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n. 6 - ottobre 19, Video

Ibridazione, corpi e media. Pratiche artistiche del video in Italia negli anni Ottanta

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https://doi.org/10.47109/0102260104

Fabrizio Plessi, Roma, Martin-Gropius-Bau, Berlino, 2004 (rivisitazione dell’installazione originalmente realizzata presso Documenta 8, Kassel, 1987). Archivio Plessi.

ABSTRACT

Storici e teorici dell’arte italiana hanno solitamente trattato il decennio Ottanta con sufficienza, leggendolo attraverso la lente del disimpegno e in funzione di movimenti pittorici fondati sul ritorno alla manualità e alla figurazione espressionista, interpretati come reazione alle pratiche concettuali che dominano il decennio precedente. In realtà, la pittura rappresenta solo una piccola parte della produzione artistica italiana in epoca postmoderna, una produzione la cui peculiarità – e questa è senz'altro una delle ragioni per la miope lettura storica del periodo – consiste nel suo essere transdisciplinare. Una nuova generazione di artisti e produttori culturali, infatti, sperimenta in quegli anni con pratiche performative e mediali spostandosi con disinvoltura dall'ambito dell’arte contemporanea a quelli di teatro, televisione, musica, design e comunicazione visiva. A fare da trait d’union tra queste pratiche è l’utilizzo delle tecnologie audiovisive, il video e il personal computer, che proprio nel decennio Ottanta vedono una diffusione di massa.
Adottando un approccio tra lo storico e il fenomenologico, l’articolo propone una “panoramica” sulle forme artistiche di utilizzo del video in Italia negli anni Ottanta, articolandone la trattazione attorno a tre linee interpretative connesse alle idee di: ibridazione, corpo e media. L’articolo si apre con alcune considerazioni di carattere storico-artistico. Prosegue quindi con cenni alla situazione artistica internazionale, alle teorie postmoderniste e alla cultura visuale del decennio. Sono poi delineate le tipologie di utilizzo del video in Italia e alcuni ambiti di riferimento come: le video sculture e installazioni; i rapporti tra video e teatro; tra video e design; tra video e televisione; i videoclip; e la computer art. La parte finale è dedicata al capillare network italiano di produzione, distribuzione e fruizione del video, che comprende distributori, spazi espositivi, festival e riviste. L’articolo si chiude con riflessioni sull'evoluzione dei criteri di classificazione e storicizzazione alla luce dei più recenti studi di cultura visuale.

Se la genesi dell’arte video come tipologia specifica di espressione artistica si estende dagli anni Sessanta ai Novanta circa (dopo diventa obsoleto enucleare l’uso specifico del video, vista la sua integrazione e convergenza con altri media), l’apice della storia di questo “genere artistico” è collocabile negli anni Ottanta. In questo periodo si delinea un universo mediale radicalmente diverso da quello del decennio precedente, sempre più diversificato e interattivo, caratterizzato dalla diffusione, di fianco alla televisione, di nuovi dispositivi tecnologici per l’audiovisione come videocamere, videogiochi, videoregistratori, videocitofoni, sistemi di videosorveglianza e personal computer. Apparecchiature sempre più economiche ed elementari consentono in questi anni una democratizzazione delle forme di produzione ed elaborazione delle immagini, favorendo la trasformazione epocale dei telespettatori in prosumer1, un ibrido tra “produttore” e “consumatore” che troverà con Internet la sua piena realizzazione.

Adottando un approccio tra lo storico e il fenomenologico, questo saggio propone una panoramica sulle forme artistiche di utilizzo del video in Italia negli anni Ottanta, articolandone la trattazione attorno a tre linee interpretative, connesse alle idee di: ibridazione, corpo e media. Dopo alcuni cenni alle teorie postmoderniste dell’epoca e alla coeva produzione internazionale di arte video, verrà presa in considerazione la scena italiana, analizzando video sculture e installazioni, e dedicando un’attenzione particolare allo sviluppo di pratiche interdisciplinari: videoteatro; le relazioni tra video e design; la videografica e i videoclip in ambito televisivo; e la “personal” computer art. Nell’ultima parte verrà delineato il network che ha reso possibile la prolifica produzione e circolazione di video in Italia in quegli anni (associazioni, distributori, spazi espositivi, festival, mostre, rassegne e convegni), per chiudere con alcune riflessioni sul cambiamento, nel tempo, dei criteri di classificazione e di prospettiva adottati da storici e teorici dell’arte.

Peculiare dell’arte video italiana degli anni Ottanta è la sua natura ibrida, ovvero la combinazione di forme, modi e linguaggi appartenenti a sfere diverse della produzione artistica e dell’industria culturale. Una nuova generazione di artisti e produttori culturali, infatti, sperimenta con pratiche performative e mediali spostandosi con disinvoltura dall’ambito dell’arte contemporanea a quelli di teatro, televisione, musica, design e comunicazione visiva. A fare da trait d’union tra queste pratiche è l’utilizzo delle tecnologie audiovisive – il video e il personal computer – a cui l’artista si avvicina con l’ingenuità del prosumer. Negli stessi anni, l’approccio sperimentale contraddistingue anche produzioni commerciali nell’ambito della televisione, del cinema e della pubblicità. Ne emergono prodotti mediali ibridi che transitano tra emisferi diversi (e.g. la galleria d’arte, il club, il teatro, la televisione), mettendo in crisi la logica secondo la quale l’arte è tale in funzione del contesto in cui è presentata e del suo riconoscimento da parte del “mondo dell’arte”2.

Tratti distintivi del video sin dalla sua emergenza sono quelli relativi alle idee di corporeità e medialità che negli anni Ottanta assumono una qualità puramente segnica. Attratto dagli iperrealistici modelli pubblicitari e televisivi, e straniato dalla possibilità di vedere la propria immagine su uno schermo in tempo reale (caratteristica cruciale del video rispetto ai media precedenti), l’artista video esplora i meccanismi di duplicazione della realtà analizzandone le distopiche conseguenze su un corpo che diventa immagine, attraverso frammentazioni, distorsioni ed esperimenti sul feedback. Questo focus sul corpo rende palese come il vero oggetto di indagine sia l’idea stessa di medium, ovvero cosa avviene a un fenomeno (un corpo, un oggetto, un evento) durante e dopo la sua trasmissione. Così l’arte video italiana degli anni Ottanta risponde a uno scenario mediatico rivoluzionato dall’arrivo delle televisioni private, all’ubiquità dei sistemi audiovisivi e all’influenza delle fantasie mediatiche sui processi di definizione dell’identità e percezione della realtà.

L’arte video prodotta negli anni Ottanta a livello internazionale fornisce una componente visiva al pensiero postmodernista che vede una serie di filosofi come Jean-François Lyotard, Jean Baudrillard, Fredric Jameson, Umberto Eco e Gianni Vattimo, allineati nel riconoscere l’avvento di una nuova epoca, definita appunto “postmoderna”, le cui origini sono da imputare alla sfiducia nei confronti delle grandi narrazioni della storia, delle ideologie, dell’autorità e dell’idea che la realtà oggettiva e una verità assoluta esistano. Il pensiero postmodernista suggerisce che la storia e la conoscenza sono state prodotte da sistemi dominanti, sono costruzioni fittizie sviluppate da politici, industriali e lobbies a capo degli stati-nazione occidentali, come mezzo per controllare i propri cittadini e i paesi sottosviluppati. In questo scenario, intriso di un certo fascino paranoico per le cospirazioni, i media sono visti come uno strumento persuasivo utilizzato per produrre consenso politico, indurre il consumismo e rafforzare lo status quo.

Nei suoi scritti, Baudrillard discute frequentemente questioni relative ai media e alle tecnologie audiovisive. Parte delle sue teorie poggiano sulla convinzione che le strutture dominanti della società hanno impiegato i mass media, in particolar modo la televisione, per rimpiazzare la realtà con una sua versione simulata che definisce “iperrealtà”. Nel noto saggio The Ecstasy of Communication del 1983, Baudrillard sostiene che quello che vediamo sullo schermo non è più un riflesso della realtà, ma «la superficie immanente dello svolgimento delle operazioni, la superficie liscia e operativa della comunicazione»3. Una trasposizione visiva delle idee di Baudrillard la si ritrova nel satirico film di fantascienza They Live (Essi vivono, 1988) di John Carpenter, che racconta di una società in cui la classe dirigente è costituita da alieni dalle sembianze umane. Grazie a speciali occhiali è possibile riconoscere la loro vera identità e cogliere i messaggi subliminali che questi diffondono attraverso i media, come “CONSUME” e “OBEY”.

La distopia postmodernista e la scena video internazionale

Riguardo alla trasformazione del medium televisivo e in riferimento alla situazione italiana, si rivela fondamentale il concetto di “Neo-Televisione” elaborato da Umberto Eco nel 1983, in contrapposizione a quello di “Paleo-Televisione”. Similmente a Baudrillard, Eco sostiene che la Neo-Televisione ha “perso trasparenza”, nel senso che non mostra più la realtà ma ne crea una nuova, sintetica e autoreferenziale. Questo si evince, per esempio, dal fatto che nella Neo-Televisione presentatori, cronisti e attori guardano quasi esclusivamente in camera, come a rivolgersi direttamente al telespettatore, illudendolo di essere il protagonista. Tratto tipico della Neo-TV è anche il mettere in mostra l’apparato di costruzione della realtà fittizia, attraverso telefonate in diretta o mostrando elementi del set. Caratteristici della Neo-TV sono il telecomando e il televideo: il primo permette al telespettatore di creare un flusso personalizzato tra i canali, mentre il secondo prefigura un nuovo tipo di accesso personalizzabile alle informazioni.

Insieme a telecomando e televideo, compaiono una serie di periferiche interattive come le console di videogame e il videoregistratore, le quali producono una nuova idea di tempo modificabile, grazie alle possibilità di ripetizione continua e alle basilari forme di editing che offrono. A questo proposito, Fredric Jameson, altro pensatore-chiave per comprendere il postmodernismo, in Postmodernism and Consumer Society (1983) sostiene che i media contribuiscono alla nostra perdita del senso della storia, rimpiazzata da un presente continuo, uno stato che produce un effetto simile alla “schizofrenia”. Jameson introduce anche il concetto di pastiche, una tecnica di appropriazione di stili, non a fine satirico, per spiegare il quale chiama in causa la produzione di figure diverse quali Andy Warhol, John Cage, Talking Heads, Jean-Luc Godard e George Lucas. Pur riconoscendone la dimensione critica nei confronti della tecnologia riproduttiva, Jameson arriverà a sostenere come il flusso nelle opere d’arte video sia in realtà indistinguibile da quello dei media e, di conseguenza, come queste siano inefficaci a sviluppare una vera analisi critica4.

Frame da Pipilotti Rist, «I'm Not The Girl Who Misses Much», 1986, video, 5’02”, Colore. © Pipilotti Rist; Courtesy: Pipilotti Rist, Luhring Augustine, New York, and Hauser & Wirth.
Frame da Pipilotti Rist, I’m Not The Girl Who Misses Much, 1986, video, 5’02”, Colore. © Pipilotti Rist; Courtesy: Pipilotti Rist, Luhring Augustine, New York, and Hauser & Wirth.

Le possibilità sempre più avanzate di manipolazione e montaggio, infatti, vengono esplorate in quegli anni sia in ambito artistico che mediatico e commerciale, così come effetti speciali5 sempre più illusionistici e l’uso di colori, suoni e immagini dal potere persuasivo. Molti video monocanale di artisti si presentano in questi anni come pastiche di filmati originali e found footage, come i clip da documentario sugli animali che usa Bill Viola in I Do Not Know What It Is I Am Like (1986). In altri casi l’artista compare in video a commentare direttamente le immagini. In Shut the Fuck Up (1985), per esempio, i membri del collettivo General Idea introducono con tono inquisitorio vari stereotipi mediatici sulla figura dell’artista. Pipilotti Rist, invece, in I’m Not a Girl Who Misses Much, (1986), non usa direttamente filmati televisivi ma vi si riferisce. Appare in topless davanti alla telecamera, cantando un noto brano dei Beatles e gesticolando forsennatamente: una video performance di taglio femminista che attraverso sgranature, accelerazioni e decelerazioni demistifica gli stereotipi mediatici della donna.

Negli stessi anni alcuni artisti più tardi associati alla cosiddetta Abject Art, come Mike Kelley, Paul McCarthy e Tony Oursler, elaborano un’estetica amatoriale, da video casalingo, per documentare perturbanti messe in scena di psicodrammi domestici e stili di vita borderline. Veri e propri sottogeneri dell’arte video che si consolidano negli anni Ottanta sono la video scultura e la video installazione, i quali esplorano la sempre maggiore ubiquità degli schermi nella società attraverso configurazioni di monitor in serie. Paik realizza totem e robot antropomorfi. Gary Hill in Crux (1983-87) si misura con l’iconografia cristiana attraverso un crocifisso smembrato su cinque monitor: la testa, le mani e i piedi. Vi sono poi installazioni che comprendono decine di monitor, come fosse la sala di controllo di un “grande fratello” o la vetrina di un negozio di elettrodomestici, come nel caso di Total Recall (1987) di Gretchen Bender, Les larmes d’acier (1987) di Marie-Jo Lafontaine e The Board Room (1989) di Antoni Muntadas.

Laurie Anderson inserisce il video in performance musicali multimediali in cui mette sotto accusa il progresso scientifico e tecnologico, come United States (1983) e nel videoclip del brano O Superman (1983). Emblematico della Neo-Televisione, il video musicale porta la sperimentazione a un vasto pubblico. Restano di nicchia, invece, i programmi televisivi di artisti, che si diffondono grazie a canali quali WGBH di Boston e WNET di New York, Channel 4 nel Regno Unito, ORTF in Francia e ORF in Austria. Significativo il caso di Good Morning Mr. Orwell (1984) di Nam June Paik su WNET, composto da contributi via satellite di artisti da diverse parti del mondo. Arte e televisione si incontrano negli stessi anni anche grazie a Manhattan Cable da cui sono trasmessi (nell’arco di pochi chilometri) programmi di Colab (Potato Wolf, 1979-84), Glenn O’Brien (TV Party, 1978-82) e Jaime Davidovich (The Live Show!, 1979-84). Più simili alla TV commerciale sono quelli di Andy Warhol come Andy Warhol’s T.V. (1980-83) e Andy Warhol’s Fifteen Minutes (1986-87).

Il consolidamento negli anni Ottanta dell’arte video come vero e proprio genere artistico è confermato da una serie di pubblicazioni e mostre. Fondamentali sono le antologie Video Culture: A Critical Investigation a cura di John G. Hanhardt (Visual Studies Workshop Press, Rochester 1986) e Illuminating Video: An Essential Guide to Video Art a cura di Doug Hall e Sally Jo Fifer (Aperture, New York 1990). Tra le mostre, invece, bisogna ricordare: The Luminous Image a cura di Dorine Mignot (Stedelijk Museum, Amsterdam 1984); Documenta 8 a cura di Manfred Scneckenburger (Kassel 1987); Video Art: Expanded Forms a cura di Hanhardt (Whitney Museum, New York 1988); e Passage de l’image a cura di Raymond Bellour (Centre Pompidou, Parigi 1990). Si assesta, inoltre, il ruolo di organizzazioni non-profit dedicate all’archivio, promozione e distribuzione dell’arte video, come Electronic Arts Intermix (EAI), attiva a New York dal 1971, che assicurano agli artisti che realizzano video una certa autonomia rispetto al sistema tradizionale dell’arte.

Arte video in Italia: affermazione di un’alter-scena

Lo scenario sociale, culturale, tecnologico e mediatico dell’Italia degli anni Ottanta è molto diverso da quello del decennio precedente, in cui gli artisti avevano adottato un atteggiamento impegnato, mossi da valori di sinistra. Sullo sfondo della Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica, che tiene con il fiato sospeso il mondo, l’Italia chiude con quella fase segnata da proteste, scioperi e terrorismo che si estende dal 1968 al 1977 circa, ed entra in una fase detta di “riflusso” che simbolicamente si apre con la marcia dei quarantamila a Torino nel 1980, una maggioranza silenziosa di impiegati della FIAT stanchi dei picchetti che impedivano loro di entrare in fabbrica. Operaismo e autonomia cedono il passo a edonismo ed economia, in un clima eccitato, di crescente benessere, all’insegna del consumismo e dello svago, legittimato e rafforzato dalle fantasie iperreali propinate dalle televisioni private, in primis il blocco Fininvest (Canale 5, Italia 1 e Rete 4) di Silvio Berlusconi che in quegli anni costituisce un duopolio con la Rai.

Numerosi storici e teorici dell’arte italiana hanno letto il decennio Ottanta attraverso la lente del disimpegno e in funzione di un certo ritorno alla manualità e della figurazione pittorica neo-espressionista bollata, secondo vere e proprie strategie di branding, come Transavanguardia da Achille Bonito Oliva e Nuovi Nuovi da Renato Barilli. Un’interpretazione obiettiva di quel periodo oggi non può prescindere, però, dalla rivalutazione di una serie di pratiche apparentemente collaterali, o transdisciplinari e per questo sfuggenti all’impulso tassonomico dell’arte contemporanea. All’introspezione psicologica e all’ingenuità neo-primitivista della nuova pittura italiana, tutta rigorosamente al maschile, molti altri artisti preferiscono la sperimentazione delle tecnologie audiovisive. All’alienazione dello studio del pittore si contrappone l’atmosfera fervente dello studio di post-produzione, e all’artista impegnato una molteplicità di figure professionali, molte delle quali disinteressate a essere definite secondo i parametri dell’arte contemporanea.

Peculiare di questa alter-scena artistica è la nascita di gruppi, i quali adattano le logiche del collettivismo impegnato del ‘68-‘77 ai modelli di produzione propri dei media commerciali. Alcuni producono video monocanale o video installazioni non disdegnando lavori su commissione, come Metamorphosi e Studio Azzurro, altri si misurano con l’elettronica dei primi personal computer come Correnti Magnetiche e Giovanotti Mondani Meccanici, altri ancora lavorano in ambito “teatrale” come Krypton e Magazzini Criminali. Rappresentativo delle pratiche artistiche del video in Italia negli anni Ottanta, Studio Azzurro viene fondato da Paolo Rosa, Fabio Cirifino e Leonardo Sangiorgi a Milano nel 1982 come agenzia di comunicazione visiva. Grazie al sostentamento delle commissioni che riceve dal mondo del design milanese e dall’industria culturale, che vanno dalla documentazione di prodotti agli allestimenti di mostre, il gruppo avvia una prolifica produzione di installazioni fondate sull’utilizzo sperimentale delle tecnologie audiovisive.

L’attività di Studio Azzurro è un esempio quintessenziale non solo per le modalità di produzione – cooperative, extra-artistiche e metalinguistiche – ma anche in quanto esempio di intreccio di questioni relative ai tre punti fondamentali della produzione italiana di video in epoca postmoderna: ibridazione, corporeità e medialità. Gran parte della produzione del gruppo negli anni Ottanta consiste in quelli che definisce “videoambienti” e in progetti collaborativi sviluppati in ambito teatrale. Della prima categoria è esemplare Il nuotatore (va troppo spesso ad Heidelberg) (1984), una serie di 24 monitor attraversati in stile libero da un nuotatore come se fossero finestre affacciate sul bordo di una piscina. In linea con le collaborazioni teatrali e prefigurando la dimensione aptica degli “ambienti sensibili” degli anni Novanta, i “videoambienti” di Studio Azzurro si configurano come veri e propri eventi mediali, in cui i visitatori prendono coscienza del loro ruolo di spettatori, confrontandosi in scala 1:1 con la perturbante immaterialità di freddi e smembrati corpi elettronici.

Studio Azzurro, «Il nuotatore (va troppo spesso ad Heidelberg)», videoambiente, Palazzo Fortuny, Venezia, 1984. Archivio Studio Azzurro.
Studio Azzurro, Il nuotatore (va troppo spesso ad Heidelberg), videoambiente, Palazzo Fortuny, Venezia, 1984. Archivio Studio Azzurro.

La dimensione illusionistica dei media è anche al centro della produzione di Fabrizio Plessi, tra i pochi a sperimentare con il video già dal decennio precedente, che però al corpo umano preferisce un elemento naturale come l’acqua. Le sue installazioni consistono in serie di monitor, da 2 a 100, che trasmettono immagini in movimento di acqua – calma, ondeggiante o corrente, e isolata da qualsivoglia contesto – dall’ipnotica qualità meditativa, ma la cui intangibilità e dinamismo contrastano con la tecnologia mediante la quale si manifestano, alludendo alla dimensione asettica e alienante delle immagini televisive. Monitor solitamente grandi come un televisore domestico, li ritroviamo negli abitacoli di due maggiolini, uno di fronte all’altro con i fari accesi, in Wasserwagen (1981); capovolti con lo schermo puntato verso l’alto e inverosimilmente “trafitti” da pale in Bronx (1983); o all’interno di una struttura circolare in legno e travertino in Roma (1987), come se fossero le rovine del tempio di un’antica civiltà incredibilmente avanzata.

Federica Marangoni, «Glass Dream», installazione, 1989. Archivio Federica Marangoni.
Federica Marangoni, Glass Dream, installazione, 1989. Archivio Federica Marangoni.

Studio Azzurro e Plessi elaborano modalità di presentazione del video identificate ora come “video sculture” ora come “video installazioni”, un vero e proprio sottogenere, peculiare degli anni Ottanta, a cui in Italia contribuiscono, tra gli altri, Tullio Brunone, Maurizio Camerani, Giorgio Cattani e Federica Marangoni. L’intero monitor, con il suo famigliare ingombro cubico, diventa l’elemento attorno al quale articolare spazi immersivi che sollecitano un’esperienza temporale. Sugli schermi, la cui serialità allude alla loro crescente presenza nella quotidianità, scorrono immagini frammentate o ripetute che alterano la nostra percezione. Per Camerani il modello è la scultura minimalista: simmetrica, seriale, realizzata con materiali industriali come ferro e cemento. Glass Dream (1989) di Marangoni, invece, richiama alla fantascienza distopica come le opere di Bender, Lafontaine e Muntadas citate in precedenza: un monolite da 60 monitor che trasmettono le immagini a rallentatore di un schermo che si frantuma, i taglienti frammenti del quale sono posizionati alla base.

Gestualità e presenza scenica del corpo elettronico

La produzione di video monocale in Italia negli anni Ottanta è inferiore a quella di video sculture e installazioni. Oltre a Paolo Gioli, Michele Sambin, Luigi Viola e pochi altri attivi dal decennio precedente, tra gli emergenti che producono video monocanale ci sono Theo Eshetu e Alfredo Pirri. I video del primo, come suggerisce Alessandro Amaducci, “sembrano una sorta di proposta di una televisione migliore, di ricerca, ma non in opposizione radicale al suo tessuto linguistico”6. Nella produzione di Eshetu, che diventerà regista televisivo e autore di documentari, ricorre l’attenzione sul corpo. Rites of Passage (1982) è un video di natura antropologica giocato su manipolazioni, sdoppiamenti e riflessi, che parla della difficoltà di esprimere la propria sessualità, tra archetipi tribali e le possibilità trasformiste dell’era elettronica. In Gli Effeminati Intellettuali (1988), invece, Pirri richiama al suicidio di Yukio Mishima attraverso una sequenza di found footage in dissolvenza, accompagnata da un’evocativa lettura del testo dello scrittore giapponese.

In questi video sia Eshetu che Pirri ricorrono a espedienti teatrali – la propria presenza scenica per il primo e la voce dell’attore Sandro Lombardi per il secondo – per esplorare dinamiche autobiografiche e questioni postcoloniali e di genere relative all’impatto della cultura elettronica e alla crescente influenza degli stereotipi mediatici. In questo, il loro lavoro trova una corrispondenza nella produzione ibrida di numerosi gruppi teatrali attivi in Italia negli stessi anni: Dal Bosco/Varesco, Falso Movimento, Krypton, La Gaia Scienza, Magazzini Criminali, Il Marchingegno, Orient Express, Padiglione Italia, Socìetas Raffaello Sanzio, TAM Teatromusica, Taroni/Cividin. A questi bisogna aggiungere le esperienze individuali di Giorgio Barberio Corsetti, Mario Martone, Antonio Sixty e Giacomo Verde, e le influenti incursioni di Studio Azzurro nell’arte scenica. L’utilizzo del video nell’ambito della scena teatrale della cosiddetta Nuova Spettacolarità è così diffuso da portare teorici come Vittorio Fagone, Carlo Infante e Valentina Valentini a parlare di “videoteatro”.

Come la “video scultura”, anche il “videoteatro” diventa un sottogenere tipico dell’arte video prodotta in Italia negli anni Ottanta, in cui le dinamiche intermediali proprie del teatro e del cinema espanso subiscono una forte accelerazione grazie all’introduzione del video e di altri dispositivi tecnologici come mixer e controller per luci, suoni ed elementi della scenografia. Ne derivano vere e proprie esperienze multisensoriali, per gli spettatori e in primo luogo per gli attori, in cui, come nota Fagone, «gli elementi dominanti della sezione audio del medium elettronico vengono fatti interagire, in una sintesi inedita, con gli elementi visuali e temporali di una articolata e consapevole gestualità di cui vengono descritti e narrati posizionamenti, spostamenti ed aperture»7. Il video è spesso utilizzato anche sulla scena, attraverso monitor che trasmettono immagini pre-registrate e sistemi a circuito chiuso, ma anche come mezzo di documentazione dell’evento o la sua trasformazione in ibrido oggetto mediale esperibile in televisione, festival o tramite VHS.

Alfredo Pirri, Effeminati intellettuali, installazione, Sede dell’Associazione combattenti e reduci, Taormina, Festival Taormina video d’autore, 1988. Voce recitante, dal vivo, Sandro Lombardi. Courtesy: Alfredo Pirri

Alfredo Pirri, «Effeminati intellettuali, installazione», Sede dell'Associazione combattenti e reduci, Taormina, Festival Taormina video d'autore, 1988. Voce recitante, dal vivo, Sandro Lombardi. Archivio Pirri-Valentini.
Alfredo Pirri, Effeminati intellettuali, installazione, Sede dell’Associazione combattenti e reduci, Taormina, Festival Taormina video d’autore, 1988. Voce recitante, dal vivo, Sandro Lombardi. Archivio Pirri-Valentini.

In linea con le performance di Laurie Anderson e gli spettacoli di Robert Wilson, l’incontro del teatro con il video in Italia porta a una serie di opere d’arte totale che riflettono la perdita di verticalità e temporalità tipica dell’epoca postmoderna, in cui la narrazione viene rimpiazzata da un pastiche di gesti e situazioni che sono ora riflesso condizionato alla nostra sempre più satura esistenza mediale, ora citazioni e re-enactment di stili, eventi, personaggi e segni tratti dalla storia, dal mondo delle arti e dalla cultura pop. L’esempio più rappresentativo di questa schizofrenia postmoderna è Crollo Nervoso (1980) di Magazzini Criminali, uno spettacolo articolato in quattro scene rispettivamente ambientate a Mogadiscio nel 1985, Los Angeles nel 1988, Saigon nel 1969 e una zona non precisata dell’Africa nel 2001. Attraverso un sistema di veneziane disegnato da Alessandro Mendini e vari monitor sulla scena, la distopia fantascientifica dello spettacolo si regge sul disorientante confronto tra interno ed esterno così come tra spazio scenico e virtuale.

Magazzini Criminali, «Crollo nervoso», performance, 1980. Foto di Piero Marsili.
Magazzini Criminali, Crollo nervoso, performance, 1980. Foto di Piero Marsili.

Nel 1982 il gruppo realizza un video di 60 minuti di Crollo Nervoso che mescola: la documentazione dello spettacolo, scene girate in esterni e in studio, e clip dello storico allunaggio dell’Apollo 11 e del film 2001 Odissea nello spazio (1968) di Kubrick, che sono tra le immagini trasmesse dai monitor in scena. Altro video tratto da uno spettacolo teatrale è quello di Tango Glaciale (1983) di Falso Movimento, realizzato grazie a Rai 3 un anno dopo la sua messa in scena. Mediante l’uso del chromakey, il regista Mario Martone posiziona i personaggi su sfondi iperreali e ipersaturi, solo vagamente reminiscenti dei chiaroscurali ambienti della performance originale. “Gli attori agiscono attraverso scenari simulati”, nota a questo proposito Jennifer Malvezzi, “spazi disegnati che negano la funzione tridimensionale dello spazio scenico: il teatro viene così a coincidere con la sua immagine, la sua ‘superficie’. Il gioco di simulazione di un teatro-cartoon diviene quasi perfetto. Acquista la compattezza cinetico-percettiva ottimale per la resa televisiva”8.

Le punte più avanzate del “videoteatro” italiano, però, sono gli spettacoli in cui l’intero spazio scenico sembra trasformarsi in schermo come l’Eneide (1983) di Krypton, rilettura in chiave postpunk del poema epico, in cui al testo è sostituita la colonna sonora di un gruppo emergente, i Litfiba. Le drammatiche vicende dell’eroe virgiliano si svolgono in spazi mentali mappati da raggi laser, delimitati da colonne al neon realizzate da Pirri. Una perturbante riflessione sulla discordanza tra realtà fisica e mediata è offerta in La camera astratta (1987) di Studio Azzurro e Giorgio Barberio Corsetti. Lo spettacolo è costruito attorno a una serie di monitor su cui appaiono, come imprigionati, corpi frammentati, che contrastano con quelli dei performer. Come nota Valentini: “Corpo e immagine erano interscambiabili, così come dentro e fuori perdevano la distinzione e le demarcazioni di un limite precisamente segnato. Il dispositivo elettronico condivideva con il medium teatro lo specifico evenemenziale che si riconosceva come il tratto proprio dei media digitali”9.

Il nuovo ambiente mediale domestico

Di fianco all’arte e al teatro, anche figure associate al mondo del design mostrano interesse per il video. Evoluzione di quell’ibrido movimento noto come Architettura (e/o Design) Radicale – che ha avuto in Italia uno dei suoi epicentri grazie a gruppi come Archizoom e Superstudio – il design italiano degli anni Ottanta fornisce una rappresentazione visiva esemplare di concetti-chiave del pensiero postmodernista quali l’iperrealtà di Baudrillard e il pastiche di Jameson. Numi tutelari di questa nuova generazione sono designer-teorici della stagione radicale come Andrea Branzi, Alessandro Mendini ed Ettore Sottsass, i quali favoriscono, attraverso scritti, curatele e progetti, lo sviluppo di una versione meno ideologizzata ma pur sempre di natura metalinguistica del design radicale, sfruttando a proprio favore il nuovo clima neoliberista. Ne deriva una serie di oggetti all’insegna di quello che Mendini chiama «elogio del banale»10 che decostruiscono i parametri del gusto e la presunta funzionalità del design.

Esemplari del design postmoderno italiano sono gli arredi in edizione limitata prodotti dai collettivi/brand Studio Alchimia, guidato da Mendini e Alessandro Guerriero, e Memphis, guidato da Sottsass. Sotto la loro egida prendono vita eclettici complementi d’arredo che sacrificano la funzionalità in nome di un pastiche di natura grafica, caratterizzato da linee zigzaganti, parodie di stilemi classici, pattern dagli accostamenti cromatici contrastanti e l’uso di laminati plastici e laccature, trovando ispirazione nella decorazione vernacolare americana degli anni Cinquanta, nell’immaginario pop dei fumetti e nella grafica a 8 bit di videogame e personal computer. Sia Studio Alchimia che Memphis si presentano come officine creative che mettono in relazione rappresentanti di ambiti diversi: architetti, artisti, illustratori, fashion designer, musicisti, coreografi e così anche videomaker. A legittimare l’idea di un design che è prima di tutto immagine, la comunicazione visiva diventa per loro un obiettivo prioritario, come dimostra la loro prolifica produzione di pubblicazioni e video.

Studio Azzurro, «Luci di inganni», videoambiente, Showroom ARC-74, Milano, 1982. Archivio Studio Azzurro.
Studio Azzurro, Luci di inganni, videoambiente, Showroom ARC-74, Milano, 1982. Archivio Studio Azzurro.

Le prime produzioni di Studio Azzurro sono commissioni che riceve da Memphis. Oltre alle documentazioni fotografiche degli oggetti realizzati dal gruppo riunito attorno a Sottsass, lo studio realizza anche una loro presentazione al pubblico. Si tratta di uno showroom illuminato con spot a raso terra, in cui vasi, lampade e altri oggetti da tavolo vengono esposti di fronte a 11 monitor che trasmettono immagini degli stessi. Presentato come il loro primo “videoambiente”, Luci di inganni (1982), questo il titolo dell’installazione, offre al visitatore, grazie all’illuminazione teatrale e ai monitor, un’ingannevole percezione della realtà circostante, estremizzando la dialettica tra doppia e tripla dimensione già messa in atto dagli oggetti. Alla base della loro progettazione, del resto, vi è la consapevolezza della crescente presenza dei media nello spazio domestico: schermi che diventano finestre e dispostivi che ci mettono in connessione con dimensioni parallele, illusorie realtà iperreali con le quali stabilire un rapporto intimo, a volte sentimentale.

Negli stessi anni diversi designer illustrano le proprie idee attraverso simili installazioni, in cui i monitor diventano presenza costante. Esempio indicativo è La casa telematica (1982) di Ugo La Pietra, realizzata presso la Fiera di Milano, che ricostruisce un’abitazione i cui ambienti sono caratterizzati dall’alienante presenza di monitor sintonizzati su notiziari, televideo e, nel caso di una toelette, collegati a un sistema a circuito chiuso. Punto nevralgico della casa è un letto matrimoniale a metà, realizzato in collaborazione con Studio Azzurro, ai cui piedi ognuno dei due coniugi può fruire di un proprio televisore. Simile atmosfera solipsistica si respira in Oltre il letto: i luoghi e le macchine del sonno (1986), una camera da letto ipertecnologica realizzata da Sottsass in occasione della mostra Il progetto domestico. La casa dell’uomo. Archetipi e prototipi, alla Triennale di Milano, ispirata dalla stanza di un amico a New York, che Sottsass descrive come «piena di tutti i possibili gadget della cosiddetta civiltà elettronica […] la casa del futuro»11.

Ugo La Pietra (con Gianfranco Bettetini e Aldo Grasso), «La Casa telematica: toeletta e camera da letto», installazione, Fiera di Milano, 1983. Archivio Ugo La Pietra.
Ugo La Pietra (con Gianfranco Bettetini e Aldo Grasso), «La Casa telematica: toeletta e camera da letto», installazione, Fiera di Milano, 1983. Archivio Ugo La Pietra.
Ugo La Pietra (con Gianfranco Bettetini e Aldo Grasso), La Casa telematica: toeletta e camera da letto, installazione, Fiera di Milano, 1983. Archivio Ugo La Pietra.

Indipendente da qualsiasi gruppo, la produzione di Denis Santachiara offre un’affascinante riflessione riguardo all’ingresso dei media nell’ambiente domestico, non guardandoli con sospetto però, ma come stimolatori di una dimensione subconscia, di memoria surrealista. La casa onirica (1984), installazione presso la Triennale di Milano e il Gran Palais di Parigi, presenta una serie di visionari oggetti futuristici tra cui una coperta luminosa, una panca musicale e “un televisore che invece di notizie emette flussi di immagini trattate al computer come decoro ambientale”12. Simili speculazioni si ritrovano anche in Neomerce (1985), mostra curata da Santachiara alla Triennale e al Centre Pompidou di Parigi: esempi di un «design dell’invenzione e dell’estasi artificiale»13, tra cui risaltano un “criogametoforo” ad azoto liquido di Luigi Serafini e un abito da cerimonia a cristalli liquidi di Cinzia Ruggeri. Per entrambi i progetti Santachiara realizza dei video, che giocano sul contrasto tra il tono da documentario scientifico e la disfunzionalità degli oggetti presentati.

Rappresentativa della cultura visiva postmoderna italiana è la produzione video del gruppo Metamorphosi fondato da Marco Poma nel 1983, che nella maggior parte dei casi è il risultato di sinergiche commissioni e collaborazioni con figure del design milanese quali Mendini, Studio Alchimia, Occhiomagico, Ruggeri e Anna Gili, o vicine ad esso come Maurizio Marsico e Antonio Sixty. Si tratta della documentazione di performance come quella dell’abito sonoro di Gili in Nulla (1984), o surreali pantomime all’interno di ambienti domestici arredati da Alchimia e postprodotte sfruttando l’illusorietà del chromakey. Un esempio è il videoclip per il brano “Aristocratica” (1984) dei Matia Bazar, in cui i corpi nudi di due amanti, coreografati da Sixty, diventano schermi che trasmettono elementi dell’ambiente circostante. Emblematico della ricerca di Metamoprhosi è Aggiornato definitivo con le ultime variazioni (1985), di un’ora, incentrato sulle azioni meccaniche di alcuni personaggi all’interno di un ambiente-schermo composto da dimensioni parallele.

Frames da Metamoprhosi, «Aggiornato definitivo con le ultime variazioni», 1985, video, 63’, Colore. Archivio Marco Poma.
Frames da Metamoprhosi, Aggiornato definitivo con le ultime variazioni, 1985, video, 63’, Colore. Archivio Marco Poma.

Arte e televisione: “poetronica”, videografica e videoclip

Negli anni Ottanta l’abbattimento dei confini disciplinari va di pari passo con un’altra trasformazione, quella dell’idea secondo la quale un’opera d’arte è tale solo se riconosciuta da quello che Arthur Danto ha sinteticamente definito “mondo dell’arte”, ovvero un network che comprende artisti, storici dell’arte, curatori, critici e giornalisti, e se è presentata all’interno di contesti espositivi di indubbio valore intellettuale. Dalle avanguardie storiche in poi inizia una lenta fuoriuscita dell’arte in luoghi destinati all’intrattenimento o alla vita quotidiana, dai teatri di cabaret alle pagine di libri alla sfera pubblica, dove non albergava il pensiero critico. Il rapporto con i mass media si rivela particolarmente proficuo per gli artisti perché procura loro sostentamento economico e gli consente di raggiungere un pubblico più vasto e infiltrare le sfere dell’intrattenimento e del marketing. Frustrato dalle logiche unidirezionali del sistema dell’arte, l’artista postmoderno collabora con riviste, produce dischi, lancia brand, realizza performance in club e collabora con le industrie della pubblicità, della moda, del cinema e così anche della televisione.

Un dialogo tra arte e televisione è avviato da Gianni Toti, ex-giornalista de l’Unità che negli anni Ottanta, ormai sessantenne, inventa un ibrido sottogenere di arte video che chiama “poetronica”14. Toti realizza i propri video presso il Centro Ricerche della Rai di Torino e altri simili laboratori in Francia. Ispirato dalle avanguardie storiche (e.g. i film di Dziga Vertov e le declamazioni futuriste di Marinetti), sulla voce di Toti che recita le sue poesie, accompagnata da sonorità elettroniche, si staglia un pastiche di found footage e animazioni che si giustappongono all’interno di sfaccettate infrastrutture videografiche. Il titolo del suo primo video, Per una videopoesia. Concertesto e improvvideazione per mixer, memoria di quadro e oscillo-spettro-vector-scopio (1980), è significativo per comprendere l’approccio ibrido e onomaturgico di Toti, i cui video, purtroppo, come altri programmi Rai d’artista (e.g. Lucio Fontana e Eugenio Carmi), non sono mai andati in onda.

Dai materiali presi in esame finora da storici dell’arte e nell’ambito dei media studies, le rare volte che la Rai si è dimostrata interessata agli artisti, è stato all’interno di contenitori destinati a un pubblico generico come nei casi della partecipazione del 1959 di John Cage a Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno o la performance Il televisore che piange (1972) di Fabio Mauri per Happening, trasmissione che introduceva, con tono didattico, i linguaggi delle neo-avanguardie al pubblico televisivo. Nello scenario espanso della Neo-Televisione, si aprono però nuove opportunità per gli artisti, come dimostrano le sperimentazioni videografiche di Mario Sasso e Mario Convertino, che se da un lato rafforzano, dall’altro accelerano, decostruendole, le logiche persuasive del flusso mediatico. Nelle sue animazioni in computer grafica 3D, di cui è paradigmatica la sigla del Tg2 di Rai 2 del 1984, Sasso sintetizza attraverso l’uso di telecamere Rostrum e varie tecniche di postproduzione, le sue ricerche pittoriche sull’interazione tra forma e colore, con riferimenti a Surrealismo, Concretismo, Situazionismo e Psichedelia.

Mario Sasso, frame dalla «Sigla per il Tg2», Rai 2, 1984, video, 13”, Colore. Archivio Mario Sasso.
Mario Sasso, frame dalla Sigla per il Tg2, Rai 2, 1984, video, 13”, Colore. Archivio Mario Sasso.

L’attività di Convertino è più difficile da collocare perché non si tratta di un artista in senso tradizionale ma di un art director che realizza progetti di grafica e videografica, di branding e comunicazione visiva. A Convertino si deve la videografica di Mister Fantasy (1981-84), pioneristico programma di Rai 1 interamente dedicato ai videoclip (tra cui 80 video prodotti in casa), un genere quintessenziale della Neo-Televisione ed emblematico della cultura visuale citazionista e postprodotta dell’epoca postmoderna. Grazie al fantascientifico e minimale set da cui il conduttore Carlo Massarini introduce i video e alle animazioni elettroniche di Convertino, lo spettatore è immerso in una sorta di “iperspazio” dove si delinea una iperrealtà che non ha referenti nel mondo reale: autoreferenziale, come quella suggerita da Baudrillard ed Eco. Non a caso, molti videoclip degli anni Ottanta – i più interessanti – sviluppano una dimensione metalinguistica, usando i media per parlare di media dall’interno.

Alcuni videoclip targati Mister Fantasy sviluppano la stessa logica, come la trilogia del 1982 per “Miami”, “Water” e “Samora Club” del duo postpunk Krisma, opera di un team composto da Convertino, i registi Piccio Raffanini e Sergio Attardo, e il fotografo Edo Bertoglio. I video giocano sul contrasto tra la bellezza iperreale di paradisiache spiagge tropicali e della cantante Christina Moser, e la minaccia incombente di un’ipertecnologica Guerra Fredda, personificata nella figura minacciosa di Maurizio Arcieri. Altra opera d’arte totale – come lo scrittore Pier Vittorio Tondelli definisce il videoclip15 – è “Il video sono io” (1983) dei Matia Bazar, diretto da Raffanini, che sintetizza per le esigenti tribù di giovani telespettatori gli esiti più avanguardistici dell’arte video. Animati da scariche elettriche, i membri del gruppo si muovono in un ambiente metafisico di Alchimia, dove totem di monitor trasmettono il corpo, frammentato ma consapevole del proprio fascino persuasivo, della cantante Antonella Ruggiero, memori delle perturbanti installazioni di Studio Azzurro.

Matia Bazar, «Il Video sono io», 1983, video, 2’40”, Colore. Produttore: Mister Fantasy, Rai 1. Direttore: Piccio Raffanini. Scene: Alchimia
Matia Bazar, Il Video sono io, 1983, video, 2’40”, Colore. Produttore: Mister Fantasy, Rai 1. Direttore: Piccio Raffanini. Scene: Alchimia

La cultura postpunk italiana è feconda di sperimentazioni video. Nella scena bolognese della Italian Records si muove il collettivo Grabinsky (Emanuele Angiuli, Renato De Maria e Walter Mameli), che realizza avanguardistici videoclip come quelli di “Telepornovisione” dei Gaznevada (1980) e “Hello, I Love You” (1981) degli Stupid Set in cui i musicisti hanno televisori al posto della testa. Per gli Stupid Set, Grabinsky realizza anche Tape Show (1980), scenografia di 20 monitor che trasmettono found footage di serie TV come Hulk e Colombo. Come quelli di Carlo Isola, Toni Verità, Metamorphosi e Giovanotti Mondani Meccanici, tutti ascrivibili al postpunk, i video di Grabinsky circolano più presso festival o in contesti artistici che in televisione. I pochi videoclip italiani di quegli anni, trasmessi principalmente da Video Music, seguono le logiche narrative e i modelli stereotipati dell’intrattenimento di massa, anche quando siano maestri del cinema a cimentarsi con il genere, come Michelangelo Antonioni per “Fotoromanza” (1984) di Gianna Nannini.

Grabinksy, «Tape Show», scenografia per una performance del gruppo Stupid Set, IV Settimana internazionale della performance, Bologna, 1980. Produttore: Italian Records. Arvhivio Oderso Rubini.
Grabinksy, Tape Show, scenografia per una performance del gruppo Stupid Set, IV Settimana internazionale della performance, Bologna, 1980. Produttore: Italian Records. Arvhivio Oderso Rubini.

Il video e l’arte del personal computer

I tre canali della Rai mantengono il monopolio della programmazione televisiva in Italia fino agli anni Settanta quando una serie di sentenze della Corte Costituzionale legittima la crescente presenza di emittenti private, tra cui si afferma il blocco Fininvest, attraverso il quale Berlusconi sviluppa strategie per ottenere il consenso dei telespettatori che gli saranno fondamentali nella futura attività politica, la quale come è noto lo porterà a diventare Presidente del Consiglio per nove anni tra il 1994 e il 2011. I network privati sono mossi da logiche commerciali e, ad eccezione di certi innovativi esempi di videografica, poco inclini alla sperimentazione. Una vera e propria analisi dei contenuti proposti dalle numerose piccole emittenti private, però, non è ancora stata compiuta e certamente porterebbe alla luce esempi di sperimentazione. L’interesse in Italia per l’arte in televisione è dimostrato dall’attecchimento di canali esteri dedicati a documentari, ultimo Sky Arte HD. Tuttavia, quel che è certo è che non ci sono mai stati canali come WNET.

Oltre alla trasndisciplinarietà e alla fuoriuscita dai contesti espositivi usuali, caratteristica della mentalità postmoderna è l’anonimato di certi autori e la vicinanza delle loro sperimentazioni video a forme di produzione commerciale, il che rende difficile enucleare la dimensione artistica da quello che di fatto è un prodotto. La diffusione negli anni Ottanta delle tecnologie prosumer non fa che rendere più complicata la mappatura delle pratiche artistiche del video. Quanti prosumer hanno realizzato video in privato la cui conoscenza potrebbe inficiare i dogmi tassonomici a cui noi storici dell’arte, del cinema o dei media ci aggrappiamo con tanta sicurezza? E se la tecnologia video, sempre più economica, elementare e diffusa, da sola ha messo in crisi il sistema di produzione delle immagini, la questione si intriga ulteriormente se pensiamo che negli anni Ottanta entrano definitivamente nelle nostre case i personal computer, con cui non a caso molti artisti incominciano a sperimentare, spesso all’interno di parametri linguistici propri del video.

Una storia della “computer art” italiana, ancora da scrivere, troverebbe nel decennio Ottanta un punto di snodo fondamentale16. A questa categoria, fondata anch’essa sull’ibridazione come l’arte video, possono essere ascritti alcuni casi di cui si è già accennato: La casa telematica di La Pietra, i video di Metamorphosi, certi esempi di videoteatro, la poetronica di Toti e i videogrammi di Sasso e Convertino per la televisione (a cui potremmo affiancare quelli di Guido Vanzetti come Pixnocchio del 1981). Tra i pochi artisti che hanno la possibilità di cimentarsi con sistemi avanzati per la “elaborazione dell’immagine di sintesi”, per usare la terminologia dell’epoca, rientra Ida Gerosa che dal 1984 al 1986 partecipa alle attività del Centro Scientifico IBM di Roma e dal 1986 al 1992 dell’Istituto di Astrofisica Spaziale del CNR. Le lisergiche animazioni computer-generated di Gerosa, che oggi leggeremmo come esempi di intelligenza artificiale, propongono una riflessione sull’ontologia dell’immagine e sui meccanismi della sua produzione.

Come di “video arte”, anche di “computer art” in senso stretto si è parlato sempre meno dagli anni Duemila in poi, perché il computer ha fagocitato tutti gli altri medium. Anche termini come New Media Art o Digital Art si sono rivelati troppo generici e più che a pratiche artistiche, sono riconducibili a letture interpretative specifiche di un dato momento storico. Volendosi soffermare su quel momento specifico in cui il computer diventa accessibile a qualsiasi artista, ovvero gli anni Ottanta, sarebbe più corretto semmai parlare di “personal computer art”. Rappresentative, in questo senso, sono le produzioni di Adriano Abbado, Giacomo Verde e dei collettivi Correnti Magnetiche, Giovanotti Mondani Meccanici e Crudelity Stoffe i cui tratti comuni sono: l’utilizzo di personal computer come l’Apple II, l’esplorazione delle convergenze tra arte e musica, la propensione per attività cooperative e, per alcuni di loro, lo sviluppo negli anni a venire di esperimenti con realtà virtuale e ambienti multisensoriali.

Quello dei Giovanotti Mondani Meccanici o GMM è un gruppo fondato da Antonio Glessi e Andrea Zingoni, attivo a Firenze dal 1984 al 1993, la cui produzione multimediale comprende computer grafica, video, videoclip, installazioni, performance, produzioni discografiche, teatrali e televisive. Figlia della cultura postpunk, la pratica dei GMM è fondata sul rifiuto di accademismi e la presa di distanza dal concettualismo e dall’impegno politicizzato degli anni Settanta. La prima fase della produzione dei GMM consiste in quelli che il gruppo chiama “computer comics”: fumetti realizzati con un Apple II da Glessi su sceneggiature elaborate da Zingoni, i cui protagonisti sono gli alter ego degli stessi artisti, impegnati in violente scorribande nella Firenze notturna del Tenax o in ironici incontri paranormali con Dracula. Le vignette vengono pubblicate sulla rivista Frigidaire o montate in sequenza in video narrativi, accompagnati dalle sonorizzazioni elettroniche di Maurizio Dami a.k.a. Alexander Robotnik, come il primo omonimo video del 1984.

Giovanotti Mondani Meccanici, frame da «Giovanotti Mondani Meccanici», 1984, video, 13’27”, Colore. Archivio Antonio Glessi.
Giovanotti Mondani Meccanici, frame da Giovanotti Mondani Meccanici, 1984, video, 13’27”, Colore. Archivio Antonio Glessi.

La musica ha un ruolo ancor più importante nella produzione di Correnti Magnetiche, collettivo nato nel 1985 dall’incontro dell’artista visivo Mario Canali e del musicista elettronico Riccardo Sinigaglia, a cui saranno associate varie altre figure con competenze diverse negli anni. I video del gruppo impiegano spesso un’iconografia da information graphics come Urbana (1987), un’animazione di disfunzionali infrastrutture architettoniche e altri elementi primari che delineano paesaggi mentali, su composizioni sonore al sintetizzatore allineabili a generi musicali come Ambient e New Age. All’esplorazione delle interazioni tra suono e immagini astratte si dedica anche Adriano Abbado, inizialmente in Correnti Magnetiche, che dagli anni Settanta sviluppa una ricerca sull’idea di “visual music” anche sul piano storico e teorico, che culminerà nella pubblicazione nel 2017 di un volume fondamentale nella bibliografia dedicata all’affascinante fenomeno della sinestesia e in generale alle relazioni tra suono e immagini17.

Produzione e circolazione: un nuovo network

Attorno alla scena artistica del video in Italia negli anni Ottanta si sviluppa un vero e proprio sistema alternativo per la produzione, la circolazione e la discussione, che porta a compimento l’intenzione dei primi artisti che avevano adottato questo medium negli anni Sessanta di circumnavigare le istituzioni e il mercato dell’arte. Questo network comprende associazioni, distributori e spazi espositivi dedicati esclusivamente alle pratiche video, che promuovono attraverso festival, mostre, rassegne, convegni e pubblicazioni. Ad aprire la catena di montaggio sono i produttori: gli artisti individuali, in gruppo o a capo di vere e proprie case di produzione (e.g. White Light Video Production di Theo Eshetu). Tra gli spazi espositivi permanenti, al Centro Video arte di Palazzo dei Diamanti di Ferrara, attivo dal 1973 si affianca lo Spazio Multimediale di Volterra (1982-87), curato da Vittorio Fagone, e una sezione di Palazzo Fortuny a Venezia, mentre sempre più istituzioni pubbliche e gallerie private si aprono al video, sebbene nessuna in modo esclusivo.

Oltre alle sporadiche apparizioni in televisione18, video “sperimentali” e videoclip compaiono su schermi all’interno dei locali notturni avamposto della cultura postpunk, come lo Small di Pieve di Cento e il Tenax di Firenze, o in appositi bar come il Videopub Kinedo a Bologna. Nascono anche nuovi archivi, su modello di quello di Luciano Giaccari degli anni Settanta, come la Videoteca Centro Teatro Ateneo dell’Università di Roma “La Sapienza” nel 1981, a cura di Ferruccio Marotti. Nel 1987 nasce persino una Consulta Nazionale del Video alle cui attività partecipano artisti, studiosi, curatori, produttori e tecnici, e il cui obiettivo principale è mettere in contatto tutte le figure del settore. In parallelo si muovono le associazioni che si occupano di distribuzione, le quali hanno una doppia, fondamentale funzione: fare conoscere in Italia le sperimentazioni video estere (tenendo aggiornati e influenzando così enormemente gli artisti italiani) e contribuire alla circolazione, a livello nazionale e a volte anche internazionale, di produzioni italiane.

Tra le principali associazioni che si occupano di distribuzione bisogna ricordare il Collettivo Rifrazioni (1980-94) a Bologna, fondato da futuri membri del gruppo Xing, Softvideo (1982-attivo) a Roma, fondato da Giacomo Mazzone, a cui si affianca Elio Andalò Vimercati, e Tape Connection (1984-93), sempre a Roma, di Maia Giacobbe Borelli. La loro principale attività consiste nel fare circolare, presso mostre e festival, video di artisti, videoclip, operazioni di videoteatro, documentazioni di performance, progetti di videografica e computer art e quant’altro di rilevante fosse prodotto in quegli anni a livello internazionale in termini di sperimentazione video. Si tratta di materiale ricevuto a volte gratuitamente dagli artisti e dai produttori (e.g. i videoclip dalle case discografiche) o grazie ad accordi commerciali con organizzazioni di altri paesi tra cui le americane Electronic Arts Intermix e Video Data Bank. Softvideo riesce anche a creare sinergie con la Rai facilitando la produzione di video di Zbigniew Rybczynski e di Mario Martone per Falso Movimento.

Tape Connection, Logo. Courtesy: Maia e Caterina Borelli.
Tape Connection, Logo. Courtesy: Maia e Caterina Borelli.

Il vero motore dell’arte video in Italia negli anni Ottanta sono i festival, appuntamenti annuali, in piccole città. In un ambiente informale, mai eccessivamente accademico, è possibile conoscere le ultime produzioni dei principali artisti internazionali e tenersi aggiornati sulla scena italiana. Video monocanale ma anche video sculture, installazioni, performance e progetti multimediali sono presentati presso decine di festival tra cui, in ordine cronologico: Salso Film & TV Festival di Salsomaggiore Terme (1977-92); Festival dell’Arte Elettronica di Camerino (1982-88); VideoArt Festival di Locarno (1980-99) ideato, tra gli altri, da Fagone; L’Immagine Elettronica nato a Porretta Terme (1982-1990) di Vittorio Boarini; Ondavideo a Pisa (1985-attivo) di Sandra Lischi; Riccione TTVV: Teatro, Televisione, Video (1985-attivo) di Franco Quadri; e la Rassegna Internazionale del Video d’Autore di Taormina (1986-95) di Valentina Valentini. Vi sono poi sezioni dedicate al video all’interno di festival del cinema come quelli di Montecatini, Roma e Torino.

Una nota a parte merita il Centro Video arte di Ferrara a cura di Lola Bonora, che nei suoi ventidue anni di esistenza, tra le centinaia di attività e iniziative dedicate al video, ha anche proposto diversi festival tra cui U-Tape (1982-90), Videoset (1985-89), dedicato a video sculture e installazioni, e due edizioni de L’Immagine Elettronica (1989-90), seguiti nel decennio successivo da Poliset (1990-93). I principali artisti video internazionali degli anni Ottanta hanno preso parte ai festival di Ferrara e difficilmente si troverà un artista video italiano che non abbia avuto a che fare con il centro. Artisti emiliani come Plessi e Camerani hanno trovato nel centro uno stimolante strumento di crescita e supporto, al punto che si può parlare di una vera e propria scena video locale, incentrata sulla video scultura. Lola Bonora, però, è aperta anche verso pratiche trasversali, come testimonia la presenza, nelle liste dei partecipanti ai vari festival, di figure e gruppi difficilmente classificabili come Convertino, Giovanotti Mondani Meccanici, Krypton e Metamorphosi.

Rispetto ai festival, sono poche le mostre sull’arte video. Tra queste: Differenza Video (1982), Studio Trisorio, Napoli, a cura di Mario Costa e Pasquale Trisorio, e Artronica (1987), Bari, a cura di Lola Bonora e Anna D’Elia. Carlo Infante cura le rassegne di videoteatro Scenari dell’immateriale (1985) a Narni e Occhi elettronici sul pianeta terra (1986) a Priviterno. La computer art fa storia a sé, con le mostre: Il Pulsante Leggero (1985), Galleria 5 X 5, Roma, a cura di Rinaldo Funari; una sezione della XLII Biennale di Venezia del 1986, a cura di Maurizio Calvesi; e Arte e Computer (1987), Rotonda della Besana, Milano, a cura di Renato Barilli. Le pratiche video diventano anche oggetto di convegni accademici tra i quali: Artmedia. Rassegna internazionale di estetica del video e della comunicazione (1985), Università di Salerno, a cura di Mario Costa; e quelli di Guido Aristarco, Il nuovo mondo dell’immagine elettronica (1982), Università di Torino, e Cinema: dietro e dentro l’Immagine elettronica (1986), “La Sapienza”.

Arte video e cultura visuale: problemi di classificazione e storicizzazione

Dai cenni a festival, rassegne, mostre e convegni, emerge come negli anni Ottanta diversi accademici italiani siano coinvolti nella riflessione sulle pratiche video a loro contemporanee. Guido Aristarco, Renato Barilli, Mario Costa, Marco Maria Gazzano, Sandra Lischi e Valentina Valentini hanno dato dignità e rigore scientifico all’arte video e contribuito a mappare la sua articolata ramificazione in epoca postmoderna attraverso curatele, saggi e corsi universitari. A questi bisogna aggiungere Andrea Balzola, Vittorio Fagone e Carlo Infante, che hanno saputo coniugare l’insegnamento presso accademie di belle arti con l’attività artistica il primo e curatoriale gli altri. I numerosi testi sull’arte video scritti da Fagone nel corso degli anni Ottanta sono stati raccolti nell’influente volume L’immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici (Feltrinelli, 1990), da cui emerge una classificazione delle pratiche video e una continua riflessione sul rapporto con la televisione, rispetto a cui gli artisti, secondo l’autore, non si pongono più in antagonismo.

Sulla scia di quella di Luciano Giaccari del 1972, Sirio Luginbühl e Paolo Cardazzo del Cavallino abbozzano una classificazione della “video arte” in Videotapes. Arte, tecnica, storia (Mastrogiacomo Editore, 1980), focalizzato però sul decennio precedente. Ai primi anni Ottanta risalgono una serie di pubblicazioni e atti di convegno sull’uso di tecnologie digitali ed effetti speciali nel cinema, nell’arte e in televisione: Il cinema elettronico (Liberoscambio, 1982) a cura di Toni Verità; Il nuovo mondo dell’immagine elettronica (Dedalo, 1985) a cura di Guido e Teresa Aristarco; e La nuova immagine del mondo (1983) a cura di Lorenzo Vitalone. Le prime concrete riflessioni sul decennio in corso compaiono più tardi. Ne Il ciclo del postmoderno. La ricerca artistica negli anni ‘80 (Feltrinelli, 1987) Barilli esamina le diverse sfaccettature dell’arte dell’epoca, dalla pittura alla computer art. Valentini si conferma, invece, la teorica di riferimento per il “videoteatro” con i due volumi di Teatro in immagine (Bulzoni, 1987) e con La camera astratta (Ubulibri, 1988) dedicato all’opera collaborativa di Studio Azzurro e Giorgio Barberio Corsetti.

«Video Magazine», N. 53, Marzo 1986. Copertina raffigurante Studio Azzurro e Giorgio Barberio Corsetti, «Prologo a un diario segreto contraffatto», opera videoteatrale, La Piramide, Roma 1985
«Video Magazine», N. 53, Marzo 1986. Copertina raffigurante Studio Azzurro e Giorgio Barberio Corsetti, Prologo a un diario segreto contraffatto, opera videoteatrale, La Piramide, Roma 1985.

Anche le raccolte di saggi hanno un’importanza notevole, perché restituiscono al lettore il fermento tipico di una situazione di work in progress, e includono interpretazioni critiche, prove di contestualizzazione storica e speculazioni sul futuro, con contributi di diverse figure che afferiscono al vasto network dell’arte video italiana, inclusi gli artisti, i quali ne approfittano per chiarire i parametri della propria pratica lasciandosi andare a volte all’impulso visionario tipico del manifesto. Una rilevante pubblicazione miscellanea è Metamorfosi della visione. Saggi di pensiero elettronico (ETS, 1988), a cura di Rosanna Albertini e Sandra Lischi. Ancor più preziosi, però, vista la bassa circolazione e la loro difficile reperibilità oggi, sono i cataloghi dei festival come quelli dell’Arte Elettronica di Camerino (Fagone), di Ondavideo (Lischi) e di Taormina Arte (Valentini), nonché le numerose pubblicazioni a cura di Bonora per i festival U-Tape e Videoset e diverse mostre presso il Centro Video arte di Ferrara o in altri spazi in Italia e all’estero.

Quanto alle riviste, oltre a quelle di arte contemporanea come Flash Art e Tema Celeste, articoli sull’arte video italiana compaiono su periodici di natura trasversale o che si occupano di moda, design e fumetti, tra cui: Alfabeta, Alter Alter, Domus, Frigidaire, Modo e Westuff. Dell’interesse del mondo del cinema per il video, invece, è esemplificativo un numero speciale della rivista Segnocinema (N.18, Maggio 1985) intitolato L’Altro Video. Inoltre, in funzione della diffusione sul mercato di tecnologia a basso costo, nel 1981 nascono le riviste Video e Video Magazine che pubblicano istruzioni per l’uso dei nuovi dispositivi, report da fiere e festival, e articoli di approfondimento sull’utilizzo del video in ambito cinematografico, mediatico e, nel caso di Video Magazine, anche artistico. In un recente studio, Diego Cavallotti ha analizzato i contenuti di queste riviste, presentandoli come emblematici per comprendere l’affermazione in Italia della figura del prosumer (che lui chiama user) e di quella che definisce una vera e propria “cultura video”19.

Se negli studi di Paola Sega Serra Zanetti e Maria Grazia Tolomeo20 e di Silvia Bordini21 di fine anni anni Novanta l’arte video cede il passo a nuove tecnologie come la realtà virtuale, i primi tentativi di storicizzare l’arte video italiana risalgono agli anni Duemila. Autori come Alessandro Amaducci22, Bruno Di Marino23 e Angela Madesani, però, sembrano licenziare il decennio Ottanta come quello meno interessante. Madesani, per esempio, conclude il capitolo dedicato agli anni Settanta del suo libro con un’amara quanto miope riflessione: «il cinema e il video sarebbero tornati a occupare nel decennio successivo una posizione marginale. Si sarebbe tornati alla scultura e alla pittura […] Era solo un problema di tempo e sarebbero tornati alla ribalta […] Così, dopo la lunga ma non improduttiva pausa degli anni ottanta, si sarebbe rifesteggiato il ritorno del video»24. Figure come Sandra Lischi e Valentini Valentini, invece, non hanno mai smesso di fornire contributi e stimoli sull’importanza e varietà del video in epoca postmoderna, formando o influenzando nuove generazioni di studiosi25.

Storicizzare e valorizzare le pratiche video italiane degli anni Ottanta è un atto dovuto e urgente. Risulta evidente però un problema di classificazione, non solo per rendere grazia alle intenzioni di molti artisti, ma perché la loro spinta verso l’ibridazione, lo sviluppo di dinamiche performative e l’utilizzo spesso ambiguo dei media rende impossibile cartografare e interpretare queste pratiche secondo i criteri metodologici di una singola disciplina. Più che nuovi metodi, bisogna quindi adottare un nuovo sguardo che ci permetta di inquadrare la sperimentazione video all’interno di una più vasta cultura visuale. Da questa prospettiva emerge come la produzione video non sia semplicemente una manifestazione ma la spina dorsale dell’epoca postmoderna, caratterizzata dal predominio dell’immagine, dall’ubiquità dei media e dalla nascita del prosumer, una nuova epoca che in Italia coincide con l’affermazione di un sistema di potere mediatico, che diventerà politico, ricalcando le linee della più avvincente fantascienza distopica di quegli anni.

  1. Il termine prosumer è stato coniato dallo scrittore americano Alvin Toffler nel libro The Third Wave (Bantam Books, 1980), trad. it., L. Berti, (a cura di), La Terza Onda. Il tramonto dell’era industriale e la nascita di una nuova civiltà, Sperling & Kupfer, Milano 1987.
  2. Cfr. A. Danto, The Artworld, «Journal of Philosophy», n. 60, 1964. Trad. it. Il mondo dell’arte, «Studi di Estetica», n. 27, 2003.
  3. J. Baudrillard, L’estasi della comunicazione, in H. Foster, (a cura di), L’antiestetica. Saggi sulla cultura postmoderna, Postmediabooks, Milano 2014, p. 146.
  4. Cfr. F. Jameson, Postmodernism, or, the Cultural Logic of Late Capitalism, Duke University Press, Durham (NC), 1989, trad. it. di M. Manganelli, Postmodernismo: Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2015.
  5. Tra gli effetti speciali nati negli anni Ottanta in ambito cinematografico o televisivo, alcuni adottati anche dagli artisti video, si ricordano il bullet time (che consente di vedere un momento a rallentatore), il morphing (che consente la trasformazione fluida da un oggetto a un altro) e numerose forme di CGI o computer-generated imagery (ovvero immagini digitalizzate). A questi bisogna poi aggiungere il chromakey che consente di sovrapporre due diverse immagini diverse, le cui origini risalgono alle origini del cinema stesso ma che trova larga diffusione proprio nel decennio Ottanta.
  6. In A. Amaducci, Banda anomala. Un profilo della videoarte monocanale in Italia, Lindau, Torino 2003, p. 117.
  7. In V. Fagone, L’immagine video. Arti visuali e nuovi media elettronici, Feltrinelli, Milano 1990, p. 78.
  8. In J. Malvezzi, Remedi-Action. Dieci anni di videoteatro italiano, Postmedia Books, Milano 2015, p. 22.
  9. In V. Valentini, Sorvolando su Studio Azzurro. Alcune parole chiave, in V. Valentini, (a cura di), Studio Azzurro. L’esperienza delle immagini, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI) 2017, pp. 9-10.
  10. Cfr. B. Radice, (a cura di), Elogio del banale, Studio Forma e Alchymia, Milano 1980.
  11. In E. Sottsass, Oltre il letto: i luoghi e le macchine del sonno, in Il progetto domestico. La casa dell’uomo: archetipi e prototipi. Progetti, XVII Triennale di Milano, Electa, Milano 1986, p. 24.
  12. Cfr. D. Santachiara, trascrizione del testo recitato nel video La casa onirica, 1984. www.youtube.com/watch?v=i8zXPpyB9zc, ultimo accesso 11 Settembre 2019.
  13. Cfr. D. Santachiara, La Neomerce. Il design dell’invenzione e dell’estasi artificiale, Electa, Milano 1985.
  14. Si veda il volume a cura di Sandra Lischi e Silvia Moretti, Gianni Toti o della Poetronica, ETS, Pisa 2011.
  15. In P. V. Tondelli, Videosexy, «Alter Alter», n. 6, Giugno 1984, p. 28, in Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni Ottanta, Bompiani, Milano 1990, pp. 218–219.
  16. Tra gli studi dedicati alla storia della computer art in Italia negli anni Ottanta si segnala il volume a cura di F. Gallo e S. Bordini, All’alba dell’arte digitale. Il festival di arte elettronica di Camerino, Mimesis, Sesto San Giovanni (MI), 2018.
  17. Cfr. A. Abbado, I maestri della visual music. Esplorazioni astratte: storia e ricerca contemporanea, Skira, Milano 2017.
  18. Oltre agli esempi di videografica e videoclip di cui si è detto, alcune sperimentazioni video vengono a volte incluse nella programmazione del programma Fuori orario. Cose (mai) viste fondato da Enrico Ghezzi e in onda, in modo discontinuo, su Rai 3 dal 1988.
  19. Cfr. D. Cavallotti, Cultura video: le riviste specializzate in Italia (1970-1995), Meltemi, Roma 2018.
  20. Cfr. P. Sega Serra Zanetti e M. G. Tolomeo, La coscienza luccicante. Dalla videoarte all’arte interattiva, Gangemi, Roma 1998.
  21. Cfr. S. Bordini, Arte Elettronica, Giunti, Firenze 2000.
  22. Cfr. A. Amaducci, Banda anomala. Un profilo della videoarte monocanale in Italia, Lindau, Torino 2003.
  23. Cfr. catalogo della mostra di B. Di Marino e L. Nicoli, (a cura di), Elettroschock: 30 Anni di Video in Italia 1971-2001, Castelvecchi, Roma 2001.
  24. In A. Madesani, Le icone fluttuanti. Storia del cinema d’artista e della videoarte in Italia, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 101.
  25. Nel 2016 Valentina Valentini ha avviato insieme a Cosetta Saba un progetto di ricerca volto alla Mappatura degli archivi e dei fondi di videoarte in Italia che ha consentito al sottoscritto e ad altri giovani studiosi, di riscoprire importanti contributi alla storia dell’arte video italiana, di accedere a fonti utili alla storicizzazione di questo genere artistico e, non ultimo, di avviare un processo volto alla salvaguardia, mediante attività di archivio, restauro ecc., dei supporti su cui i video in questione sono registrati.
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Ricercatore a tempo determinato di tipo b (senior) presso l'Università degli Studi di Bologna dal 2019. Svolge ricerche nell'ambito della storia dell'arte contemporanea e della cultura visuale. Tra le sue ultime pubblicazioni si segnalano: il libro Art Record Covers (TASCHEN, 2017); il saggio Machine, Monument, Mannequin: The New Italian Man per il catalogo della mostra Post Zang Tumb Tuum. Art, Life, Politics: Italia 1918–1943 a cura di Germano Celant (Fondazione Prada, 2018); e l'articolo Choreographies of Power: Public Movement su «PAJ: A Journal of Performance and Art», n. 121 (MIT Press, 2019). Attualmente lavora a diverse voci per la Enciclopedia dell'Arte Contemporanea a cura di Vincenzo Trione (Treccani, data da definire) e cura la rassegna di incontri Italia Periodica promossa da Reading Room, Milano, dedicata alla riscoperta di riviste d'avanguardia pubblicate in Italia dagli anni Cinquanta a oggi.