This paper aims to reconstruct some of the issues that revolve around the role played by artists in early Italian television in a discursive and non-exhaustive way. The principal aim is to discuss how the study of the television experiences of many visual artists can help to re-read some issues in the field of television historiography. First of all, the importance of the sources and their necessary integration in the study of this relationship will be underlined, with particular reference to the problem of accessibility (see the Rai experimental programs produced between 1952 and 1954). Secondly, we will focus on the relationship between arthouse and popular culture, as it emerges from early Italian television and develops, over the following years, in the debate between entertainment television and art television. As a third question, we will focus on a marginalized element, that of the audiences, and we will discuss what kind of negotiations the art consumption through television implies. Through these three issues some possible lines of research will be drawn in order to try to broaden the approaches and perspectives of television historiography.
Il rapporto con l’arte è un nodo cruciale che ha accompagnato la storia della televisione italiana fin dalle sue origini. Se il medium televisivo ha interessato da subito l’attività di diversi artisti italiani, è anche vero che si è trattato di un interesse reciproco. L’arte in quanto oggetto è, infatti, molto presente all’interno dei programmi televisivi delle origini: rubriche di approfondimento culturale, documentari televisivi biografici, sceneggiati aventi per oggetto vite di grandi artisti del passato sono soltanto alcune testimonianze di una programmazione molto attenta al mondo dell’arte tout-court1. Luisella Bolla e Flaminia Cardini, in un volume intitolato Le avventure dell’arte in TV, ricordano come fin dal principio della programmazione televisiva, il 3 gennaio 1954, la Rai mandò in onda un programma culturale intitolato proprio Le avventure dell’arte2. Si tratta di una rubrica, a cura di Antonio Morassi, che si proponeva di presentare le vite e le opere di alcuni dei più celebri pittori italiani (la prima puntata è su Gian Battista Tiepolo), considerata da Aldo Grasso «il primo programma culturale della storia della televisione italiana»3. A questo programma, nel corso degli anni successivi, ne seguono decine e decine cui partecipano, in qualità di autori, alcune delle figure maggiormente distintive della scena culturale e artistica del dopoguerra italiano.
Accanto a questa tipologia di racconto, erudito e decisamente tradizionale, dell’arte come oggetto televisivo, la televisione accompagna un ulteriore approccio al mondo dell’arte, che la conduce in territori più sperimentali. È ciò cui si accennava in precedenza, ovvero gli artisti contemporanei che iniziano a ragionare sulla televisione come possibile mezzo di espressione artistica. La prima manifestazione in questa direzione avviene già nel 1952, quando, in occasione della messa in onda di una trasmissione televisiva sperimentale da parte della Rai di Milano, viene distribuito uno degli ultimi manifesti dello Spazialismo, firmato tra gli altri da Lucio Fontana. Il manifesto parla già di possibilità di trasmettere «per la prima volta nel mondo, attraverso la televisione, le nostre nuove forme d’arte, basate sui concetti dello spazio», così come della necessità di porre le «conquiste della tecnica» al «servizio dell’arte che professiamo». Per gli spazialisti la televisione è, dunque, «il mezzo che aspettavamo per dare completezza ai nostri concetti», manifestazione tecnica necessaria per espletare il proprio sperimentalismo in ambito artistico4. Ed è proprio quello dello sperimentalismo a rappresentare il primo nodo metodologico che vorrei affrontare per condurre una breve riflessione discorsiva sul rapporto tra artisti e televisione italiana delle origini.
Partire dalla questione dello sperimentalismo ci costringe, anzitutto, a retrodatare l’inizio delle trasmissioni televisive dalla data canonica del 3 gennaio 1954 ai programmi sperimentali che iniziano, in specifiche aree geografiche dell’Italia settentrionale, già a partire dal 1952. In realtà, una prima trasmissione sperimentale viene effettuata l’11 settembre 1949 a Torino, riprendendo gli studi e gli esperimenti già compiuti in epoca fascista5. Le attività, tuttavia, si intensificano a partire dalla primavera del 1952, quando vengono installati a Milano un trasmettitore e due studi funzionanti. Buona parte dell’attività sperimentale si svolge tra il settembre e il dicembre 1952, per poi essere potenziata per tutto il 1953 fino all’entrata in funzione dello studio di Roma alla fine dell’anno6. Quella della televisione sperimentale è una storia ancora largamente sconosciuta: scarsamente affrontata dalla storiografia sulla televisione, anche quella di natura più politico-istituzionale, questa esperienza meriterebbe senz’altro un approfondimento supportato da risorse documentarie. La causa principale di questo ritardo è probabilmente legata a una difficoltà oggettiva di consultazione delle fonti: alcune trasmissioni di quegli anni sono conservate presso gli archivi della Rai sotto forma di pellicole, qualcosa è auspicabile recuperare da resoconti giornalistici coevi, mentre è certamente possibile ricostruire la progettualità di questa fase attraverso i piani di lavoro aziendale. Si tratterebbe, dunque, di integrare una storia produttiva, distributiva e tecnologica a una più propriamente culturale, interrogandosi sull’effettiva corrispondenza tra sperimentazione delle tecniche di trasmissione a sperimentalismo delle forme artistiche. Siamo indubbiamente in una fase in cui la Rai tenta di potenziare la propria tecnica in preparazione all’avvio delle trasmissioni ufficiali: bisognerebbe indagare, a questo proposito, se il criterio di variare le formule di programmazione per sperimentare diversi generi per tipologie di pubblico, giorni della settimana e fasce orarie corrisponda a esperienze innovative sul piano dei contenuti. Viene da chiedersi, come conseguenza, se la già citata esperienza del Manifesto spaziale per la televisione rappresenti un unicum nell’ambito della sperimentazione televisiva oppure se sia possibile immaginare altri tentativi di “appropriazione” del mezzo televisivo da parte di artisti/movimenti.
L’ipotesi, peraltro, è che sia proprio in questa fase che il linguaggio televisivo sperimenti una propria specificità attraverso questo tipo di trasmissioni: costantemente schiacciata, per sua stessa natura, tra il medium radiofonico e quello cinematografico, la televisione ricercherebbe nella fecondità di questa fase sperimentale un proprio specifico linguistico e formale7. Muovendosi nel dibattito tra attrazione e narrazione che ha accompagnato i primi anni del cinema, e la successiva nascita delle avanguardie cinematografiche europee in contrapposizione ai modi di produzione standardizzati del cinema hollywoodiano8, sarebbe interessante scoprire non soltanto la tipologia e i contenuti delle trasmissioni mandate in onda in questi anni, ma anche le forme linguistiche e artistiche che le accompagnano. E in tutto questo, ancora più stimolante sarebbe individuare la partecipazione di eventuali artisti a questa fase sperimentale in cui si definiscono le basi del linguaggio televisivo di lì a venire: dalle tecniche di ripresa, i movimenti di macchina, gli adattamenti e le applicazioni dei principi del montaggio cinematografico, fino alla costruzione delle scenografie, delle animazioni e all’utilizzo delle musiche, la televisione ha senz’altro preso in prestito da altri media (radio e cinema tra tutti) elementi stilistici e formali. Che rapporto c’è, dunque, con la pittura, la scultura, la fotografia, l’arte contemporanea nella definizione di un linguaggio specifico nella televisione italiana delle origini? In che modo forme di videoarte si sono appropriate di elementi ricorrenti del linguaggio televisivo di questi anni?
Il già accennato problema delle fonti non è, in questo senso, di poco conto. La questione non riguarda soltanto le trasmissioni sperimentali, ma anche larga parte dei programmi mandati in onda negli anni Cinquanta e nei primi Sessanta precedentemente alla nascita della registrazione video-magnetica (RVM). L’arrivo di questa tecnica in Italia permette, a partire dagli inizi degli anni Sessanta, sia di registrare sequenze video su nastro magnetico, sia di poter replicare programmi in diretta a orari diversi. Più di tutto, però, la registrazione video-magnetica influisce nella nascita delle prime pratiche di archiviazione televisiva, che saranno alla base della costruzione di un archivio audiovisivo della Rai9. Fino all’introduzione dell’RVM, i programmi venivano registrati su pellicola saltuariamente, ed è dunque complicato riuscire oggi a ricostruire esperienze estetiche, ricorrenze formali, continuità di sperimentalismo prima degli anni Sessanta. Molte sigle di programmi realizzate da artisti in questi anni, ad esempio, non sono riuscite ad arrivare fino ai giorni nostri. Si tratta, del resto, di un problema soprattutto storiografico, politico e di lunga prospettiva, che richiederebbe un ulteriore sforzo interpretativo nella direzione della ricerca di fonti alternative a quelle istituzionali. La mancanza di prospettive integrate nella storiografia della televisione, inoltre, non ha mai permesso di affondare il colpo in questo senso. Allo stesso modo, la scarsità di approcci sistemici alle storie dei media e della cultura italiana, di prospettive cioè che potessero mettere in dialogo forme apparentemente così distanti come arte e televisione, non ha aiutato la ricerca di strategie alternative che potessero ovviare tali problemi archivistici.
Un’altra questione (già vagamente accennata in questa breve disamina) che emergerebbe dall’adozione di uno sguardo “artistico” sulla storia della televisione italiana è quella del rapporto tra dimensione autoriale e popolare. Per dirla meglio, si tratterebbe di ripensare la televisione italiana delle origini come un medium in continua tensione tra produzione d’autore e intrattenimento popolare, anziché come forma di comunicazione “bassa” in contrapposizione alle arti “legittime”10. Si è spesso parlato della vocazione inequivocabilmente pedagogica della televisione italiana delle origini, di una copia-carbone del modello britannico della BBC di John Reith schiacciato soprattutto sull’educazione e sull’informazione, lasciando spesso sullo sfondo l’importanza dei programmi d’intrattenimento11. Non solo nelle politiche programmatiche aziendali e nella costruzione dei palinsesti, ma anche e soprattutto in una dimensione sociale, nelle memorie degli spettatori. È bene, tuttavia, notare come il coinvolgimento degli artisti in questi anni non si limiti ai programmi di approfondimento culturale o alle trasmissioni più sperimentali con una chiara vocazione autoriale. Anzi: sembra proprio che la loro presenza sia più frequente nei programmi d’intrattenimento, ad esempio attraverso la realizzazione di scenografie o sigle di trasmissioni.
Se negli ultimi anni sta emergendo, nell’ambito dei television studies, un crescente interesse nei confronti della sintassi e dell’estetica delle sigle delle serie televisive contemporanee12, bisogna ricordare come quelle dei programmi generalisti rappresentino un elemento cruciale e identificativo, finalizzato soprattutto alla fidelizzazione dello spettatore e alla brandizzazione del programma/canale, fin dalla televisione delle origini. Le sigle, infatti, oltre a sottendere un significato interno al testo che presentano e introducono, rappresentano anche una forma artistica a sé stante, che andrebbe studiata, in modo integrato, all’interno del rapporto tra arte elettronica e cultura digitale in termini sincronici. Ci sarebbe bisogno di competenze diverse: storici dell’arte e studiosi di televisione potrebbero studiare in modo sistematico le esperienze televisive di artisti del calibro di Mario Sasso, Ugo Nespolo, Pino Pascali e Gae Aulenti, impegnati nella produzione di sigle sia per programmi di approfondimento culturale (Viaggio nel Sud, La notte della Repubblica, etc.) sia per trasmissioni d’intrattenimento dalla vocazione decisamente più popolare (Indietro tutta, i telegiornali, etc.). Sarebbe utile proporre un approccio integrato soprattutto per andare a capire come questo ambito “alto” sia poi riuscito a emigrare in una dimensione più propriamente “bassa”, per poi sfociare nel largo coinvolgimento di queste sperimentazioni visive operate dalle emittenti private a partire dagli anni Settanta, così come dalla televisione commerciale di lì a venire, in particolare dalla pubblicità13. Tale approccio permetterebbe, anzitutto, di ridiscutere gli aspetti più recenti del rapporto tra televisione e audience, dunque del passaggio tra sperimentazione elettronica e divulgazione digitale tenendo presente la dimensione del consumo. Relazione che aiuterebbe, di conseguenza, a ripensare l’idea stessa di servizio pubblico, ampliando questa storia anche nell’ambito meno “controllato”, e decisamente più anarchico, del rapporto tra artisti e televisioni locali, così come delle esperienze italiane di televisioni libere e di guerrilla14.
Emerge, in conclusione, il vero grande rimosso della storiografia televisiva, ovvero quello del pubblico, che sarebbe bene sottolineare anche in relazione a questo tipo di produzioni artistiche. Rimosso che sembra essere stato inglobato anche dalla storiografia sulla videoarte. L’aspetto cruciale di tutto questo discorso sarebbe andare a capire come il pubblico abbia storicamente incamerato, inglobato, negoziato questa massiccia presenza artistica tramite i programmi d’intrattenimento più popolari. In che modo, dunque, il pubblico finisce per consumare arte, più o meno inconsciamente, attraverso queste esperienze televisive che, apparentemente, nulla hanno a che fare con l’arte? La storia sociale verrebbe qui in nostro soccorso, suggerendoci di avanzare un’indagine sul rapporto tra arte e televisione basata su fonti orali, diaristiche, epistolari. In questa prospettiva, viene in mente il ruolo decisivo svolto dall’animazione televisiva, genere spesso poco considerato dalla storiografia sui programmi ma che, soprattutto in relazione alla costruzione di uno specifico rapporto tra televisione e giovani generazioni, ha svolto un ruolo formativo assolutamente cruciale. Si tratterebbe, in conclusione, di ripensare integralmente la televisione italiana delle origini alla luce di questo rapporto, quello tra artisti e televisione, con l’ambizione di inserire la questione, in modo sistemico, dentro la storia culturale, industriale, tecnologica e sociale della televisione italiana di quegli anni.
- Sul rapporto tra arte e televisione cfr. A. Grasso, V. Trione (a cura di), Arte in TV. Forme di divulgazione, Johan & Levi, Monza, 2014. ↩
- L. Bolla, F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova Eri, Torino 1994. ↩
- A. Grasso, Storia della televisione italiana, Garzanti, Milano 1992, p. 20. ↩
- Il Manifesto spaziale per la televisione è pubblicato integralmente a questo link: http://www.hackerart.org/corsi/aba01/capuzzi/manifestomovspazialecentro.htm (ultima consultazione 15.IX.2020). ↩
- Sulle sperimentazioni fasciste in ambito televisivo, cfr. D. Verdegiglio, La TV di Mussolini. Sperimentazioni televisive nel ventennio fascista, Castelvecchi, Roma 2013. ↩
- Per una sintetica ricostruzione di questa fase, cfr. F. Monteleone, Storia della radio e della televisione in Italia, Marsilio, Venezia 1992, pp. 271-275. ↩
- Su dibattito critico italiano attorno alla ricerca di uno «specifico televisivo» nei primi anni di trasmissione, cfr. D. Garofalo, P. Masciullo, Televisione delle origini e critica cinematografica: per una genealogia della critica televisiva in Italia (1953-1960), in M. Guerra, S. Martin (a cura di), Atti critici in luoghi pubblici: scrivere di cinema, tv e media dal dopoguerra al web, Diabasis, Parma 2019, pp. 68-81. ↩
- Su questo cfr. T. Gunning, The Cinema of Attraction. Early Film, Its Spectator and The Avantgarde, in «Wide Angle», n. 8, 3, 1986, pp. 56-62. Per una ripresa più recente del dibattito, cfr. C. Musser, Rethinking Early Cinema: Cinema of Attractions and Narrativity, in W. Strauven (a cura di), The Cinema of Attractions Reloaded, Amsterdam University Press, Amsterdam 2006, pp. 389-416. ↩
- Cfr. A. Grasso, M. Scaglioni, Che cos’è la televisione? Il piccolo schermo tra cultura e società: i generi, l’industria, il pubblico, Garzanti, Milano 2003, p. 113. ↩
- Sulla differenza tra arti legittime e non legittime, cfr. P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, a cura di M. Santoro, Il Mulino, Bologna 2001 [1979], pp. 30-32. ↩
- Per un contributo in direzione opposta a questa vulgata, cfr. E. Menduni, Intrattenimento in salsa pedagogica. Un riesame critico della “veterotelevisione” italiana, in D. Garofalo, V. Roghi (a cura di), Televisione. Storia, immaginario, memoria, Rubbettino, Soveria Mannelli (CZ) 2015, pp. 21-34. ↩
- Cfr. in particolare V. Re, From Saul Bass to participatory culture: Opening title sequences in contemporary TV series, in «Necsus. European Journal of Media Studies», 2016 (ultima consultazione 31.VII.2020). ↩
- Si veda, ad esempio, il caso già studiato di Telemilano, emittente antenata di Canale 5, cfr. Il numero speciale Telemilano58, in «Link. Idee per la televisione», n. 17, 2014. ↩
- Sulla natura “anarchica” e libera delle prime emittenti private in Italia, cfr. P. Ortoleva, Un ventennio a colori. Televisione privata e società in Italia (1975-95), Giunti, Firenze 1995. ↩