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n. 2 – ottobre 17, Teatro

Il coro come soggetto negato e l’eterno conflitto con l’individuo nel teatro di Einar Schleef

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https://doi.org/10.47109/0102220104

Premiere of Sportstück, 1998 at the Burgtheater in Vienna. Photo by Andreas Pohlmann

ABSTRACT

Il saggio intende delineare una delle figure fondamentali nell’estetica teatrale di Einar Schleef: il coro come protagonista rimosso del conflitto tragico. Partendo dalla descrizione di coro come “massa appestata”, temuta e per questo emarginata (come Schleef lo definisce nel suo controverso testo Droge Faust Parsifal), si illustra il conflitto ambiguo e insolubile tra individuo illusorio e comunità fallimentare. Si vedrà la centralità di questa tematica in alcune messinscene particolarmente significative: Goetz von Berlichingen di Johann W. Goethe, Vor Sonnenaufgang di Gerhart Hauptmann e Herr Puntila und sein Knecht Matti di Bertolt Brecht.

Il fenomeno Schleef ed il suo teatro dello scandalo1

Einar Schleef è senz’altro uno degli autori e registi più controversi e dibattuti degli ultimi decenni nel panorama teatrale tedesco e internazionale, oscillando i giudizi tra l’indignazione, lo shock, la condanna, lo stupore, e la fascinazione2.
L’oggetto centrale della critica è sempre il dispositivo corale, percepito come violento in una Germania segnata dalle vicende della seconda guerra mondiale, dove si era andata sviluppando la tendenza a evitare la rappresentazione scenica di formazioni di massa – a prescindere che si trattasse di cori con la semplice funzione di commentatore o delle orde fasciste caratteristiche del Thingspiel del Terzo Reich.

Fin dalle prime messinscene – in particolar modo Mütter (1987), in cui portò in scena cinquanta donne di età, nazionalità e lingua diverse, che sbraitavano e si dimenavano sul palco come delle menadi impazzite – la sua estetica fu inizialmente stigmatizzata come, “Nazi-Theater”3, irrispettoso dei testi e volto alla distruzione dell’individuo al fine di esaltare delle masse scalpitanti e fragorose.
Furono in pochi, tra questi Heiner Müller, a riconoscere fin da subito l’affascinante monumentalità del suo teatro che denuncia il naufragio dell’individuo nella moderna società di massa e si interroga attorno alla “deutsche Frage”, al problema della responsabilità storica. Creare situazioni sceniche minacciose e violente doveva servire a riportare l’attenzione su un passato tedesco non elaborato, spesso taciuto, obliato. Schleef rompe ogni tabù, noncurante delle reazioni della critica, proprio per dare una forma viva alla memoria, confrontando lo spettatore con un linguaggio verbale e corporeo marziale esacerbato e apparentemente estremizzato ma, a guardar bene, non così lontano dal clima che aveva caratterizzato quell’atroce frangente della più recente storia tedesca. Gli ammassamenti di uomini che gridano a squarciagola, all’unisono, gli onnipresenti stivali militari con cui si batte forte e ritmicamente in terra, la brutalità dei corpi nudi, altro non sono che specchio, rimembranza di un immaginario collettivo che non va dimenticato4.

Un aspetto innegabile del talento di Schleef sta nel rendere i suoi spettacoli degli eventi strazianti, percepiti come una sorta di teatro della tortura5. Tratti distintivi di queste performance, che sfidano ogni limite di sopportazione, sono la durata interminabile, lo sforzo fisico degli attori e, non da ultimo, il parlare e agire corale che inibisce qualsiasi forma di protagonismo. Basti pensare alle agguerrite madri nell’omonima tragedia costruita su una sua rielaborazione de I sette contro Tebe di Eschilo e Le supplici di Euripide, ai soldati nel Goetz von Berlichingen di Goethe(1989), ai soldati in Wessis in Weimar di Hochhuth (1993), agli esaminatori in Herr Puntila und sein Knecht Matti di Brecht (1995) o agli atleti nello Sportstück di Jelinek (1998).

Premiere di <em>Sportstück</em>, 1998 al Burgtheater di Vienna. Foto di Andreas Pohlmann
Premiere di Sportstück, 1998 al Burgtheater di Vienna. Foto di Andreas Pohlmann

Schleef persegue l’impulso di ritornare alle origini dello sviluppo del linguaggio teatrale, interrogandosi continuamente sulle possibilità di riproporre forme teatrali arcaiche e rituali6. L’impiego della violenza è da ricondursi dunque alle origini del teatro occidentale che prevedeva l’accostamento di forme espressive parlate, cantate e danzate e non poteva prescindere dalla rappresentazione dell’orrore. E proprio nel rendere esperibile questa violenza Schleef concentra la rielaborazione del momento teatrale antico. Un teatro sviluppatosi attorno al sacrificio rituale e ripetuto di un capro espiatorio, da cui scaturiva un momentaneo affiatamento della collettività, convinta di poter così esorcizzare il pericolo comune.

Osservando come all’interno del mondo culturale tedesco fossero diffusi una certa ritrosia ad occuparsi di temi scottanti e forme di rappresentazione convenzionali che respingono il coro, Schleef sottolineò come un simile atteggiamento fosse diretta conseguenza di un clima di paura cieco:

Oggi la formazione e l’utilizzo del coro vengono interpretati in modo esclusivamente politico, appartengono ad un orientamento di sinistra o di destra. L’irritazione e l’agitazione che scaturiscono dalla vista di un gruppo di persone che parlano tutte insieme, vengono percepite ormai solo come una minaccia spaventosa, che ricorda delle condizioni superate da un pezzo. (DFP/8)7

Con questo egli non intendeva certo sminuire queste “condizioni”, legate ai trascorsi della Germania nazista. Era infatti ben consapevole della potenza esplosiva intrinseca alla tematizzazione della comunità, e proprio per questo riteneva necessario elaborarla. Egli non esitò a porre il suo pubblico di fronte all’orrore vivido della violenza e seppe difendersi dalle accuse che riducevano il suo impiego di formazioni corali alla “ricreazione ed esaltazione di strutture di potere fasciste o staliniste”8. Alla critica rispose illustrando la propria visione della realtà, nella quale riconosceva strutture di coercizione e potere sia nella Germania dell’Est che in quella dell’Ovest. Strutture evidentemente proprie ad ogni tipo di società e momento storico:

La mia accentuata forma corale non è una abreazione di un passato nella DDR, né l’imitazione di marce incolonnate, giochi di guerra e adunate, ma la formulazione delle dinamiche in Occidente, la mia risposta alle azioni di polizia, agli assalti, ai saccheggi, alle manifestazioni, agli assembramenti umani cui sono esposto. Sicuramente dopo la mia fuga all‘ovest, mi scontro con questi avvenimenti da una posizione di insicurezza ancor maggiore, più sensibile rispetto a quelli di altri. (DFP/99-100)

E queste dinamiche trovano il loro posto sul palco, sono portate all’attenzione del pubblico, perché una loro negazione non porterebbe che all’illusione di averle disinnescate, mentre solo prendendo coscienza di un problema si ammette la possibilità di smascherarlo o addirittura di superarlo.

Il coro come massa appestata

Nella sua originale esegesi della storia del teatro, Schleef si unisce alle più accreditate teorie sull’origine della tragedia e rimanda il principio di ogni forma di evento teatrale all’assemblarsi spontaneo di voci in un collettivo che narra storie, commenta gli eventi, esprime delle sensazioni, prova a elargire consigli e rimane tuttavia impotente davanti a tutta una serie di accadimenti non controllabili dal volere umano. Questa entità corale mediava le paure di una collettività, assorbiva i dolori condivisi dando loro una forma attraverso canti e urla, di gioia o disperazione che fossero. Inizialmente chiunque, come espressione di uno slancio comune, poteva unirsi al gruppo coro, che divenne così una sorta di prolungamento naturale del pubblico, la voce della popolazione, della polis.

Assumendo dunque il coro come elemento fondante di una forma primordiale di tragedia, Schleef concentra gran parte delle sue riflessioni sulla minaccia volta a questo stesso elemento sin da Eschilo, che con l’introduzione di un secondo attore sulla scena mise in pericolo la sopravvivenza del personaggio corale. Questa minaccia alla voce del collettivo andò acuendosi da un tragico all’altro, a causa dell’importanza sempre maggiore che veniva riservata ai soggetti individuali nell’economia delle vicende rappresentate sullo spazio scenico. Nonostante le molte differenze – soprattutto nell’impiego del coro, laddove Eschilo componeva opere decisamente polifoniche, Euripide tendeva a lasciare sempre più spazio ai singoli protagonisti – i tre tragici di cui ci sono pervenute le opere avrebbero avuto, secondo Schleef, una caratteristica comune: l’allontanamento o la totale eliminazione della donna dal conflitto centrale (Cfr. DFP/15). E non è un caso che nella riflessione schleefiana, il progressivo allontanamento della figura corale corra parallelamente a quello della figura femminile. Una doppia emarginazione dunque, del soggetto collettivo e di quello femminile (che poi in molti casi coincidono), dei due soggetti rimossi cui Schleef dedica ampio spazio in tutti i suoi spettacoli. E se la cacciata dalla scena, che si protrae fino alla contemporaneità, è vista come la causa primaria del tramonto della tragedia greca, nell’ottica di una restaurazione di quella consapevolezza tragica così anelata da Schleef, si rende indispensabile riproporre i due elementi negati: il coro disseminato e la figura femminile per confrontarsi con il soggetto maschile dominante, da cui sono stati espulsi:

Il ricondurre la donna nel conflitto centrale, il ritorno ad una consapevolezza tragica non va inteso come un passare dalla parte delle donne, ma come un’operazione necessaria, necessaria correzione, necessaria presa di coscienza, necessarie per permettere la sopravvivenza delle forme artistiche così minacciate del teatro di prosa e musicale. Questa presa di coscienza, questa riforma del teatro ha delle conseguenze politiche, solo così diventa pensabile, con un approccio politico utopico.

Ma di fronte a questa correzione ben visibile e necessaria si pone la formazione corale maschile, che – per difendersi – non si percepisce come tale, ma di fatto sfrutta brutalmente tutti i vantaggi del formarsi a coro, recluta una comunità di caccia per controllare il territorio di dominio conquistato. (DFP/10)

In questo modo Schleef spiega la scelta di assegnare al soggetto femminile un posto così essenziale nello spettacolo. Egli si ripropone di reintrodurre i cori femminili che nell’antichità così spesso si impossessavano della scena; e anche là, dove il testo non prevede un coro o una componente femminile, egli opera una sorta di inversione di gender e incarna – in immagini femminili singole o collettive – determinate funzioni, che ricollega al femminile o meglio ad un certo scetticismo verso il soggetto femminile. Si vedano le formazioni corali in Mütter, la sensibile ma ferma Helene in Vor Sonnenaufgang, l’impavida Eva in Puntila, il coro di Grete e il Mefistofele androgino nel Faust (1990) e le moltissime figure femminili in Sportstück, a partire dall’algida madre, alla giovane donna personificata da un attore uomo in tutù, a Elettra, Cristoemi e Clitennestra, fino ad arrivare al coro delle dame barocche, al quartetto di caricaturali modelle che recitano Pentesilea e al coro di atlete che sfida verbalmente e agonisticamente quello degli avversari uomini, nella scena corale più monumentale della produzione schleefiana. E poi ci sono le “armate” di donne delle pulizie munite di guanti di gomma, scopa e secchio, che Schleef inserisce più volte qui e là nei suoi lavori scenici, come a ricordare la costante reiterazione della condizione femminile all’interno di una qualsiasi società patriarcale.

Premiere <em>Herr Puntila und sein Knecht Matti</em>1996, Berliner-Ensemble, foto Karin Rocholl
Premiere Herr Puntila und sein Knecht Matti1996, Berliner-Ensemble, foto Karin Rocholl

Sin dall’inizio Schleef è consapevole delle critiche che una simile operazione drammaturgica e di prassi scenica andrà a sollevare, soprattutto in una società dove gli elementi maschili isolati si alleano solo nel momento in cui si tratta di preservare il territorio di dominio, a prescindere che questo venga minacciato da una moltitudine mista e asessuata o da una rivendicazione di esistenza della figura femminile. Come se l’identificazione della consapevolezza tragica si fosse impressa nella memoria collettiva come “dominio della donna”, Schleef spiega la spietatezza con cui l’individuo maschile borghese ha protetto la posizione di potere presidiata per epoche davanti all’invasione di avversari creduti (o sperati) morti (Cfr. DFP/8-9). Permettere che le componenti fondanti della tragedia, dunque il coro e la donna, giungano nuovamente al centro del palco, significherebbe anche riaprire il conflitto tra individuo e comunità (Cfr. DFP/9), che rispecchia poi anche il nocciolo tragico della società moderna9. E Schleef afferma come, nonostante il suo evidente allontanamento dal palcoscenico, il coro sopravviva come entità immanente intrinseca ad ogni tipo di società. Basti osservare alcune situazioni del quotidiano, all’interno delle quali si riuniscono delle formazioni corali inconsapevoli. Nel suo ampio saggio Droge Faust Parsifal, egli porta spesso degli esempi tratti dal quotidiano per spiegare le dinamiche che crede vigessero in antichità. E afferma come questo incontrarsi – non voluto eppure necessario – di elementi che diventano parte di un tutto rimanga attuale, a prescindere dalle epoche storiche; un procedimento che Schleef considera naturale e inevitabile.
Uno degli esempi più significativi è quello del parco davanti al teatro dell’opera di Francoforte, dove ogni giorno si formano spontaneamente diversi tipi di coro, tra cui il coro dei tossicomani, della polizia che produce vittime, di coloro che dalla polizia vengono inseguiti (DFP/18). In questo tipo di assembramento Schleef riconosce le stesse dinamiche che si applicavano nel teatro antico sulla Skené, “davanti ai cancelli del Palazzo”, laddove Palazzo è iperonimo di un centro di potere, l’involontario eppure indispensabile incontro di elementi che si associano in un’unità. Un processo, cui agli occhi di Schleef si può assistere ovunque e in qualsiasi momento, eternamente attuale.

Osservando le modalità con cui si creano questi collettivi, Schleef nota come l’assunzione di una qualche forma di droga sia un elemento indispensabile per unirsi a gruppo. La droga è la chiave d’accesso al senso di appartenenza. Poiché, come ricorda Burkert, l’estasi dionisiaca (che Schleef associa al moderno essere sotto effetto di droghe) non sarebbe la reazione di un singolo, ma un “fenomeno di massa” dall’effetto contagioso10. Assumere droga in gruppo significa non essere più soli, ma entrare a far parte di un collettivo.
Schleef mette sullo stesso piano la moderna assunzione di droghe e l’ebrezza antica cui ci si abbandonava in nome di Dioniso. Sia nell’uno che nell’altro caso, lo stato dell’essere “fuori di sé” (ek-stasis), soprattutto se in gruppo, spinge a comportamenti rabbiosi e incontrollati, a cui Schleef tenta di dare una forma scenica con le sue formazioni corali massicce, che sul palco sbraitano, corrono da una parte all’altra fino allo sfinimento, pestano i piedi.
La carica aggressiva della messinscena schleefiana riporta dunque ad un tipo di teatro arcaico che nasce a stretto contatto con il sacrifico di una vittima e, un po’ come in quello di Schleef, esponeva l’esagerazione sessuale ed emozionale e mostrava il terrore di una collettività11. La ritualità dell’evento teatrale, che si compiva in relazione ad una situazione ripetuta in cui i partecipanti venivano coinvolti in modo molto intenso, aveva la funzione di delineare il pericolo da cui la collettività era costretta a difendersi con l’espulsione di una vittima12.
Naturalmente, le situazioni così strettamente intrecciate al mito, che coinvolgevano il pubblico ateniese del V sec. a.C., non sono più attuali: il legame con le divinità è spento. Eppure, Schleef percepisce che nella società odierna il voler appartenere ad un gruppo è una necessità. E Schleef trova che oggi più che mai si possa sentir risuonare quel “grido per la comunità”13, anche se   rimane il più delle volte illusorio, poiché le formazioni corali che si raggruppano in circostanze sempre nuove non si uniscono mai in una vera unità solidale14.
Viene dunque a formarsi un’entità ambigua in cui non si riconoscono più dei singoli individui, né si scorge un collettivo pienamente saldo. È questo essere a più teste, laddove i singoli si cercano l’un l’altro e allo stesso tempo si scansano, che Schleef identifica come “appestato”:

Il coro antico è un’immagine spaventosa: figure che si ammassano, in piedi, serrate tra di loro, cercano protezione reciproca, pur respingendosi a vicenda con energia, come se la vicinanza di altre persone appestasse l’aria. In questo modo il gruppo è compromesso già in sé stesso […] accetta una vittima necessaria, la espelle per riscattare la propria libertà. Nonostante il coro sia consapevole del tradimento, non corregge la sua posizione, piuttosto pone la vittima nella posizione del colpevole. (DFP/14)

E a detta di Schleef questa malattia è tangibile: basterebbe osservare la quotidiana procedura del salire o scendere dalla metro (Cfr. DFP/13). Qui, senza volerlo, si raggruppano masse di persone che in modo naturale si dividono tra coloro che entrano o escono, entrambe le frazioni vengono sopraffatte dal panico, temono di essere schiacciate e agiscono d’anticipo, respingendo la frazione opposta. Questa isteria accresce il caos, causa intoppi e ritardi. Eppure, la massa malata è come incontrollabile, come fosse sotto l’effetto di stupefacenti, e non può essere portata a ragione.
È importante considerare che quando Schleef parla di malattia, non si riferisce ad un coro specifico ma al coro in quanto tale: “ogni qualvolta una massa sale sul palco, questa è malata” (DFP/274). Per quanto gli autori antichi maneggiassero i loro cori in modo diverso, concedendo loro più o meno spazio all’interno dell’economia del testo, questa sorta di “malattia indeterminabile” sarebbe una costante comune.

La massa appare malata fin dall’inizio. Come se l’attrupparsi portasse con sé l’odore di marcio, come se già l’attruppamento fosse la peste stessa. (DFP/274)

E questo, per Schleef, non cambia nel corso dei secoli; la condizione di “appestato” non è una caratteristica esclusiva del coro antico. Le dinamiche malate tra gruppi e all’interno dei gruppi stessi si reiterano continuamente e possono includere estremi completamente differenti, dai “milioni di non-bianchi, i morti di fame o richiedenti asilo”, fino a coloro che semplicemente “la pensano in modo diverso” (DFP/14): tutti vanno annientati, senza distinzione. La malattia si irradia dall’interno e si propaga a dismisura.

Premiere di Sportstück, 1998 al Burgtheater di Vienna. Foto di Andreas Pohlmann
Premiere di Sportstück, 1998 al Burgtheater di Vienna. Foto di Andreas Pohlmann

Di nuovo Schleef rimanda ad un caso di vita quotidiana: basterebbe passeggiare per le strade di Berlino per assaporare la follia che si scatena a causa della separazione di quello che può essere considerato un ensemble di moderne divinità. Si riferisce qui all’isteria che vide dilagare in Europa, in seguito all’annuncio della fuoriuscita dal gruppo del leader dei Take That15. Schleef descrive questa situazione di crisi con ironia pungente; eppure, la prende ad emblema per confutare il suo concetto di assemblaggio di una formazione corale. La “massa ululante” di ammiratori subisce una rottura, la perdita dell’eroe le sembra insuperabile, ma il lutto generale porta a stringersi in modo ancora più serrato l’uno all’altro. La malattia funge da collante. Per dirla con Burkert, questo significherebbe che un dio c’è ancora ed è circondato da uno sciame di seguaci forsennati16. E se la massa si mostra malata fin dall’inizio, questa malattia è da ricollegare ad una “debilitazione originaria”17, intrinseca al dissidio della pluralità nell’unità e, viceversa, a quello dell’univocità nella polifonia. Non si ambisce ad una collettività ideale rappresentata in forma di coro; che sia desiderata o subita, “l’appartenenza di ogni singolo” non è che una condizione naturale; e l’inevitabile “attruppamento” di singoli viene di per sé diagnosticato come peste (Cfr. DFP/377).
Per quanto appestata, almeno agli albori dello sviluppo del genere della tragedia, questa collettività eterogenea eppure unitaria dominava sull’individuo, che veniva sacrificato ed espulso ai fini di preservare il tutto. Con Euripide questo equilibrio subì un capovolgimento definitivo. Il gioco di ruoli in vigore fino a quel momento si ribaltò per lasciare che l’individuo conquistasse definitivamente il posto centrale nella trama e sul palco, mantenendolo di fatto fino ad oggi, a discapito del coro.

Il coro emarginato davanti al Palazzo

L’attenzione con cui Schleef osserva le dinamiche sociali attorno a sé mostra come questo ribaltamento della costellazione antica, che con il tempo ha portato all’espulsione del coro, sia ancora produttivo. L’immagine emblematica a cui rimanda è quella delle grandi masse della DDR, riunite ad Alexanderplatz per ascoltare con sottomissione le prediche che i politici tenevano dall’alto dei loro podi (Cfr. DFP/275).  Anche in questi comizi scorge il riflesso dell’antica massa appestata, che usava riunirsi davanti al palazzo in attesa passiva. Eventi come questi sarebbero dimostrazione del perdurare di una costellazione antica incorreggibile. E questo confermerebbe a sua volta come il permanente allontanamento forzato della figura corale dal teatro possa solamente simularne la morte, palesando in realtà “il rammollimento e la decadenza del teatro borghese” (DFP/275).  Senza grandi distinzioni, Schleef afferma che la tradizione del teatro europeo, per evitare pericolosi scontri politici, ha semplicemente soppresso ogni forma di relazione con coro e massa. La presenza di un collettivo sulla scena potrebbe inficiare l’autorità del soggetto individuale; e, per questo, viene espulso preventivamente, rimanendo tuttavia latente. Di fatto, studiosi ed esegeti del teatro antico si concentrano sul destino degli individui, degli eroi, senza considerare che la tragedia dell’individuo derivi proprio da fattori quali “la frattura, lo scioglimento del coro, la separazione di coro e figura singola” (DFP/276).
È già stato accennato alle riflessioni riguardanti la doppia espulsione di soggetti collettivi e femminili. Qui si apre ora un terzo livello di espulsione, ovvero quello dell’espulsione reciproca. Il coro è sia espulso che espellente. Da una parte, già a partire da Eschilo, con l’affermarsi dell’individuo sulla scena esso viene spinto sempre più in secondo piano, fino a rimanere solo un vago ricordo. Appartiene tuttavia in qualche modo al “paesaggio scenico” e rimane dunque celato; di tanto in tanto si raduna nuovamente davanti al palazzo, dove cerca di riaffermare la sua presenza, ma viene respinto brutalmente da coloro che lo abitano.
Dall’altra, non va dimenticato come, nella visione schleefiana, il coro si sia macchiato attivamente di espulsione. In un tempo in cui il collettivo corale poggiava ancora sull’illusione di un’unitarietà interna e proprio per preservare questa unitarietà, doveva sacrificare delle figure singole, che con il loro impulso all’autoaffermazione mettevano in pericolo la comunità:

La tragedia antica definisce lo sfacelo dello “Stato” e della popolazione, che comprende tutti gli altri agenti, descrive come questa non sia più in grado di tener testa al carico che la sovrasta dall’esterno, e si spezza. Il senso di appartenenza e di responsabilità reciproca vengono abbandonati, ormai solo di peso, come dei connotati di cui ci si deve disfare in fretta. L’individuo patisce questa perdita sulla scena davanti al Palazzo. (DFP/18)

A sua volta, il soggetto bramoso di individualizzazione fuoriesce dalla folla, la respinge per crearsi uno spazio vitale e allo stesso tempo si auto espelle, consapevole di andare incontro all’emarginazione. Tanto il coro quanto l’individuo sarebbero minacciati dallo sgretolarsi di una società, che costringe entrambe le fazioni ad agire per salvaguardare la propria esistenza. La massa viene esortata alla scissione, per mettere in moto “la deriva della democrazia”, che ha l’aspetto di una decisione controllata dall’alto, a sua volta funzionale al mantenimento di questo potere committente (Cfr. DFP/18f.). Questo è evidente nella messinscena di Puntila, in cui l’autoritario possidente, interpretato dallo stesso Schleef, incarna una sorta di legge suprema, una gerarchia universale, che si riconferma in tutte le innumerevoli sfaccettature. Questo ordine – che potrebbe stare per l’istituzione teatrale, per una prospettiva ideologica, per una comunità, un credo, o per una generalizzata “legge del più forte”18 – ha sempre un solo obiettivo: la sottomissione, il sacrificio dell’uno, del soggetto.
L’innominato potere cui accenna Schleef è metafora dell’istituzione, dello Stato, di ciò che sta “dentro il Palazzo”; e questo non può dimostrarsi giusto nei confronti della massa, dei “proletari della strada” (DFP/19), né verso l’individuo eroico, che per quanto se ne dissoci, riconosce la presenza di un soggetto collettivo come fondamentale, proprio per la conservazione della propria individualità.
Il meccanismo ambiguo di espulsione forzata e fuoriuscita volontaria si mostra dunque come necessaria compensazione di un rapporto di interdipendenza. Anche in relazione a questo aspetto dell’espulsione plurima Schleef traccia un ponte tra antico e moderno, poiché scorge una corrispondenza della costellazione antica in quella contemporanea.
Osservando i rapporti intrecciati tra soggetti individuali e collettivi, che si alternano nella conquista della posizione dominante e si espellono l’un l’altro, Schleef definisce il palco della tragedia come “SCENA DAVANTI AL PALAZZO” (DFP/475). Come condizione fondante per l’esistenza della tragedia stessa, viene dunque posto il gioco di potere tra soggetti singoli e polifonici che si alternano, si radunano in un luogo pubblico, “nel vuoto, nel non-luogo delle comunità”19, all’aperto, davanti ai cancelli del palazzo del potere, senza potervi accedere. Non appena la trama, le azioni, si spostano all’interno di quel palazzo e iniziano a snodarsi nelle stanze private, non esiste più tragedia. Essenza della tragedia è per Schleef il conflitto tra individuo e comunità; e se questo viene meno, l’evento tragico diventa dramma borghese.

Il conflitto tra individuo illusorio e comunità

Come già menzionato, Schleef insiste sul concetto di interdipendenza tra singolo e coro, individuo (o meglio vittima) e comunità. L’uno è indispensabile per l’esistenza dell’altro; eppure questa relazione può poggiare esclusivamente sul reciproco respingersi e sul perpetuarsi di una violenza reciproca, senza possibilità di riconciliazione. È questo ad esempio il caso di Puntila e Matti, che nella messinscena schleefiana tentano di annientarsi a vicenda, eppure si ritrovano sempre legati. In questa dipendenza bilaterale e inconciliabile Schleef legge un ulteriore richiamo al rapporto tra individuo e collettività; e mette in scena il proprietario terriero Puntila come un soggetto singolo e il servo Matti in forma corale. E questa coralizzazione potrebbe celare un’allusione al fallimento del modello di società ambito da Brecht20: se infatti il Matti brechtiano voleva essere un individuo intelligente e autodeterminato, il collettivo di servi – dal comportamento quasi bestiale che ci propone Schleef –  risulta riprovevole quanto il padrone e, di fatto, non riesce a ribellarsi all’autorità, ma anzi si prostra al signore dispotico.

Premiere <em>Herr Puntila und sein Knecht Matti</em>1996, Berliner-Ensemble, foto Karin Rocholl
Premiere Herr Puntila und sein Knecht Matti1996, Berliner-Ensemble, foto Karin Rocholl

Si innesca così un circolo vizioso che ricorda l’idea di ambivalenza immanente21, con cui René Girard allude al delitto commesso con l’uccisione di una vittima sacra, poiché la vittima non sarebbe sacra, se non venisse uccisa22.
Schleef mostra come l’irrisolvibile rapporto singolo/coro si basi su un’appartenenza consapevole, per quanto non voluta, e allo stesso tempo sull’espulsione da parte del coro. Ogni singolo che dall’interno del coro tenta di individualizzarsi viene emarginato; il coro non permette individuazione, perché questa significa, parafrasando Nietzsche, “fonte e principio di ogni patimento, qualcosa di deprecabile in sé”23.
Ed è proprio in questa ricerca di individualità e conseguente emarginazione dal coro, nella disintegrazione dell’appartenenza, che Schleef vede il nucleo della tragedia antica. Questa ruota attorno al destino vacillante della comunità che lotta per la sopravvivenza; unendosi in un’entità aggressiva, si definisce attraverso la “partecipazione al sanguinario operato maschile”24. Perché dalla prima reazione a questa minaccia, che si esterna solitamente con la paura, scaturisce un forte istinto di autoconservazione, che mette in moto un meccanismo del “tutti contro uno”25. Lo schema descritto da Girard parte dal presupposto dell’esercizio collettivo della violenza, che si ripercuote sull’espulsione se non addirittura sull’uccisione della vittima. Questa violenza va canalizzata, affinché non esploda in modo incontrollato e la massa si convinca quindi della colpevolezza di un capro espiatorio. I componenti di questa folla si imitano a vicenda; nel rispettivo desiderio di sottomissione trovano la possibilità di superare la crisi e ristabilire una pace, almeno temporanea. Seguendo Girard, la difesa del bene comune giustificherebbe dunque il linciaggio; e attraverso l’annientamento dello Skandalon, cioè dell’ostacolo, la comunità si sentirebbe di nuovo al sicuro26.
Per quanto l’interpretazione che Schleef dà delle società coincida in diversi punti con quella di Girard, se ne differenzia tuttavia in un aspetto fondamentale: se quest’ultimo vuole dimostrare l’innocenza e la passività del capro espiatorio27, Schleef pone invece la vittima come soggetto autodeterminato che avvia consapevolmente un processo di individualizzazione, esponendosi con altrettanta consapevolezza all’espulsione. L’individuo osa alzare la voce, non vuole restare anonimo e si contrappone alla comunità. E questo non è ammissibile, poiché la massa è in realtà troppo debole e non saprebbe relazionarsi ad un tale interlocutore, per cui la soluzione più sensata sembra essere quella di sopprimere il problema. Chi si macchia di hybris viene punito con il sacrificio, che in quest’ottica appare non solo come un provvedimento legittimo ma anche accettato volontariamente dalla vittima stessa.

Un’immagine molto concreta di ciò che Schleef intende per il conflitto perpetuo e insanabile tra individuo e massa, ci viene da due spettacoli di cui si farà qui solo un breve accenno.
Per la messinscena dell’Ur-Götz nella sala rettangolare del Bockenheimer Depot a Francoforte (1989), Schleef ideò una sorta di passerella, che dal palco divideva in due la sala degli spettatori, caricando quest’ultima di un forte significato simbolico, che a grandi linee alludeva alla divisione sociopolitica ideale e fisica dei diversi gruppi di persone all’interno di una qualsiasi società. Questo “dispositivo architettonico” voleva rispecchiare la ricezione schleefiana del dramma tedesco, in cui si provvede al mantenimento dell’ordine gerarchico vigente e si respingono elementi minacciosi28.
Nella presentazione della messinscena, Schleef afferma che Goethe non intendeva certo offrire una cronaca della rivolta contadina del 1524, ma voleva porre al centro del suo dramma l’ambigua figura di Gottfried von Berlichingen, andandosi a scontrare con le convenzioni teatrali vigenti in quell’epoca. Berlichingen deve infatti destreggiarsi tra i vecchi ideali cavallereschi non più riconosciuti e le nuove regole borghesi, per poi infine morire rassegnato come tutti gli altri29.
Günther Heeg vede nell’interpretazione di Schleef un nuovo modo di approcciare al protagonista, che non viene mostrato come il “ribelle di sinistra” 30, piuttosto come un “ribelle dell’ordine”, che in fondo porta avanti quella facoltà tedesca al mantenimento di una società prestabilita. Questa viene qui tenuta insieme dalla confraternita di soldati asserviti ad un potere superiore, che di fatto non contribuiscono all’affermarsi di una società libera. E qui è evidente il rimando schleefiano alla moderna società tedesca, dove la “marcia trionfale dei guerrieri capitalisti solitari appare inarrestabile”31 e la riuscita di una società composta da individui che collaborano non rappresenta una possibilità realistica.
Nella messinscena schleefiana i seguaci di Berlichingen indossano la stessa uniforme dell’armata imperiale, proprio per sottolineare come qualsiasi forma di rivendicazione di potere si concluda allo stesso modo, a prescindere dalla natura esemplare dell’ideale di partenza: a prescindere da quale parte giunga l’offensiva, sia che si tratti di un’oppressione dei sottoposti dall’alto oppure di moti rivoluzionari che tentano di rovesciare il regime vigente. Non appena viene assunta una posizione di guida – “in nome dell’individuo o del collettivo”32– e le strutture di potere si ripetono sempre uguali. I contadini rivoltosi sul palco di Schleef non vengono dunque idealizzati, ma si mostrano come “uomini abietti”33, la cui brutalità si evince dal parlare e dai movimenti scanditi.
Potere chiama violenza, e la sottile linea di confine tra l’essere vittima e oppressore si ribalta facilmente; per Schleef non si tratta che di un automatismo inesorabile. Da questo presupposto Schleef rilegge la storia della rivoluzione tedesca e riscopre nel Götz di Goethe l’evidente smascheramento della libertà individuale, come utopia irrealizzabile. Solo in punto di morte, infatti, Götz intravede l’agognata libertà. Neanche un’indole così straordinaria come quella di Götz riesce ad affermarsi nel suo essere individuo e rimane solo. Ancora una volta, è palese come il gioco di alternanze tra l’individuo isolato dalla rottura del coro ed il collettivo impossibilitato a costituirsi come unità armonica non possa vedere un vincitore. Si ripete sempre lo stesso circolo vizioso, in cui l’individuo viene espulso dalla comunità intimorita e questa a sua volta è destinata a soccombere, senza l’intercessione di una guida che combatta per lei.
Anche la messinscena di Vor Sonnenaufgang rimanda costantemente all’irrisolvibile conflitto individuo/comunità. Il dramma narra le vicende di una famiglia contadina arricchita che, dimentica delle proprie umili origini, conduce uno stile di vita dissipato e immorale e fa uso sfrenato di alcool per sopperire al vuoto esistenziale. La secondogenita Helene vorrebbe salvarsi da quella che sembra essere una malattia di famiglia e Loth, amico di lunga data del cognato, si presenta inizialmente come suo redentore. Nel testo, la massa che continua a starsene fuori da casa Krause non ha battute verbali, ma in modo subliminale è sempre presente, quanto meno come oggetto di riflessione di alcuni protagonisti, che si interrogano sulle condizioni della vita contadina. Anche qui, Schleef trova il modo di rendere il dramma un campo di battaglia sul quale si alternano individuo, collettivo e massa, senza che nessun soggetto possa dirsi vincitore.
Per tutta la durata dello spettacolo il palco rimane cupo, come a sottolineare la situazione senza speranza. La degenerata famiglia Krause è emblema di un’intera società, che a causa della progressiva industrializzazione non produce altro che un diffusa “devastazione umana”34 e non lascia alcuno spazio a solidarietà o empatia. Schleef evita ogni tipo di psicologizzazione, non ci presenta degli individui ma dei tipi, dei modelli umani riutilizzabili; nessuna unicità, perché la miseria d’animo è generalizzata.
Anche se non si vedono i corpi, si percepisce la presenza della massa, la si sente battere i piedi fuori dal palco, mentre cerca di ribellarsi all’eterna marginalizzazione e attirare l’attenzione su di sè. Nell’ultima scena – quando la governante trova il cadavere di Helene, invece del padre ubriaco – Schleef fa irrompere un gruppo di figure non meglio riconoscibili, che rappresentano proprio quella folla fino a quel momento bandita/verbannt al di fuori della scena. Queste figure sono mute, eppure con i loro movimenti ritmici e battenti riescono a farsi sentire, al di sopra del tintinnio dei calici di Champagne della famiglia Krause. Schleef sembra voler permettere una sorta di rivalsa ai contadini che, affiancati ai dissoluti arricchiti, non fanno che sottolinearne la miseria d’animo altrettanto spaventosa. Non è che una magra consolazione, perché la consapevolezza della miseria dell’altro non solleva dalla propria. Di nuovo, si vedono sconfitte tutte le parti, Helene e Loth compresi, senza distinzione.
E questo ci riporta al Götz. Qui si incontra una scena esemplare per comprendere meglio il rapporto ambiguo e insanabile tra singolo e collettivo: si tratta della brevissima scena Wald an einem Morast35 nel terzo atto dell’opera. Qui si incontrano due paggi in fuga da Götz; l’uno è ancora fedele all’armata imperiale e vuole portare del pane al suo ufficiale; l’altro si è astratto da tutto. Sentendo dei rumori, l’uno si arrampica su un albero e l’altro affoga nella palude, suscitando il riso del primo, che lo definisce un vigliacco e poi viene acciuffato dagli uomini di Götz.
Schleef interpreta questa scena come fondamentale per il teatro epico36 e le dedica un’attenzione particolare. Per “epico”, intende dire che Goethe ha qui concepito una situazione che non permette di provare simpatia per l’uno o l’altro personaggio, né di identificarsi. La reazione poco solidale del paggio (che non mostra alcuna compassione per la sciagura di un compagno ma anzi se ne compiace, finché non arriva il suo turno) ci viene mostrata come esemplare del destino di una qualsiasi società: Schleef non vede alcuna via per una convivenza collegiale e solidale.
Sul palco si vedono due uomini soli al centro della passerella, che incarnano le singole vittima di guerra37, mentre i due fronti militari – i soldati dell’imperatore e i cavalieri di Berlichingen – si posizionano agli estremi opposti della stessa passerella e osservano la fine dei due individui; fino a quando non irrompono nello spazio scenico e mettono in atto quell’usurpazione violenta del potere, che porta con sé ogni guerra38. Lo spettatore viene travolto dalla foga degli attori, la violenza scenica è stata traslata nella realtà, è diventata tangibile. La distruzione dell’individuo è giunta a compimento per mano di due raggruppamenti apparentemente nemici, che nell’attacco all’individuo da distruggere si dimostrano identici nella loro essenza violenta.

Nella costante problematizzazione del conflitto, Schleef si astiene da ogni tipo di giudizio, la sua intenzione non è quella di prendere le difese del coro o dell’individuo. Non fa una questione ideologica di questo agone tra le due componenti; ciò che gli interessa è solo portare alla luce le criticità e decostruirle in tutte le loro sfaccettature. Egli percepisce e mette in scena il quotidiano processo del sacrificio da parte della collettività, senza sostenerne la legittimità, né osannando la massa come soggetto esemplare. Il suo teatro non propone soluzioni, si tratta piuttosto di un “teatro del conflitto”39  il cui scopo risiede nella teatralizzazione di situazioni di ostilità tra coro e figure individuali40. I due poli vengono illustrati separatamente e si insiste sulle debolezze di entrambi: così come la massa è malata e testarda, non esiste neanche l’esaltazione dell’individuo41.
Le due componenti vengono smascherate in quanto elementi complementari che non esistono l’uno senza l’altro, eppure non trovano la via per una convivenza armonica. E questa polarità rimanda chiaramente alla lettura che Nietzsche dà della tragedia antica come campo di tensione tra Apollineo e Dionisiaco. Con la differenza che Schleef non ammette la possibilità di una riconciliazione tra i due elementi, rimane scettico e insiste sulla loro insanabile contraddittorietà, come presupposto per l’esistenza del genere tragico in sé.
Che egli non offra mai un modello di “massa positiva” dipende dalla consapevolezza del carattere utopico che è tipico dell’idea di una vera e propria comunità, intesa come gruppo di persone che si sostengono a vicenda, condividono degli ideali positivi e ambiscano ad uno scopo comunitario costruttivo – tanto nel teatro antico quanto in quello contemporaneo e, per estensione, nella società nel suo insieme. Nei raggruppamenti o attruppamenti di persone, Schleef legge piuttosto una sorta di istinto di sopravvivenza, che scaturisce da una paura della solitudine, come dalla terribile presa di coscienza, dell’incapacità di un agire autonomo.  Da qui la necessità di cercare rifugio in un’entità sovra individuale, di immergersi in essa e in essa dissolversi. In altre parole, la necessità di tornare in uno stato dionisiaco e permanervi senza identità42.  E chi si abbandona a Dioniso “deve rischiare di rinunciare alla sua identità borghese e ‘diventare folle’”43, perché Dioniso incorpora l’idea di un’identità non rigida ma molteplice, che ibridizza qualsiasi forma di diversità44.
E l’esperienza dionisiaca presuppone il fuoriuscire dalla propria persona, un’estasi che spinge fino all’ossessione e alla follia. O alla malattia, come preferisce dire Schleef, alla condizione di “appestato”, di cui è veicolo la droga. Questa condizione di annebbiamento spirituale e sensoriale che al primo impatto può essere scambiata con una liberazione dalle catene della società, rischia di scadere rapidamente in un comportamento feroce. L’individuo si abbandona alle pulsioni della collettività, che in quanto assemblaggio indistinto di persone diventa facilmente governabile. Se poi le redini di una simile orda sono in mano al Dio del linciaggio45, il passo verso la violenza è quanto mai immediato.

Pur non prendendo le difese della collettività e dunque del coro, Schleef riconosce tuttavia a questo soggetto una certa onestà o almeno consapevolezza nella percezione di sé. La massa è cosciente della malattia, non la nega, anzi la accetta e non vuole sottrarsi alla follia dionisiaca. Al contrario, l’individuo (che nel processo di individualizzazione combatte una battaglia contro la stessa malattia) mente (Cfr. DFP/277). Da questo punto di vista dunque, l’individuo borghese, altezzoso e convinto della propria autodeterminazione, non fa che illudersi. E Schleef lo provoca, chiedendogli quanto senso abbia “pensare autonomamente, se non si tratti piuttosto di un inganno, se individualità, non significhi in fondo conformità” (DFP/180). Ipotesi che Lehmann integra come segue: “Con-form-ità, identità della forma con la massa, conformismo, pseudo-individualità”46. Quindi, in fin dei conti: menzogna.

Premiere <em>Herr Puntila und sein Knecht Matti</em>1996, Berliner-Ensemble, foto Karin Rocholl
Premiere Herr Puntila und sein Knecht Matti1996, Berliner-Ensemble, foto Karin Rocholl

Eppure Schleef non è sprezzante neanche nei confronti di questo individuo illusorio; semplicemente, anche qui, ne mette in dubbio la possibilità di esistenza. Per quanto il singolo possa combattere per la legittimità della propria individualizzazione, è destinato alla sconfitta, perché la malattia logora da dentro e non può essere repressa (Cfr. DFP/277).
Con ciò, Schleef intende in fondo che, per quanto l’uno cerchi di affermarsi con un’esistenza autonoma, sia poi costretto per natura a ricadere nelle dinamiche corali che stanno alla base della tragedia.
Se agli albori della tragedia antica era forse possibile ricreare un’unitarietà delle diverse sfere, già a partire da Euripide questo diventa sempre più difficile, fino a che sulle scene del teatro europeo non si fa spazio lo pseudo individuo che espelle il coro. Questa modalità cancella ogni “consapevolezza tragica”, che poggia proprio sul rapporto di interscambio tra coro e individuo. Cosciente di questa perdita, Schleef dedica gran parte del suo lavoro alla ricerca di possibilità, per reinserire il coro all’interno dell’agire teatrale e restituire così al primo protagonista del genere tragico lo spazio d’esistenza che gli è stato così a lungo negato.

  1. Il presente contributo è frutto della rielaborazione di una parte della tesi dottorale Chor-und Weiblichkeitsfiguren bei Einar Schleef: die verdrängten Protagonisten des tragischen Konflikts. Relatori: Maria Carolina Foi e Günther Heeg. Dottorato in cotutela con le Università di Udine e Lipsia.
  2. Cfr. L’introduzione di Miriam Dreysse, Szene vor dem PalastDie Theatralisierung des Chors im Theater Einar Schleefs, Peter Lang Verlag, Frankfurt/ Main 1999.
  3. Peter Iden nella Frankfurter Rundschau, 24.2.1986.
  4. Cfr. Carl Buchner, „Einar ‘zu Hause’“, in: Einar Schleef. ArbeitsbuchTheater der Zeit, Berlin 2002, p. 149.
  5. Verena Auffermann nella Süddeutschen Zeitung, 21.4.1989.
  6. Ibid.
  7. Tutte le citazioni tratte dal saggio di Einar Schleef, Droge Faust Parsifal, Suhrkamp, Berlin 1997, sono state tradotte dalla redattrice e saranno indicate con la sigla DFP seguita dal numero di pagina.
  8. Dreysse, Szene vor dem Palast, p. 14.
  9. Al rapporto di Schleef con la figura femminile, i suoi esperimenti nel riposizionarla al centro del conflitto tragico, le riflessioni che ne scaturiscono e le conclusioni che egli trae dai suoi stessi tentativi, sono stati dedicati due ampi capitoli della tesi dottorale. Qui si voleva solamente introdurre brevemente il secondo grande protagonista dell’estetica teatrale schleefiana.
  10. Cfr. Walter Burkert, Griechische Religion der archaischen und klassischen Epoche, Verlag W. Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln, Mainz, 1977, pp. 251-2.
  11. Lehmann, “Theater des Konflikts”, p. 43.
  12. Ibid. Qui è evidente un richiamo alle teorie di Girard, cui si accennerà più avanti.
  13. Cfr. Günther Heeg, „Einsamkeit. Schnittstelle“, in: Krieg der Propheten – Zur Zukunft des Politischen II, Hg. V. Thomas Oberender, Alexander Verlag, Berlin 2002, p. 56.
  14. Si veda a questo proposito Walter Benjamin, Ursprung des Deutschen Trauerspiels, in: Ders. Werke und Nachlaß Kritische Gesamtausgabe, hrsg. von Burkhardt Lindner unter Mitarbeit von Simon Broll und Jessica Nitsche, Band 6, Suhrkamp, Berlin 2012, p. 98: “Ognuno rimane per sé, ognuno rimane un sé. Non si forma alcuna comunità.”
  15. Cfr. Dfp/277 dove Schleef si riferisce alla più celebre boyband degli anni ’90.
  16. Walter Burkert, Griechische Religion der archaischen und klassischen Epoche, Verlag W. Kohlhammer, Stuttgart Berlin Köln Mainz 1977, p. 252.
  17. Hans Thies-Lehmann, “Theater des Konflikts”, p. 51.
  18. Schleef nella conversazione con Alexander Kluge, Der Feuerkopf spricht, p. 66.
  19. Günther Heeg, „Einsamkeit. Schnittstelle“, p. 56.
  20. Dreysse, Szene vor dem Palast, S. 62.
  21. Cfr. René Girard, La violenza e il sacro, p.13. Girard fa riferimento all’intervento di Henri Hubert e Marcel Mauss, Essai sur la nature et la fonction du Sacrifice (1968).
  22. Cfr. Ibid.
  23. Friedrich Nietzsche, Die Geburt der Tragödie aus dem Geiste der Musik, in: Werke. Abt. 3, Bd. 1. Kritische Gesamtausgabe, Hrsg. Giorgio Colli, Volker Gerhardt, Wolfgang Müller-Lauter, De Gruyer, Berlin 1972, qui p. 72 (§10).
  24. Walter Burkert, Homo Necans, Interpretation altgriechischer Opferriten, De Gruyter, Berlin New York 1972, p. 28.
  25. Cfr. René Girard, La vittima e la folla, violenza del mito e cristianesimo, Santi Quaranta, Treviso 1998, p. 41.
  26. Cfr. ibid., p. 53.
  27. Girard porta l’esempio del mendicante che viene additato come untore e tenta di non dare nell’occhio per non infervorare ulteriormente la folla, per dimostrare l’innocenza e la passività del capro espiatorio. Questo verrebbe scelto in modo casuale dalla folla, a prescindere che la scelta sia giusta o meno perché c’è la necessità di una vittima e in questo caso il fine giustifica i mezzi.
  28. Cfr. Dreysse, Szene vor dem Palast, p. 76-77.
  29. L’introduzione è reperibile all’interno del materiale dello Schleef Archiv di proprietà della Akademie der Künste Berlin, collocazione: Schleef 1706.
  30. Heeg in una conversazione con Wolfgang Storch, B.K. Tragelehn, Karl Kneidl e Georges Froscher sulla messinscena di Götz. Reperibile nello Schleef Archiv der Akademie der Künste Berlin, collocazione: Schleef 1720.
  31. Heeg, „Chorzeit. Sechs Miniaturen zur Wiederkehr des Chors in der Gegenwart“, in: Theater der Zeit 4/2006, pp. 18-23.
  32. Dreysse, Szene vor dem Palast, S. 183.
  33. Schleef und Müller-Schwefe, Bozza del programma, Archiv AdK, collocazione: Schleef 1706.
  34. Günther Rühle nell’introduzione alla messinscena di Vor Sonnenaufgang, Programmheft Schauspiel Frankfurt 10/1986-87, Archiv der AdK, collocazione: Schleef 1674.
  35. Dalla lettura comparata delle tre edizioni del Götz si evince come nell’ultima versione – la rielaborazione scenica per il Teatro di Weimarer, che almeno ai tempi di Goethe fu la versione più utilizzata – questa scena sia stata eliminata completamente. Cfr. Jakob Baechtold, Goethes Götz von Berlichingen, p. 102 e seg.
  36. Schleef e Müller-Schwefe, Textentwurf für Programmheft, Archiv AdK Signatur: Schleef 1706.
  37. Dreysse, Szene vor dem Palast, p. 184.
  38. Ibid.
  39. Cfr. Lehmann, „Theater des Konflikts“, p. 44
  40. Cfr. Christina Schmidt, Tragödie als Bühnenform: Einar Schleefs Chor-Theater, Transcript, Bielefeld 2010, p. 17.
  41. Cfr. Lehmann, „Theater des Konflikts“, p. 44.
  42. Cfr. Massimo Fusillo, Il Dio ibrido, Dioniso e le „Baccanti” nel Novecento, Il Mulino, Bologna 2006.
  43. Walter Burkert, Griechische Religion der archaischen und klassischen Epoche, p. 252.
  44. Cfr. Fusillo, pp. 10-13.
  45. René Girard, La vittima e la folla, violenza del mito e cristianesimo, p. 70.
  46. Lehmann, „Theater des Konflikts“, p. S. 49.
Author

Linn Settimi è nata a Roma, dove ha studiato Letteratura tedesca all'Università Roma Tre, laureandosi con una tesi sul teatro della drammaturga tedesca Dea Loher. Ha appena terminato un Dottorato in Germanistica e Scienze del Teatro presso le Università di Trieste e Lipsia.