cura e revisione di Piersandra Di Matteo
Pioniere nella messa a problema della “voce”, lo psicanalista francese Guy Rosolato, sul finire degli anni ‘60 e primi ‘70, dedica parte delle sue ricerche alla questione vocale, sostenuto da un robusto trasporto per la musica e l’opera lirica. Il testo che qui presentiamo con la puntuale traduzione di Alfredo Riponi, corrisponde allo scritto redatto per la conferenza tenuta a Sainte-Anne il 16 gennaio 1967, e pubblicato successivamente per Gallimard «Connaissance de l’Inconscient» nel volume Essais sur le symbolique (1969), e poi ancora nella Collection TEL (1979). Si farebbe torto a relegare l’orizzonte teorico di Rosolato al solo ambito psicanalitico. Sebbene tragga spunto dall’interesse a investigare quelle “cisti verbali” che sono “le allucinazioni acustico-verbali”, l’aspetto più evidente di questo scritto ardito, tutt’altro che piano, è la necessità di abbracciare teoricamente la “voce” con arnesi tratti dalla linguistica all’antropologia, dalla cultura biblica alla storia dell’arte, sgomberando il campo, contestualmente, da miti, pregiudizi e luoghi comuni nutriti di facili assimilazioni (es. voce=canto). Prendendo spunto dall’occorrenza della conferenza, Rosolato installa il discorso nel senso della schisi tra il testo scritto e il suo proferimento in pubblico, discutendo la dissimmetria tra “codice parlato e codice grafico”, per inaugurare una riflessione sulla voce che non si lascia assorbire né nel linguistico, né nel funzionale, ma insiste sull’acustico, e l’esperienza del soggetto. Nella ricchezza di spunti abbozzati, o non del tutto disbrogliati, il saggio La voce ci regala il fermento di un pensiero in formazione che si verrà definendo intorno ad alcune nozioni chiave, quali l’inerenza corporea della pulsione vocale intesa come potenza d’emanazione del corpo, la voix maternelle come matrice sonore, lo “specchio acustico”, sviluppate nel più noto La voix: entre corps et langage, apparso nella «Revue française de psychanalyse» (1974). Pensare questi due studi in dittico significa rendere conto di un pensiero che ha avuto un ruolo importante, sebbene carsico, nella definizione dell’oggetto voce, attivando particolari risonanze negli studi cinematografici e letterari, e in modo tardivo in quelli teatrali. Un ringraziamento a Carlo Serra per aver condiviso il lavoro di revisione sugli accenti musicali del testo, e per il nitido scambio di pensieri. PdM
Chi prenda la decisione di leggere un testo in pubblico, soprattutto se ne è l’autore, non fa che piegarsi alle consuetudini di un genere letterario. E se nutre l’illusione di premunirsi contro ogni slittamento, farebbe meglio a non ignorare il fatto che la pronuncia resta sempre in balia del lapsus, e che l’orrore – scusate volevo dire l’errore – non congiura senza la sua verità. In questa lettura, tuttavia, si rivela qualcosa di imprevisto. Se una distanza è stata presa dalla scrittura condotta a termine, e una conclusione è stata decisa, in un punto finale, qui si ritorna sulle stesse parole scritte con una inedita prossimità. Ma siamo lontani dall’esplosione di idee, vale a dire quella che sollecito, in questo momento, davanti alla macchina da scrivere. Che ci sia un testo dietro la lettura – se non si ricorre a una falsificazione, per esempio imparandolo a memoria – indica la decisione di rimettersi all’alea di questo frammento, ammettere che possa perdere valore o alterarsi, scostarsi dall’istanza di un sapere e sempre attirato da un clivaggio. Ma una tale lettura è un ritorno al conosciuto, un aderirvi, daccapo? Non si tratta di dar corso a uno svolgimento ulteriore; occorrerebbe per questo un commento, e noi non abbiamo il tempo: le lettere devono susseguirsi nell’ordine prestabilito dallo scritto. Questa voce che fa vibrare le parole e le colora non è che uno strumento? Tuttavia colui che ascolta si fida esclusivamente della voce che proferisce i fonemi da cui il senso scaturisce.
Provate a leggere una partitura musicale che non sia monofonica – cosa rara nella nostra cultura; sarete portati rapidamente, come il Nipote di Rameau, a restare senza fiato; – mentre qui esaurisco il mio testo, passa interamente. Forse vi sto confondendo? Anche una melodia a una sola voce, quella che segue il violino in una partitura di Bach, dispiega per la sola persistenza, o diciamo per il ricordo obbligato delle note passate, una successione di voci: l’arpeggio induce l’accordo. Una metafora non è contenuta nelle sole parole emesse: trattiene in sé la condensazione di un’altra parola che appartiene al passato, lontano forse, assente e tuttavia in parallelo. E poi non è sicuro che la mia voce sia questa fedele ancella. In questo momento penso a una strada pesante di pioggia, agli Appennini, lascio Urbino, la Flagellazione. Ma adesso non scrivo, leggo e sogno. Così si può tradurre da una lingua a un’altra senza fermarsi al senso delle parole se non per il loro valore sostitutivo. La mia lettura sarebbe dunque la mia impertinente assenza. La lettura sarebbe un esercizio di ubiquità? Del resto percepite che leggendo questo testo scritto per una conferenza, pensato per una certa assenza di voce – poiché non si può far anche finta di improvvisare o suonerebbe ancora più falsa – questa voce può essere chiesta soltanto in prestito. Esistono delle macchine per leggere i testi: il tono, i suoni scelti derivano dalla media statistica di ciò che conviene sentire nelle parole in quella circostanza. Ma la voce dunque non sarebbe che suono?
Vediamo a che campo del fantastico o del mito appartiene la Voce, pur avendo la preoccupazione di trovarne l’inserzione nel problema delle allucinazioni e soprattutto delle allucinazioni acustico-verbali.
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Ciò che pronunciamo non corrisponde esattamente a ciò che è scritto. È la distinzione tra codice parlato e codice grafico. Partendo da questa differenza, il linguista Jean Dubois, in una Grammatica strutturale del francese (1965), ha insistito con talento su questo parallelo. Ecco il punto di partenza: «Le condizioni della trascrizione grafica di un messaggio hanno per conseguenza una perdita sensibile d’informazione» (p. 15). Notiamo questo: «se c’è trascrizione, questo significa che il sistema del codice parlato» viene per primo. Si tratta di compensare ciò che appartiene alla parola, le intonazioni espressive e significative (intonemi e prosodemi), il riferimento al contesto parlato, ma soprattutto, diciamo, ciò che appartiene alla situazione come può essere appresa da altri mezzi che il linguaggio, dalla vista, per esempio, e infine da altri segnali, come i gesti. Il sistema del codice grafico dovrà quindi supplire per amplificare l’unica referenza che sia disponibile, quella del testo: è il ruolo delle marche1 che, per la disposizione delle lettere precisano al massimo gli accordi di numero o di genere. Queste marche permettono anche di distinguere immediatamente le omonimie attraverso una multi-grafia – attraverso ortografie differenti. Parimenti, i bianchi che dividono le parole, i segni di punteggiatura, valgono in questo senso. Si constata dunque che una frase come «Leurs secrétaires seraient venues» (Le loro segretarie sarebbero venute) non permette nel codice parlato di informare né sul sesso, né sul numero; mentre la frase scritta è senza ambiguità. Questa supplenza attraverso le «marche» costituisce ciò che è chiamato ridondanza. La dissimmetria tra il codice parlato e il codice grafico si rappresenta con la formula m >= n, che in francese significa che «il numero di marche nella lingua scritta è più grande o almeno uguale al numero di marche della forma parlata» (p. 21). Da cui consegue che, visto il minor contenuto in marche del codice parlato, quando una ridondanza si incontra, appare, a causa della sua relativa rarità, più preziosa per la comprensione, poiché è caricata di una più grande quantità d’informazioni. La ridondanza di marca ha due funzioni: quella di conservare l’informazione nelle espansioni della frase, e quella di assicurare la coesione sintagmatica. Così che questa coesione è meno forte per il linguaggio parlato.
Ora due osservazioni devono essere fatte. Se in francese questa disparità appare evidente, non è sicuro che sia così per le altre lingue. Traducete in inglese la frase di prima per constatarlo: il numero2 è riconosciuto. Inoltre il fatto che le marche attribuite al genere, e che giocano un ruolo di primo piano in francese, siano ridotte in inglese (secondo il sesso e interessino soltanto la terza persona del singolare) o non esistano in un’altra lingua, mostra bene che non si tratta di una necessità legata al significato, ma di coesione: come una specie di ossatura o di trama che raddoppierebbe la coerenza significativa della frase. Tant’è vero che in turco, dove il genere è assente, questo sbarramento è assicurato da una regola molto particolare, detta armonia vocalica, – chiaramente sconosciuta alle lingue non agglutinanti e che comportano un genere – regola che esige che tutte le desinenze suffissali3 corrispondano, per le loro vocali, al tipo di quelle contenute nella radice della parola, o secondo due ordini: vocali anteriori o vocali posteriori. Si potrebbe dire dunque che il francese assicura uno scarto tra il codice parlato e il codice grafico e che, per di più, le ridondanze di quest’ultimo localizzano nel luogo della scrittura la memoria di un’origine, poiché queste marche grafiche sono di tipo etimologico, tradizionale. Ci sarebbe dunque il ricordo evidente di un’origine, anche per la scrittura.
Ritorniamo al principio del linguista: la trascrizione del messaggio parlato (o pensato); ciò suppone una anteriorità fonica e una imperfezione nella trascrizione grafica che dev’essere compensata. Questo modo di concepire queste relazioni non è indispensabile, e il paragone può proseguire senza di esso. Ciò che importa per noi qui è marcare il mito dell’origine a partire dalla quale non può che esserci dispersione. Origine, cioè anche perfezione di un’unità originaria che non può essere secondariamente che rotta.
Si conoscono gli argomenti invocati per questa successione temporale e per questa supremazia. Pare indiscutibile che il bambino impari a parlare prima che a scrivere. Questo darebbe alla parola e alla Voce un’anteriorità che spiegherebbe il ricorso alla trascrizione. Ma ci sarebbe già una questione da affrontare: non bisognerebbe forse chiedersi se la scrittura non sia presente fin dall’inizio in una sorta di perfezione di linguaggio esemplare, quello dei genitori, e chiedersi ancora se non subisca un’evoluzione ulteriore nell’età in cui il linguaggio del bambino diventa giustamente meno approssimativo?
Ma soprattutto la relazione tra il bambino e i suoi genitori, attraverso la Parola e la Voce, fissa la mente sulla trasmissione e, di conseguenza, sulla differenza relativa a una perfezione primaria. Così che si potrebbe vedere nell’esperienza infantile, con l’idealizzazione che la eccede, il riferimento a una perfezione, a un’unità auspicata, un’anteriorità della parola.
Continuiamo in questo senso, secondo le premesse indicate. Mettiamo in evidenza lo scarto in modo da ottenere, attraverso un movimento mentale, il perfezionamento dei termini della dicotomia: se la scrittura diventa da un lato un residuo laborioso, una rappresentazione sempre imperfetta che esige delle correzioni, dall’altro la Parola cede il passo alla Voce che se ne stacca per non essere più di un vettore, un’astrazione che emana da un’origine, da un’unità prima e da un’originaria adesione all’evidenza del senso. Così nel nostro proposito designeremo la Voce: come rinviante nel mito, all’origine, e più generalmente come domanda implicitamente posta su se stessa, dunque potendo essere captata dai fantasmi corrispondenti.
Occorre qui una precisazione: parlando di mito non si tratta affatto di negare l’importanza reale dell’anteriorità del linguaggio parentale o dell’apparizione primaria della parola nel bambino. Il mito sarebbe piuttosto nella nostalgia idealizzata di un’unità originale che custodisce il fantasma infantile della Scena Primaria. La risalita delle confluenze verso un monte, esige qui il ritorno a una sorgente precisa dove si fondono (nei due sensi del termine) le generazioni, la differenza dei sessi, l’amore e l’odio, e soprattutto i tre poli edipici, il bambino che non solo è presente all’unione dei suoi genitori ma anche alla sua propria concezione. Tale fantasma è dunque agli antipodi della risoluzione edipica della separazione, della differenza acquisita dei sessi, e della correlativa castrazione.
Diciamo mito perché questa invocazione di un’unità originaria e originale tende a dissimulare la differenza, la traccia che, quale che sia il linguaggio grafico o fonico, esiste obbligatoriamente per ogni organizzazione, tempo, e livello di linguaggio: traccia di ciò che è perso, e dell’oggetto, traccia in quanto fa vedere l’assenza, in ogni caso come separazione originaria. Dicendo la traccia diciamo il linguaggio e la sua separazione. Questo sarebbe dunque il rovescio del mito, nella misura in cui la traccia sarebbe originaria e non originale, e permanente per il linguaggio: un inconscio non primario ma che raddoppia il conscio. E siccome ciò che descriviamo è dell’ordine della memoria, questa traccia sarebbe ciò che Freud chiama traccia mnesica: fuori dal tempo lineare; è anche per questo che l’inconscio è detto non tenere affatto conto del tempo, e non affatto nel senso che non possa raffigurarlo. (Il minimo sogno del resto lo lascia vedere non solo intrinsecamente ma anche rispetto all’elaborazione della veglia e del sogno in sogno).
Dunque la Voce piuttosto che la Parola porta con sé la domanda sull’origine; in questo non è soltanto suono. E le onomatopee, i neologismi isolati, elettivi, che possono venire a galla in un’analisi, non sono che uno stadio, o schermo, rispetto alla Scena Primaria; si dice anche che siano, al posto del fantasma, un dono offerto all’analista.
Questa Voce, Parola depurata, viene dall’unico e unisce colui che non è diviso, l’individuo, alla sua origine. L’unione di senso è allora immediata, piena intuizione. Si comprenderà che la Voce in questo raffinamento oltrepassa la particolarità dei fonemi: idealmente sarebbe soltanto il vettore del senso, e senso come vettore. Abbiamo visto, seguendo il linguista, che il codice parlato si distingue per una minor coesione, e che le sue ridondanze, più rare, sono più informative: sembrerebbe dunque che ci siano delle concentrazioni, diciamo «quantistiche», di informazione e delle fasi di fading relativo. Portando questo all’estremo: la Voce sarebbe allora il frastuono (éclat) o il silenzio, – la loro successione.
L’éclat lo avremo nel tuono della rivelazione, ma anche nel grido. Notate che quando parliamo di origine incontriamo il grido: il bambino che nasce, la perdita irreparabile, il ricongiungimento come una felicità, indicibile. Il grido è questa piena Voce, l’esplosione nel rigetto, l’arcaico inteso come regressione. Che cosa potrebbe servire di supplemento al Grido? A questa chiamata, chi può rispondere dalle origini?
II grido è questo éclat, questo rumore umano che non sa che farsene delle ridondanze dei linguisti; è l’anti-ridondanza che è espressione. Come la singolare illustrazione di questa Voce prima della Parola, dove l’uomo si spoglia delle parole e recluta le sue illusioni per un’ultima implorazione.
Ma anche il suono può mancare al grido: ogni richiamo al senso e al fonema si cancella nella siderazione del corpo, nella bocca che il dolore tetanizza. Guardate l’opera di Edvard Munch. Ricordatevi anche il Presidente Schreber quando non sosteneva più un linguaggio interiore che lo univa al suo Dio: il vuoto che ne risultava diventava la suspense di un urlo muto.
Questo soffio che esala è, nella sua forma pura, la Voce. E se fisiologicamente questo soffio è la Voce stessa, che modula i suoni, si risolve nell’estrema tenuità dell’uomo, in questa anima di silenzio, come l’anima di un canone musicale4, resa nei suoi ultimi istanti, – di ultimo respiro. Così il mito ha compiuto la separazione di anima e corpo, pneuma e soma in funzione dell’unità originaria.
La Rivelazione si farà secondo il termine della Voce: nel frastuono o nel silenzio, o più precisamente nel silenzio che subentra al frastuono. Quando Mosé è sul Sinai alla presenza di Dio, gli ebrei ai piedi della montagna sentono un fragore e il suono altisonante del corno di montone (dall’ebraico Jôbel) (Esodo 20, 18). Un’interessante esegesi di Th. Reik ha mostrato5 che poteva trattarsi solamente della Voce di Dio, nel mezzo del Rumore annunciatore, in questo rintrono del suono del corno dove sono rivelati inizialmente i dieci comandamenti. Poi Mosé, ancora sul Sinai, separato dagli ebrei per quaranta giorni, per essi nel silenzio raccoglie presso Dio le prescrizioni liturgiche e le Tavole della Legge, la scrittura divina. (Esodo 24, 12-31, 18).
Nello stesso spirito, l’esergo di un libro di Roger Laporte serve da introduzione al racconto circostanziato di un approccio alla scrittura e all’opera attraverso una prolungata promiscuità col silenzio. Il testo è tratto dal Primo Libro dei Re: «Ed ecco, l’eterno passò. E davanti all’eterno, ci fu un vento forte e violento che scuoteva le montagne e spaccava le rocce: ma l’eterno non era nel vento. E dopo il vento, ci fu un terremoto: ma l’eterno non era nel terremoto. E dopo il terremoto, un fuoco: ma l’eterno non era nel fuoco. E dopo il fuoco, una voce di fine silenzio. Quando Elia la sentì, si coprì la faccia con il mantello, uscì e si fermò all’entrata della caverna» (1Re 19, 11-13).6 Questa «Voce di fine silenzio»7, la cui eco teologica è qui chiara, serve come convocazione di ciò che da sempre si è chiamata ispirazione – questa concentrazione del soffio che prende consistenza di Voce, a sua volta emessa, in una prova o in un gioco, la cui preoccupazione è la Sacra Scrittura.
La fonte per una provenienza, ma anche per un ritorno, o per l’esilio, è dunque nell’ordine stesso della Voce. Quando diciamo che si distingue dalla Parola bisogna ancora assegnare un posto a parte alle Voci molteplici. In una corrispondenza con l’uso fatto in musica, l’accezione che riteniamo per questa Voce spingerebbe a un nuovo paragone. Se ci si è fermati con Saussure alla linearità della Parola e della scrittura, l’errore sarebbe di istituire un confronto con la melodia. Non è chiamata voce ciascuna delle parti musicali? Ma ciò che appare flagrante è la possibilità, nella musica, dello svolgimento di parecchie voci allo stesso tempo, senza che ci sia distruzione o rumore: al contrario la polifonia, come l’armonia, necessita di questa disposizione a gradini, di questo dispiegamento, anche virtuale, per esempio con una melodia sola, o con un accordo al quale manchi la nota fondamentale. Si comprende bene che non si tratta – con la Voce nel senso in cui la intendiamo – di una qualsiasi di queste linee che possono essere sovrapposte, e che sarebbero costituenti della Parola significante, né dell’assenza dell’una o dell’altra, o di una nota, tuttavia percepite e implicate irresistibilmente; l’aspetto polifonico del linguaggio è, a proposito dell’inconscio, attualmente conosciuto. Ciò che la Voce permette di raggiungere è il supporto sistematico o la combinatoria di tutte le voci, come un asse che non abbia più senso né suono attuali, e che proprio per questo ponga la questione dell’origine. Nella corrispondenza musicale questo tipo di griglia sarebbe rappresentabile attraverso ciò che sostiene le voci, e le loro successioni di accordi; si designerà perciò la portata musicale stessa differente dalle note, altra e di più lunga portata; perché precede all’inizio (o all’origine) i suoni stessi, e quando si interrompono, quando è affettata dai segni del sospiro, del silenzio o della pausa, si confonde con questa voce di «fine silenzio», ancora da ascoltare. Essa sarebbe dunque relazione, e nel suo rapporto all’origine, prenderebbe su di sé il carico della trasmissione, – o la sua questione.
Ora non si può considerare la trasmissione senza tener conto di un arrière-fond (parte profonda) fantasmatico sessuale, cioè, nella nostra cultura, della funzione dell’ordine e della successione patrilineare, testimone della Legge che regge il rapporto sessuale, ovvero quella della proibizione dell’incesto. Essa coniuga le due prescrizioni concernenti i desideri edipici: per i due sessi quello di allontanarsi dalla madre; e, quanto al nome, per la ragazza, dal padre; per il ragazzo di accedere a una successione, ciò suppone il superamento dei fantasmi secondo il Padre. È dunque la Legge della proibizione dell’incesto che è l’accesso al simbolico, attraverso una successione fallica. Constatiamo che ogni altra trasmissione, spirituale, culturale, si ricalca su ciò che è proprio del sistema, la successione patrilineare, poiché è del simbolico.
Non occorre dire che questo schema può essere interpretato secondo le caratteristiche proprie di ogni struttura psicopatologica. Così nel perverso scopriamo il fantasma di essere nato soltanto dal padre, di essere fecondato da lui, e di dargli un bambino al prezzo della propria virilità, fantasma dove – afferma Freud nell’Uomo dei Lupi – «l’omosessualità trova la sua espressione più estrema e intima»8. Parimenti il paranoico può farvi corrispondere il proprio sistema genealogico narcisistico. Ma sono argomenti esposti altrove (cfr. supra).
Sarebbe anche nostra intenzione ricercare l’asse della Voce nel mito religioso. Questo può essere presentato secondo una doppia polarità: essere una rappresentazione della Legge (quella della proibizione dell’incesto) ma anche, in quanto rappresentazione, di potere soddisfare i differenti temi fantasmatici secondo la struttura di ciascuno, applicandosi alla questione dell’origine.
Ernest Jones, nel suo studio su «La Concezione della Madonna attraverso l’orecchio» (1914)9, ha ricercato nelle mitologie induista e greca, nella tradizione cristiana dei Padri della Chiesa, le modalità di una trasmissione, di una fecondazione che non avverrebbe attraverso le vie sessuali «naturali». L’origine è in una Potenza paterna che crea, talvolta grazie alla mediazione di un angelo o di un uccello, talvolta direttamente. Jones vi scorge un fantasma legato a una «teoria sessuale infantile» dove il Padre feconda per mezzo di un gas intestinale. Una tale teoria, puntellata dall’osservazione clinica, è legata al tema digestivo della sessualità sia per ciò che riguarda la nascita anale che per la fecondazione.
E come abbiamo già visto, la Voce si trova situata su una scala i cui gradi si scostano progressivamente dall’idea originaria, come è rappresentata, per esempio, nella letteratura vedica (Satapatha Brâhmana) dove Prajapati crea gli dei dal suo soffio respiratorio e la razza umana da un vento del suo fondamento. Successivamente, l’odore, il rumore e la musica, la parola, la voce, il soffio e lo pneuma, il fuoco, conducono all’immaterialità dell’anima e dello spirito. Per Jones un tale modo di vedere la fecondazione riflette un atteggiamento ambivalente nei confronti del Padre: da un lato la superiorità è affermata (come un’onnipotenza che feconda il pensiero stesso), e dall’altro, l’atto propriamente sessuale è negato; l’orecchio sostituisce il sesso della donna; l’angelo o la colomba dello Spirito-Santo si presenta sotto un aspetto «effeminato»; anche la trasposizione olfattiva è indicata col giglio che l’angelo porta (Jones si riferisce precisamente a una Annunciazione di Simone Martini). E la potenza paterna è sostituita da intermediari. Bisogna anche localizzare gli emissari: se il tema aereo è palese nel folclore più corrente, l’angelo e la Colomba dello Spirito Santo conservano la loro rappresentazione fallica; ciò che ne emana, Voce, soffio, nell’ispirazione, corrisponde al seme. Ma la sostituzione dell’immagine femminile con lo Spirito-Santo della Trinità, e con l’immagine della Colomba, «il più effeminato degli emblemi fallici» – dice Jones nel suo Studio psicanalitico sul Concetto di Spirito-Santo (1922) – rende, secondo lui, «la questione più complicata», poiché «dall’unione della Madre con l’agente creatore del Padre ogni femminilità svanisce, e la figura diventa indiscutibilmente maschio».10 Così che, se questa rappresentazione mitologica della fecondazione segue i fantasmi omosessuali di androginia, occorre rimarcare che il mito religioso ammette, come scrive Jones, il progetto della rinuncia ai desideri edipici, sostituiti da un attaccamento più forte al Padre; ma bisogna aggiungervi la rappresentazione delle posizioni contraddittorie delle due forme dell’Edipo, positivo e negativo e, nei miti religiosi di sacrificio, per esempio nel giudeo-cristianesimo, la traiettoria che conduce al Padre Morto e ai superamenti, almeno virtuali.
Sarebbe un errore fissare l’aura significante della Voce in un fantasma determinato. Parimenti il mito, soprattutto quando è in questione il sacrificio, dev’essere presentato nella sua forma «dogmatica» per mostrare come s’innestino su di esso i capovolgimenti fantasmatici corrispondenti. Notiamo soltanto che questo depuramento, o questo svuotamento della Voce può, in certe circostanze, avere il peso di un contesto omosessuale, secondo la spiegazione di Jones. Ma è col testo di Theodor Reik sullo Shofar11 che ritroviamo il polo originario verso il quale la Voce conduce. Mostra, attraverso una esegesi biblica avvincente, i rapporti tra la musica nelle sue forme arcaiche e i temi religiosi del sacrificio.
L’uso rituale giudaico dello shofar, del corno di montone, è una commemorazione, tra altri significati ammessi dalla tradizione, del sacrificio di Abramo: il montone, difatti, come ha dimostrato Reik, viene al posto del figlio di Isacco ma rappresenta Dio-Padre finanche nel sacrificio. Così che i primi usi rituali dei suoni, in rapporto col grido di morte dell’animale che serve da vittima, sarebbero una imitazione ancestrale della Voce del Padre.
Questo spiega come il timbro possa avere un tale ascendente emozionale, quello che si ritrova del resto in tutta la musica, e che deriva da una doppia impressione di lamento, afflizione e immenso giubilo. Il termine Alleluia aveva all’origine il senso di Compianto. Se ne indovina l’origine per il riferimento alla vittoria sul Padre Morto, e allo stesso tempo per la tristezza di un lutto attraverso la commemorazione del sacrificio simbolico. Questi due versanti si ritroverebbero anche – possiamo dire – nei due modi della musica occidentale, il maggiore e il minore, e negli effetti di passaggio di uno all’altro, che restituiscono un sentimento di piacevole estraneità nell’incertezza modale della terza della tonica.
Ma ciò che occorre far risaltare soprattutto a proposito della musica è l’affascinante sovrapposizione, o se si vuole, la sovradeterminazione della progressione simbolica, dall’abbandono o uccisione, il filtrare del senso lascia il verbo per i suoni e le voci. Con lo scorrere temporale della frase musicale, tutto concorre a questo gioco simbolico nella memoria di un sacrificio per cui il patto dell’Alleanza viene a sostenere irresistibilmente l’invocazione della Voce del Padre Morto: come non sentire elevarsi il grande incantesimo? La musica diventa allora la rappresentazione non più del contenuto della legge, come il mito, ma del suo stesso principio, la relazione come patto.
Sembra dunque che ci sia una singolare manifestazione della Voce nel mito estetico. È così che ho tentato di definire (John Hopkins Symposium a Baltimora, ottobre 1966) la funzione della Voce nel mito letterario. Si trattava, difatti, di accerchiare un mito che circola anche nell’attuale posizione della cosa letteraria, a proposito della creazione. L’opera sottomessa alla lettura poteva servire a mettere a nudo questa singolare indipendenza della Voce, rispetto al senso che si è liberato, nella misura in cui resta esterna, voce-off in relazione a ogni voce che sia quella dei protagonisti del racconto, dell’autore, del narratore o del lettore se si immagina parlante. Questo accesso sembrava più diretto prima perché i personaggi e i soggetti grammaticali, per l’uso stesso della lingua, sembrano essere più nettamente localizzati in letteratura. Ma anche perché rivela più efficacemente il processo estetico che obbliga a un movimento continuo, un’oscillazione tra una funzione di continuità lineare (ma ci sarebbe molto da dire a proposito), funzione metonimica, e una funzione di rottura, di sostituzione, di effetto secante, dunque di articolazione multilineare, (polifonica), in breve della funzione metaforica. Tra queste due funzioni – da prendere ben inteso a livello del linguaggio – la cui associazione è indispensabile al giubilo estetico, la Voce appare come un termine medio o piuttosto come il testimone, o l’indice, di una serie di opposizioni grazie alle quali il soggetto, rispetto al discorso, esercita il suo movimento di cancellazione e di ritorno, di battito. Queste opposizioni sono evidentemente di ordine linguistico. E in un modo suggestivo si trova proprio ciò che i linguisti chiamano «la voce», nei due sensi precisi che non hanno corrispondenza. Questi ordini di opposizioni sono tre:
- Prenderemo in esame per primi i pronomi, i soggetti grammaticali: da un lato la terza persona, la non-persona (egli) e dall’altro le prime due persone (io-tu). Constatiamo che è la messa in causa dell’«Io» a permettere il passaggio dall’enunciato all’enunciazione. È notevole che si sia definito la Voce come la relazione che collega il processo dell’enunciato ai suoi protagonisti, ma nell’esclusione, la messa fuori circuito dell’enunciazione12. Lo statuto del «Si» resta tuttavia contrassegnato dalla sostituzione, e dalla caratteristica dell’«animato».
La linearità sarebbe dal lato dell’enunciato, e in modo specifico dell’«egli», del «si», del versante metonimico (e le forme di scrittura, di stile, potrebbero corroborare questa idea); mentre il versante metaforico sarebbe del lato dei commutatori (io-tu) e dell’io che permette proprio questa de-linearizzazione attraverso il ricorso all’enunciazione (che condurrebbe, in definitiva, a una riflessione sul nome proprio). La Voce sarebbe dunque la possibilità di circolazione in tutto il sistema, contro la quale ogni voce particolare, attribuita a tale o tal altro protagonista, rischia di infrangersi come particolare. - La seconda opposizione è quella che riguarda ancora lo statuto del soggetto (io) nel paragone che fa Benveniste (con J.-L. Austin) tra il constativo e il performativo13.
Questa categoria, il performativo, è per eccellenza quella del soggetto: perché in essa l’enunciazione denomina l’atto performato; così quando si dice «io giuro; io nomino; io dichiaro», si indica, nella parola, l’origine del patto, della Legge, della relazione simbolica che fonda e unisce attraverso la parola stessa. All’opposto il constativo resta sul piano descrittivo nell’ordine, possiamo dire, metonimico. Nondimeno un testo constativo può essere messo tra parentesi per fare apparire ciò che assicura l’esposizione, in una sorta di «io dico che…», come nelle prescrizioni mediche, facendo così apparire, attraverso il riconoscimento di un ascolto altro e di un accordo, il performativo, cioè l’ordine metaforico14. La Voce raccoglierebbe così questa nuova opposizione. - Il terzo confronto si applica al verbo, ma precisa anche l’articolazione del soggetto al processo: si tratta, precisamente, delle voci in senso grammaticale. Come categorie si possono distinguere tre voci: a seconda che l’azione sia esercitata dal soggetto (attiva), da lui subita (passiva), o che si rivolga, si ripercuota, su di esso (voce media o pronominale15). Benveniste ha, inoltre, fatto notare che nell’indoeuropeo l’opposizione si concentra tra l’attivo e il medio, a seconda che il processo si compia a partire dal soggetto e fuori da lui (attivo); o che il soggetto sia interno al processo, essendo la sede (medio)16. Questo ci mostrerebbe che una correlazione sembra esistere tra l’interno e il medio-passivo, e l’esterno e l’attivo. Si vede l’interesse di ciò in relazione alle allucinazioni.
Ma soprattutto ciò che deve attirare la nostra attenzione sono le trasformazioni, gli scivolamenti tra queste voci, per provare a scoprire le condizioni che le rendono possibili. Consideriamo per esempio la frase minimale: «Io parlo». Possiamo immaginare una serie di trasformazioni: «Io ti parlo»; «Io parlo questo testo»; «Io sono parlante»; «Io sono parlato»; «Si parla»; «Ciò parla»; «Mi si parla»; «Mi parla»; ecc. Formule che, se non sono correnti, possono convergere in situazioni patologiche, appartenendo a una delle tre voci.
Inoltre, nella sua forma minimale, cioè in una forma sospesa, interrotta, «Io parlo» può prendere un orientamento passivo o attivo: così «Io parlo» come si direbbe «Tu parli!» passivamente, senza estensione; o nella coscienza di essere ascoltato, dichiarando attivamente «Io parlo». Ma sarebbe interessante confrontare l’«io parlo» all’«io ascolto». Si constaterà che nell’«io ascolto» si ritrova la stessa potenzialità tra passivo e attivo; ascoltare si situa tra la passività dell’udito e l’attività di una comprensione che permette di comunicare. È qui che bisogna notare come si articolano l’«io parlo» con l’«io ascolto» per mettere in evidenza il carattere precipuo della loro simultaneità, in una problematica dissociazione: colui che parla si ascolta – in teoria.
Ora, per poco che questa simultaneità venga a essere interrogata, la bilancia inclinerà verso la passività: l’«io ascolto» essendo preminente nella somma. Ecco dunque una constatazione interessante riguardo le allucinazioni verbali: soprattutto se si osserva che questo fenomeno è tanto più favorito se la frase si riduce alla sua struttura minimale «io parlo», cioè, sottolineiamolo, se è centrata sui commutatori e dunque, se il gioco delle opposizioni precedentemente indicate è iniziato.
Ma ritorniamo al mito letterario. Suppone una successione simile a quella della patrilinearità, e a quella del mito religioso. La Voce relativa funge allora da relazione tra una Voce anteriore e una Voce consequenziale, tra le antecedenze della tradizione e la successione come contestazione. Ma questa Voce dell’opera non appare, o non è percepita, che quando sostiene il mito letterario della creazione, cioè quando da questo si separa la finzione. Bisogna dunque definire quest’ultima. Nel mito religioso la finzione si trova sottomessa, o subordinata, al punto di essere indiscernibile, come dire inesistente, per colui che la subisce. La Voce relativa sarebbe incapace di autonomia, coperta com’è dalla Voce di Dio. Perciò la finzione non si svincola dal mito, anche storicamente parlando, che a partire dal momento in cui il progetto di un dire-tutto (tout-dire) può concepirsi e sostenersi. Da allora per chiunque e per l’autore la rappresentazione della finzione si offrirà in un’estrema labilità, oscillante tra il culmine della fascinazione e l’illusione, sempre pronta a essere affermata, del nulla stesso. Ma il mito non è pur tuttavia fatto sparire: riappare con la creazione letteraria. Così che la Voce, inassimilabile alle altre Voci, di un’unica tessitura, dipende da questa separazione tra mito e finzione: in questa divisione, con Sade un tempo, Bataille l’altro ieri, Genet oggi, la Voce trova il suo tenore in un dire-tutto, – la sua tonalità propria17.
Ma se il mito letterario prende il relais di ogni altro mito religioso, a tal punto che si potrebbe ipotizzare che i desideri edipici inconsci stanno al mito religioso come il contenuto della finzione sta al mito letterario, sarebbe il caso di ritrovare in esso ciò che fonda i grandi miti religiosi: il sacrificio in funzione di una genealogia. Si presenta allora un’alternativa in cui appare il destino tragico del creatore: se l’opera inserisce l’autore in una genealogia, nel successo della Voce relativa, ciò che cade, come dire nel dominio pubblico, è l’opera stessa. L’autore preserva così la sua spaltung (spaccatura/refente) di soggetto. Se l’insuccesso prevale, non disperdendosi l’opera e il dire-tutto, l’impossibile unità del soggetto sarà messa in causa da una divisione radicale tra vita e morte, tale che gli tocca di essere lui-stesso la vittima del sacrificio. Bisogna dire che il romanticismo e il nostro tempo sono stati particolarmente sensibili a questa alternativa, a questa Voce fragile, che ci venga da Sade o da Novalis, Hölderlin, Van Gogh o Artaud?
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Dopo questa esposizione di ciò che si potrebbe chiamare avatar della Voce, un’obiezione, che avete probabilmente a fil di bocca deve essere considerata. Così la Voce che ci indica un’origine ci conduce soltanto di mito in mito e di fantasma in fantasma? È questo tutto ciò che siamo in grado di constatare: un continuo rinvio?
Probabilmente è così. Ma occorre aggiungere, che procedendo lungo questo itinerario obbligato, la Voce ci conduce, attraverso le opposizioni che servono da tappe, alla pulsazione del soggetto.
Seguendo la traccia del mito e del fantasma, si arriva a quell’estremità dove si rivelano le tracce mnesiche, la Scena Primaria, e in conclusione alle metamorfosi fantasmatiche del Padre, al Fallo, ultima differenza. Ciò che è così raggiunto sono le Leggi della Realtà psichica, l’Inconscio e a seguire la seconda topica le istanze inconsce: il Super-io, come erede della relazione edipica con il Padre; l’Ideale dell’Io come, se mi permettete quest’espressione, asse fallico; e, soprattutto l’istanza inconscia per eccellenza, l’Es. Se l’Es è per Freud il residuo ancestrale, se ha un rapporto con le pulsioni, è nella misura in cui è questo cimitero di tutte le mitologie, scoperte come tali dall’analisi. L’Es sarebbe dunque questa zona di abolizione che esiste quando tutte le illusioni si trovano rinviate alla preistoria, lasciando libero quel luogo che zavorra la nostra realtà psichica. In ciò, nell’Es, Freud ha indicato il limite che stacca la psicanalisi, come Scienza, sul fondo delle mitologie: l’origine, l’altrove, nella designazione di questo Es. Così che la Voce, apparsa in un primo argomento come emanazione, aura corporale, può essere tenuta per un «oggetto intermedio» che, rispetto a un’origine, conduce attraverso il mito e il fantasma, verso il Super-io, nei suoi giudizi di voce «interiore», e attraverso di esso verso l’Es nelle sue pulsioni.
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Venendo ora alle allucinazioni dobbiamo sfruttare ciò che abbiamo potuto mettere in evidenza fin qui. Non si tratterà naturalmente che di alcune indicazioni per una teoria futura.
Le allucinazioni che c’interessano in primo luogo sono le allucinazioni acustico-verbali: non solo perché corrispondono alle forme di psicosi più acute, di evoluzione subacuta o cronica, ma perché come il delirio stesso possono essere considerate un processo di restaurazione, di cicatrizzazione. Si sa che le psicosi acute, difatti, sono accompagnate più frequentemente da allucinazioni visive che corrisponderebbero alla siderazione simbolica primaria, all’aderenza al fantasma originario. Le allucinazioni acustico-verbali permettono anche un confronto più preciso della corrente fantasmatica con le alterazioni o le particolarità patologiche viste dall’angolo linguistico.
È a Séglas che deve essere attribuito il merito di avere insistito su un aspetto particolare delle allucinazioni, la partecipazione corporale in ciò che chiamiamo da allora allucinazioni psico-motorie verbali. Séglas vedeva un’origine nella motricità anche per le allucinazioni psichiche descritte da Baillarger. Diceva che «l’elemento motore che racchiudono ne fa una causa potente di sdoppiamento della personalità»18. Questa motricità di cui bisogna sottolineare l’importanza è di tipo articolatorio. Ne sono state descritte le infinite particolarità; ma si presenta soprattutto nell’ambiguità di un confronto con l’«Io parlo» e l’«io ascolto». Si può dire che è un tentativo di «passaggio all’atto» che manterrebbe ugualmente su un’altra scena l’espansione dal linguaggio in un sforzo di cancellazione dei significati. Così questo esercizio muto sarebbe il progetto di un dire, senza poter essere ascoltato, e senza trasporto di significato, dunque nella stranezza di un dire senza fonemi, al limite, di un fenomeno articolatorio che riduce la Voce alla sua più semplice «espressione». Così l’«Io parlo», meccanizzato, automatico, verrebbe a rinforzare la passività o piuttosto la possibilità di essere affettato, proprio dell’«io ascolto». Questo tipo di «voce repressa», che testimonia certamente un’impossibilità di dire, pur essendo un tentativo di recupero della parola, opera a favore della sottomissione linguistica che si manifesta in una cancellazione di una parte della frase possibile, come sotto un nascondiglio, lasciando apparire soltanto dei frammenti, dei segmenti erratici e tanto più enigmatici.
Questo spiega come per l’allucinato la Voce sia percepita come un corpo estraneo, cioè nel flusso del suo discorso. Questa cisti verbale, limitata, messa tra parentesi, giace tuttavia in tutto il discorso e nell’espressione della perplessità.
La singolare collusione tra il vettore Voce e l’origine prende, soprattutto al momento di una esperienza delirante primaria, la forma di un blocco che si risolve soltanto nella scissione psicotica: difatti la Scena Primaria non si scioglie nella differenza dei sessi; il confronto col Padre non conduce alla Legge, né alla differenza del Fallo; la massa delle tracce originarie non dà luogo a una metafora dell’oggetto perduto.
La Voce sostiene allora i fantasmi che abbiamo considerato relativamente al depuramento (épurement), la tenuità di un’unità; di una bi-sessualità, voce che si risolve essa stessa in rappresentazione pulsionale. E la materialità di questa Voce, esterna al dire, non può essere che quella della durezza impossibile da scalfire, di un oggetto impossibile da perdere: questa Voce diventa allora l’oggetto non-perso. Solo la scissione psicotica viene a compensare l’insostenibile unità originaria, dunque ancora una volta come tentativo di guarigione.
Ora cosa dicono le Voci? Proprio l’inammissibile. Per Freud «ciò che è stato abolito all’interno ritorna dall’esterno»19.
Bisogna notare tuttavia che nell’allucinato che localizza le sue voci in tale o tale altra parte del suo corpo si manifesta un effetto di ritenzione, di filtraggio che indica un limite, ma che pure sottolinea l’«esteriorità» del corpo: nella sua testa dove sarebbe ipotizzata la sede dei pensieri; nel suo cuore, luogo dei sentimenti ancora suoi e che si osservano «all’esterno»; nella sua laringe o nella sua lingua di cui domina ancora i movimenti alla frontiera tra la Voce e la Parola.
Ma se la Voce è spinta, come abbiamo visto, verso il rumore, il fragore (éclat) e verso il silenzio, diventa allora «fare silenzio» per l’abolizione dei significati. Manterrebbe l’allentamento della coesione grammaticale che non ha una necessità semantica diretta, che si tratti dell’accordo di genere, della regola dei participi, o altrove, in una scrittura reputata fonetica, della regola dell’armonia vocalica che si offre come la presenza permanente della Legge. Il codice fonico favorirebbe questo allentamento della coesione grammaticale, della Legge nel suo principio. Ora il contenuto verbale dell’allucinazione rivela una rottura a livello linguistico per l’interruzione semantica (e la conseguente perplessità) e per la sospensione della coesione grammaticale. Questa rottura è flagrante nell’allucinazione ridotta a un segmento di frase: l’isolamento di questo frammento potrebbe essere chiamato, riprendendo i termini di Clérambault, «l’emancipazione degli astratti». Come se l’Es, otturato dal fantasma, non esercitando più il suo effetto di esclusione, di scissione, come un bilanciere, (per le pulsioni di Morte di cui si dice che è la sede), una rottura di compensazione doveva ritrovarsi nel discorso. Questo sembra ottenersi attraverso la riduzione, l’isolamento, la sospensione dei termini allucinati. Così si trova determinata l’ambiguità di gioco dei commutatori, secondo, almeno, le tre serie di opposizione indicate prima: tra l’enunciato e l’enunciazione, tra il performativo e il constativo, tra le voci attiva e media o passiva.
Il genere di messa tra parentesi dell’allucinazione potrebbe essere paragonato alla costruzione strato per strato delle voci costruite per una polifonia – quella dell’inconscio, correggendo così l’inammissibile simultaneità per lo psicotico di ciò che sente o che si sente quando parla. Immaginiamo al contrario la mobilità della mira estetica o dell’umorismo che prende molte vie, e che ha potuto essere evocato, nel decorso del delirio descritto da Jensen, col passo agevole della Gradiva, quando sotto gli sguardi sognanti di Hanold, in pieno sole, passò dall’altro lato della via.
Dell’ambiguità di un tale ribaltamento rende conto il proposito di un paziente di cui l’episodio psicotico acuto, allucinatorio, ha avuto una remissione. Parlando dei suoi pensieri estranei, dice, in una lingua che conosce perfettamente (benché non sia la sua «lingua materna»: Thoughts that I don’t mean), spostando la negazione desiderata su un significato possibile di questi pensieri (to mean), ma anche sul suo voler dire, o ancora su questi stessi pensieri, o sull’Io che rischierebbe di dirli. È lui che dichiarerà: «non mi viene in mente niente che io non pensi», dove la negazione si divide male – o troppo bene – tra le irruzioni del pensiero parassita e un pensiero altro possibile, il pensiero non pensiero, se così si può dire, inconscio, o a venire. Così vediamo nell’allucinazione la prossimità della Voce al silenzio dei significati che non è affatto la rimozione.
- Ling., «Iscrizione di un elemento supplementare eterogeneo sopra (o dentro) un’unità o un insieme, e che serve da segno di riconoscimento» (Greimas-Courtés 1979). (NdT) ↩
- Ling., Categoria grammaticale che esprime, nella flessione dei pronomi, dei sostantivi, degli aggettivi e dei verbi, la quantità dei referenti. (http://www.treccani.it/enciclopedia/numero/). (NdT) ↩
- L’uso del termine desinenza è utile in riferimento al complesso di marche flessive suffissali. http://www.treccani.it/enciclopedia/desinenze_%28Enciclopedia-dell%27Italiano%29/ (NdT) ↩
- Mus., componimento contrappuntistico (sviluppatosi soprattutto nella polifonia fiamminga del sec. 15°), ove il discorso d’una voce viene imitato, a determinati intervalli di tempo e di altezza, dall’altra o dalle altre voci di concerto: c. alla 5a, all’8a, all’unisono, per moto contrario, retrogrado, ecc. http://www.treccani.it/vocabolario/canone/ (NdT) ↩
- T. Reik, Ritual, Evergreen Ed., 1962. ↩
- « Et voici, l’Éternel passa. Et devant l’Éternel, il y eut un vent fort et violent qui déchirait les montagnes et brisait les rochers : l’Éternel n’était pas dans le vent. Et après le vent, ce fut un tremblement de terre : l’Éternel n’était pas dans le tremblement de terre. Et après le tremblement de terre, un feu : l’Éternel n’était pas dans le feu. Et après le feu, une voix de fin silence. Quant Elie l’entendit, il s’enveloppa le visage de son manteau, il sortit et se tint à l’entrée de la caverne » (I Re, 19, 11-13), traduzione di Emmanuel Lévinas. ↩
- Roger Laporte, Une voix de fin silence, Gallimard, coll. «Le Chemin», Paris, 1966. Così Lévinas traduce “sussurro di una brezza leggera”. (NdT) ↩
- S. Freud, Cinq psychanalyses, PUF, 1954. ↩
- E. Jones, «La Concezione della Madonna attraverso l’orecchio», in Essays in applied psychoanalysis, Hogath Press 1957, pp. 266-357. ↩
- E. Jones, Essays in Applied Psychoanalysis, II, Hogarth Press, 1951, pp. 366-367. ↩
- Th. Reik, Ritual. Four Psychoanalytical Studies, Grove Press, 1962. ↩
- «La voce caratterizza la relazione che collega il processo dell’enunciato ai suoi protagonisti, senza riferimento al processo dell’enunciazione o al parlante». R. Jakobson, «Commutatori, categorie verbali e il verbo russo», in Essais de linguistique générale, Ed. de Minuit, 1963, p. 176-206. Feltrinelli UE, 2002, p. 155. ↩
- E. Benveniste, « La philosophie analytique et le langage », in Problèmes de linguistique générale, Gallimard, 1966, pp. 267-276. ↩
- Il patto sarebbe qui l’iscrizione, fuori da ogni tracciato materiale. ↩
- In francese questa questione resta da affrontare: se è ammesso che la «forme» «moyenne» non esiste (al contrario del greco) (cfr. Grammaire de l’Académie Française), certi autori riconoscono i tre aspetti categoriali (come A. Dauzat, nella sua Grammaire raisonnées de la langue française); la discussione dovrebbe cadere sui rapporti tra il transitivo e il pronominale, il complemento, il senso del verbo; è stata iniziata da Damourette e Pichon con le distinzioni tra il réflexe-mutuel, il réflexo-respectif, e il réflexo-réversif; ma sembra che ciò abbia portato delle obiezioni (da parte di Vendryes, cfr. art. 2022 de l’Essai de Grammaire). Vedere anche i commenti di Grévisse, (Le Bon Usage). E soprattutto G. Guillaume, «Existe-t-il un déponent en français?», Langage et science du langage. Nizet Presses de l’Univ. Laval. 1964. Ciò che segue acquisterebbe in chiarezza con la messa a punto precisa di questa questione. ↩
- E. Benveniste, Actif et moyen dans le verbe, in «Problèmes de linguistique générale», Gallimard, 1966. pp. 168-175. ↩
- Andando verso l’irriducibile preponderanza del sistema significante. ↩
- Citato da H. Ey in Hallucinations et délire, F. Alcan, 1934 ; J. Séglas, Dédoublement de la personnalité et hallucinations verbales psychomotrices, Soc. Médico-psychol., 1889. Cfr. J. Séglas, Les hallucinations et le dédoublement de la personnalité, A.M.P., 1894, pp. 5-43. ↩
- S. Freud, Cinq psychanalyses, Schreber, PUF, 1954. ↩