Il saggio analizza tre casi studio di collaborazioni tra artisti e aziende ritenuti particolarmente emblematici poiché nella prima metà del Novecento hanno portato all’invenzione di dispositivi sonori e/o luminosi destinati ad un’esecuzione dal vivo e all’istituzione di dipartimenti di ricerca congiunta tra ingegneri e artisti: l’incontro nel 1927 tra il dadaista Raoul Hausmann e l’ingegnere Daniel Broido dell’azienda elettrica AEG di Berlino che conduce al brevetto dell’Optofono, un dispositivo di conversione di luce in suono e viceversa; la collaborazione tra il direttore d’orchestra Modest Altschuler e l’ingegnere Preston S. Millar dell’Electrical Testing Laboratories che porta alla realizzazione del Chromola, un proiettore/tastiera di fasci luminosi; la mostra Nine Evenings: Theatre and Engineering, curata nel 1966 dall’artista Robert Rauschenberg e l’ingegnere della compagnia Bell Telephone Laboratories Billy Klüver, a partire dalla quale nasce il dipartimento E.A.T. (Experiments in Art and Technology), un centro di ricerca e sviluppo ad opera di artisti e ingegneri della Bell Telephone Laboratories. L’obiettivo è quello di portare in luce il ruolo che gli artisti hanno avuto nel corso del Novecento come attori di anticipazione, sperimentazione e promozione di innovazione e sviluppo non solo di artefatti tecnico-culturali, ma anche di pratiche discorsive e metodologie di creazione e condivisione di sapere.
Introduzione
In alcuni momenti storici la comparsa di specifiche innovazioni tecnico-scientifiche ha apportato importanti svolte linguistiche nella sfera artistica. Reciprocamente, alcune delle accelerazioni nel campo dell’ingegneria e della produzione tecnologica sono state generate dalle utopie di alcuni artisti. L’obiettivo del saggio è quello di portare in luce il ruolo che questi ultimi hanno avuto nel corso del Novecento, con ricadute sulla nostra quotidianità, come attori di anticipazione, sperimentazione e promozione di innovazione e sviluppo non solo di artefatti tecnico-culturali, ma anche di pratiche discorsive e metodologie di condivisione del sapere.
Per rispondere a questa istanza il saggio si sofferma su tre casi studio di collaborazioni tra artisti e aziende ritenuti particolarmente emblematici1 poiché nella prima metà del Novecento hanno portato all’invenzione di dispositivi sonori e/o luminosi destinati ad un’esecuzione dal vivo e all’istituzione di dipartimenti di ricerca congiunta tra ingegneri e artisti.
Il primo caso è l’incontro nel 1915 tra il direttore d’orchestra Modest Altschuler e l’ingegnere Preston S. Millar dell’Electrical Testing Laboratories che portò alla creazione del Chromola2, una “tastiera per luce”. Questo esempio si installa in quella ricchissima fucina di riflessioni sulla sintesi luce/suono della Color-Music3: un panorama stratificato di esperienze che dalla fine dell’Ottocento agli inizi del Novecento ha generato diversi strumenti ottico musicali come il Colour-Organ4, il Clavilux5 e lo Spectrophone6.
Il secondo è segnato dalla collaborazione tra l’artista dada Raoul Hausmann e l’ingegnere dell’azienda elettrica tedesca AEG, Daniel Broido, nell’elaborazione dell’Optofono, brevettato nel 1927 una prima volta e nel 1934 una seconda7. Tale dispositivo mai realizzato era stato concepito dall’artista per trasformare il segnale luminoso in suono e viceversa, attraverso l’uso di tecniche di conversione elettrica. L’analisi delle diverse riflessioni di Hausmann concernenti l’Optofono ci consente di accostarci ad un altro periodo imprescindibile per quanto concerne le connessioni tra gli artisti e le aziende, quello prolifico di innovazioni delle avanguardie storiche8.
La responsabilità sociale dell’artista nel processo di tecnicizzazione della società post-industriale è infatti un’istanza modernista che affonda le sue radici nel contesto delle avanguardie storiche e trova forse la sua più efficace sintesi nella scuola del Bauhaus, fondata da Walter Gropius nel 19199. Certamente fondanti per l’analisi che qui si propone, sono infatti i Bauhausbücher, gli scritti elaborati nell’ambito della scuola, che tracciano un cospicuo sfondo teorico alle sperimentazioni degli artisti: una prassi metodologica di vicendevole scambio tra ricerca industriale e artistica che portò alla nascita del design così come lo concepiamo oggi.
Infine, di notevole importanza è certamente l’arco cronologico che va dagli anni ‘50 agli inizi degli anni ‘70. Un periodo pertinente non solo per le numerose sperimentazioni realizzate dagli artisti in merito alle tecnologie elettroniche, ma soprattutto perché è in questo periodo che viene a consolidarsi la ricerca applicata degli artisti nell’ambito della produzione aziendale e che porta alla nascita di laboratori sperimentali, oggi parte costituente delle grandi corporations tecnologiche.
In questo periodo l’analisi si sofferma particolarmente su un caso sintomatico di quello che diverrà quasi una norma a partire dagli anni ‘90: la mostra Nine Evenings: Theatre and Engineering, proposta dall’artista Robert Rauschenberg e curata dall’ingegnere Billy Klüver. In occasione della mostra gli artisti Deborah Hay, Yvonne Rainer, Lucinda Childs, Steve Paxton, John Cage, David Tudor, Robert Rauschenberg, Öyvind Fahlström, Alex Hay, Robert Whitman collaborano con gli ingegneri dei Bell Laboratories in Murray Hill, New Jersey, realizzando diverse performance multimediali e dando vita al laboratorio di ricerca E.A.T. (Experiments in Art and Technology) oggi di proprietà della Nokia10.
Nonostante le prolifiche occasioni che hanno investito l’artista di un ruolo preponderante nella progettazione di sistemi tecnologici e di pensiero di cui oggi beneficiamo, pratica artistica e produzione aziendale sono due ambiti tendenzialmente considerati come non dialoganti e quasi antitetici, almeno per quanto riguarda la critica delle arti. Già nel 1928 l’artista Moholy Nagy, insegnante nella scuola del Bauhaus lamentava:
Si potrebbe facilmente supporre che l’attuale sistema di produzione industriale, e in particolare il nostro progresso tecnologico, debbano essere condannati. Numerosi scrittori e politici sostengono questo confondendo però l’effetto con la causa. Nel XIX secolo sono stati fatti alcuni tentativi di analisi del problema, ma ne seguirono determinazioni errate. Nonostante la ribellione verso le macchine, il progresso tecnologico è un elemento vitale che si sviluppa organicamente […] fondamentalmente non furono né i tecnici esperti né l’industria ad osare tanto proclamando il concetto di “esattezza funzionale”, bensì gli artisti pionieri. “La forma segue la funzione” affermarono Sullivan e Adler […] questo creò un ambiente fertile che motivò una nuova comprensione della forma sulla base delle mutate condizioni tecnologiche, economiche e sociali […] Venne riconosciuto uno spirito creativo nell’uso delle macchine determinato da inventori audaci e genuini. Nonostante ciò l’industria, ignorando le sue potenzialità creative, continuò, per la maggior parte dei casi, a fabbricare prodotti sulla base di prototipi tradizionali già sviluppati dall’artigianato11.
Oggi, questa tendenza a separare l’ambito di produzione artistica da quello di produzione tecnologica è una problematica superata nei suoi aspetti pragmatici, come dimostrano le numerose collaborazioni tra industrie e artisti, ma molto meno nei suoi aspetti critico-teorici. Non esiste infatti una letteratura critica di riferimento che delinei se e in quale misura gli artisti abbiano collaborato con le aziende, ma solo dati parziali e sparsi. La ricostruzione che qui si propone si impianta sull’analisi di documenti di diversa natura: i brevetti dei dispositivi luminosi o sonori, riviste di settore, manifesti delle avanguardie, saggi o monografie dedicate a un artista, programmi e cataloghi di mostre o fiere12.
Abbozzare la mappa che i collegamenti tra tali documenti tracciano e prendere in considerazione tre differenti contesti storici ci consente di cogliere i mutamenti che hanno investito il ruolo dell’artista nell’alveo dell’innovazione tecnologica e intrecciare un continuum complesso di vicendevole scambio tra arte, tecnologia e società che possa aiutarci a leggere meglio il nostro presente.
Il Chromola
Nel 1910 il compositore russo Alexander Skrjabin scrive il Prometeo. Poema del fuoco op. 60, la prima opera a prevedere nella partitura delle didascalie riguardanti la luce13. Ogni colore è associato da Skrjabin a un significato simbolico del mito di Prometeo: il blu è il colore della ragione e della volontà, il rosso rimanda alla materia, il giallo segna i momenti in cui l’Uomo prende coscienza della propria dignità; il verde, che scompare quasi definitivamente con l’ingresso di Prometeo (musicalmente rappresentato dal pianoforte), è il Caos14. Tuttavia, nella concezione del compositore, come sostiene lo studioso Luigi Verdi, suono e luce rappresentano un continuum di pari intensità e l’associazione dei colori all’andamento sonoro non è da intendersi in maniera automatica: è la combinazione di diversi suoni a produrre sottili sfumature cromatiche, non omogenee, ma discontinue15. “La luce procede in accordo con la sua melodia, e il suono allo stesso modo […] Così la melodia può partire dai suoni ma continuare in una sinfonia di linee luminose16.
Per ottenere l’effetto desiderato lo stesso Skrjabin immagina una “tastiera per luce” denominata Clavier à Lumières che commissiona al fotografo e insegnante di elettromeccanica alla Scuola di Istruzione Tecnica Superiore di Mosca Aleksander Mozer. Tuttavia lo strumento progettato da Mozer non entusiasma il compositore poiché limitato ad accendere delle lampadine colorate.
È nel 1915 che il direttore d’orchestra Modest Altschuler esegue presso il Carnegie Hall di New York il Prometeo, assecondando le descrizioni di Skrjabin, grazie alla collaborazione dell’ingegnere Preston S. Millar dell’Electrical Testing Laboratories. Per realizzare lo strumento sognato da Skrjabin, Modest Altschuler aveva contattato il presidente dell’Electrical Testing Laboratories, il quale incarica l’ingegnere Preston S. Millar, uno specialista di illuminazione, di supervisionare la realizzazione di uno strumento volto alla proiezione luminosa. Dopo tre mesi di lavoro, questo incontro porta alla creazione di Chromola, un proiettore/tastiera di fasci luminosi costituito da quindici tasti, dodici dei quali collegati a dodici lampadine di differenti colori, i tre rimanenti volti a ripetere i primi tre colori della scala17.
Tale strumento richiese anche la collaborazione della General Electric Company per la realizzazione di lampade che consentissero la proiezione di dodici colori separatamente. Nonostante il risultato non fosse accolto con entusiasmo dalla critica18, questa esperienza aprì la strada a numerose sperimentazioni sulla stessa scia.
Bisogna però precisare che la storia della Colour Music affonda le sue radici già nel Seicento e difficilmente può essere riassumibile in questa sede19. È importante tuttavia segnalare che nel Settecento, il matematico gesuita, Louis-Bertrand Castel (1688-1757) teorizzò il clavecin oculaire, un clavicembalo per gli occhi20 ispirato alla teoria dei colori di Isaac Newton21 e a quelle precedenti del gesuita Athanasius Kircher (1601-1680)22, entrambe basate sulla convinzione dell’esistenza di una stretta correlazione tra le onde sonore e quelle luminose. Ma è nell’Ottocento, con la comparsa della luce elettrica, che si assiste alla proliferazioni di invenzioni di questo tipo. Negli Stati Uniti, nel 1877, Bainbridge Bishop costruì una macchina collocata sopra un organo domestico: un sistema di piccole finestre dotate di differenti vetrini colorati e otturatori collegati ai tasti dell’organo in modo da ottenere una corrispondenza tra le note e i colori al sollevarsi dell’otturatore23.
In quest’ambito, lo strumento forse più noto fu brevettato nel 1893 da Alexander Wallace Rimington (1854-1918): il Color-Organ, termine mediante cui nei decenni successivi vennero denominati tutti i dispositivi progettati per proiettare la luce colorata. Rimington descrisse il suo strumento e le teorie sui colori nel libro Color-Music: The Art of Mobile Color (1911)24. Il Color Organ era costituito da quattordici lampade ad arco e diversi filtri verniciati, i cui colori venivano miscelati e proiettati su di uno schermo tramite dei diaframmi attivati per mezzo di una tastiera e dei pedali. Tuttavia, come i precedenti strumenti, anche quello di Rimington non era in grado di produrre alcun suono. Quando il 6 giugno 1895, Rimington presentò lo strumento durante una conferenza-dimostrazione privata a Londra il suo Color-Organ fu infatti accompagnato da un pianoforte25.
Quello che differenzia questi progetti pioneristici da quelli che seguirono la proposta di Skrjabin, è la premessa teorica su cui si basano. I primi strumenti erano stati concepiti per rivelare e dimostrare un’associazione fisica diretta tra i colori e il suono, sulla base degli studi di epoca barocca e delle speculazioni successive dello scienziato Isaac Newton, studi però mai comprovati scientificamente. Negli anni in cui Skrjabin scrisse il suo Prometeo le connessioni tra la dimensione sonora e quella luminosa avevano acquisito uno spessore teorico diverso. L’idea di penetrare la superficie delle cose per far sgorgare la potenza spirituale del reale si stava facendo strada attraverso le istanze dell’arte espressionista e astratta. Basti pensare agli scritti dell’artista Wassily Kandinsky del 1909 sul profondo significato psichico e spirituale del colore:
La forza fisica prima, elementare, diventa la via attraverso la quale il colore raggiunge l’anima […] Poiché l’anima in generale è strettamente legata al corpo, può darsi che una scossa psichica ne provochi un’altra. Ad esempio il color rosso potrebbe causare una vibrazione psichica simile alla fiamma, poiché il rosso è appunto il colore della fiamma […] Il colore è il tasto, l’occhio il martelletto, l’anima è il pianoforte dalle molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, mette opportunamente in vibrazione l’anima umana […] Si può qui facilmente osservare che molti colori vengono sottolineati nel loro valore da talune forme e smorzati da altre. Colori acuti vengono sempre esaltati e acquistano un suono più acuto, quando sono associati a una forma acuta (ad esempio il giallo associato al triangolo)26.
Da queste riflessioni scaturirono tra il 1909 e il 1915 composizioni sceniche pensate come movimenti sonori, luminosi e plastici: Der gelbe Klang, (Il suono Giallo,1909-1914), Der grüner Klang, (Il suono verde, originariamente Stimmen, Voci, 1909), e Violhetter Vorhang (Il sipario viola, 1911-1914)27. Gli strumenti che seguirono la realizzazione di Chromola, furono pensati sotto quegli impulsi che consideravano il fenomeno luminoso e il colore, non come variante visiva del suono, ma per le autonome qualità estetiche, psichiche e liriche. Su questa scorta nel 1922 fu progettato ad esempio il Clavilux28 da Thomas Wilfred. Nel suo saggio Light and the artist (1947) in merito alle teorie sulla relazione suono-colore Wilfred scrive:
In Zur Farbenlehre del 1810, Goethe ha chiarito una volta per tutte la questione: “colore e suono non si possono in alcun modo paragonare. Entrambi possono però essere riferiti ad una formula superiore e da questa essere derivati sebbene separatamente. Colore e suono sono come due fiumi che nascono da un’unica montagna ma che scorrono in condizioni del tutto diverse”29.
Per Wilfred il fenomeno luminoso si costituiva in maniera autonoma come oggetto di una nuova forma d’arte che definì Lumia30. Le sperimentazioni dell’artista risalgono al 1905, tuttavia la prima presentazione al pubblico del Clavilux avviene solo il 10 gennaio 1922 a New York31. Lo strumento di Wilfred impiegava sei proiettori controllati da una “tastiera” che consentiva non solo di comporre una partitura luminosa per colori, ma anche di regolare l’intensità della luce32. Queste sperimentazioni ci consegnano una mutata attenzione nei confronti della luce33. Nel 1930 lo stesso Wilfred fonda The Art Institute of Light a New York, organizzato come un centro di ricerca no profit in Lumia, cui si aggiunsero nel 1933 un Lumia Theater con relativi laboratori presso il Grand Central Palace di New York34. Del resto, come scrive la studiosa Cristina Grazioli:
Ci sembra significativo che intorno agli anni Venti del XX secolo appaia in Europa una serie di pubblicazioni di carattere tecnico e insieme di promozione commerciale, che pone la questione della luce in scena non solo dal punto di vista artistico, ma addirittura evidenziandone le potenzialità in quanto strumento di avanzamento della vita spirituale […] Un volumetto del 1922 dal titolo Moderne Buhnenbeleuchtung dedica un breve paragrafo a Luce e colore. Esordisce sottolineando come la vista sia il mezzo a disposizione dell’uomo per orientarsi entro un mondo in cui è arrivato come un estraneo. […] “La natura è avversa alla desolata monocromia […] Bianco, grigio e nero sono casi singolari di manifestazione della luce, mentre la varietà dei colori è il suo linguaggio comune, proprio come noi parliamo più facilmente con frasi lunghe e articolate che non con sentenze brevi […] invochiamo con fervore la luce! Il mondo per noi ha vita solo in quanto le sue parti ci restituiscono la luce in tutte le sue gradazioni: abbiamo vita solo dal riflesso dei colori35.
L’interesse nei confronti del fenomeno luminoso, considerato per le sue qualità estetiche e psichiche, diventa quindi nei primi decenni del Novecento una sensibilità comune tanto per il mondo dell’arte quanto per quello industriale. Le riflessioni di Skrjabin si inscrivono in questo processo se non come causa prima, sicuramente come motore propulsore di pensieri e pratiche legati alla luce con ricadute sostanziali anche sul campo dell’innovazione tecnica36. A tal proposito risulta utile evidenziare anche l’istituzione nel 1962 del Kazan Aviation Institute con la direzione dello studioso Bulat Galeyev37, un centro di ricerca denominato “Prometeo” in onore dell’opera di Skriabin, allo scopo di esplorare il rapporto tra suoni e colori38. Il centro negli anni successivi è stato responsabile della realizzazione di diversi sistemi e dispositivi che hanno dato un forte impulso, a livello mondiale, ad allestimenti degni di nota del Prometeo e alla progettazione di sistemi hardware e software di interazione tra suono e luce39.
L’Optofono di Raoul Hausmann
Il rapporto suono-luce è stato un fenomeno ampiamente indagato, teoricamente e operativamente, anche nell’ambito delle avanguardie, specialmente quelle tedesche. Tra gli anni ‘20 e ‘30 prolifera infatti la creazione di diversi dispositivi e sistemi di sincronizzazioni tra musica e immagine. Nel 1920 Alexander Laszlo, artista del Bauhaus, realizza ad esempio il Sonchromatoskop40; l’anno successivo Ludwig Hirschfeld-Mack e Kurt Schwerdtfeger (sempre nell’ambito del Bauhaus) creano i Reflektorische Lichtspiele (giochi di luce riflessi)41. Importanti in questa direzione anche le sperimentazioni in ambito cinematografico di sincronizzazione di musica e immagini astratte come quelle di Hans Richter, Viking Eggeling, Walter Ruttmann e Oskar Fischinger42.
Come già anticipato, in questo panorama sicuramente singolare risulta il caso dell’Optofono sognato dall’artista dada Raoul Hausmann. Rispetto ai dispositivi sinora menzionati, quello di Hausmann si distingue perché si configura come uno strumento di conversione elettrica del segnale luminoso in suono e viceversa, non dunque un dispositivo volto all’accompagnamento musicale mediante la proiezione di fasci luminosi. Nel 1922 nel saggio Optophonetika, pubblicato sulla rivista “Wjescht, Objet, Gegenstand” curata da El Lissitzky e Ilya Ehrenburg, Hausmann scrive: «con la tecnica appropriata l’Optofono può tradurre ogni fenomeno ottico nel suo equivalente sonoro, in altre parole può trasformare la differenza nelle frequenze di luce e suono»43. Sebbene le ricerche tecniche e in campo psicofisiologico dell’artista inizino nel 1922, è solo nel 1927 che vede luce un prototipo del dispositivo grazie alla collaborazione dell’ingegnere della società tedesca AEG Daniel Broido. Da questo incontro fioriscono poi due brevetti, uno del 1930 e l’altro nel 193444. Altrettanto emblematico risulta in questo caso il rapporto con il mondo industriale. Mentre infatti l’Electrical Testing Laboratories aveva svolto un ruolo ausiliario nello sviluppo dell’idea di Modest Altschuler per la realizzazione di Chromola, la concezione dell’Optofono di Hausmann si nutre di un mutuo scambio e compenetrazione tra i suoi interessi artistici e gli avanzamenti tecnologici dell’AEG e in generale del panorama industriale coevo. Vale la pena spiegare i diversi passaggi che portarono al brevetto del dispositivo.
Tra il 1921 e il 1923 Hausmann espone le proprie teorie relative all’Optofono in due scritti: Il manifesto PREentismus45 e il già citato Optophonetika. Il primo manifesto dichiarava gli intenti di una rivoluzione sensoriale nella produzione artistica, sulla base di una maggiore attenzione alla dimensione aptica. Ed è proprio l’attenzione alla sensorialità aptica che si costituisce già come un primo discrimine tra lo strumento di Hausmann e gli altri organi cromatici. Il manifesto si presenta come risposta a quello futurista sul Tattilismo, pubblicato da Marinetti nel Gennaio del 192146. Scrive Hausmann:
Dall’Italia sentiamo notizie di Marinetti sul Tattilismo. Egli ha concepito il problema della sensazione aptica in maniera confusa, quindi distruggendola. Noi non pensiamo come Marinetti, l’uomo più moderno d’Europa, perché il suo punto di partenza è il caso, non una forma superiore di coscienza. Noi chiediamo l’aptico e l’odorismo! Lasciateci espandere il senso aptico e fornirgli delle basi scientifiche aldilà della pura casualità»47.
In effetti, il manifesto di Marinetti procedeva per tassonomie delineate sulla base di osservazioni di impulsi sensoriali a detta dell’autore “confusi”:
Mentre gli occhi e le voci si comunicano le loro essenze, i tatti di due individui non si comunicano quasi nulla nei loro urti, intrecci o sfregamenti. Da ciò, la necessità di trasformare la stretta di mano, il bacio e l’accoppiamento in trasmissioni continue del pensiero. Ho cominciato col sottoporre il mio tatto ad una cura intensiva, localizzando i fenomeni confusi della volontà e del pensiero su diversi punti del mio corpo e particolarmente sul palmo delle mani48.
Seppur entrambi i manifesti sfidassero la supremazia della vista in favore di una più intensa fusione tra la dimensione tattile e quella visiva, l’artista dada accusava Marinetti di anteporre il risultato al processo. Il manifesto futurista offriva infatti una serie di proposte atte a sviluppare un’arte totalmente tattile, senza però soffermarsi sulle tecniche per ottenerla. Mentre nel suo PREsentismus Hausmann scrive: «Grazie all’elettricità noi possiamo trasformare la nostre emanazioni aptiche in colori e suoni in movimento, in nuova musica»49. Come sostiene la studiosa Marcella Lista50 le ricerche di Hausmann furono illuminate dalle tesi filosofiche di Ernst Marcus, il quale assumeva la tecnologia elettrica come fattore determinante di una nuova sensorialità eccentrica51 alla base delle relazioni tra l’uomo e il mondo. Di conseguenza nel suo Manifesto la dimensione aptica si intreccia strettamente alla tecnologia elettrica:
Noi chiediamo pitture elettriche e scientifiche!! Onde sonore, onde luminose e onde elettriche divergono solo nella loro lunghezza e ampiezza. Fondendo gli esperimenti fatti in America da Thomas Wilfred a quelli sul suono fatti dalla telegrafia in Germania e America, sarà facile dirigere le onde sonore attraverso enormi trasformatori che le trasmettano in spettacoli radio di colore e musica52.
Nel successivo saggio Optophonetika, Hausmann specifica i risultati della sua ricerca sull’Optofono, aggiungendo alla radiotelegrafia gli elementi derivanti dalla dimostrazione del singing arc inventato dal fisico William Du Bois Duddell nel 189953, e quelli derivanti dall’omonimo Optofono inventato e realizzato nel 1912 dal fisico Fournier d’Albe. Quest’ultimo era uno strumento pensato per persone non vedenti, in grado di convertire i caratteri in suoni mediante l’utilizzo di cellule di selenio54. L’incontro di questi esperimenti vengono descritti da Hausmann come segue:
Se un telefono è inserito in un circuito di lampada ad arco, quest’ultimo viene trasformato da onde acustiche emesse da un microfono che corrispondono esattamente in variazioni di frequenze sonore. Cioè, i raggi di luce cambiano la loro forma in relazione alle onde acustiche. Se poniamo una cellula di selenio in movimento acustico nell’arco elettrico essa produce resistenze variabili che agiscono sulla corrente elettrica, il raggio di luce cioè induce un mutamento di corrente mentre i suoni fotografati sulla pellicola posta al di sotto della cellula di selenio compaiono sotto forma di strisce più strette o più larghe, più chiare o più scure, si trasformano di nuovo in suoni, invertendo il processo. Usando una cellula di selenio, l’Optofono trasforma i fenomeni di luce in suoni con l’ausilio di un telefono commutato nella corrente, quindi, ciò che appare come immagine nella stazione di trasmissione diventa suono nelle stazioni intermedie, e se invertiamo il processo, i suoni diventano di nuovo immagini55.
Questo nuovo passaggio nella concezione dell’Optofono risulta più comprensibile se aggiungiamo che nel 1919 l’azienda Tri-Ergon aveva messo a punto un metodo di registrazione fotoelettrica che consentiva di incorporare la colonna sonora in una pellicola da 35 mm aprendo la strada al cinema sonoro. Come l’artista spiega a Henri Chopin in una lettera datata 23 giugno 196356, il procedimento sopra delineato si rifà infatti a quello di Ernst Ruhmer, il quale aveva fotografato le onde sonore create da un arco elettrico su di una pellicola a contatto con una cellula di selenio. Così facendo Ruhmer aveva scoperto che i cambiamenti di luminosità nella pellicola producevano mutamenti di resistenza nella cellula di selenio che a loro volta potevano essere utilizzati per modulare il suono. Tuttavia il suono era visibile sotto forma di linee, ma poteva essere ascoltato solo grazie ad un ricevitore telefonico. Nel 1919 la Tri-Ergon aggiunse a questo sistema un microfono, il Cathodophone e un altoparlante elettroacustico. Il risultato venne dimostrato presso il Cinema Alhambra di Berlino il 17 Settembre del 192257. Sempre dalla lettere a Chopin, apprendiamo che Hausmann aveva cercato contatti con gli inventori che avevano collaborato al sistema della Tri-Ergon, ossia Josef Engl, Joseph Massolle e Hans Vogt, senza nessun esito.
È solo nel 1927 che Hausmann incontra l’ingegnere della AEG Daniel Broido e riesce a costruire un modello per il suo Optofono. L’ingegnere stava lavorando in quel periodo alla realizzazione di una calcolatrice su base fotoelettrica. Questa nuova possibilità consente all’artista di mutare le precedenti versioni dell’Optofono in un “Dispositivo per trasformare i numeri su base fotoelettrica” come dichiarato nel brevetto n. 446.338 del 193058. Infine nel 1934 Hausmann e Broido registrano un nuovo brevetto59 dal titolo “Miglioramenti al principio di una macchina calcolatrice” che viene descritto in questo modo:
La presente invenzione si riferisce ad una macchina in cui la combinazione di due o più fattori viene effettuata per mezzo di raggi di luce e il risultato della combinazione viene trasmesso mediante fotocellule ad un meccanismo che ne fornisce un risultato. Lo scopo della presente invenzione consiste nel produrre una nuova macchina per combinare e trasferire una pluralità di fattori in cui vengono utilizzati mezzi ottici60.
Queste ultime descrizioni dell’Optofono sorprendono particolarmente perché molto simili alle commutazioni di segnali digitali di diversa natura (immagini, video, audio, ecc.) su base appunto numerica. “Una nuova macchina per combinare e trasferire una pluralità di fattori”, è infatti qualcosa che si avvicina più agli attuali linguaggi multimediali, che non ai color organ di quel tempo. A differenza dei dispositivi precedenti, quello di Hausmann inoltre, non sembra privilegiare una materia espressiva rispetto ad un’altra: dimensione visiva, sonora e tattile, sembrano intrecciarsi senza soluzione di continuità configurando un linguaggio sincretico che non trova forse ancora oggi una corrispettiva applicazione, nonostante il mutato panorama tecnologico.
Inoltre il complesso percorso del dispositivo sognato da Hausmann ci restituisce una figura attenta e ricettiva ai continui progressi tecnici dell’industria. L’artista si misura infatti dapprima con la telegrafia, successivamente con la registrazione fotoelettrica del suono in pellicola e infine con una calcolatrice su base fotoelettrica, senza però mai perdere di vista l’urgenza che l’aveva mosso agli inizi delle proprie ricerche: l’assunzione dell’elettricità come sintomo, causa ed effetto di una nuova espressione artistica guidata dalla sensorialità aptica.
Del resto, i diversi passaggi che puntellano la concezione dell’Optofono ci consegnano anche un mutato interesse delle aziende nei confronti degli artisti rispetto al primo decennio del Novecento esaminato nel precedente paragrafo. Le numerose innovazioni tecniche e le diverse entità industriali annoverate da Hausmann ci consentono infatti di intersecare altri punti di collegamento tra la sfera artistica e quella industriale, perlomeno nella Germania degli anni ‘20 e ‘30.
Scopriamo infatti che le aziende sembrano in questo periodo trovare nelle pratiche delle avanguardie una prolifica area di sperimentazione e sviluppo per le tecnologie in via di collaudo. Le aziende che negli anni ‘20 erano impegnate nello sviluppo di sistemi sonori per il Cinema come la Tobis, o la già menzionata Tri-Ergon, contrattualizzarono diversi registi dell’avanguardia come Walter Ruttmann, Hans Richter, Alexis Granowsky, René Clair, per sperimentare le proprie tecnologie e al contempo promuoversi su scala internazionale61. Il film di Rutmann Melodie der Welt (Germania, 1928/29) fu ad esempio commissionato dalla Tobis-Klangfilm che a sua volta era sostenuta dall’industria elettrica tedesca Siemens & Halske, AEG62. La stessa AEG supportò in termini di finanziamento e tecnologie la creazione della scultura cinetica di Moholy Nagy, il Modulatore Spazio-Luce del 193063. Nel 1929 la Tobis produsse l’intero programma del Baden-Baden Festival in relazione al quale l’artista Hans Richter scrive: «è particolarmente notevole il fatto che l’azienda tedesca di sonorizzazione di film Tobis, in occasione del Festival musicale di Baden-Baden il 25 luglio, abbia presentato una serie di film che trattano l’avvento del cinema sonoro come problema artistico»64. Da queste parole si può evincere che il rapporto tra la Tobis e il cinema d’avanguardia non fosse circoscritto esclusivamente all’ambito del mecenatismo, o della promozione, quanto piuttosto frutto di una sinergia attenta alle reciproche istanze delle parti coinvolte. In generale le mostre tedesche degli anni 1924-29 sembrano caratterizzate da una forte presenza delle aziende intente da una parte ad esibire i propri prodotti, dall’altra a mostrarsi come principali sostenitrici del cinema d’avanguardia65.
Se questo fenomeno risulta maggiormente evidente in Germania che non in altri luoghi, la causa è probabilmente da rintracciare nella presenza della Scuola del Bauhaus, di cui peraltro molti degli artisti menzionati, pur nelle loro rispettive differenze, presero parte. La Scuola era stata fondata da Walter Gropius nel 1919 a Weimar per spostarsi a Dessau nel 1925 e a Berlino nel 1932 per chiudere infine su imposizione di Hitler nel 193366. Pur non addentrandoci nel merito della complessità che questa fucina di pensiero e attività abbia generato, è importante segnalare il costante impegno, sin dalle sue origini, nello spianare la strada in favore di una consistente sinergia tra mondo industriale e artistico. Già prima nel 1916, tre anni prima della fondazione del Bauhaus, Walter Gropius scriveva in una proposta rivolta al Ministero di Stato del Granducato di Sassonia a Weimar:
Mentre in tempi antichi l’intera massa dei prodotti umani veniva ottenuta esclusivamente con il lavoro manuale, oggi solo una minima parte delle merci mondiali viene prodotta senza l’aiuto delle macchine […] Alla minaccia di scadimento, che è la logica conseguenza di questo processo, l’artista, cui competono i problemi della forma e dei suoi ulteriori sviluppi nel mondo, può opporsi solo ponendosi con intelligenza di fronte al mezzo più potente della moderna figurazione, alla macchina di ogni tipo, e costringendolo al suo servizio anziché mettersi in disparte […] Questo esatto modo di vedere condurrà necessariamente a una stretta comunità di lavoro tra il commerciante e il tecnico da un lato e l’artista dall’altro […] L’oggetto, ormai ottimo sotto tutti gli aspetti dal punto di vista tecnico, deve essere compenetrato dall’idea spirituale della forma per potersi assicurare una preferenza rispetto alla massa dei prodotti simili […] Si va tuttavia facendo strada tra i commercianti la nozione di quali nuovi valori vengano apportati all’industria dal lavoro spirituale dell’artista […] L’artista possiede infatti la capacità di insufflare l’anima nel prodotto inerte della macchina […] la sua collaborazione non è un lusso né qualche cosa che si aggiunga per compiacenza, ma deve diventare una componente indispensabile dell’industria moderna […] Una chiara divisione dei compiti, in cui ciascuno ha l’ultima parola nel settore di sua competenza, condurrà immancabilmente al successo dei prodotti del lavoro comune67.
Parafrasando Moholy Nagy, “il Bauhaus divenne infatti il punto focale delle nuove forze creative accettando la sfida del progresso tecnologico insieme alla comprensione della responsabilità sociale dell’artista”68. Attraverso la formazione artistica, scientifica e laboratoriale, gli insegnanti e gli studenti del Bauhaus furono in grado non solo di realizzare progetti che ebbero il merito di inaugurare la disciplina del design come la conosciamo oggi, ma anche quella di promuovere una filosofia di reciproca interdipendenza tra l’apparato economico-industriale e quello artistico. Come vedremo nel prossimo paragrafo, queste istanze che iniziano a germogliare sporadicamente agli inizi del Novecento, trovano negli anni ‘70 un terreno fertile su cui attecchire per generare una metodologia di lavoro tra artisti e aziende organizzata, puntuale e capillarmente diffusa.
Nine Evenings: Theatre and Engineering
Nel 1966 Billy Klüver, ingegnere della compagnia Bell Telephone Laboratories, organizza insieme all’artista Robert Rauschenberg la mostra Nine Evenings: Theatre and Engineering69.
L’evento di nove serate, che prese luogo presso il 69th Regiment Armory di New York dal 13 al 23 Ottobre del 1966, era stato concepito come un esperimento aperto tra quattro danzatori (Deborah Hay, Yvonne Rainer, Lucinda Childs, Steve Paxton), due musicisti (John Cage, David Tudor), quattro artisti visivi (Robert Rauschenberg, Öyvind Fahlström, Alex Hay, Robert Whitman), e oltre trenta ingegneri dei Bell Laboratories di New York70. Da questo incontro nasce l’anno successivo il dipartimento E.A.T. (Experiments in Art and Technology), un centro di ricerca e sviluppo ad opera di artisti e ingegneri della Bell Telephone Laboratories, attualmente di proprietà di Nokia71.
Già nel 1960 Klüver aveva lavorato a fianco dell’artista Jean Tinguely nella realizzazione di Homage to New York, una macchina autodistruttrice72 e tra il 1962 e il 1965 alla scultura sonora Oracle di Rauschenberg, un assemblaggio di oggetti recuperati, dotato di radio e trasmettitori orchestrabili dallo spettatore. Inoltre è significativo notare come molti degli artisti che presero parte alla mostra provenissero dal Black Mountain College, fondato nel North Carolina da John Andrew Rice e Theodore Dreiserè nel 1933, anno in cui a causa del nazismo era stata chiusa la scuola del Bauhaus di cui il College si fa erede negli Stati Uniti. Il Black Mountain fu infatti un leggendario modello di educazione artistica che enfatizzava l’intersezione tra design, tecnologia e arti creative73. Proprio in questo contesto John Cage crea 4.33’’ la sua composizione più celebre, che sposta l’ascolto musicale verso i suoni dell’ambiente. Dello stesso interesse di Cage per il dato casuale e l’imprevedibilità si carica Variations VII presentata durante Nine Evenings. In generale le dieci performance74 restituite al pubblico dell’Armory non solo si costituiscono come azioni multimediali complesse, ma in alcuni casi portano alla realizzazione di sistemi sonori e visuali di grande impatto per l’epoca. Un’approfondita documentazione riguardante ciascuna performance è consultabile nell’archivio online della Daniel Langlois Foundation, in questa sede si analizzano quelle che presentano delle innovazioni tecniche significative.
La performance di John Cage Variations VII è il frutto della combinazione di differenti segnali sonori catturati da una moltitudine di sorgenti fuori e dentro l’Armory e stratificati in un denso paesaggio sonoro. Cage amplifica i fenomeni sonori già presenti nell’ambiente dell’Armory cui si aggiungono dieci linee telefoniche atte a rilevare i rumori ambientali provenienti da varie località di New York: il ristorante Luchow, il Bronx Zoo, la stazione elettrica Edison, l’ufficio del New York Times e lo studio di Merce Cunningham75. Inoltre, sei microfoni a contatto collocati su tutta l’area di azione amplificano i rumori generati dai performer (David Tudor, David Behrman, Antony Gnasso, Lowell Cross, John Cage) nell’atto di suonare elettrodomestici, come uno spremiagrumi o un mixer. Sul finire della performance David Behrman porta degli elettrodi sulla fronte al fine di modulare l’ampiezza delle sue onde cerebrali76. La commistione dei suoni catturati è inoltre spazializzata nell’ambiente mediante dodici altoparlanti. Accanto all’attenzione per gli elementi sonori, cospicua è quella rivolta alla componente luminosa. A livello della caviglia degli ingegneri intenti a gestire le differenti sorgenti sonore, vi sono collocati trenta riflettori accanto a trenta fotocellule che a loro volta generano nuovi suoni al passaggio dei performer. Le ombre prodotte da queste luci sono proiettate su due grandi schermi, magnificando tutte le azioni. Il risultato è un incontro di tensioni luminose e sonore attivate dal movimento dei performer e da quello della vita urbana di New York. Anche Alex Hay in Grass Field focalizza la propria attenzione sull’aleatorietà del suono generato dall’amplificazione di fenomeni biologici inudibili. All’inizio della performance Hay si presenta al pubblico con degli elettrodi posizionati sul capo e sui muscoli della schiena. Immobile davanti agli spettatori stabilisce un nesso causale tra la sua attività fisica e il sistema di amplificazione. Il risultato è un ambiente sonoro scolpito da onde sinusoidali e suoni elettronici generati dalle fluttuazioni delle funzioni biologiche del performer77.
La performance Vehicle di Lucinda Childs si distingue invece per la presenza di due sofisticati dispositivi: la Motion Music Machine (Doppler Sonar) e la Ground Effect Machine. Il Sonar era stato sviluppato nel 1917 da Paul Langevin nell’ambito della Marina Britannica ed era una tecnologia atta a rilevare la posizione di imbarcazioni, grazie al fenomeno di propagazione del suono sott’acqua. Manfred Schroeder direttore del laboratorio Acoustics, Speech and Mechanics scrive: «Lucinda Childs cercava un metodo di traduzioni diretta dei propri movimenti in materia sonora. Così ho proposto il sonar, capace di captare gli ultrasuoni provenienti dal suo corpo. Il Doppler sonar, denominato successivamente “Motion Music Machine” venne successivamente sviluppato da Peter Hirsch, specializzato in suoni subacquei»78. Il Doppler Sonar è composto da un trasmettitore ad alta frequenza di ultrasuoni e da un ricevitore. Quando un oggetto in movimento interferisce con la propagazione delle onde viene riflesso verso il ricevitore sonar. Il suono generato è determinato dalla differenza proporzionale tra le frequenze emesse e quelle ricevute in accordo con la velocità del corpo in movimento (effetto Doppler). Le onde rilevate dal dispositivo sono inoltre convertite in segnale video per mezzo di un oscilloscopio e proiettate su uno schermo79. Grazie a questo dispositivo Lucinda Child può concepire un ambiente organico in cui suono e luci sono determinati dal movimento dei corpi e degli oggetti senza alcuna gerarchia. La partitura coreografica si compone di semplici azioni ripetitive ad opera di tre danzatori (William Davis, Alex Hay, Lucinda Childs) in costante dialogo con gli oggetti in scena: dei secchi oscillanti e una cabina in metallo e plexiglass sospesa grazie al secondo dispositivo: la Ground Effect Machine. Tale strumento consente di elevare a pochi centimetri da terra il tubo di plexiglass mediante due motori che aspirando creano un cuscino d’aria80.
Open Score di Robert Rauschenberg è invece una partita di tennis tra Mimi Kanarek e Frank Stella. Rauschenberg associa una delle attività più frequentemente ospitate dall’Armory, le partite di tennis, al sistema di improvvisazione della danza, con le sue specifiche regole. Dei microfoni a contatto sono infatti montati sulle racchette in modo da coglierne i riverberi che a loro volta attivano un meccanismo automatico atto a spegnere pian piano le trentasei lampadine collocate sul soffitto dell’Armory. Di conseguenza l’illuminazione, si attenua con il procedere della partita e ciascuna azione dei performer è legata ad un complesso sistema tecnologico disegnato dall’ingegnere Jim McGee81. Una volta oscurate tutte le lampadine, la partita procede nel buio più totale, mentre delle telecamere a infrarossi riprendono i volti di cinquecento comparse sul palco, proiettati in tempo reale su due schermi. La performance porta l’attenzione sull’oggetto recuperato (la racchetta), costante nella ricerca di Rauschenberg, e sulla dinamica dell’esperimento aperto che soggiace a Nine Evening: indeterminatezza e imprevedibilità del rapporto performer-dispositivo si alimentano di un sistema complesso di regole costantemente sul punto di essere disattese.
Infine, significativa ci sembra Bandoneon! (a combine) di David Tudor, che adopera due dispositivi, il Vochrome sviluppato dall’ingegnere Bob Kieronski e un TV Oscillator sviluppato dall’artista e ingegnere Lowell Cross, per combinare il suono di uno strumento tradizionale (il bandoneon) ad un circuito di componenti tecnologici in un complesso esperimento plastico-sonoro. I soffietti del bandoneon suonato da Tudor sono dotati di microfoni a contatto che convertono gli impercettibili toni dello strumento in segnali elettronici trasmessi al Vochrome e al TV Oscillator e ridistribuiti attraverso otto proiettori luminosi e dodici altoparlanti. Il Vochrome è un dispositivo di analisi dello spettro elettromeccanico su cui stava lavorando l’ingegnere Bob Kieronski82. Le richieste del musicista David Tudor consentono all’ingegnere di implementare le funzioni del dispositivo, nella direzione di gestire i suoni emessi dal bandoneon e al contempo controllare anche le luci:
Bob Kieronski, un mio amico, ha progettato un dispositivo che ha chiamato “Vochrome”. Il mio desiderio era quello di eliminare il suono delle ance presenti nel bandoneon. Così ho attaccato due microfoni a contatto all’interno dello strumento in modo da far vibrare le ance. Bob ha progettato il Vochrome in modo tale da far vibrare meccanicamente i relè. Un giorno, mentre stavamo provando, disse “ti piacerebbe se inserissi un interruttore sul tuo bandoneon in modo che tu possa resettare i relè a zero? Era una delle cose più importanti, perché toccando quel pulsante potevo fermare il suono83.
Il TV Oscillator è un sistema che combina un televisore a un proiettore nella sintesi di immagini astratte in risposta al suono. Lo strumento era stato messo a punto da Lowell Cross nel 1965 in occasione della realizzazione dell’installazione Video II84. Nell’installazione una traccia audio fungeva da input per la generazione di immagini astratte. In occasione di Nine Evenings del 1966, Lowell Cross utilizza il TV Oscillator, aggiungendo la possibilità di interagire con l’esecuzione di uno strumento dal vivo per creare immagini televisive a colori e in bianco e nero. Il suono è inoltre spazializzato da carrelli telecomandati, dotati di piccoli altoparlanti e oggetti metallici che vibrano in base all’intensità dei suoni emessi. Questa complessa orchestrazione di segnali era modulata dal Sistema di controllo proporzionale messo a punto dall’ingegnere Fred Waldhauer come un’interfaccia agile da usare: una penna elettronica era guidata lungo un tavolo per controllare a distanza fino a sedici segnali elettronici provenienti da fonti diverse (altoparlanti, proiettori, motori, ecc.). Nello specifico della performance di Tudor, lo strumento serviva per modificare il volume dell’audio e la luminosità delle luci in tempo reale e garantire all’ambiente generato sottili sfumature luminose e sonore85.
Tutte le performance menzionate ci consegnano una vivace realtà di fitto scambio tra gli ingegneri e gli artisti nell’invenzione o implementazione di sistemi visivi, sonori e interattivi. La mostra tuttavia si configura non tanto come presentazione di tale tecnologia, quanto come momento di verifica degli esperimenti condotti nei tre mesi precedenti. Tutti gli eventi, più che dimostrare un risultato definitivo, sembrano volti a cercare il punto di contatto tra la fallibilità delle azioni umane e quella delle macchine. Ciascuna performance inscrive il proprio principio costruttivo in un complesso e aleatorio circuito di feedback tra l’azione dei performer, il funzionamento del dispositivo, l’intervento degli ingegneri e viceversa. Ogni sistema messo in atto infatti non si attiva se non in risposta al gesto del performer, ma il comportamento in scena di quest’ultimo è regolato a sua volta dalla risposta del dispositivo in dialogo con gli ingegneri, senza soluzione di continuità. E tuttavia, questo complesso processo di rimbalzi di input e output, non arrestano il senso dell’operazione in una consequenzialità automatica tra l’umano e la macchina, ma fanno dell’interferenza imprevista un dispositivo ordinatore di significato. Variations VII di John Cage si configura ad esempio come compendio al fallimento, poiché lascia scolpire l’ambiente sonoro dai cortocircuiti generati dalla moltitudine delle sorgenti utilizzate. L’interferenza e i bug della tecnologia costituiscono la performance stessa. Open Score di Rauschenberg, come suggerisce il titolo, è un sistema aperto il cui risultato è verificato dalle regole proprie del tennis. L’andamento, imprevedibile a priori, della partita orchestra la materia luminosa e sonora della performance, ma la partita non arriva a compimento se non quando ogni fonte luminosa non sia stata oscurata.
La portata di Nine Evenings, risulta forse più lampante se consideriamo quello che è stato il suo contesto di ricezione. Bisogna considerare infatti che la strumentazione dell’epoca rendeva estremamente complessa la gestione di ambienti così tecnologicamente stratificati e non poche furono le recensioni che lamentarono il malfunzionamento dei dispositivi. Per Lucy Lippard ad esempio gli errori tecnici distoglievano l’attenzione dall’indagine estetica. La critica inoltre decretava come problematica la casualità cui erano affidate alcune dinamiche e concludeva che le nove serate fossero pratiche teatrali insoddisfacenti86.
Queste riflessioni, che oggi potrebbero apparire ingenue, fanno luce sul contesto culturale in cui le sperimentazioni portate avanti dall’E.A.T. si collocavano. Gli artisti coinvolti nella mostra erano quanto più lontani dal voler mettere in atto performance teatrali e tutti in modalità differenti, inglobavano l’errore e la casualità lamentate dalla Lippard, come principio strutturante le proprie azioni. Del resto le riflessioni di Klüver scritte nel periodo antecedente alla mostra si fanno specchio dello spirito sperimentale che vi soggiace: «Così come un esperimento scientifico non è mai un fallimento, questi esperimenti artistici non possono mai fallire. La performance non può essere giudicata in base al funzionamento o meno dei dispositivi»87.
Più vicina alle intenzioni della mostra è la recensione di Brian O’Doherty, che l’annovera tra gli eventi principali dell’autunno 1966 a New York. O’Doherty situa criticamente le opere tra Happenings e teatro, rammentando però quanto la fase sperimentale degli Happeningsavesse raggiunto il suo massimo splendore tra il 1955 e il 1963 mentre all’epoca di Nine Evenings fossero diventati già una convenzione88.
Queste posizioni divergenti, sottolineano quanto la portata rivoluzionaria della mostra non fosse pienamente comprensibile ai destinatari del suo tempo. Le nove serate infatti, più che presentare dei progetti artistici da inscrivere in categorie conosciute, riportavano i risultati in fase embrionale di esperimenti tra artisti e ingegneri e inauguravano una pratica collaborativa con ricadute tanto sulla sfera artistica quanto su quella sociale. Aldilà delle implicazioni estetiche, a nostro avviso, ciò che risulta significativo di Nine Evenings è la prassi metodologica che vi soggiace: una ricerca aperta, a monte e a valle della sua restituzione, tra artisti, ingegneri e tecnologia. Una prassi metodologica che trova fondamento nell’istituzione l’anno successivo del Dipartimento di ricerca E.A.T. (Experiments in Art and Technology).
Tale dipartimento si faceva garante sul finire degli anni ‘60 sia di consolidare un legame tra due mondi ritenuti complementari (quello tra arte e industria), che di elaborare un’etica alla base di tale rapporto. Nel bollettino che sancisce la nascita dell’E.A.T. firmato da Klüver e Rauschenberg leggiamo:
È diventato chiaro che la relazione artista-ingegnere in corso richiede uno sforzo per sviluppare le necessarie condizioni fisiche e sociali. L’obiettivo di E.A.T. è quello di catalizzare l’inevitabile compenetrazione tra l’industria, la tecnologia e le arti. E.A.T. ha assunto la responsabilità di sviluppare una relazione effettivamente collaborativa tra artisti e ingegneri […] E.A.T. è fondato sulla forte convinzione che una relazione collaborativa industrialmente sponsorizzata guiderà nuove possibilità che andranno a beneficio della società89.
Il bollettino prosegue evidenziando i benefici per le aziende e le modalità di rapporto instaurate tra E.A.T e gli artisti. Parafrasando: E.A.T consente agli artisti di accedere alle tecnologie mediante l’ausilio di ingegneri e non come fornitore di attrezzature, evitando di sindacare in qualsiasi caso sulle questioni estetiche. Un altro sforzo del Dipartimento è quello di farsi ponte e garante tra le comunità commerciali e le esigenze degli artisti considerando questi ultimi come pietre miliari nelle aree di sviluppo tecnologico. Per questo motivo il Dipartimento coinvolge direttamente l’artista nel processo industriale in cui si sviluppa una determinata tecnologia90.
Nel corso della sua attività E.A.T. si è costituito infatti sia come supporto alle esigenze degli artisti – ha curato ad esempio il sistema sonoro e illuminotecnico della performance Snow di Carolee Scheneemann andata in scena presso il Martinique Theater dal 21 Gennaio al 5 febbraio del 1967 – che come coordinatore di progetti commissionati da aziende e da altre istituzioni- ne è un esempio la realizzazione del Padiglione Pepsi durante l’Expo ‘70 di Osaka – e in ultimo come promotore di attività educative rivolte a un pubblico non professionista. Il dipartimento dunque, attivo ancora oggi, consolida una pratica di collaborazione tra il mondo artistico e quello industriale fondata sull’esperimento, su un processo di prove ed errori più vicino all’operare creativo che non a quello aziendale. Al contempo E.A.T, si fa responsabile di preservare gli interessi delle parti coinvolte, artisti da una parte, ingegneri e industrie dall’altra, seminando un codice etico che andasse a regolare e valorizzare i rapporti innescati.
Manomettere la macchina, seminare pensieri
Se confrontiamo il bollettino di fondazione dell’E.A.T. con la proposta sopracitata di Walter Gropius per l’istituzione della Scuola del Bauhaus del 1916, notiamo come a distanza di oltre cinquant’anni, l’urgenza restasse ancora quella di preparare il terreno culturale per valorizzare la figura dell’artista nel processo di innovazione industriale. Tuttavia i tre casi studio analizzati ci consentono di porre in luce degli elementi di discontinuità tra i diversi contesti storici presi in considerazione. Nel primo decennio del Novecento, la prolifica attività inventiva degli artisti nell’alveo della Color-Music resta confinata ad una dimensione autonoma e artigianale. La collaborazione tra Modest Altschuler e l’Electrical Testing Laboratories si costituisce infatti come caso piuttosto isolato di cooperazione tra mondo artistico e mondo industriale. La natura di tale rapporto inoltre sembra ancora regolata dalla logica del supporto tecnico e non dello scambio. Dagli anni ‘20, come dimostrano i casi menzionati, il mondo industriale sembra mostrarsi più ricettivo nei confronti della sfera artistica, perlomeno in area tedesca. Se infatti non abbiamo molti elementi per fornire considerazioni sulle altre aree geografiche, la Germania tra gli anni ‘20 e ‘30 configura una fitta mappa di connessioni tra gli artisti e le industrie. Non ci sembra da escludere che a spianare la strada in questo contesto contribuisse la presenza della Scuola del Bauhaus. L’intento programmatico di questa istituzione era infatti proprio quello di potenziare una solida cooperazione tra i due campi, fornendo da una parte agli artisti le competenze tecnico-artigianali necessarie per incidere sull’innovazione sociale, dall’altra alle industrie una sensibilità creativa che operasse come plusvalore rispetto a prodotti già tecnicamente ottimizzati91. Tuttavia, nonostante l’impegno dichiarato e attuato della scuola a mantenere “un continuo contatto con gli esponenti principali dell’artigianato e dell’industria del paese”92, dai casi evidenziati almeno in questa sede, ci sembra plausibile affermare che il rapporto tra artisti e aziende del periodo fosse ancora di natura ausiliaria: è vero che le aziende iniziano a riconoscere il ruolo dell’artista nel processo di innovazione degli artefatti culturali, ma vi collaborano nella misura di ottenere un terreno di collaudo e/o promozione per le proprie tecnologie.
Il caso dell’E.A.T. ci sembra invece operi una significativa svolta nella natura dei rapporti instaurati tra artisti e aziende nella direzione di una reciproca interdipendenza in fase di ricerca, elaborazione e collaudo dei dispositivi tecnologici. Scrive Klüver:
Nel XX sec. sono stati sviluppati mezzi efficaci per diffondere informazioni tecniche e ora l’enfasi va posta sulla relazione tra l’individuo e l’ambiente. Questo implica uno spostamento dell’attenzione dall’oggetto, la sua operatività, funzione ed estetica, al coinvolgimento del piacere, della motivazione e dell’eccitazione che lega l’uomo a tale oggetto. L’artista rappresenta l’unica forza in grado di trascendere pregiudizi culturali e percepire come la tecnologia possa essere tradotta in nuovi ambienti volti ad appagare bisogni ed arricchire la vita93.
Queste argomentazioni dell’ingegnere ci restituiscono una rinnovata fiducia nel ruolo dell’artista nel processo di produzione industriale. L’artista infatti non si distingue più “solo” per la sua forza creativa in grado di rendere qualitativamente competitivi i prodotti delle aziende come suggeriva Gropius nel 191694, ma si impone come una figura di dialogo imprescindibile tra l’individuo e la società. A partire dagli anni ‘70 iniziano a farsi strada numerose esperienze basate su questa filosofia95. Potremmo affermare che l’E.A.T. si costituisca come antesignano di questo processo, con il merito di aver spianato la strada a un paradigma teorico-operativo oggi abbastanza consolidato tra le aziende. A tal proposito ci sembra utile concludere questa trattazione con una riflessione di Klüver scaturita dal progetto con Pepsi durante l’Expo di Osaka nel 1970. L’intera ideazione, progettazione e realizzazione del Padiglione Pepsi fu infatti affidata alla collaborazione di settantacinque membri (tra artisti e ingegneri) dell’E.A.T. sotto la supervisione dell’artista Robert Breer e dello stesso Billy Klüver96 che scrive:
Il progetto Pepsi-Cola fu rimarcabile nel suo intento di coinvolgere artisti contemporanei in una situazione non devota all’arte. Questo tentativo sollevò vari quesiti interessanti, particolarmente nell’area di relazione tra l’artista e l’industria e i diritti legali dell’artista. La consueta forma di supporto industriale all’arte è il mecenatismo. In questo progetto invece l’artista era considerato come una risorsa in una situazione fisica reale e con un fine ultimo commissionato. Il fatto che non ci fosse una definizione riconosciuta di un simile ruolo dell’artista fu la radice dei problemi. Tradizionalmente l’artista opera in situazioni legali e istituzionali che rispondono a proprie regole, diverse da quelle del resto della società: le opere d’arte possono essere importate esentasse anche se sono realizzate con materiali tassabili, un’opera d’arte non può essere soggetta alle ordinarie leggi sull’oscenità, gli artisti non hanno il copyright del loro lavoro e nessun controllo su di esso dopo la vendita […] Questi aspetti quasi legali devono essere presi in considerazione se l’artista contribuisce come risorsa fuori dal proprio campo d’azione. Nel caso specifico del Pepsi Pavillion, suggerii la seguente soluzione a Donald Kendall, presidente di PepsiCo., Inc, in una lettera del 8 aprile 1970: “[…] La domanda che si sta sollevando riguarda la distinzione legale tra un lavoro d’arte e un prodotto commerciale o più specificamente tra l’artista creativo e l’artista commerciale o designer. La nostra relazione con Pepsi-cola si è sviluppata in modo che gli artisti siano collocati nella categoria dell’artista commerciale avendo disegnato un prodotto commerciale. La conseguenza allora è che dobbiamo ottenere i diritti da tutti gli artisti e gli ingegneri rispetto all’uso del padiglione dopo l’Expo ’70. […] Per i critici giapponesi e americani l’abilità degli artisti di partecipare a questo progetto è un successo encomiabile che espande radicalmente le possibilità sociali dell’arte. Quindi ti chiederei di considerare il padiglione come un’opera d’arte. La decisione di riconoscere il padiglione come lavoro d’arte creerà un necessario precedente in quest’area. Il progetto sarà un modello per la futura partecipazione dell’industria ai progetti artistici. Pepsi Cola sarà riconosciuta e apprezzata non solo come la più grande mecenate d’arte del suo tempo, ma come un encomiabile innovatore nelle arti contemporanee97.
Sebbene, come apprendiamo dal testo di Klüver, Pepsi-Cola non avesse intenzione di prendere in considerazione le sue proposte98, l’esperienza dell’E.A.T e le implicazioni teoriche che ne derivarono aprirono la strada all’istituzione strutturata di laboratori di ricerca fondati sulla collaborazione di artisti e aziende nell’ideazione e sviluppo di tecnologie. Oggi infatti il continuo potenziamento dell’industria collegata al digitale, ha portato le maggiori corporations di settore, come Nokia, Samsung, Google, Microsoft, Apple, a dotarsi di laboratori di ricerca e sperimentazione, molti dei quali ospitano in maniera stabile o temporanea, artisti in residenza. Parallelamente alcuni degli storici Festival dedicati alle arti elettroniche e digitali, sono collegati e sostenuti da aziende di produzione tecnologica, mediante dei centri di ricerca di innovazione e sviluppo di tecnologie ad opera di artisti e ingegneri. Per fare alcuni esempi l’Ars Electronica di Linz, ha istituito nel 1996 il centro di ricerca interdisciplinare Futurelab, in cui artisti e scienziati afferenti a diverse discipline, collaborano con l’obiettivo di sviluppare contributi che abbiano ricadute di rilevanza artistica e sociale. Il Futurelab è direttamente legato a differenti partner aziendali, come Toyota, Vodafone, Toshiba, Audi, Mercedes Benz99. In dimensione ridotta, questo è quanto accade anche in Italia con il Media Art Festival di Roma, curato da Valentino Catricalà e sostenuto dalla Fondazione Mondo Digitale. Il Festival invita durante l’anno gli artisti a produrre progetti e contenuti attraverso gli strumenti tecnologici della Palestra dell’innovazione messa a disposizione dalla Fondazione Mondo Digitale. Nell’edizione del 2018 ad esempio, tre artisti italiani, Leonardo Petrucci, Salvatore Insana e Elisa Turco Liveri, hanno realizzato installazioni interattive grazie alla partnership con Epson.
In uno studio futuro sarebbe interessante comprendere se questa multiforme e bidirezionale relazione tra arte e industria abbia sciolto le questioni sollevate da Klüver negli anni ‘70 e in quali modalità.
- Il saggio qui proposto riporta una parte dei risultati della ricerca “Luce e Suono in scena tra patrimonio e innovazione” svolta tra il 2017 e il 2018 presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Letterati di Padova con la supervisione della Prof.ssa Cristina Grazioli nell’ambito del progetto “Teatro, Ricerca e Innovazione. La Scena digitale”, un gruppo di ricerca interdisciplinare che ha coinvolto tre Università venete (Ca’ Foscari, IUAV e Padova). Le citazioni da S. Bradford (1989), M. Betancourt (2006), R. Hausmann (1921; 1922; 2005), B. Klüver (1961; 1967; 1972), L. Moholy Nagy (1947), M. Schroeder (1967), T. Wilfred (2006), ivi riportate sono tradotte tutte da Flavia Dalila D’Amico. ↩
- Uno strumento brevettato dall’ingegnere Preston S. Millar e il direttore d’orchestra Modest Altschuler nel 1915. Cfr. K. Peacock, Instruments to perform Color-Music: two Centuries of Technological Experimentation, in «Leonardo», vol. 21, n. 4 MIT Press, Cambridge 1988, pp. 397. ↩
- Per approfondimenti sull’argomento cfr. A. Bernard Klein, 1926; D. D. Jameson, 1844; J. Zilczer, 1987; K. Peacock, 1988; O. Darrigol, 2010; P. Bolpagni, 2011 e 2015; P. Rousseau, 2004. ↩
- Dispositivo brevettato da Alexander Wallace Rimington, nel 1893. Cfr. A. W. Rimington, Colour-Music, Wildside Press LLC, Rockville 1911. ↩
- Uno strumento brevettato dall’artista Thomas Wilfred nel 1924. Cfr. M. Betancourt, Visual Music Instrument Patents: Volum one, Wildside Press LLC, Rockville 2004. ↩
- Uno strumento brevettato dall’artista Zdeněk Antonin Pešànek nel 1924. Cfr. La piattaforma Monoskop, dedicata ai media e alle arti e fondata dalla ricercatrice del Media Studies Department dell’University di Dušan Barok: monoskop.org/Monoskop ↩
- Cfr. J. Donguy, Machine Head: Raoul Hausmann and the Optophone, in «Leonardo», n. 3, vol. 34, Mit press, Cambridge 2001, pp. 217-220. ↩
- Cfr. «Film-Kurier», vol. 11 no. 139, 1920; «Filmblatt» no. 11, 1999; «Lichtbildbühne» vol. 22, no. 145, 1929. ↩
- In molti dei suoi scritti Walter Gropius ha sottolineato quanto il Bauhaus fosse emerso dallo spirito della lega artigiana Deutscher Werkbund, fondata da Hermann Muthesius a Monaco nel 1907 come associazione di artisti, architetti e commercianti. Accanto a questo esempio di integrazione pragmatica tra arte e industria, il Bauhaus dei primi anni assorbe le istanze “dell’ala visionario-contemplativa dell’Espressionismo”. I primi artisti coinvolti nella scuola furono infatti quelli adunati attorno al Blauer Reiter tra cui Paul Klee e Wassily Kandinsky e alla rivista «Der Sturm», fondata nel 1910 dal musicista e critico d’arte Harwarth Walden. Il primo corso preliminare di pittura vene affidato all’artista Johannes Itten, sostituito nel 1923 da Laszlo Moholy.Nagy. Questo passaggio si può considerare anche come spartiacque di una virata della scuola verso un’impronta maggiormente sperimentale e tecnicista ispirata dal costruttivismo russo e da una più intensa riflessione sulla relazione tra etica ed estetica degli oggetti e dell’impiego della macchina. Cfr. L. Moholy-Nagy, A. Somaini, Pittura, Fotografia e Film, Einaudi Editore, Torino 1987; H. M. Wingler, Il Bauhaus. Weimar, Dessau, Berlino 1919-33, Feltrinelli, Milano 1987 ed. or. Das Bauhaus, 1919-1933, 1975; C. Grazioli, Drammi dell’espressionismo, Costa & Nolan, Genova 1996; C. Grazioli, Dal Futurismo al Bauhaus: modello meccanico e civiltà tecnologica, in U. Artioli (a cura di), Il teatro di regia. Genesi ed evoluzione (1870-1950), Carocci, Roma 2004. ↩
- Cfr. Il sito del laboratorio www.belllabs.com ↩
- L. Moholy Nagy, The New Vision and Abstract Film, Wittenborn Schultz, New York 1947, p. 20. ↩
- A. W. Rimington, 1911; B. Bishop, 1893; B. Klüver, 1972; C. Grazioli, 2008, 2010 e 2016; D. Palazzoli, 1976; G. Giusti, 1973; J. Donguy, 2001; J. Fiala, 1980; J. Svoboda, 1997; K. Peacock, 1988; M. Hagener, 2007; L. Moholy-Nagy, 1947; P. Bertetto, 1983; P. Drummond, 1979; P. Hultén, F. Königsberg, 1966; R. Hausmann, 1921 e 1922; V. Catricalà, 2013. Riviste nelle quali appaiono i programmi delle mostre dedicate alle sperimentazioni delle avanguardie tedesche: «Film-Kurier», vol. 11 no. 139, 1920; «Filmblatt» no. 11, 1999; «Lichtbildbühne» vol. 22, no. 145, 1929. ↩
- M. Girardi (a cura di), SKRJABIN, Appunti e riflessioni. Quaderni inediti, Studio Tesi, Pordenone 1992, pp.69-88. ↩
- C. Ceroni, «Parol, quaderni di arte ed epistemologia», 2013, Rivista Online consultata l’8 Febbraio 2019. http://www.parol.it/articles/cristina.htm#_edn9 ↩
- Cfr. L. Verdi, Kandinskij e Skrjabin, Akademos, Lucca 1996, pp. 63-64. ↩
- M. Girardi, 1992, cit., pp. 69. ↩
- Cfr. K. Peacock, 1988, cit. p. 397. ↩
- Il critico Clarence Lucas scrive in proposito: «Uno schermo bianco fu illuminato da raggi e fasci di luce di vari colori senza alcuna possibile connessione con la musica, che servivano solo a distrarre i sensi dell’uditorio da un ascolto troppo concentrato sulla musica». Cfr. L.Verdi, 1996, cit., p. 62. ↩
- Per darne un’idea, il filosofo e matematico gesuita Mario Bettini affronta nell’Apiaria universae philosophiae mathematicae, trattato edito nel 1645, i problemi legati alla riflessione del suono sulle superfici curve, valutando metodologicamente il rapporto di queste riflessioni con l’indagine sull’ottica. Il parallelismo tra acustica e ottica porta il gesuita a formulare strumenti che potessero permettere la messa a fuoco dei raggi sonori: nelle immagini del Propositio VII ipotizza un tubo in cui è possibile trasmettere il suono attraverso la sua concentrazione in fuochi che riflettono i raggi grazie alla forma ellittica. Cfr. S. Briatore, Rifrazioni sonore. Percorsi sonori nel Seicento, Tesi di Dottorato XXIX ciclo, Facoltà di Lettere e Filosofia Dipartimento di Storia dell’Arte e dello Spettacolo, Dottorato Musica e Spettacolo, Roma 2017, pp. 29-31. ↩
- Sotto forma di una lettera estesa pubblicata nel 1725 nella rivista «Mercure de France». Cfr. L. Bertrand Castel, Clavecin pour les yeux, «Mercure de France», November 1725, pp. 2557-2558. ↩
- Lo scienziato nell’opera del 1704 Opticks aveva proposto una stretta corrispondenza tra i sette colori dell’arcobaleno e le sette note della scala musicale. Cfr. I. Newton, Opticks. Treatise of the Reflections, Refractions, Inflections and Colours of Light, Royal Society, London 1704. ↩
- Athanasius Kirchner, a sua volta erede di Bettini descrive il suono attraverso tavole illustrative che rendono visibile il fenomeno ed elabora la relazione intercorrente tra gli intervalli musicali e i colori. Cfr. A. Kircher, Musurgia universalis sive Ars magna consoni et dissoni in X. libros digesta. Qua vniuersa sonorum doctrina, et philosophia, musicaeque tam theoricae, quam practicae scientia, summa varietate traditur, ex typographia haeredeum Francisci Corbelletti, Roma 1650. ↩
- Brevettato il 16 Gennaio, 1877 con il numero186298, in B. Bishop, A Souvenir of the Color Organ, with Some Suggestions in Regard to the Soul of the Rainbow and the Harmony of Light, The De Vinne Press, New York 1893, p. 4. ↩
- A.W. Rimington, Color-Music: The Art of Mobile Color, Frederick A. Stokes Company, New York 1911. ↩
- Cfr., K. Peacock, 1988, cit. p. 398. ↩
- V. Kandinskij, Lo spirituale nell’arte, De Donato, Bari 1968, p. 107 ed. or. Über das Geistige in der Kunst,1912. ↩
- Per un approfondimento del rapporto tra Kandinskij e la musica cfr. N. Pucci, Scritti intorno alla musica/Vasilij Kandinskij, Discanto, Fiesole 1979. ↩
- Brevettato per la prima volta il 14 Febbraio 1922 con il numero 1,406,663 presso l’Ufficio Brevetti di New York. ↩
- T. Wilfred, Light and the artist, in M. Betancourt, Thomas Wilfred’s Clavilux, Borgo Press, New York 2006, p. 16. ↩
- Nel Brevetto del 1925 numero 527,783 registrato presso Ufficio Brevetti di New York il 18 Agosto si legge: «Questa invenzione si riferisce all’arte di proiezione della luce, per esempio la proiezione di effetti di luce o colore su uno sfondo. Non si tratta solo di una nuova arte, ma di un nuovo apparato o macchinario». Ibidem ↩
- Ivi, p. 17. ↩
- Nello stesso brevetto Wilfred scrive: «Il principale obiettivo della presente invenzione è di dotare la proiezione di luci, ombre e colore di infinite variazioni di tono, forma e movimento. Ho già spiegato questa materia nel mio brevetto 1.406.663 concesso il 14 febbraio 1922 e il caso presente comporta caratteristiche di miglioramento rispetto al caso precedente. Un particolare obiettivo del presente brevetto è quello di integrare di nuovi elementi supplementari o sostitutivi quello precedente, al fine di dare maggior rilievo e varietà agli effetti producibili». Ivi, p. 16. ↩
- Queste sperimentazioni furono realizzato senza il contributo tecnico-economico delle aziende, Wilfred dichiara: «Molte aziende pubblicitarie mi offrirono contratti – Stocking, Chewing Gum, Laxatives, Cigarettes. Oggi rabbrividisco quando penso al danno che avrei potuto infliggere su Lumia se avessi ceduto e venduto il mio strumento alla schiavitù» cfr. M. Betancourt, 2006, cit. p. 15. ↩
- Ivi, p. 16. ↩
- C. Grazioli, Risonanze Magnetiche, in S. Tarquini (a cura di), La luce come pensiero. I laboratori di Fabrizio Crisafulli al Teatro Studio Scandicci 2004-2010, Editoria Spettacolo, Roma 2010 p. 24. ↩
- Per maggiori approfondimenti sulle questioni della luce in scena nei primi anni del Novecento Cfr. C. Grazioli, Luce e ombra. Storia, teorie e pratiche dell’illuminazione teatrale, Roma-Bari, Laterza, 2008. ↩
- Per maggiori approfondimenti si rimanda al saggio: M. Bulat Galeyev, The Fire of “Prometheus”: Music-Kinetic Art Experiments in the USSRAuthor(s), «Leonardo», Vol. 21, No. 4, 1988, pp. 383-396. ↩
- Per maggiori approfondimenti sui diversi dispositivi messi appunto dal Centro di Ricerca è possibile consultare il sito: http://prometheus.kai.ru ↩
- C. Ceroni, 2013, cit. ↩
- Per maggiori approfondimenti cfr. J. Jewanski, S. Sidler (eds.), Farbe, Licht, Musik. Synästhesie und Farblichtmusik, Peter Lang, Bern 2006, p. 267. ↩
- Cfr. A Hapkemeyer, P. Stasny (eds.), Ludwig Hirschfeld-Mack. Bauhäusler und Visionär, Ostfildern-Ruit, 2000. ↩
- Per maggiori approfondimenti cfr. P. Bertetto, Il cinema d’avanguardia (1910-1930), Marsilio, Venezia 1997. ↩
- R. Hausmann Optophonetika, «Wjescht, Objet, Gegenstand» n. 3, May 1922, trad. ing., in «MA» n.1 October 1922, ora in Lista, M., Raoul Hausmann’s Optophone: ‘Universal Language’ and the intermedia, in Dickerman L., Witkovsky S., (eds), Dada Seminars, National Gallery of Art, Washington 2005, p. 89. ↩
- Il primo brevetto del 1930 con numero 446.338 titola “Dispositivo per trasformare i numeri su base fotoelettrica”; il secondo del 1934 con numero 27436 / 34.446.338 titola “Miglioramenti al principio di una macchina calcolatrice”. Per la consultazione dei brevetti si rimanda a J. Donguy, Machine Head: Raoul Hausmann and the Optophone, «Leonardo», Vol. 34, No. 3, 2001, pp. 217-220. ↩
- R. Hausmann, PREsentismus, «De Stijl» 4, n. 7, September 1921. ↩
- F. T. Marinetti, Il Tattilismo, Manifesto futurista, Comoedia, Parigi, 1921. ↩
- R. Hausmann, 1921, cit. p. 141. ↩
- F. T. Marinetti, 1921, cit. ↩
- R. Hausmann, 1921, cit. p. 141. ↩
- M. Lista, 2005, cit. p. 85. ↩
- E. Marcus, Das Problem der exzentrischen Empfindung und seine Lösung, Verlag Der Sturm,Berlin 1918. ↩
- R. Hausmann, 1921, cit. p. 141. ↩
- In una lettera a Henri Chopin datata 23 giugno 1963, Hausmann scrive di aver visitato il Postal Museum di Berlino nel 1920 per assistere a una dimostrazione del singing arc, uno strumento inventato dal fisico William Du Bois Duddell nel 1899. Cfr. J. Donguy, 2001, p. 218. Lo strumento di Duddel era ricavato da una lampada che emetteva la luce mediante un arco elettrico fatto scoccare tra due elettrodi di carbone. Durante i suoi esperimenti Duddel si accorse che variando la tensione applicata alla lampada riusciva a variare la frequenza udibile che l’arco elettrico generava. Per un approfondimento su questo strumento. Cfr. J. Merrich, Breve storia della musica elettronica e delle sue protagoniste, Arcana, Roma 2018, p. 104. ↩
- Per maggiori approfondimenti sul funzionamento di questo dispositivo cfr. E. E. Fournier d’Albe, On a Type-Reading Optophone, in «Proceedings of the Royal Society of London», Vol. 90, Issue 619, 1914. ↩
- R. Hausmann, 2005, cit. p. 89. ↩
- Cfr. J. Donguy, 2001, cit. p. 218. ↩
- Per maggiori approfondimenti si rimanda al saggio D. Gomery, Tri-Ergon, Tobis-Klangfilm, and the Coming of Sound, «Cinema Journal», Vol. 16, No. 1 (Autumn, 1976), pp. 51-61. ↩
- Cfr. J. Donguy, 2001, cit. p. 218. ↩
- Data di deposito: 25 settembre 1934. No.27436 / 34.446.338, Deposito della descrizione tecnica: 25 ottobre 1935. Accettazione del file: 27 aprile 1936. Ivi, p. 217. ↩
- Ibidem. ↩
- Ivi, p. 64. ↩
- Cfr. T. Elsaesser, M. Hagener, Walter Ruttmann, in S. Andriopoulos, B. Dotzler (eds.), 1929. Beiträge zur Archäologie der Medien, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2002, pp. 316-349. ↩
- Sul rapporto tra Moholy Nagy e l’azienda cfr. M. Hagener, Moving Forward, Looking Back. The European Avant-garde and the Invention of Film Culture 1919-1939, Amsterdam University Press, Amsterdam 2007, p. 156. Per una dimostrazione del funzionamento della scultura si rimanda al film Moholy-Nagy’s film Lichtspiel Schwarz-Weiss-Grau (Germania 1931/1932). ↩
- S. Bradford, Hans Richter und das Baden-Badener Musikfestival, in M. Hofacker, H. Gehr (eds.), Hans Richter. Malerei und Film, Deutsches Filminstitut, Frankfurt 1989, p. 26. ↩
- Per maggiori approfondimenti sulla partecipazione delle aziende nelle mostre tra gli anni 1920-29 cfr. M. Hagener, 2007, cit. ↩
- Per maggiori approfondimenti sulla storia del Bauhaus si rimanda a H. M. Wingler, Il Bauhaus. Weimar, Dessau, Berlino 1919-33, Feltrinelli, Milano 1987 ed. or. Das Bauhaus 1919-1933, 1975. ↩
- W. Gropius, Proposte per la fondazione di un istituto scolastico come centro di consulenza artistica per l’industria, il commercio, l’artigianato, 25 Gennaio 1915, ivi, pp. 51-52. ↩
- L. Moholy Nagy, The New Vision and Abstract Film, Wittenborn Schultz, New York 1947, p. 20. ↩
- La documentazione relativa alla mostra è depositata presso il Getty Research Institute (Los Angeles, California, U.S.) e presso l’archivio della Daniel Langlois Foundation dal 2001 disponibile online al sito: www.fondation-langlois.org ↩
- I Bell Laboratories (noti anche come Bell Labs, in precedenza denominati AT&T Bell Laboratory e Bell Telephone Laboratories) sono un centro di ricerca e sviluppo, attualmente di proprietà di Nokia. Prendono il nome dalla società americana di telecomunicazioni AT&T e da Alexander Graham Bell che li ha fondati. Nel corso della loro storia, le ricerche condotte nei Bell Laboratories portarono a scoperte e invenzioni rivoluzionarie come la radioastronomia, il transistor, il laser, la teoria dell’informazione, il sistema operativo UNIX, i linguaggi di programmazione C e C++. I lavori svolti nei laboratori hanno portato a sette premi Nobel. Bell Labs has a long and distinguished history in the creation and production of the digital arts. In video, Bell Labs broadcast the first long distance TV signal in 1927, transmitted the first satellite video signal across the Atlantic, invented the charge-coupled-devices (CCD – digital image sensor) in 1969, and pioneered high definition TV, making seminal contributions to the standard that came to define compressed video (MPEG) and audio (MP3). In sound, Bell Labs invented High Fidelity stereo recording and reproduction in the early 1930s, having also participated in early sound-motion picture productions such as “The Jazz Singer”. Cfr. il sito: www.bell-labs.com/explore/experiments-art-and-technology ↩
- Cfr. la sezione dedicata sul sito di Nokia www.bell-labs.com/programs/experiments-art-and-technology ↩
- Per maggiori approfondimenti su questa collaborazione cfr. B. Klüver, “The Garden Party.” The Machine as Seen at the End of the Mechanical Age, «Zero» n. 1, 1961, pp. 161-171. ↩
- Per maggiori approfondimenti sul College cfr. C. Collier (ed.), Starting at Zero: Black Mountain College, 1933-1957, Arnolfini Gallery and Cambridge University, Cambridge 2005. ↩
- John Cage: Variations VII, 41’; Öyvind Fahlström: Kisses Sweeter Than Wine, 71’; Lucinda Childs: Vehicle, 38’; Deborah Hay: Solo, 45’; Alex Hay: Grass Field, 40’; Yvonne Rainer: Carriage Discreteness, 40’; Robert Rauschenberg: Open Score, 32’; David Tudor: Bandoneon! (a combine), 41’; Robert Whitman: Two Holes of Water-3, durata variabile; Steve Paxton: Physical Things, 45’. ↩
- Cfr. Questi dettagli sono appresi dagli intenti dichiarati da John Cage nel programma dell’evento. Cfr. P. Hultén, F. Königsberg (eds.), 9 Evenings: Theatre and Engineering, Experiments in Art and Technology: The Foundation for Contemporary Performance Arts, New York 1966, p. 2. ↩
- Ibidem. ↩
- Ivi, p. 6. ↩
- M. Schroeder, Art and Science: Two Worlds Merge, «Bell Telephone Magazine», vol. 46, n. 6, 1967, pp.15-16. ↩
- Cfr. P. Hultén, F. Königsberg (eds.), 1966, cit. p. 3. ↩
- Ibidem. ↩
- Ivi, p. 10. ↩
- Per maggiori approfondimenti sui i dettagli tecnici cfr. l’archivio della Langlois Fondation: www.fondation-langlois.org/html/e/page.php?NumPage=599 ↩
- Ibidem. ↩
- Per maggiori approfondimenti cfr. il sito dell’artista: www.lowellcross.com/articles/statement ↩
- Per maggiori approfondimenti sui dettagli tecnici cfr. ‘archivio della Langlois Fondation: www.fondation-langlois.org/html/e/page.php?NumPage=592 ↩
- L. Lippard, Total Theatre?«Art International» Vol. XI, 20 January 1967, p. 39. ↩
- Cfr. B. Klüver,1961, cit. 161. ↩
- B. O’ Doherty, New York: 9 Armored Nights, «Art and Artists», n. 9, December 1966, 14–17, ora in D. Garwood, The Future of an Idea 9 Evenings: Forty Years Later, «PAJ: A Journal of Performance and Art», vol. 29, No. 1, 2007, pp. 36-48. ↩
- B. Klüver, R. Rauschenberg, Experiment in Art and Technology, E.A.T. News, Vol. 1, n. 2, June 1, 1967. ↩
- Ibidem. ↩
- Cfr. il documento redatto da Gropius sopramenzionato, H. M. Wingler 1987, p. 51. ↩
- W. Gropius, Programma del Bauhaus statale di Weimar, Ivi. p. 46. ↩
- B. Klüver, The Pavillion, in Klüver, B., Martin J., Rose, B. (eds.), Pavilion: Experiments in Art And Technology, Dutton, New York, 1972, ora in Wardrip-Fruin, N., Montfort, n., (eds.) The New Media Reader, The MIT Press, Cambridge 2003 p. 225. ↩
- Cfr. il documento redatto da Gropius sopramenzionato, H. M. Wingler 1987, p. 51. ↩
- In Italia un esempio a riguardo è costituito dalla collaborazione tra l’artista Umberto Bignardi e le aziende Olivetti e IBM Cfr. C. Grazioli, Sulla frantumazione visiva e sonora: Illuminazione di Mario Ricci e Umberto Bignardi, Focus su Mario Ricci, «Nuovo Teatro Made in Italy», 2016, nuovoteatromadeinitaly.sciami.com/mario-ricci-illuminazione-1967 ↩
- Ispirati dal tema conduttore dell’Expo, “progresso e armonia per l’umanità”, la struttura del Padiglione si presentava come un complesso organismo reattivo e adattivo all’ambiente. Al suo esterno il visitatore era catturato da un’enorme scultura di nebbia ideata dall’artista Fujiko Nakaya. Per raggiungere il cuore del Padiglione, il visitatore doveva immergersi lungo un tunnel buio per poi venire accolto in un’enorme spazio sferoidale specchiato, ideato dall’artista Robert Whitman. Per entrambi gli ambienti era inoltre stato appositamente progettato un sistema sonoro che consentiva l’intervento in tempo reale. Scrive Kluver: «I 27 metri di diametro della sfera specchiata e del sound system si aprivano ad ospitare numerose possibilità per performance congeniali allo spazio come lo furono quelle di Shakespeare all’interno del Globe Theatre. Il padiglione era un ambiente vivente responsivo: la nebbia che lo circondava rispondeva alle condizioni meteorologiche. La Scultura di Nebbia era la più grande massa di vapore acqueo che era stata mai prodotta senza l’uso di prodotti chimici. L’insistenza ad usare acqua pura per l’alimentazione della nebbia ha portato alla realizzazione di un sistema che offriva interessanti spunti per la progettazione di sistemi di irrigazione, aria condizionata per esterni, e protezione dei raccolti dal gelo […] L’interno del padiglione era studiato come un esperimento di esperienza individuale. Presentava una nuova forma di spazio teatrale che avvolgeva completamente lo spettatore. Lo spazio generato dalla superficie riflettente era altamente poetico. Ogni giorno abbiamo scoperto nuove complicate relazioni ed effetti ottici che non erano stati mai descritti prima. Era uno spazio tangibile, il coinvolgimento non era psicologico, come quando si assiste a uno spettacolo. Il visitatore diveniva parte dell’esperienza teatrale totale». B. Klüver, The Pavillion, in Klüver, B., Martin J., Rose, B. (eds.), Pavilion: Experiments in Art And Technology, Dutton, New York, 1972, ora in Wardrip-Fruin, N., Montfort, n., (eds.) The New Media Reader, The MIT Press, Cambridge 2003, p. 225. ↩
- B. Klüver, 2003, cit. p. 21. ↩
- Ibidem. ↩
- Cfr. La sezione dedicata sul sito del Festival www.aec.at/futurelab/en/partners ↩