattiva che ha scongiurato l’isolamento assoluto, il loro recupero ci aiuta a rilanciarle in un dibattito che vedremo essersi oggi riaperto intorno alla condizione postmediale del video1.
È nota la straordinaria funzione che nella storia dell’arte video hanno ricoperto e ricoprono ancora i festival, in particolare nel corso degli anni Ottanta in Italia si registrò un circuito estremamente virtuoso (solo per citarne alcuni ricordiamo U-Tape 1982-1990 a Ferrara, L’immagine elettronica a Bologna 1983-86; Taorima Arte Video d’autore 1986-1995, Ondavideo a Pisa, Eurovisioni a Roma, Progetto Opera Video/Videoteatro a Narni, Videosculture a Napoli). Questi e molti altri festival, come ricordava Sandra Lischi nel 19942, sono stati per il video dei luoghi di produzione di pensiero, hanno promosso dibattiti fondamentali, pubblicato cataloghi e monografie, arricchendo il dibattito e il corpus teorico del video. Tra questi Invideo nasce a Milano nel 1990 con lo scopo di costituire uno spazio di diffusione per quanto di meglio si stesse producendo a livello internazionale nell’ambito artistico del video e, più in generale, nella ricerca e sperimentazione elettronica. Nelle prime edizioni del festival i curatori immaginavano che il referente ideale del video fosse la televisione, la quale, indirettamente, avrebbe potuto arricchirsi delle sue innovazioni. Tuttavia, ancor prima che una simile idea si potesse concretizzare, una vera legittimazione che riconoscesse alle arti elettroniche e agli artisti la loro funzione primaria quali sperimentatori di nuovi linguaggi, in Italia era da sempre mancata. In un tale vuoto, il festival assurge a luogo di resilienza creativa, esposizione, informazione, confronto internazionale, dibattito, una funzione che, come riporta il catalogo del 1990 di Invideo, è «[…] segretamente anche uno stimolo, affinché l’esigenza di vedere opere video nuove e diverse si estenda»3.
Fin dalla sua prima edizione Invideo suddivide la programmazione in piccole monografie, concentrandosi su artisti affermati e altri emergenti, alcuni sono tra i padri dell’arte video come Wolf Vostell e i coniugi Vasulka, altri (Michael Klier, Dalibor Martinis, Zbigniew Rybczynksi) si muovono negli interstizi tra video, cinema, televisione e sperimentazione tecnologica. La studiosa americana Deirde Boyle, nel suo teso in catalogo dal titolo Come descrivere un elefante, li definisce «artisti televisivi», scrive:
Il loro lavoro poggia sul rapido cambiamento e sulle frequenti abbreviazioni del tempo televisivo; utilizza produzioni di qualità broadcast e tecnologia di post produzione; è spesso sponsorizzato o commissionato dalla televisione; arriva al pubblico, non tanto tramite musei, festival o gallerie d’arte, bensì via satellite, via cavo o attraverso il normale broadcast4.
Se questo fino alla fine degli anni Ottanta poteva esser vero soprattutto per la Gran Bretagna (il caso di Channel 4 è esemplare), in Germania (ZDF), o in Francia (Arté dal 1991), in Italia – dove il settore Rai relativo alla ricerca e sperimentazione veniva chiuso proprio a metà degli anni Ottanta – se si esclude qualche raro e sporadico esempio come RaiSat, la televisione pubblica, e tantomeno quella privata, mai erano state percepite dagli artisti come un vero referente, come del resto lo Stato (al contrario di quanto accadeva e accade tutt’ora in Francia) che mai attivò uno specifico fondo di finanziamento e sviluppo per le opere video. Gli artisti italiani, scrive Marco Maria Gazzano sulle pagine del catalogo di Invideo, «[…] non devono i loro risultati a opzioni produttive o a una politica degli investimenti nel settore, né a una istruzione specializzata né a qualsivoglia forma di attenzione istituzionale». Costretti il più delle volte ad autoprodursi o in rari e fortunati casi ad affidarsi a musei, gallerie, residenze, fondazioni, finanziamenti e premi internazionali, gli artisti italiani spesso collezionano importanti riconoscimenti ma senza mai trasformarsi, come scrive sempre Gazzano, in «un sostrato collettivo soggettivamente determinato»5.
Più in generale ciò che accade negli anni Novanta, non solo in Italia, è un progressivo esaurirsi di quei sporadici momenti che avevano portato gli artisti a sperimentare il medium televisivo6 e un affermarsi del video nei soli circuiti dell’arte contemporanea. Video installazioni o proiezioni monocanale crescono di numero, tanto da affermare un nuovo modello espositivo, quello della Black Box, la scatola nera (ovvero una mostra organizzata in una serie di stanze buie dove vengono proiettati a parete video, film, documentari o installazioni video) che sempre più si alternerà o integrerà all’interno del più celebre White Cube7. Potrebbe sembrare un paradosso se paragonato con lo spirito originario del video, quando ancora si riteneva l’istituzionalità del museo come antitetica allo spirito del mezzo perché equiparabile, ricordava David Ross, «[…] agli stessi criteri di selezione, gusto, qualità (tecnica ed estetica) che vigevano nelle reti dell’industria televisiva»8. Ciò nonostante negli anni Novanta si assiste alla crescita esponenziale e al consolidarsi di un sistema dell’arte globale, fioriscono Biennali e musei in tutto il mondo ed è qui che indirettamente o direttamente il video prolifera – sono gli anni per intenderci del Cremaster Cycle (1994-2002) di Matthew Barney – assumendo vedremo stilemi ed estetiche narrative o semi narrative progressivamente sempre più vicine ai codici cinematografici.
Un’edizione chiave in tal senso di Invideo è senza dubbio quella del 1997, quando affiora il desiderio di interrogarsi sui mutamenti del linguaggio video proprio alla luce di una percepita spinta narrativa che segna labili i confini fra astrazione e narrazione, video, documentario e video-saggio. Come osserva Alessandro Amaducci, artista e studioso di arti elettroniche e digitali, nel suo libro Videoarte. Storia, autori, linguaggi (2014): «L’ambito di quella video arte che si trova ad avere come unica possibilità produttiva e distributiva il mondo dell’arte contemporanea non ricerca una possibile nuova estetica digitale, ma promuove un ritorno a una estetica foto-cinematografica»9. Un pensiero che ritroviamo espresso anche nelle pagine del catalogo di Invideo del 1997:
Gli anni Novanta sembrano caratterizzati da un dialogo forse più riuscito e fecondo, quello con il cinema. Forme lunghe, preferenza di molti autori per la videoproiezione, richiami al cinema sperimentale, ma anche mescolanza di supporti (video e pellicola) nella stessa opera e un timido approccio, dichiarato o meno, alla narrazione e alla finzione10.
Analizzeremo più avanti questa tendenza, per ora ci limiteremo a constatare che anche in Italia le riflessioni critiche portano a cercare il video altrove. Se il televisore a tubo catodico, in quanto supporto non è più il mezzo di riferimento, ci si chiede, un video monocanale deve essere proiettato nell’isolamento di una stanza buia di una galleria o in una sala cinematografica (esperienza collettiva e partecipata)? Quali sono le sue condizioni ottimali di fruizione? Il tubo catodico e/o la proiezione a muro come influiscono sulla sua percezione?
Simili domande, già emerse nei contesti internazionali11 (e se reiterate mettono evidentemente in questione la natura e l’identità stessa del video), sono le stesse che la direzione artistica di Invideo nel 1997 rivolge ad una serie di critici e artisti. Il video di creazione, scrive nel catalogo Alessandro Amaducci «[…] si colloca in una linea di confine fra la visione colletivo-mistica dell’evento cinematografico e quella distratta e caotica del flusso televisivo». Il video si adatterà, continua Amaducci, ai diversi schermi/finestre attraverso i quali si modulerà il suo «flusso di energie»: dalla visione privata a quella virtualmente collettiva di Internet. Per l’artista francese Robert Cahen il formato non incide sulla natura dell’arte elettronica che resta sempre altro rispetto al cinema, quel che più conta, scrive la studiosa Simonetta Cargioli non è la vicinanza o meno con il formato di proiezione cinematografico ma il grado di relazione intima che si verifica con lo spettatore «[…] non davanti ma dentro le immagini e i suoni, con il corpo e con i sensi avvolti nella materia audiovisiva»12.
Per Paolo Rosa di Studio Azzurro – anche lui interviene nel catalogo dell’edizione 1997 di Invideo – al video sono connaturali «l’azione» e «la contemplazione». L’azione si definisce nell’interattività, nella capacità dello spettatore di agire e interferire all’interno delle video installazioni, modificando e scegliendo lui stesso un modo di rapportarsi con la visione. «Agire» ed «esserci», e possibilmente farlo in relazione con altre persone, tale estensione partecipativa del video interattivo, per Paolo Rosa potrebbe finalmente liberare le persone «[…] da quella dimensione numerica, statica, marchetizzata cui sono state ridotte dai media». La contemplazione è allo stesso tempo l’essenza del video, scaturisce da un maggiore coinvolgimento all’interno dell’opera, da uno spazio percettivo profondo e intenso che, secondo Rosa, si attiverebbe con lo spettatore, distaccandolo dal suo quotidiano rapporto vago e distratto con le immagini: «Il flusso di immagini e di informazioni determinato dai media è stato così intenso e prevaricatorio da non richiederne più la necessità. Tutto il movimento avviene nella tua direzione, verso di te, ti investe, non hai più bisogno di sforzarti per andare tu verso le cose».
Il video – è la lungimirante e moderna opinione dell’artista milanese prematuramente scomparso nel 2013 – deve continuare a confrontarsi con i diversi supporti di proiezione e fruizione, mentre allo stesso modo il cinema può approfittare di questa occasione per rompere anche lui «[…] le misure temporali convenzionali, le strutture narrative dominanti, dovrà occuparsi del portato che hanno avuto le nuove tecnologie al di là degli abusati effetti speciali, e tutto questo lo avvicinerà all’universo del video di creazione»13.
Extramedia
Soffermiamoci per un attimo sulle questioni relative all’intermedialità del video come un campo di forze plurime difficilmente classificabile, ripercorrendo l’esperienza italiana di Studio Azzurro, fondato da Paolo Rosa, Fabio Cirifino e Leonardo Sangiorgi nel 1982. Lo studio nasce come fotografico e dai primi anni Ottanta inizia la produzione delle sue prime videoambientazioni (Luci di inganni, 1982, Tempo di inganni, 1984) commissionate da studi di design. A partire poi dal 1984 con Il nuotatore (va troppo spesso ad Heidelberg) e Vedute del 1985, Studio Azzurro passa alla produzione di videoambienti sensibili, «[…] in questi casi – ha dichiarato Paolo Rosa in un’intervista a Valentina Valentini – il tempo è relativo al tuo coinvolgimento nella storia, al tuo “starci dentro”, al tuo essere avvolto da un mondo puntiforme costituito da loop che si ripetono. Il fine è quello di trasformare la condizione del pubblico da una semplice situazione spettatoriale a una visionaria»14. La ricerca di Studio Azzurro si muove tra i linguaggi del visivo con un’attitudine sinestetica, contaminano spunti e suggestioni che provengono dalla letteratura, dalla poesia, dalla musica contemporanea, dal teatro, oscillando sul crinale sottile che unisce l’arte alla comunicazione visiva. Studio Azzurro propone un superamento dell’individualismo dell’artista, recuperando una dimensione collettiva, condivisa e partecipata del lavoro, che si riscontra anche nel tipo di dinamica innescata con lo spettatore chiamato “dentro” alle sue videoinstallazioni interattive (come in Portatori di storie e Tavoli) per agirvi attivamente, come argomenta ancora Paolo Rosa:
Naturalmente sto parlando proprio di reazioni fisiche, comportamentali, che assumono un valore espressivo ed estetico in senso artistico ma diventano anche valore esperienziale forte, proprio perché generate da un fattore fisico di prossimità e non di distanza dalla cosa. Inoltre non sottovaluterei l’assunzione di responsabilità nel fare un gesto. L’agire comporta un coinvolgimento diretto, porta lo spettatore ad intervenire, rompendo la distanza a volte rassicurante dello sguardo. In un’epoca poi dove lo spettatore è sempre più deresponsabilizzato nel suo assistere allo spettacolo del mondo, quasi anestetizzato di fronte al caleidoscopio mediatico, l’invitarlo a compiere anche un gesto molto semplice ha un forte valore simbolico15.
Una simile attitudine extramediale e partecipativa si arricchisce di spunti se viene messa storicamente in relazione con una modalità processuale tipicamente italiana. Mi riferisco a quel che Enrico Crispolti teorizzava nel suo libro Extra media del 1978, richiamando una serie di artisti (Baruchello, La Pietra, Vaccari, Nannucci, Ufficio per l’immaginazione preventiva) impegnati tra la fine degli anni Sessanta e Settanta in una ricerca che spaziava senza prevaricazioni tra differenti media (pittura, scultura, oggetti, fotografia, fotocopia, disco, film, videotape, suono, musica, interventi urbani, danza). Rispetto a concetti affini come “multimedia” e “intermedia”, rei a giudizio di Crispolti di essersi rinchiusi in formule ristrettive (“arte povera”, “concettuale”, “comportamentale”), il momento dell’extra media si verifica quando a ciascun medium si attribuisce un valore relativo e del tutto circostanziale: «[…] è l’urgenza del momento comunicativo a determinare occasionalmente la scelta critica e soggettiva del mezzo»16. Simili ragionamenti transmediali o extramediali trovano riscontro negli stessi anni anche nelle riflessioni critiche di Sirio Luginbühl, Daniela Palazzoli, Germano Celant e Vittorio Fagone17, così come in riviste come «Marcatrè»18 o in esposizioni celebri come Contemporanea (1973) e Vitalità del negativo (1970) che espandevano tanto la nozione di mostra, tanto quella di arte, secondo modalità che oggi potremmo definire “sinmediali”.
Anna Maria Monteverdi e Andrea Balzola, nel testo che curano nel 2004 dal titolo Le arti multimediali digitali, ricordano come il termine “sinmediale” enfatizzi l’unione dei media suggerendo il passaggio dall’interazione a un’effettiva integrazione, «[…] ricollegandosi all’esperienza sinestetica (esperienza percettiva plurisensioriale) e all’utopia della sintesi delle arti, immaginata dagli artisti e resa oggi potenzialmente concreta dallo sviluppo tecnologico del digitale»19. Secondo Pierre Lévy, «[…] la messa in relazione di molteplici media si compie tecnicamente nella convergenza in un unico standard, quello digitale»20, è quel che definisce «unimedia», ultimo stadio di un’attitudine extramediale intuita fin dagli anni Sessanta e che in Italia come detto conobbe un’intesa stagione di ricerca. In questo senso l’esperienza di Studio Azzurro ci appare meno isolata se posta in relazione con storie contigue come quelle raccolte dall’esperienza del Link Project di Bologna. Usciamo pertanto dal contesto dei festival per ricostruire uno spazio di riflessione esteso a quelli che sono stati in Italia degli spazi culturali di diffusione e formazione di un pensiero critico e di una coscienza spettatoriale intorno alle arti elettroniche o meglio digitali.Il Link (attivo nella sua sede di Via Fioravanti a Bologna dal 1994 al 2004) è stato un centro di produzione e uno spazio di diffusione di varie culture raccolte in un unico palinsesto: dall’editoria indipendente, al teatro di ricerca, la musica rock ed elettronica, la performance la video performance e il video monocanale (vedi la rassegna “Rifrazioni). Il Link si configura da subito come uno spazio unico nel suo genere, somiglia ad un Factory con stratificazioni di linguaggi diversi, dal techno hardcore, proiezioni di Twin Peaks, performance musicali, cinema indipendente, poesie. Il video, che in tutto questo sembra pronto per liberarsi definitivamente del televisore a tubo catodico e diventare, come dichiara l’artista Klaus vom Bruch in un numero della rivista del Link del 1995 «esperienza fisica, conscious brainfucking», al Link trova un luogo ideale. Qui i linguaggi non stanno in scomparti separati ma convivono in tutti i luoghi dove lavora l’immagine, ovvero (come viene riportato nel numero della rivista del Link del 1994) lì dove giacciono latenti le possibilità del video, le sue parentele, «ma dove non si trova di casa se non come maggiordomo o domestico o guardiano»:
In un paese come il nostro in particolare, dove di video arte si parla molto, ma molto poco si è potuto vedere: mal digerita dalle gallerie d’arte e dai musei, ignorata dai cinema (anche d’essai), raramente presente nelle aule universitarie, tanto meno circuitata nelle televisioni (anche quelle con i programmi più aperti alle sperimentazioni), la video-arte non ha trovato alla fine luogo alcuno, se non il discorso di una critica non sempre informata, ed il luogo comune spianato su di un grande assente. Ed il LINK, che appunto non è museo né galleria, non un cinema né una facoltà universitaria, né tanto meno, per ora, è in grado di gestire una emittente televisiva, è forse il luogo giusto dove “vedere” video arte?21
Una filosofia, un modo di guardare alle immagini che perdurerà nella storia del Link fino a informare e confluire nel festival Internazionale di arte elettronica Netmage. Nuove immagini tra media, arte e comunicazione, prodotto e curato da Xing sempre a Bologna dal 2000 al 2011. Nel testo introduttivo alla prima edizione di Netmage il festival si presenta come trasversale, toccando tutti quei media che mettono al centro delle proprie indagini «l’immagine/movimento contemporanea»:
Netmage non è una grande vetrina della produzione più nota e corroborata dalla routine della grande industria della comunicazione e dell’intrattenimento. Ma non è neppure un festival specialistico rivolto ai pochi addetti ai lavori, interessati a nicchie minoritarie e a produzioni “invisibili”.
La digitalizzazione e l’informatizzazione dei procedimenti di elaborazione e trattamento di immagini e suoni, per gli ideatori di Netmage, sono «[…] solo l’ultimo felice episodio di una lunga serie di metamorfosi creative connesse alle varie ondate di rivoluzione tecnologica». In questo fiorire di possibilità, Netmage non era altro che una parziale ma significativa rappresentazione, una costellazione di «brevi illuminazioni, di intuizioni, di squarci di immagini e immaginari che percorrono il pianeta “tecnologicamente avanzato” come lampi, flash, magiche aurore boreali notturne su scenari e mind-scapes astratti ma possibili»22.
Come ha ben sintetizzato Simonetta Cargioli nel suo saggio all’interno del volume collettivo Le arti multimediali digitali, dal titolo Oltre lo schermo: evoluzioni delle videoinstallazioni, le videoinstallazioni e i videoambienti interattivi, in quanto forme in continuo sviluppo, mobili, aperte a un coinvolgimento sensoriale dello spettatore in un campo infinito di possibilità23, rispondono ad una “drammaturgia multimediale” – come la chiama Andrea Balzola – che nelle forme multiple della “galassia digitale” trovano la massima corrispondenza. È l’anima interattiva e installativa del video quella che sembra essersi più sviluppata e parcellizzata all’interno del flusso delle Live Media Arts, accolta, riconosciuta e valorizzata in forme che vanno del videomapping a videoambienti interattivi, multiproiezioni, live Vj, ma al contempo, come giustamente osserva Amaducci (nel suo volume Videoarte. Storie, autori, linguaggi), fatalmente distaccandosi dall’ambito artistico contemporaneo: «Questi due settori, invece di alimentarsi a vicenda si stanno divaricando sempre di più»24, di fatto sciogliendo quel legame che l’esperienza di Studio Azzurro aveva tentato di tenere unito.
Verifica di una simile tendenza si ritrova all’interno delle più recenti pratiche di studi di comunicazione multidisciplinari come il Dotdotdot di Milano, che si definiscono come un “multidisciplinary design studio” componendosi di architetti, designer, filosofi e programmatori. I Dotdotdot realizzano spazi interattivi per mostre, fiere, aziende, con lo scopo di arricchire l’esperienza interattiva e tecnologica dello spettatore. Altri casi sono quelli della Fuse Factory a Modena che riunisce artisti, designers, architetti, ricercatori su progetti multidisciplinari per creare «[…] nuovi linguaggi e nuove forme di espressione in grado di dar vita a progetti innovativi nel campo dell’arte, dell’architettura, del design e della comunicazione basata su nuovi media»25. Infine significativa è l’esperienza di Karmachina, uno studio fondato da Vinicio Bordin, Paolo Ranieri e Rino Stefano Tagliaferro che si occupa di progettare e realizzare ambienti sensibili come videomapping per concerti di musica live, concerti multimediali (Caravaggianti, 2018), allestimenti interattivi (come quello realizzato nel 2018 per il M9 museo multimediale del ‘900) e video più sperimentali di animazione.
Forse è proprio nella crisi dell’unicità dell’opera, accentuata dalla riproduzione digitale, che va ricercata questa progressiva perdita di specificità del gesto artistico in sé; qui dove arte e tecnologia sembrano fondersi, l’artisticità non va ricercata a tutti i costi, scaturisce dall’insieme delle operazioni e dai linguaggi che si decide di attivare e manipolare, l’artisticità è un modus operandi, un’attitudine, un “modo altro” di guardare alle immagini in movimento.
Tendenze espositive in Italia
Prima di procedere e approfondire alcune mostre, all’interno di questo breve e non esaustivo excursus dedicato alle evoluzioni dell’arte video in Italia, non possono mancare due realtà che si sono distinte per aver dato forma nel tempo a un complesso e articolato lavoro di conservazione, promozione, formazione e diffusione delle opere video italiane e internazionali: uno è lo spazio Careof e l’altro è Visualcontainer entrambi con base a Milano. Careof è un’organizzazione no-profit che nasce nel 1987 a Cusano Milanino per volontà degli artisti Mario Gorni e Zafferina Castolid, lo scopo è archiviare e conservare le opere che altri artisti inviavano con la speranza di essere promossi e conosciuti. Da allora ad oggi l’archivio conta 8.000 opere video, è diventato una realtà pubblica affermata e riconosciuta a livello internazionale (il Comune di Milano gli ha concesso nel 2008 uno spazio all’interno della Fabbrica del Vapore), aperto a studiosi e ricercatori. Tra le sue tante funzioni, Careof organizza mostre, workshop, residenze per artista (FDV Residency Program), collabora con università, accademie, istituzioni pubbliche e private, privilegiando le collaborazioni con giovani professionisti del settore della produzione artistica contemporanea e culturale. Careof favorisce infine la produzione di nuove opere video, ad esempio curando il Talent Video Awards, che individua e premia i migliori video prodotti da artisti emergenti nell’ambito delle Accademie di Belle Arti e delle Scuole di Cinema.
Altra realtà estremamente interessante è Visualcontainer. In continuità con la storia dei centri di produzione, archiviazione e distribuzione dell’arte video come Argos (Belgio, fondato nel 1989), Lux (Londra 1966), Videographe (Canada 1971), EAI (USA 1971), Video Data Bank (USA 1976), Visualcontainer viene fondato nel 2008 da Alessandra Arnò come una piattaforma di distribuzione italiana di video arte, in un momento storico in cui gli artisti non avevano ancora a disposizione strumenti di autopromozione (come poi saranno Facebook e Vimeo), affidarsi a un distributore che sotto contratto si occupava per loro di far circuitare e rendere note le loro opere, sembrò per molti un’opportunità. Una volta consolidato un proprio archivio di opere e artisti, i promotori di Visualcontainer avviano un lavoro di comunicazione e diffusione per rendere noto il loro repertorio, tant’è che i maggiori festival internazionali di video arte iniziano a riconoscerlo come un partner di qualità, affidandogli la curatela di specifiche sezioni dove presentare le opere dei loro artisti. Prendono forma due nuovi progetti, uno è uno spazio espositivo di 20 mq a Milano DotBox che ha lo scopo di organizzare piccole mostre e rassegne sul video, l’altro è Visualcontainer TV, la prima Webtv dedicata interamente all’arte video, una pagina web dove va in onda in diretta una selezione di video che proviene ogni mese da un diverso festival internazionale di video arte. Visualcontainer diventa così non solo il luogo dove è possibile scoprire produzioni video che giungono da paesi anche lontani dalla cultura occidentale (molto spesso, dice Alessandra Arnò, tendente a omologarsi sulle stesse forme), ma è anche un modo per mettere in collegamento tra loro festival, curatori e artisti che prima non si conoscevano. Queste positive esperienze ci provano come le attività di conservazione, distribuzione e promozione siano assolutamente imprescindibili e complementari l’uno all’altra, svolgendo la determinante funzione di costruire una consapevolezza su cosa sia e come si stia trasformando il linguaggio video.
Passiamo ora ad analizzare quelle mostre che, tra gli anni Novanta e il nuovo millennio, in Italia hanno tentato di mettere in forma le tendenze video, tenendo conto delle coeve riflessioni critiche, fiorite intorno ai mutamenti delle arti elettroniche e digitali. Si noteranno due sostanziali ma non conflittuali chiavi di lettura: una via più storica, lineare, che cerca di legittimare il video ricostruendone la storia, in particolare in Italia; l’altra che tratta il video organizzando la sua produzione per motivi, forme di scrittura, temi ricorrenti.
La XLV Biennale di Venezia del 1993 dal titolo Punti Cardinali dell’arte, curata da Achille Bonito Oliva – come ha ben ricostruito la studiosa Lisa Parolo nella sua tesi dottorale26 – sembra paradigmatica di questa doppia impostazione storico-critica. Da un lato la mostra propone una “struttura a mosaico”, frammentaria e topologica, come esprimono bene le parole di Mario Perniola, contenute nel suo saggio in catalogo L’arte come mutante neutro. Perniola suggerisce di adottare uno schema libero dai condizionamenti evoluzionisti e storicistici, che pensa l’arte secondo «[…] un ordine di coesistenze, non secondo un ordine di successioni. Ciò che ci interessa non è più la storia dell’arte, ma la possibilità di una topologia dell’arte, che prenda in esame e analizzi le più varie e contradditorie esperienze artistiche nella loro continuità e nei loro limiti»27. Dall’altra parte, la via storica più lineare, secondo quanto ricostruisce Lisa Parolo, risponde alla necessità di avviare «[…] un’indagine che renda conto di cosa, in tempi e luoghi diversi e senza la necessità di trovare delle connessioni vincolate con il passato s’intende con arte»28. A riprova di come entrambi gli approcci (quello iconologico/tematico/topologico e quello storico) si possano integrare e contaminare (e non per forza opporre o escludere) la stessa Biennale ospita nella sezione Transiti una sezione intitolata Museo Elettronico curata da Luciano Giaccari (figura chiave nella storia del video in Italia, ideatore e animatore della videoteca di Varese Studio 970/2)29 ovvero una retrospettiva dei video conservati nella sua videoteca, appositamente pensata per la Biennale con lo scopo di colmare dei vuoti storici e rinforzare la consapevolezza nel presente.
Alla via della legittimazione storica (alternando approcci rivolti tanto al contesto italiano quanto a quello internazionale) e alla definizione delle specificità mediali del video, appartengono negli anni Novanta e Duemila mostre come La Coscienza Luccicante. Dalla videoarte all’arte interattiva (Roma, 1998), rassegne come Elettroshock, 30 anni di video in Italia. 1971-200130 curata da Bruno di Marino, e pubblicazioni come Definizione Zero. Origini della videoarte fra politica e comunicazione (1991) di Simonetta Fadda (benché il suo intento non fosse prettamente storico). Videoarte&Arte, Tracce per una storia di Silvia Bordini (pubblicazione del 1995, maturata dell’esperienza che la Bordini ricopre come docente all’Università La Sapienza di Roma) offre del video una ricostruzione internazionale dedicando all’Italia un paragrafo a sé. Valentina Valentini dopo l’esperienza come curatrice e ideatrice del festival Rassegna internazionale del video d’autore, attivo a Taormina dal 1987 al 1995 momento di radicale importanza nella costruzione di una consapevolezza storica e critica intorno al video e alle sue contaminazioni con le immagini in movimento31, pubblica due raccolte di saggi e interviste Il video a venire (1999) e Le storie del video (2003). Alessandro Amaducci si concentra sull’Italia nel suo Banda anomala: un profilo della videoarte monocanale in Italia (2003), Sandra Lischi, sull’onda di illustri predecessori come Vittorio Fagone (L’immagine video, 1990), pubblica Il linguaggio del video (2005).
Senza dedicare troppo spazio all’esame di questa via più storica, ben documentata e analizzata da Lisa Parolo nella sua tesi dottorale, daremo maggiore spazio a quelle vie interpretative che maggiormente problematizzano la storia del video in funzione di una lettura più orientata alle sue mutazioni multiple e ricadute nel presente. Si tratta di una serie di riflessioni (la natura intermediale del video, le sue rinascite, vitalità o dispersioni nella galassia digitale ecc.) che riaffiorano rileggendo oggi i cataloghi di alcune mostre significative e che, oltre all’Italia, trovano riscontro internazionale in esposizioni come ad esempio Vidéo Topiques – tours et retours de l’art video32. Sono per lo più questioni identitarie che toccano la natura intermediale del gesto video e le conseguenti metodologie di studio.
Che un’impostazione storicistica tradizionale applicata al video rischiasse di smarrirsi tra le forme incerte, extramediali e debordanti di cui il video era stato prima portatore con l’elettronica e poi testimone con l’avvento del digitale, appare in Italia chiaro in una mostra che Silvia Bordini cura per Palazzo dei Diamanti di Ferrara nel 2001 dal titolo L’arte elettronica. Metamorfosi e metafore. Secondo la curatrice, seppur mostrando «un’intrinseca flessibilità» che adatta le opere video in versioni, interpretazioni e contesti multipli, queste conservano «una specificità perentoria del senso simbolico e dell’immaginario evocato», tanto da richiedere per l’arte elettronica un’attenzione e una sensibilità particolari «in cui la percezione giunge a costruirsi come partecipazione, emotiva, mentale, fisica, fino a immettere lo spettatore all’interno dell’opera e farlo intervenire anche nella responsabilità dei suoi funzionamenti e delle strategie degli artisti»33. Nell’esperienza in eterno divenire delle nuove tecnologie, «nell’entropia di una comunicazione, invasiva, stimolante, e stordente, di una natura e cultura mutanti, in cui siamo immersi», l’arte elettronica inizia un processo di continua metamorfosi, non solo, prosegue la Bordini, «delle possibilità dell’apparire delle immagini in movimento, ma anche dei mezzi che le producono, incessantemente reiventati e modificati per aderire alle scelte degli artisti». Nel farsi della sua frantumazione, globalizzazione o frammentazione, l’arte elettronica si plasma come un pulviscolo di possibilità, di intrecci possibili, di campi d’indagine che la Bordini riassume così: «[…] dall’immobilità al movimento, dall’oggetto all’immaterialità, dal compiuto al modificabile, dall’unicum al riproducibile, dal silenzio al suono, dal dato fisico alla fluidità, dalla materia all’evento, dalla contemplazione alla partecipazione, dal visibile all’invisibile»34.
Se le storie del video conservano una matrice, una memoria che si estende nel presente, si evince come la sua essenza si sia ormai distaccata da un mezzo specifico di produzione e diffusione, consolidandosi come prassi, processo, sguardo, flusso, modo di intendere e interpretare la natura complessa delle immagini in movimento. Per la prima volta l’ampia diffusione a basso costo di camcorder semiprofessionali e di software di post produzione permette a tutti, artisti compresi, di utilizzare un intreccio di mezzi e di tecniche in grado di produrre, manipolare e trasformare spunti che provengono dai tanti e diversi linguaggi che compongono il panorama postmediale.
Come scrive la curatrice Maria Rosa Sossai nel suo libro Artevideo. Storie e culture del video d’artista in Italia (2002):
L’esplorazione del sé come pratica artistica, il riconoscimento della corporeità, il tentativo di personalizzare le tecnologie sono alcuni dei contenuti assunti dagli artisti nella loro ricerca negli anni 90. Il video, in virtù delle sue qualità intrinseche, è diventato il luogo di transito per eccellenza dei diversi saperi – politica, discipline sociali, antropologia – ma anche eclettico punto di congiunzione di diverse aree creative – cinema, teatro, musica, pubblicità, nuovi media35.
Gli artisti che scelgono il video non lo fanno più in via esclusiva, ma lo integrano all’interno di altre pratiche che spaziano dalla fotografia, all’installazione, alla performance, semmai, precisa Maria Rosa Sossai, la scelta pregiudiziale è per le sue capacità trasversali di integrare e interpretare il flusso di immagini circolanti e di sistemi culturali dominanti:
L’interesse per il genere del documentario, l’attenzione a soggetti relegati ai margini del sistema produttivo e la curiosità per le espressioni di particolari tradizioni culturali, che in modi diversi tocca gli artisti delle ultime generazioni non hanno più il portato ideologico del passato. Sono invece espressione di un modo di ragionare che non prende posizione e non giudica ma partecipa all’elaborazione di un pensiero sul senso della pratica creativa, sui cambiamenti culturali e mentali che essa può generare nella società, su come si qualifica il ruolo dell’artista nei sistemi di comunicazione36.
Lo spazio della negoziazione e dell’interazione, storicamente intrinseco alla natura del video, che «porta lo sguardo oltre le soglie della visibilità attuale», come ha sintetizzato Simonetta Fadda, con il digitale interagisce, o reagisce, con immagini e immaginari che sempre più assumono la forma di flusso continuo che si dischiude in un «non luogo illusorio e postottico» in cui «tutto diviene e già è»37. L’immagine digitale appartiene per natura a uno spazio e a un tempo virtualmente ricomposto, immagine neutra, disincarnata, immagine mentale, “concetto spaziale” (per citare Fontana), un’identità plurima che gli artisti del video conoscevano bene già dalla pregressa storia elettronica. «Tecnica impura» la definiva Anne-Marie Duguet38, linea di confine, «luogo di intreccio e reciproca tensione (ed estensione) tra ambiti diversi (arti plastiche, performative, cinematografia, arti acustiche)» così definito da Gazzano39, avendo già incarnato la fine della specificità mediale ecco che per il video si andava affermando gradualmente l’ipotesi che potesse incarnare e interpretare, meglio di altri medium perché più libero da condizionamenti culturali ed economici, la fine della specificità mediale, rilanciando al centro del dibattito contemporaneo la sua natura postmediale40.
Sono riflessioni che s’inquadrano a partire dagli anni 2000 in un contesto più ampio di forte crescita degli studi intermediali, fioriti negli ambienti vicini agli studi di teorie e storia dei media, del cinema, della letteratura e della critica d’arte. Un approccio ben documentato e discusso a partire dal 2003 da una rivista canadese punto di riferimento per questi studi come Intermédialités (pubblicata dall’Università Udem di Montreal) – diretta da Silvestra Mariniello – e in Italia da una pubblicazione del 2008 dal titolo Immagini migranti, forme intermediali del cinema nell’era digitale a cura di Luciano De Giusti41. Gli studi intermediali spostano l’attenzione critica dalle forze primigenie fondatrici di un singolo medium ai rapporti di parentela, di passaggio, di circolazione tra i media, ovvero, come scrive Silvestra Mariniello nel primo numero della rivista «Intermédialités», «[…] alle condizioni (tecnologiche, storiche, culturali, sociali) che rendono possibile l’insieme delle configurazioni che i media producono nell’attraversarsi»42. La ricerca intermediale, scrive sempre la Mariniello nel suo saggio introduttivo alla pubblicazione italiana, ha per oggetto: «[…] la storia dei media (basata sulla genealogia dei media e sui transfert mediatici e culturali); l’effetto dei media sul pensiero del tempo, dello spazio e del vivere insieme e, infine, il ruolo dell’arte nella costruzione delle relazioni tra media, conoscenza e comunità»43. Uno spettro ampio dunque che senza dimenticare i contesti storici e tecnologici di appartenenza di ogni singola opera e medium è più interessato ai transiti che agli specifici, una via, «un campo di studi transdisciplinare» che verrà sistematizzato e storicamente fondato in Italia dal rilevante studio di Andrea Pinotti e Antonio Somaini Cultura Visuale. Immagini, sguardi, media dispositivi (2016)44.
Grazie all’intermedialità e l’interazione tra codici espressivi diversi, scriveva nel 2003 Andrea Balzola, si accede a una «[…] dimensione diversa di ciascun linguaggio (o codice) che vi partecipa, è una pluralità sinestetica che trasforma il gene(re) artistico in un’identità ibrida e mutante. Il motore di questa trasformazione è l’innovazione digitale»45, così da suggerire per Balzola un recupero per associazione di tutte quelle teorie sinestetiche che dal tardo romanticismo, alle avanguardie e le neo-avanguardie degli anni Sessanta e Settanta, erano più volte fiorite nelle pratiche artistiche. Tornata estremamente efficace alle soglie del digitale, una simile attitudine intermediale tuttavia in Italia fatica a emergere, fin dai contesti accademici dove i saperi vengono normati e parcellizzati in settori disciplinari che ne restringono il potenziale piuttosto che liberarlo. Eppure, viene da pensare, il modello da seguire era noto da tempo, forse da secoli, in particolare in Italia: quello universale del sapere umanistico, ampio, trasversale, multidisciplinare. Ciò detto l’intermedialità non nasconde difficoltà, fino a dove infatti possono spingersi le relazioni, sovrapposizioni, mutazioni? Fino per eccesso all’iperbole, al parossismo o allo sfinimento, allo smarrimento e perdita di qualsiasi legame con le tracce di una storia o di una comunità di appartenenza? È la domanda che forse più di altre mette in questione l’identità del video, smarrito nella non più chiara demarcazione tra arte e comunicazione, disperso nelle mille forme della galassia digitale. Al contempo è proprio lì dove dovremmo ricominciare a cercarlo.
Non è un caso se il già citato festival di Milano, Invideo, tenta di offrire risposte (o proposte) a simili quesiti da quando nel 2002 organizza la sua selezione non più per monografie ma per temi, parole chiave, concetti che emergono come dominanti dalla selezione delle opere. “Mutazioni” è non a caso il primo, mutazioni del pensiero creativo fra video arte, documentari di creazione, videoclip, internet, mutazioni di generi, mutazioni nella rete, al quale fanno eco edizioni come “A rovescio” (2005), dedicata al “Cinema altro” e al video che giocano con le figure del tempo reversibile, e “Distanze variabili”, edizione dedicata all’esplorazione del punto di vista, privato e pubblico, sul mondo. A questa linea Invideo alterna anche focus su festival e centri di produzione, nonché richiami alla storia del video in Italia, presente e passata, incontrando e presentando autori italiani. Invideo progressivamente cerca il video al di fuori di se stesso, lo cerca nel cinema, nelle forme e nei formati del web, nei video di astrazione e animazione, nelle video performance musicali, nei videogame artistici, nella video danza, espandono le connessioni e contaminazioni intermediali possibili di quella che il filosofo francese Régis Debray aveva definito in Vie et mort de l’image46 una “Videosfera”, una delle tante galassie che compongono l’emisfero digitale (termine ripreso da Simone Arcagni, Visioni Digitali , 2014).
In un simile melieu mediathique (o sistema mediale), «quale connettore ideale tra la componente sensibile e quella sovrasensibile e cognitiva», il video, sostiene Paolo Granata nel 2009 nel suo saggio Videomorfosi. Il video come forma simbolica (autore anche di Mediabilia, 2012, Ecologia dei Media, 2015) è diventato un meta-medium, «un arcipelago di forme espressive, una superficie mediale omogenea sulla quale convergono le diverse componenti materiali e intellettuali che plasmano l’intero sistema culturale contemporaneo»47. Parole che trovano riscontro nelle ultime edizioni del festival Invideo: dal video di astrazione a quello di animazione, dal cinema sperimentale, al documentario di creazione, dalla video performance, alle live projection e video mapping, videogame artistici e video danza. Se il video è assimilabile a un arcipelago di contaminazioni possibili, tuttavia, in un’accezione così espansa, è come se smarrisse il senso, la funzione e il criterio alla base delle sue declinazioni, rendendo per riflesso vaga la sua identità. È come se la materia del video, quando troppo tesa per i suoi bordi, scivolasse via senza lasciare sedimentazioni, vittima della sua stessa natura liquida. Un tale rischio inevitabilmente solleva non solo questioni su cosa e come sia oggi interpretabile un meta-medium come il video, ma più in generale su quale sia il confine che lega o separa arte e comunicazione, mezzo e messaggio, arte e vita, artista e spettatore.
Valentina Valentini, nel catalogo di una mostra che cura per il castello Colonna di Genazzano (finanziato dalla comunità europea con la Lituania come partner) nel 2000, sostiene che il video sia diventato un “processo”, «un mezzo di espressione e interazione con gli altri media, piuttosto che un linguaggio videografico specifico»48, presi all’interno di una “globalizzazione dei media digitali”, non si tratterà più di «esaltare il nuovo, né al contrario esprimere la melanconia per la perdita della specificità» quanto «dispiegare una sana attitudine alla storicizzazione che sia in relazione con gli attuali procedimenti produttivi ed espositivi e relativi percorsi artistici»49. Se ogni qualvolta si tenta una strada lineare, le opere video la confutano e la problematizzano, tanto vale cambiare il punto di vista o i criteri di associazione e analizzare, opera per opera, le singole caratteristiche e convergenze, tracciando di volta in volta genealogie, osservando nel dettaglio, come scrive Silvestra Mariniello a proposito dell’approccio intermediale: i materiali costitutivi «(luogo, corpo, voce, immagini, suono, ecc.), i supporti materiali (pellicola, nastro magnetico ecc.), le tecniche e le tecnologie implicate in tale produzione; i fenomeni di transfert»50.
Vitalità digitale
Quali sono oggi i temi, motivi e le “figure di scrittura” del video (nel senso di componenti basilari di una lingua) evidenti, rimosse o inconsce che riemergono o persistono nei domini dell’arte, del cinema, del documentario? Con quali criteri possiamo rintracciarne la vitalità? Con simili quesiti proviamo a rilanciare lo sguardo sulle pratiche videografiche più recenti, troveremo opere eterogenee che si riuniscono intorno a un tema comune, vi attivano un campo magnetico per poi scioglierlo immediatamente dopo. Alcuni di questi campi semantici sono circoscrivibili in un tempo specifico, altri riattivano memorie passate, altri ancora si fondono l’uno nell’altro. Rispetto a questi temi o concetti la pratica degli artisti è molto più tangente e trasversale, piuttosto che concentrata o specializzata, pertanto è facile veder confluire nella pratica di uno stesso artista ordini di discorso diversi. Ipotetiche nebulose estrapolate dalla galassia digitale, questi nuclei di opere e artisti si formano per ragioni storiche, sociali, antropologiche, innescati da cambiamenti tecnologici come l’avvento dell’analogico, del magnetico, dell’elettronica, del digitale, del virtuale.
Già studiose affermate come Sandra Lischi in Visioni Elettroniche (2001) e altre emergenti come Vincenza Costantino nella sua tesi dottorale (2006)51 si erano prodigate su questa linea analizzando nello specifico gli sconfinamenti attivi tra cinema e video. Adriano Aprà e Bruno di Marino ne sono sempre stati attenti lettori52, ma un libro in particolare, pubblicato da Maria Sossai nel 2002, Artevideo. Storie e culture del video d’artista in Italia, dedicato agli artisti italiani attivi negli anni Novanta, si rivela qui da guida, offrendoci l’opportunità di rilanciare la riflessione verso la produzione video digitale più recente. Sossai organizza nel suo libro gli artisti e le opere selezionate per temi e nuclei concettuali. La rappresentazione del tempo, non lineare, ciclico, tempo frammentato, ad esempio, sono strettamente connaturati alla storia video: «Fluidità, ralenti e congelamento dell’immagine – scrive – sono tecniche strettamente collegate con l’idea di tempo che il video accoglie in tutte le sue eccezioni –dilatato, ellittico, ossessivo, continuo – in una fusione tra dimensione interiore e realtà esterna, pulsioni soggettive e visione unitaria»53. Questa fascinazione per le figure del tempo Maria Sossai le ritrova nelle opere di Bruna Esposito, in Grazia Toderi nelle sue visioni aeree rotanti di stadi (Il decollo, 1998), o di città (Orbite Rosse, 2009), mappe aeree rarefatte colte in un tempo irreale e metafisico di luci notturne. Le potremmo altresì rintracciare in un’opera come La via divina di Ilaria di Carlo del 2018, un video al confine (questo è il tema) tra atto performativo, sinfonia urbana e rappresentazione ciclica del senza fine mediato dall’immagine simbolica della scala. L’artista, vestita come si usava un tempo per un gran ballo, in un omaggio alla Divina Commedia, scende le scale di oltre 50 differenti ambienti (interni, esterni, industriali, spazi pubblici e privati) scelti secondo differenti tipologie architettoniche, definendo un percorso che appare intriso di misticismo.
C’è poi il tema della rappresentazione del corpo, il mettersi in immagine dell’artista in relazione allo spazio e all’ambiente, ovvero il lato performativo del video, che, oltre alle artiste indicate dalla Sossai (Monica Bonvicini, Vanessa Beecroft, Nicoletta Agostini), si potrebbe per estensione prolungare fino a ritrovarla nelle opere del duo Leoni & Mastrangelo come Equi-librium (2015) e Dicotomia (2014) (Francesca Leoni e Davide Mastrangelo sono tra l’altro ideatori e curatori dal 2015 di Ibrida, festival delle arti intermediali)54. Intimamente vicina alle riflessioni sul corpo è la ricerca di Cosimo Terlizzi, poliedrico artista che spazia dalla fotografia, al video, al cinema documentario, alla performance sempre tenendo un filo di continuità. In particolare a interessare Terlizzi sono i temi connessi alla sessualità, le relazioni, le aspirazioni individuali, la relazione tra il corpo e gli elementi naturali che lo circondano, qualcosa di cui è testimone la sua opera in video La benedizione degli animali (2013). L’artista, come uno straniero, è qui circondato dagli animali di una fattoria, ospite del loro mondo; si sveglia nella branda del pastore e con oggetti trovati quali piume, una zampa di coniglio e un corno di una capra, Terlizzi assembla uno strumento che sembra premonizione di morte ma il cui suono è benedizione di vita; l’artista torna alla natura, alla terra, agli elementi e alle tracce di un passato (nel caso di Terlizzi le origini contadine e pastorizie) di cui non sa più nulla, ma forse, proprio per questo, può reinventarne liberamente gli oggetti (o i simulacri) plasmando nuovi usi.
Sulle relazioni umane con l’ambiente circostante, vissute dall’artista in prima persona, si fonda la ricerca in video di Elena Bellantoni (n.1975). Molto spesso scaturisce da esperienze dirette, quali viaggi, residenze, confronti con altre persone e culture (HalaYella adios/addio, 2013), altre volte si interroga sulle convenzioni sociali o sul concetto di potere all’interno delle dinamiche di coppia come nel video Ich Bin …Du Bist (2010), oppure In The Fox and The Power : The Struggle of Love (2014), girato da Bellantoni nella sala delle conferenze internazionali del Ministero degli Affari Esteri alla Farnesina, dove, al posto dei capi di stato si “sfidano” due ballerini di tango che indossano maschere da lupo e da volpe. Ancora sul tema del corpo vengono in mente il ciclo video delle Fatiche di Daniele Puppi (conclusosi nel 2008), piccoli esercizi basici, un piede che batte, un corpo che salta, restituiti nello spazio sotto forma amplificazioni sonore e videoinstallazioni site specific.
Il ciclo di opere che seguirà nella produzione di Puppi, intitolato Cinema Rianimato (Cinema rianimato n,1, 2, 3 2012), ci introduce a un altro dei tempi ricorrenti proposti dalla Sossai che chiama: «Lo spettacolo dei media». Puppi parte da un film del passato il cui potenziale, dice, è rimasto inespresso, taglia tutti i dialoghi e ogni parvenza di narrazione per sospendere il senso, rimonta il film, ne esalta e isola i suoni fino a comporre una nuova drammaturgia sonora e vi fa interagire le immagini, cambia formato di proiezione, espande, contrae, per superare e mettere in movimento la visione convenzionalmente statica del cinema. Ne consegue un cinema rianimato dal video, risvegliato da un torpore dei sensi e ri-spazializzato sotto la forma di un’installazione visiva e sonora che invoglia lo spettatore a non restare solo seduto inerme di fronte allo schermo ma a muoversi, attraversare le immagini, cambiando il punto di vista. Gli artisti, come in questo caso – scrive Sossai – sembrano aver maturato una vera e propria fascinazione per le forme dello spettacolo – un fatto evidente fin dalla generazione di Douglas Gordon, Mariko Mori, Doug Aitken – sono artisti che in forza di un mezzo rapido e a basso costo, continua la critica e curatrice italiana citando le parole di Philippe Vergine (curatore al Walker Art Center nel 2010 della mostra Let’s Entrtain) «seduti al cospetto di una nuova rappresentazione dello spazio e del tempo, meditano sulla possibilità di riconquistare un’armonia»55. Riappropriarsi di un immaginario collettivo come il cinema, o lavorare su immagini pre-esistenti o archivi digitali, per riplasmarli come materia viva e risemantizzarli, è una strada percorsa da molti56. Le semplificazioni della tecnologia digitale, il facile reperimento online dei materiali, il montaggio come pratica diffusa e sdoganata da software professionali disponibili anche gratuitamente, hanno contribuito non poco a questa ultima affermazione. Rileggere quanto scritto dalla Sossai oggi, ci permette tuttavia di retrodatare questo momento alla metà degli anni novanta quando artisti come Francesco Vezzoli, Elisabetta Benassi, Claudio Guarino, nei loro video, scrive la curatrice: «[…] trasformano le diverse forme di intrattenimento culturale in una pratica artistica che, senza rinunciare al ruolo di critica del sistema, mette in campo in modo a volte dissacrante, altre volte vagamente nostalgico, sentimenti quali piacere, desiderio, gratificazione, seduzione e categorie estetiche del bello e dell’attraente»57. L’artista nato e cresciuto nel digitale, come mai nella storia delle immagini in movimento, ha un totale e pieno accesso alle immagini e agli immaginari, tanto da avvertire spesso la necessità di un metodo, o di un filtro, (la storia, l’antropologia, la filosofia, ecc.) per interpretare questa sopraffazione dello sguardo, questo eccesso di potenza.
Il video diventa così uno straordinario mezzo trasversale di lettura, gli artisti che vi fanno ricorso per Sossai perdono progressivamente interesse per le sue specifiche potenzialità tecniche virandole a vantaggio delle «[…] sue capacità di mutamento e di sconfinamento in nuovi processi costruttivi di senso, con un’estensione dei suoi codici interpretativi ad altri contesti ed una pluralità di forme espressive»58. Un caso esemplare di questo cambio paradigmatico – seppur a ben vedere non specifico solo degli anni Novanta ma, come ricostruito in precedenza, connaturato alle storie del video – sono le opere di Canecapovolto, collettivo nato a Catania nel 1992. Ricco è il loro immaginario visivo, da «telespettatori sovraesposti e cinefili incalliti» a loro dire, si riappropriano per scelta del già visto (come nel ciclo di video Plagium, il futuro è obsoleto, 1992-1998) e lo deflagrano, defigurano. Così riporta il collettivo sul loro canale vimeo in una dichiarazione che sembra una presa di coscienza della funzione dell’arte al cospetto delle forme di rappresentazione dello spettacolo e al contempo un atto di rivendicazione di assoluta libertà creativa e incondizionata rispetto alle immagini in movimento:
Il cinema in super-8, i video che sperimentano la “dissonanza cognitiva”, un’interpretazione cinematografica del Radiodramma, collages su carta, i principi dell’omeopatia applicati ad opere video contro la guerra, happening ed installazioni basati sul completamento esperienziale da parte degli “spettatori”: è tra le zone d’ombra tra ascolto e visione che Canecapovolto ha fondato la sua identità ed il suo messaggio […] Non possiamo ignorare la funzione repressiva dell’ Arte in una Società che ha un disperato bisogno di astrazione e creatività per sopravvivere. Il nostro lavoro è il prodotto di questa consapevolezza59.
Il tema della narrazione, intima, diaristica, complessa, articolata, spazializzata, anche questo individuato dalla Sossai come uno dei tratti in comune negli artisti italiani degli anni Novanta è senza dubbio tra i più centrali, sconfina fino ai due decenni successivi, e meriterebbe un trattamento specifico e articolato. Non si può non ricordare ad esempio che la questione della “narrazione” in video fosse emersa fin dagli anni Ottanta. In Francia in particolare nel 1985 in un convegno Video Fiction et Cie ospitato del Festival video di Montbéliard, o in Italia trattato tra gli altri dalle riflessioni di Valentina Valentini60 e Pietro Montani61 o argomentato da mostre come Bords&Fiction. I Bordi della finzione (2001), a cura di Roberto Pinto con la supervisione di Andrea Lissoni e Giovanna Amadasi. Se dovessimo riassumere queste riflessioni in una domanda potremmo chiederci: che tipo di contributo hanno portato le sperimentazioni elettroniche del video, e quelle coeve in digitale, alla nostra percezione di che cosa sia o possa essere una narrazione? Sossai osserva che molti artisti sempre più si richiamano, misurano e confrontano con la narrazione attraverso le forme lunghe del documentario di creazione, via d’accesso ad analisi introspettive o indagini sociali e antropologiche (un filone che storicamente in Italia risaliva ai movimenti politici degli anni Sessanta e Settanta per i quali il video, si guardi tra tutti l’esperienza di Videobase62, era stato un formidabile mezzo di documentazione rapida e diretta della realtà in fermento). Nelle opere di Domenico Mangano, Emilo Fantin, Simonetta Fadda, gli artisti entrano in contatto con strati sociali più isolati, con figure marginali, con ambienti famigliari come fa Mangano in Palermo 2001, in forte analogia – anche se volutamente con meno rigore formale – con quell’umanità tesa e rarefatta raccontata dalla Cinico Tv di Ciprì e Maresco. Nelle opere di questi artisti il video, sistema concettuale, immagine mentale, ibridato con le forme del documentario, si fa sguardo introspettivo, il suo oggetto, soggetto, ambiente e umanità vengono rimediati dal suo occhio leggero – non appesantito da una tradizione alla quale riferirsi o rispetto alla quale differenziarsi – dalla sua camera a mano, dai numerosi involontari e mai estetizzanti fuori fuoco, dall’immediatezza della bassa definizione.
Si fanno dunque strada temi di convergenza che avvicinano sempre più il video al cinema, in particolare a quello documentario. Uno di questi è il paesaggio. Artisti come il collettivo milanese Flatform, o Alterazioni Video, hanno al centro delle proprie riflessioni in video (spesso restituite in forma di mostra) spazi architettonici, urbani, paesaggi naturali. Sappiamo esistere un legame profondo che avvicina da sempre il video alla trascrizione degli elementi visivi e sonori del rapporto uomo – natura. Significativo è uno scritto di Bill Viola del 1991, intitolato Perception, technologie, imagination et paysage, pubblicato in francese per la rivista «Trafic» nel 1993. L’idea di Viola è quella di dimostrare come paesaggio e immaginazione, la sfera fisica-esteriore e quella mentale-interiore, non siano scissi quanto strettamente correlati ed equivalenti, un pensiero, scrive l’artista, può infatti muovere una roccia e una montagna ispirare un pensiero. L’uomo così come l’artista è continuamente sollecitato da quel che nel mondo sensibile non conosce o non afferra, è da tale mistero che prende consapevolezza dei propri limiti. Al paesaggio non si applica il tempo dell’uomo ma quello del mito, calarsi al suo interno vuol dire cantarne come un rapsodo le odi: «Le paysage lui-même est un empreinte, l’incarnation vivante d’un temps mythique encore accesible aux être d’aujourd’hui. Marcher dans ce paysage, c’est redire ces histoires aou plutôt les chanter»63. Il video per Viola è strumento esclusivo con il quale entrare in ascolto e in contatto profondo con il mondo fatto paesaggio, un insieme coeso di forme viventi, umane, animali, vegetali, sonore o atmosferiche, all’interno del quale vita e morte sono parte di un ciclo vitale di rinascita continua.
Un’attitudine questa, tra sapere mistico e conoscenza scientifica, tra archeologia e geologia che ad esempio fortemente affiora in tutta la ricerca video di Giulio Squillacciotti. In La dernière image (2015) è la voce di una donna che come una stramba audioguida intimamente ci confessa una separazione di cui è stata vittima, le immagini che vediamo sono un lungo piano sequenza girato all’interno di un museo senza pubblico, simulacro di se stesso. In Scala C, Interno B (2017) un appartamento lasciato vuoto a Roma diventa il set del video girato in 4:3 con un sottofondo sonoro composta da una serie di messaggi lasciati su una segreteria telefonica, è un uomo che si capisce aver conosciuto la signora che lì abitava, che si capisce non abitare più lì. Squillacciotti riattiva nei suoi video delle linee storiografiche, alcune sono finzionali, altre reali, spesso sono riprese di archivi (La storia in generale, 2017), musei (il museo di geologia di Bologna), luoghi di cultura (l’accademia di Spagna a Roma in Casi la mitad de la historia, 2011), altre volte segue con un taglio più filmico, documentaristico, molto vicino all’antropologia visiva contesti arcaici e remoti (Archipelago, documentario del 2017) o luoghi singolari (i lavoratori di un porto in The Netherlands, 2018, video installazione a due canali per il padiglione olandese della Biennale di architettura).
In tutti questi casi video e documentario s’incontrano producendo inedite forme di reciproco ascolto. L’assenza di una narrazione didascalica fuori campo, l’utilizzo di inquadrature solitamente considerate errori, l’uso limitato della musica, la complessa e sofisticata articolazione sonora, i paesaggi e gli oggetti inquadrati come stati d’animo identitari, queste sono alcune delle tracce che, secondo Piero Degiovanni risultano dalla convergenza degli artisti video nei territori del documentario (riferendosi ad artisti come Enrico Masi, Alberta Pellacani, il duo Gianni Sirch-Ferruccio Gioia)64. Una simile tendenza trova ancora riscontro nei documentari d’osservazione di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti (Il Castello 2010; Materia Oscura 2013; Spira Mirabilis 2016), nella filmografia di Michelangelo Frammartino (Il Dono 2003, Le quattro volte, 2010) o ancora nei video dell’artista milanese a Yuri Ancarani. Nel suo video forse più noto del 2010 Il capo (2010) Ancarani si sofferma sui dettagli di un linguaggio fatto di precisissimi segni con il quale il capocava di Carrara guida le ruspe del cantiere per distaccare senza danneggiarli i blocchi di marmo dalla montagna. Non ci sono dialoghi o interviste, ma una riproduzione sonora di altissima fedeltà ed estremamente immersiva, incisa dal montatore del suono Mirco Mencacci (collaboratore del collettivo Zimmerfrei) con un sistema da lui ideato per una captazione del suono a 360 gradi (spherical sound). È nel trattamento sonoro che queste opere mantengono con le figure di scrittura e i motivi del videografico le parentele più strette, ed è qui, verso un’analisi delle partiture drammaturgiche sonore, che potranno essere indirizzati maggiormente gli studi futuri. Come affrontato da Marco Bertozzi in una sua recente monografia (Documentario come arte. Riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema documentario, 2018), tali sperimentazioni, più o meno radicali, sono prove di una convergenza del cinema documentario verso una contaminazione sempre più stretta con le forme e i regimi estetico narrativi delle arti visive (e gli artisti e autori italiani sono in questo tra i maggiori protagonisti internazionali), affrancando di fatto il documentario in sé dal genere didattico e divulgativo al quale culturalmente in Italia era da sempre stato associato65.
Nelle opere di questi artisti la ricerca non si esaurisce mai in un solo tema, lo tocca per poi a volte lasciarlo, ritrovarlo o abbandonarlo del tutto. La macchina da presa si muove secondo una regia, l’immagine è curata, pulita (forse troppo) ha una sua potenza e raffinatezza estetica ben marcata. L’arrivo dell’HD, del 4k dell’alta risoluzione, porta con sé l’attrazione verso l’immagine nitida e disincarnata, l’ottica giusta, a volte sconfinando nel fascino di toccare con mano la macchina del cinema. Si affermano artisti che si muovono su questo crinale, nascono generi come i “gallery film”, prodotti e distribuiti tra festival, gallerie e musei. Il cercare il video al di fuori di se stesso porta molta critica (Angela Madesani, Marco Maria Gazzano tra gli altri)66 ad analizzare questi sconfinamenti cinematografici67, tuttavia quel che in definitiva chiude questo nostro breve excursus è la proposta di uno scarto.
Chi si muove oggi sul crinale della narrazione in video non ama più definizioni, scivola senza pregiudizi tra video più sperimentali, personali, frammentari e autoprodotti, ad altri più complessi, (documentari o film di finzione) accolti e premiati sia da festival cinematografici che da musei, biennali e gallerie di tutto il mondo. Se la tecnologia ci aiuta a trapassare da un medium all’altro, procedendo per convergenze e rimediazioni, perché quindi limitarsi alle definizioni (Cinema? Non cinema? Video? Non Video?). Se il cinema oggi si è “smaterializzato”, «svuotato della propria carne e animato da altri organi, sottili» – come scrive l’artista Cosimo Terlizzi, nell’introduzione all’edizione dell’Asolo Art Film Festival che dirige nel 2018 – non restano che le immagini in movimento «Resta l’immagine tempo»68. Provare, sperimentare linguaggi, recuperare tecniche, scovare macchine e formati di ripresa desueti, ibridare cinema e video, video e documentario, animazione, disegno e fotografia quando serve, questo è il campo di forze gravitazionali in cui muoversi in futuro, analizzando, senza pregiudizio, opera per opera, caso per caso. Spostando la nostra attenzione dalla storia del video – intesa come inizio, sviluppo e fine – allo sviluppo e al mutamento dei suoi “motivi” e delle sue “figure di scrittura”, il video ci apparirà, al di là del proprio supporto d’appartenenza, come un “groviglio” di azioni e reazioni che continuano ad influenzare e deterritorializzare tutti i campi dell’arte. Una storia o una storiografia delle forme simboliche del video, preso in un più ampio campo d’indagine e di confronto con le immagini in movimento tutte, è una prossima ricerca a venire.
- Cfr. V. Valentini, La condizione postmediale del video in I percorsi dell’immaginazione: studi in onore di Pietro Montani, (a cura di), D. Guastini e A. Ardovino, Pellegrini, Cosenza, 2016 e Il post-video in V. Valentini e C. Saba, (a cura di), Medium senza medium, Roma, Bulzoni 2015. ↩
- In S. Lischi, Dell’attenzione. Riflessione in tre punti sui festival del video in V. Valentini, (a cura di), Video d’autore. Luoghi, forme, tendenze dell’immagine elettronica negli anni Novanta, Gangemi Editore, Roma 1994, p. 80. ↩
- Cfr. InVideo ’90 – Mostra Internazionale di Video d’Arte e Ricerca. Milano 22-25 novembre 1990, catalogo edizione Ergonarte. ↩
- Cfr. D. Boyle, Come descrivere un elefante, Ivi. ↩
- Cfr. M. M. Gazzano, Le occasioni perse negli anni Ottanta, Ivi. ↩
- Su questo tema cfr. V. Paci, D. Boisvert, (a cura di), Une télévision allumée : les arts dans le noir et blanc du tube cathodique, Presses universitaires de Vincennes, Paris 2018. ↩
- Per un approfondimento sul tema cfr. AA. VV, Black Box illuminated, NIFCA, Helsinki 2003; The Projected image in contemporary art, tavola rotonda con Malcolm Turvey, Hal Foster, Chrissie Iles, George Baker, Matthew Buckingham e Anthony McCall, «October», vol. 104, primavera 2003. ↩
- In D. Ross, La televisione è morta in V. Valentini, (a cura di), Zero Visibility, dell’ordine inverso, Maska, Ljubliùjana 2003, p. 52. ↩
- In A. Amaducci, Videoarte. Storia, autori, linguaggi, edizioni Kaplan, Torino 2014, p. 146. ↩
- Cfr. Invideo ’97. Le forme dello sguardo. Video d’arte e ricerca, premessa al catalogo, Charta Milano 1997. ↩
- Cfr. M. Adami, Le origini del trauma in C. Saba, V. Valentini, (a cura di), Medium senza medium, cit., pp. 47-78. ↩
- Cfr. S. Cargioli, La partecipazione sferica, Invideo ’97, Catalogo, cit. ↩
- Cfr. P. Rosa, Tra azione e contemplazione, Invideo ’97, catalogo, cit. ↩
- In V. Valentini, La vocazione plurale della regia. Conversazione di con Paolo Rosa, in AA.VV., I modi della regia nel nuovo millennio, «biblioteca teatrale», n. 91-92, luglio-dicembre 2009 p. 11. ↩
- In Ivi p. 6. ↩
- In E. Crispolti, Extra Media. Esperienze attuali di comunicazione estetica, Studio Forma, Torino 1978, p. 14. ↩
- Cfr. D. Palazzoli, Nuovi media. Fotografia, cinema, videotape, l’uso artistico dei nuovi media, Fabbri, Milano 1976; V. Fagone, (a cura di), Arte e Cinema. Per un catalogo del cinema d’artista in Italia 1965/1977, Catalogo della mostra, Marsilio Editori, Milano 1976; G. Celant, Offmedia, Dedalo, Bari 1977; S. Luginbül, (a cura di), L’immagine mobile, l’immagine protagonista: Cinema e video-tape creativo negli anni ’70, Albano Terme 1978. ↩
- Cfr. Rivista edita dal 1963 al 1970, definita come «Notiziario di cultura contemporanea», con sezioni di letteratura, cultura di massa, spettacolo, architettura, arti visive. ↩
- Cfr. A. Balzola, A. M. Monteverdi, (a cura di), Le arti multimediali digitali, Garzanti, Milano 2004, p. 9 in riferimento a P. Levy, Cybercultura, Feltrinelli, Milano 1999. ↩
- In Ibidem. ↩
- Cfr. Video-arte: sfondare una porta socchiusa, catalogo Link, Bologna novembre-dicembre 1994. ↩
- www.xing.it/event/157/netmage_03 [ultimo accesso 20/09/2019]. ↩
- In Le arti multimediali digitali, cit., pp. 288-299. ↩
- In A. Amaducci, Videoarte. Storia, autori, linguaggi, cit., p.148. ↩
- Cfr. www.fusefactory.it ↩
- Cfr. L. Parolo, Per una storia della videoarte italiana negli anni Settanta: il fondo archivistico della galleria del Cavallino di Venezia (1970-1984). Riesame storico-critico delle fonti e individuazione di nuovi metodi di catalogazione digitale. Tesi di Dottorato di ricerca in Studi Storico Artistici e Audiovisivi, Ciclo XXIX , 2015-2016, Università di Udine. ↩
- In M. Perniola, L’arte come mutante neutro, in Catalogo della 45° Edizione de La Biennale di Venezia, Punti cardinali dell’arte, edizioni Biennale, Venezia, 1993, p. 3. ↩
- In L. Parolo, cit., p. 35. ↩
- Cfr. Saggi di Cosetta Saba e di L. Parolo infra. ↩
- La rassegna si tiene dal 21 al 27 maggio 2001 in vari luoghi della città. Iniziativa organizzata in collaborazione con l’archivio audiovisivo del Museo Laboratorio di Arte Contemporanea dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”, in collaborazione con il Comune di Roma, Sovrintendenza ai Beni culturali, Palazzo delle Esposizioni, GrandiStazioni, Cine Cinémas 1 e 2 e Ciné Classic. Cfr. B. Di Marino e L. Nicoli, Elettroshock – 30 anni di video in Italia – 1971-2001, Castelvecchi, Roma 2001. ↩
- L’intero archivio di tutte le edizioni della rassegna è disponibile online. videodautore.sciami.com ↩
- Cfr. Vidéo Topiques – tours et retours de l’art vidéo, (a cura di), Patrick Javault, Musée d’art moderne et contemporain de Strasbourg, 19 ottobre – 2 febbraio 2002. ↩
- In S. Bordini, (a cura di), L’arte elettronica. Metamorfosi e metafore. Ferrara – Palazzo dei Diamanti, 24 giugno – 2 settembre 2001, catalogo mostra Sate Editore, Ferrara 2001, p. 24. ↩
- In S. Bordini, L’arte elettronica. Metamorfosi e metafore, cit., p. 24. ↩
- In M. R. Sossai, Artevideo. Storie e culture del video d’artista in Italia, Silvana Editoriale, Milano 2002, p. 59. ↩
- In Ivi, p. 65. ↩
- In S. Fadda, Definizione Zero, Origini della videoarte fra politica e comunicazione, Costa & Nolan Genova-Milano 1999, p. 59, ristampato da Meltemi nel 2017. ↩
- Cfr. A.-M. Duguet, Dispositivi, ed. orig. 1988, p. 222, trad. it. in V. Valentini, (a cura di), Le storie del video, Bulzoni editore, Roma 2003. ↩
- In M. M. Gazzano, Comporre audio-visioni. Suono e musica sulle due sponde dell’Atlantico, alle origini delle arti elettroniche in Le arti multimediali digitali, op. cit. p.146. ↩
- In Cfr. V. Valentini, La condizione postmediale del video in I percorsi dell’immaginazione. Studi in onore di Pietro Montani, Pellegrini editore 2016, si segnala nello stesso volume D. Cecchi, Intermedialità, interattività (e ritorno). Nuove prospettive estetiche, pp. 3-11. ↩
- Sul tema cfr. L. De Giusti, (a cura di), Immagini Migranti. Forme intermediali del cinema nell’era digitale, Marsilio, Venezia 2008; P. Montani, L’intelligenza intermediale. Perlustrare, rifigurare, testimoniare il mondo visibile, Laterza, Bari 2010. ↩
- In S. Mariniello, Commenceents, «Intermeédialités», 1, 2003, p.51. ↩
- In S. Mariniello, L’intermedialità dieci anni dopo in Immagini migranti, cit., p. 23. ↩
- Cfr. A. Pinotti, A. Somaini, (a cura di), Cultura visuale. Immagini sguardi media dispositivi, Einaudi, Torino 2016. ↩
- In A. Balzola, L’utopia della sintesi delle arti dai romantici alle avanguardie storiche in Le arti multimediali digitali, cit., p. 53. ↩
- Cfr. R. Debray, Vie et mort de l’image, 1992, trad.it Vita e Morte dell’immagine, Il Castoro, Milano 2009. ↩
- In P. Granata, Videomorfosi. Il video come forma simbolica in Arte, estetica e nuovi media, Fausto Lupetti Editore, Bologna 2009, p. 163. ↩
- In V. Valentini, Zero Visibility, cit., p. 23. ↩
- In Ivi, p. 24. ↩
- In Ivi, p. 23. ↩
- Cfr. V. Costantino, nella sua Tesi dottorale Il cinema del ‘dopo video’. L’influenza del video e delle nuove tecnologie sull’estetica cinematografica, Università della Calabria (tutor V. Valentini), co-tutela Paris 1 (D. Château), 2006. ↩
- Cfr. A. Aprà, B. Di Marino, (a cura di), Il cinema e il suo oltre. Verso il cinema del futuro. Film, video, CD-Rom, XV Rassegna Internazionale retrospettiva, Mostra Internazionale del Nuovo Cinema, Pesaro, 25-30 novembre 1997 e Fuori Norma, 27° Evento Speciale della 49a Mostra Internazionale del Nuovo Cinema (Pesaro, 24-30 giugno 2013). ↩
- In M. R. Sossai, Artevideo, cit., p. 98. ↩
- Come riporta il sito web, con il supporto critico di Piero Degiovanni, “Ibrida” nasce con lo scopo di divulgare le produzioni e le ricerche più recenti nell’ambito dell’audiovisivo sperimentale compreso tra videoart, found footage, meta-cinema, animazione 2D e 3D, ecc. http://ibridafestival.it [ultimo accesso 20/09/2019]. ↩
- In M. R. Sossai, Artevideo, cit., p. 80. ↩
- Per un approfondimento sul tema cfr. M. Bertozzi, Recycled Cinema. Immagini perdute, visioni ritrovate, Marsilio, Venezia 2012 e F. Zucconi, La sopravvivenza delle immagini nel cinema: archivio, montaggio, intermedialità, Mimesis, Udine 2013. ↩
- Queste citazione e la precedente sono tratte entrambe da M. R. Sossai, Artevideo, cit., p. 80. ↩
- In Ivi, p. 85. ↩
- https://vimeo.com/canecapovolto [ultimo accesso 20/09/2019]. ↩
- Questioni simili sono state affrontate da V. Valentini anche in La narrazione astratta e atonale del video, «Filmcritica», n. 493, 1993 e in Le forme del narrare in video, «Close-Up», n. 17, 2004. ↩
- In P. Montani, Video e racconto in V. Valentini, (a cura di), Le storie del video, cit., pp. 183-195. ↩
- Il collettivo Videobase nato nel 1971 era composto da Anna Lajolo, Guido Lombardi e Alfredo Leonardi, tra i documentari realizzati in video si ricordano Il fitto dei padroni non lo paghiamo più (1972), Carcere in Italia (1973), Policlinico in lotta (1973), Quartieri popolari di Roma (1973), Lotta di classe alla Fiat (1974), Lottando la vita (emigrati italiani a Berlino) (1975). ↩
- In B. Viola, Perception, technologie, imagination et paysage in La vidéo entre art et communication, École nationale supérieure des Beux-Arts, Paris, 1997, p. 152. ↩
- Cfr. P. Degiovanni, Tendenze nel documentario italiano tra antropologia e videoarte, «Rifrazioni 16», 2013 http://www.rifrazioni.net/index_rifrazioni16.html [ultimo accesso 20/09/2019]. Deggiovanni cura nel 2013 anche una rassegna di proiezioni all’Accademia di Bologna dal titolo Documentario come opera d’arte, 9-10 maggio 2013. ↩
- Cfr. M. Bertozzi, Documentario come arte. Riuso, performance, autobiografia nell’esperienza del cinema documentario, Marsilio Editori, Venezia 2018. ↩
- Cfr. A. Medesani, Icone Fluttuani. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia, Mondadori, Milano 2002. M. M. Gazzano, Kinema, il cinema sulle traccie del cinema. Dal film alle arti elettroniche, Exòrma, Roma 2013. ↩
- L’edizione del Pesaro Film Festival del 1996, Il cinema e il suo oltre, curata da Adriano Aprà, è stata forse una delle maggiori anticipatrici di questa mutata visione. ↩
- Asolo Art Film Festival 37° edizione / 20 – 23 giungo 2019, Cosimo Terlizzi, prefazione al catalogo, p. 8. ↩