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n. 5 – aprile 19, Teatro

Asini grandi e piccoli

Una conversazione con il regista Anatolij Vasil’ev di Dmitrij Volček

per citare questo articolo usa

https://doi.org/10.47109/0102250101

Steel video da «Asino» di Anatolij Vasil’ev, presentato all'International Film Festival Rotterdam 2018.

traduzione dal russo di Alessio Bergamo.
originariamente pubblicato in russo in: Dmitry Volček, Ослы большие и малые. Разговор с режиссером Анатолием Васильевым, svoboda.org

ABSTRACT

Prendendo spunto dalla presentazione di Asino, primo lungometraggio dell’eminente regista di teatro Anatolij Vasil’ev, l’intervistatore interroga il Maestro su alcuni aspetti del film(che è interamente girato in Italia), sulla situazione del teatro russo attuale e sul lavoro teatrale di Vasil’ev in Europa.
Nelle risposte a queste domande il Maestro offre una breve ma suggestiva panoramica delle sue posizioni estetiche: sul concetto di trasformazione del personaggio, sulla creazione di un film “post-documentario”, sui rapporti tra estetica e politica, tra arte e spiritualità, tra teatro e potere politico in Russia, tra esigenze artistiche e dinamiche produttive in Europa e, contestualmente, ci permette di osservare alcuni fenomeni italiani con il suo sguardo di straniero.

Dmitrij Volček [da qui in poi DV]. Prendiamo spunto dal primo asino che compare nel film, quello chiamato Pirandello. Ci dica che ruolo ha avuto Luigi Pirandello, lo scrittore intendo, nel suo film.

Anatolij Vasil’ev [da qui in poi AV]. È stata una grande sorpresa trovare nella stalla un asino che si chiamasse Pirandello. Non sarei mai riuscito ad immaginarmi una cosa del genere. Hanno spesso nomi pomposi: Zeus, Ulisse… Ma il fatto che a un asino fosse stato dato il nome di uno scrittore l’ho trovato un’intuizione geniale. Intuizione che ho subito collegato ai Sei personaggi in cerca d’autore, più precisamente al momento più importante, alla questione centrale che viene posta in questa pièce e cioè: “Chi sei tu, per davvero?” e alla possibilità di ispirarmi a quel materiale nel film. Per questo ho dato a questo caso curioso il valore di un segno, di un’indicazione su ciò che andava fatto. L’opera di Pirandello, di per sé, mi sembra, non ha legami particolari con gli asini. Ora non ricordo esattamente. Ce n’è qualcuno nelle novelle, ma nei drammi non ne ricordo. C’è anche una fotografia molto simpatica di Pirandello che si china verso un asino che è accucciato per terra. Tutto qui.

DV. Quando ho visto questo film, mi è venuta l’idea folle di trasferirmi in Italia, in campagna, e di prendere un asino. Sono meravigliosi. Lei si ricorda la prima volta in cui un incontro con un asino è stato per lei importante, significativo?
AV. Nella mia vita non ho comunicato spesso con gli asini, almeno non con quelli a quattro zampe. Li ho sempre osservati da lontano in qualche paese dove erano diffusi, ad esempio nel nord del Caucaso, in Grecia o in Marocco. Ma provenendo io dalla Russia centrale, dalle steppe attorno a Rostov, dove non ce ne sono, non ne ho visti molti in vita mia. Ma ricordo bene la prima volta che li ho visti in Italia. Era a Fagagna, vicino Udine, tanto tempo fa. Stavo facendo una master class piuttosto lunga, nel quadro della École des maîtres organizzata da Franco Quadri. Lavoravo su Il giocatore di Dostoevskij. La master class durava due mesi, era in autunno, forse ottobre e mi invitarono a vedere il palio degli asini, che si correva lì. Non immaginavo esistessero le corse degli asini. Ci andai. Rimasi veramente molto colpito. Non tanto, come dire, dal fatto sportivo in sé, quanto dalla comicità della situazione nel suo complesso.
DV. Immagino: l’asino non sembra un animale tagliato per le corse…
AV. Sì, non lo è affatto! Anche questo mi sembrò un segno. Anni prima avevo lavorato a Mosca sui dialoghi contenuti in Elogio della follia di Erasmo da Rotterdam1 e da quel tempo avevo sempre considerato questa formula, la lode della stupidaggine, come una sorta di paradigma culturale, un dato senza il quale l’arte e la cultura non possono esistere, non possono svilupparsi. Il senso è che non può esistere un’arte seria. L’arte seria, solamente seria, diventa propaganda. E la propaganda appartiene ad un partito e non all’umanità. Per questo tutta la grande arte, ogni grande opera contiene in sé un principio comico, come succede in Dostoevskij. Sicché, diversi anni dopo lavorando assieme a Jurij Krestinskij ad un’imponente sceneggiatura cinematografica basata sul dramma di Pirandello Vestire gli ignudi, mi ricordai di queste corse. La pièce è divisa in tre atti e nel terzo atto quest’eroina, nuda, vive degli avvenimenti molto tragici. Io avevo deciso di ambientarli, nella sceneggiatura, durante un palio degli asini. Nella pièce di Pirandello, ovviamente non è scritto così, gli avvenimenti si svolgono a Roma. Ma io avevo deciso di ambientarla durante una corsa degli asini. Perché mi sembrava che per la sua stupidaggine e comicità fosse proprio questo l’ambiente più adatto per questa tragedia. Ovviamente, poi, come sempre, il film non riuscimmo a farlo e rimanemmo lì sospesi con la domanda: e ora che facciamo? Che i soldi non ci sarebbero stati io e Jurij lo capimmo a Torino, dove eravamo andati a cercarli, invano come al solito. E ricordo che gli dissi: “Jurij, mettiamoci una pietra sopra a questa storia di Vestire gli ignudi; sai cosa, invece? Facciamo un film sugli asini. E questo film sarà l’elogio della stupidaggine, ho chiaro in mente quello che devo fare”.
DV. Mi pare ci siano delle citazioni importanti, in particolare di Pasolini, su Medea. Ci sono queste cave dove è ambientata una delle scene con l’asino, che sembrano essere proprio quelle di Medea.
AV. No, no, è un altro posto quello di Pasolini…
DV. Come avete scelto le location?
AV. Tutto si è svolto in maniera piuttosto spontanea, come fosse casualità oppure destino. Stavamo riprendendo le corse degli asini in una piccola cittadina piemontese, non distante da Torino, che si chiama Cocconato. La cittadina non ha nulla di particolarmente notevole… eccezion fatta per le corse degli asini. Lì l’uomo corre assieme all’asino. Lo tiene per le briglie e gli corre a fianco. Le corse degli asini sono di tre tipi differenti. O con l’asino che traina un calessino, o con il fantino che è a cavallo dell’asino, oppure, appunto, con il fantino, se si può chiamare così, che corre accanto all’asino tenendolo per le briglie. Ed è una corsa piuttosto complessa, perché assieme all’asino, ad una certa velocità, bisogna andare su e giù per il paese e fargli fare tutte le svolte del caso. E quindi, ero lì che mi occupavo già del futuro film seguendo le corse degli asini, e ne approfittai per dare un’occhiata ai dintorni della cittadina e cercare un posto dove poter riprendere l’asino. Volevo riprenderlo come se si trovasse in un grandioso teatro antico. Ero venuto a sapere che c’erano delle cave lì vicino e mi sembravano il posto ideale per rendere l’idea dell’anfiteatro. Ed effettivamente risultarono essere un posto grandioso, unico. Quando le ho viste ho capito subito che sarebbe stato il posto giusto dove portare l’asino. Ci mettemmo d’accordo con il padrone perché la portasse lì. “La portasse”, dico, perché era un’asina e non un asino. Un’asina incinta. E non solo: aveva ancora un cucciolo abbastanza piccolo. E quindi, viste le sue condizioni e visto che la stavano trascinando in un posto che non era uno dei suoi posti soliti e doveva anche lasciare il piccolo, faceva resistenza, non voleva venire, faceva i capricci. Lessi il soggetto che veniva fuori da questa situazione come una sorta di viaggio (nostro) di Giasone e degli Argonauti che si trascinavano a forza Medea, una Medea-asina, sulla loro nave verso Corinto, rappresentato da questo anfiteatro, dove si sarebbe svolto l’epilogo tragico della sua storia. Questa, in qualche maniera, è l’assonanza, la rima di questa sequenza con Pasolini.
DV. C’è anche un secondo teatro romano, che è all’interno di in un museo delle migrazioni, e che viene utilizzato in questo film. Lì ci viene portato un altro asino, un asino che ha una corona in testa.
AV. Sì, sì, questo è un secondo anfiteatro, lo abbiamo trovato dopo il primo, dopo che avevamo ripreso la prima scena nell’anfiteatro naturale. Io amo molto quando gli episodi trovano un loro doppio, quando possono essere associati, duplicati, rispecchiati in qualche altro episodio. Qualche tempo dopo eravamo andati a girare in una regione totalmente differente, nella cittadina di Gualdo Tadino. Lì ho trovato un teatro romano di dimensioni assai piccole, ho pensato che avremmo dovuto trovare un asino, diciamo così, libero, da portare in questo teatro romano e che lo avremmo dovuto lasciar circolare lì liberamente e tranquillamente per un po’. Va detto che quello che succede nel film non è recitato, non è organizzato prima. Il principio è quello del documentario. Ci sono delle premesse, una sorta di intento generale, però poi si filma quello che succede. L’idea era che quest’asino camminasse per la città ed entrasse nell’anfiteatro e lì avremmo visto quello che succedeva. E infatti una volta che l’asino è entrato nell’anfiteatro ho capito che sarebbe successo qualcosa sul piano filmico e cioè che avremmo potuto fare questa coppia formata dall’asina in quest’enorme anfiteatro naturale della cava e da questo asino in questo piccolissimo anfiteatro romano. Si tratta di due animali totalmente differenti. L’asino maschio si chiama Marco-il-grande, ed è effettivamente un grande. È una gloria di Gualdo Tadino, dove ha vissuto più di trent’anni, che è molto per un asino, e dove ha vinto tantissime corse. Per questo gli vengono tributati onori e cure particolari, un posto privilegiato nella stalla con una mangiatoia e un abbeveratoio personali… insomma è un asino particolarmente rispettato e importante. Il suo aspetto curato lo testimonia. Ha dei finimenti molto belli e decorati. Quelli che si vedono nel film sono i suoi. Non sono io ad averlo acconciato così, quelli sono proprio i suoi, quelli che porta normalmente, quelli di Marco-il-grande. Io ho aggiunto solo la corona di rose. Ed è così famoso che in molte case di Gualdo Tadino è appesa una sua foto. Ecco è così che si è fatto il film, in maniera graduale, e abbastanza spontanea. Si formava da delle circostanze un episodio, poi ne nasceva un altro… Così che da una serie di avvenimenti spontanei, di casi della vita, si è accumulato del materiale del quale sono riuscito a venire abbastanza velocemente a capo, a capire di che si trattasse, che opera avesse dentro.

Steel video da «Asino» di Anatolij Vasil’ev, presentato all'International Film Festival Rotterdam 2018.
Steel video da «Asino» di Anatolij Vasil’ev, presentato all’International Film Festival Rotterdam 2018.

DV. C’è ancora un asino difficile da dimenticare nel suo film. Un asino che gira in una vigna accompagnato da un piccolo bacco. Com’è comparso?
AV. È un piccolo asino, un asino cucciolo, ed è l’ultimo a comparire nel film. È andata così, ho fatto conoscenza con il padrone di una grande fattoria, che includeva una vigna e che aveva anche molti animali, tra i quali anche asini. Con i suoi compagni della fattoria questo signore era riuscito a promuovere l’edizione di un libro dedicato alla cucina di diverse città di una stessa regione italiana. Mi aveva raccontato che gli articoli, le ricette e le informazioni contenute nel libro, erano merito dei suoi asini. Perché lui, grazie a questi asini, si era iscritto ad un’associazione asinina (o asinofila, non saprei come dire), e questa associazione aveva finanziato e contribuito a comporre questo libro. Gli ho chiesto di mostrarmi il libro, lui me lo ha mostrato e allora mi è venuto in mente l’episodio che si vede nel film. Gli ho chiesto se mi dava il suo bambino per le riprese e lui mi ha detto che non me lo poteva dare. Allora sono andato in giro e ho trovato un’altra famiglia che mi ha detto: “Tieni il bambino e prenditi pure l’asino”. Così ho messo insieme bambino e asino e ho pensato che potesse essere una cosa molto bella farli andare insieme. Mi piaceva quest’idea: di un bambino che negli anni del dopoguerra (anni che io ho vissuto) scappa da scuola e insieme al suo asino va a nascondersi in una vigna dove si mette a leggergli un qualche libro idiota, poi gioca con lui, corre e alla fine torna al paese. Questo tipo di storiella infantile era piena per me di sapori, di aromi, di profumi di piante basse, non di alberi, ma di erba, di viti, di cui io mi sono ricordato. Erano le piante e i cespugli tra i quali mi nascondevo da piccolo. Mi sono ricordato di come prendevo i frutti dell’uva spina quando anche io non ero più alto di quei cespugli. E quando ho pensato questo soggetto, ho pensato di chiedere ai genitori se potevano spogliare il bambino. Ma siccome mi imbarazzava chiederglielo, e poi pensavo che avrebbero potuto rifiutare di spogliarlo interamente, ho chiesto loro di levare solo il sopra e lasciare i pantaloncini. Poi col montaggio e con le riprese ho fatto sì che non si vedessero mai i pantaloni e che sembrasse completamente nudo… E dava l’effetto di Bacco. Sino ad un certo punto però, perché poi si mette a correre, si vedono i pantaloncini e si capisce che non è Bacco, ma solo un ragazzo di paese. O meglio, si trasforma in un ragazzo di paese.
DV. Cioè da un dio si trasforma in una persona reale.
AV. Sì, esatto. Questo perché mi piacciono molto le trasformazioni nell’arte. Mi è sempre piaciuto quando in forza della storia un personaggio subisce una metamorfosi, si trasforma, diventa un altro personaggio.
DV. Anche nell’immagine dell’asina finale si instaura la metamorfosi. Da una parte la stupidaggine, la cocciutaggine, dall’altra un Dio, Cristo che entra a Gerusalemme, poi la mandibola d’Asino, l’asino del profeta Balaam, poi Bacco… Insomma ci sono un milione di associazioni possibili. Deve pensare a tutto questo lo spettatore? Chi è per lei l’asino? C’è una divinità nascosta in lui o è semplicemente un animale cocciuto che si oppone al volere altrui?
AV. Mi sono sempre rapportato agli asini come a personaggi biblici. Quando ho avuto a che farci in termini più ravvicinati, ho capito che non era un errore considerarli così, soprattutto dopo aver riletto alla luce di questa mia esperienza i testi biblici. Quella che invece mi era sempre sfuggita era la connessione tra l’asino e la letteratura classica, greca e romana. Però poi ho capito che c’era una qualche correlazione tra queste due cose, tra il tema biblico e quello classico. Il tema dell’uomo asino e dell’asino uomo. Di qui, nel film, c’è il tema delle rose che si connettono all’asino e lo trasformano in uomo. Il tema delle rose, attraversa tutto il film. Rose che trasformano l’asino in una figura umana. Insomma per me è sempre stata una figura biblica. E quando ho visto questo paesaggio con un albero isolato in cima ad un colle, ho capito che avrei ripreso, diciamo così, l’entrata a Gerusalemme. Dopo di che, però, ho capito che non sarei riuscito a filmare il soggetto come avrei voluto, cioè sostanzialmente, filmare una persona a cavallo di un asino, perché il terreno era molto morbido, era stato seminato da poco e l’asino non ce l’avrebbe fatta a portare l’uomo. Quindi non c’è l’immagine dell’uomo a cavallo di un asino. D’altronde è un documentario e quindi dovevo riprendere quello che succedeva e la cosa importante era quello che succedeva. E quindi ho chiesto semplicemente al proprietario di prendere l’asino per le briglie e di fargli attraversare quello spazio. E da queste indicazioni si sono poi sviluppati gli avvenimenti sorprendenti che lei ha visto nel film.
DV. Lì c’è anche un altro asino.
AV. Sì, sono due asini, uno grande e uno piccolo. Io gli ho chiesto di legarli assieme e di portarli. Quando ho fatto questo lavoro avevo già accumulato un’esperienza enorme di lavoro su testi metafisici, antichi, sacri, religiosi, poetici e così via e questo mio lavoro si manifesta in quella sequenza, si riflette. Senza quel lavoro questa sequenza non avrebbe avuto quel portato.
DV. Infatti ho pensato subito a Pasolini e al suo Vangelo, con questo albero e questo campo coltivato.
AV. Più che delle citazioni c’è una memoria diffusa di quella cinematografia. Anzi, ad essere sinceri io non ricordo di aver fatto citazioni vere e proprie, però appunto, si tratta di film che sono nella mia memoria. Il cinema italiano ha lasciato in me tantissime tracce. Il cinema italiano mi ha formato quando ero giovane, mi ha sempre toccato nel cuore, nella mente, nell’anima. Questa memoria mi è rimasta dentro e volevo si riflettesse nel film.
DV. So bene che il suo asino non ha nulla a che fare con il più famoso asino cinematografico, Balthazar, di Bresson. Sicuramente tutti le porranno questa stessa domanda. Ma ecco lei, adesso, rivedrebbe quel film?
AV. Sì l’ho rivisto. E mi è piaciuto molto. Non vorrei fare nessun confronto con Bresson, le nostre grandezze non sono comparabili e non vorrei mettermi in questi termini… Però è molto differente da quello che ho fatto io.

Steel video da «Asino» di Anatolij Vasil’ev, presentato all'International Film Festival Rotterdam 2018.
Steel video da «Asino» di Anatolij Vasil’ev, presentato all’International Film Festival Rotterdam 2018.

DV. Oltre a questi ci sono tanti altri “asini” nella sua vita che l’hanno privata del suo teatro e costretta ad andare via da Mosca. Ora lei è ritornato a Mosca, vi ha fatto uno spettacolo. Che impressione le ha fatto la Russia del 2017?
AV. La Mosca teatrale degli ultimi dieci anni è veramente molto forte, mi piace molto. Perché a differenza di molti miei coetanei, che sono cresciuti nel teatro negli stessi miei anni e che per molto tempo si sono opposti all’entrata in scena di nuove generazioni, io, siccome sono un pedagogo, ho un altro rapporto con i giovani. E anche se non accettavo, se non mi piacevano molte cose che venivano fatte, se non mi piacevano da un punto di vista metodologico, dal punto di vista del vocabolario che veniva usato, ho però accolto subito le intenzioni di questi giovani artisti. Ho accolto la loro maniera di pensare il teatro. Li ho subito accolti e salutati. E ho visto che non solo a Mosca, ma anche a Pietroburgo e in tutta la Russia, è in corso una sorta di rinascimento teatrale. Oddio, la parola rinascimento non va bene, diciamo una sorta di boom teatrale. E questa situazione, soprattutto a Mosca, mi è piaciuta molto e mi piace ancora. La mia generazione collocava se stessa all’interno del teatro delle generazioni precedenti e all’interno di questo teatro cercava di formulare, di modellare un nuovo teatro. La nuova generazione invece non ha considerato necessario prendere nel suo bagaglio tutto il teatro del passato e ne ha mandato al diavolo una considerevole parte. Ne è risultata una sorta di “generazione sgradevole”. Ovviamente, però, ogni salto in avanti riceve una risposta, difficile che passi inosservato e senza conseguenze. Io spesso ho avuto incontri molto accesi con loro. Spesso ho litigato violentemente. Spesso ho detto loro di stare attenti, di andare cauti, che il pendolo della storia avrebbe avuto un ritorno e li avrebbe fatti piangere. Una volta Oleg Nikolaevič Efremov invitò un dirigente dello stato a vedere delle prove, forse addirittura un segretario del PCUS, che gli disse una frase tipo, “non ho tempo, adesso devo ricaricare il pendolo e dopo che sarà ripassato anche sul teatro, verrò a vedere com’è il teatro”. Ecco io ho avuto chiara la sensazione che il pendolo sarebbe tornato indietro prima o poi, una sorta di risacca. Lo so bene come ex marinaio, quando l’onda ti riporta al punto di partenza. Per questo li sgridavo, dicevo loro di stare attenti a quello che facevano, perché quando arriva lo tsunami ti travolge. Dicevo: “siete parte di un organismo culturale complesso, di una storia, di un tutto, ne fate parte e dovete tenerne conto”. Ma la saggezza delle generazioni che ci hanno preceduto non la possiamo fare nostra, dobbiamo fare le nostre esperienze. Non hanno capito cosa è successo ai registi degli anni ottanta come me. Perché queste esperienze di cui parlavo ai giovani le ho vissute sulla pelle e quando le ho vissute ho capito quelle delle generazioni precedenti: ho capito cosa era successo a Efros, a Efremov, a Ljubimov e anche alla Knebel’2. Per farla corta, adesso siamo nel bel mezzo del problema, perché è cominciata l’ondata di reazione. E l’epicentro, l’eroe e la stella che sta pagando questo problema è Kirill Serebrjannikov3. E lo è perché lui solo è riuscito a fare non degli spettacoli (ne ha fatti tanti), ma UN TEATRO. Cioè non ha solo fatto uno spettacolo, o tanti spettacoli, per tante persone, ma ha aperto l’aria, l’atmosfera per tutto il teatro russo. Perché è giovane ed è stato capace di portarsi dietro la nuova generazione teatrale che ha visto il suo lavoro e ha pensato “allora è possibile essere nel teatro, farlo in questa maniera”. Kirill ha mostrato come fosse possibile fare tante cose e ha aperto spazi per molti. Ha aperto a molte possibilità. E ha mandato al macero molte consuetudini consolidate. Ovviamente come ogni Mephisto, anche Kirill ha avuto una vita difficile, difficile da gestire. Ovvio. Perché non sarebbe riuscito a fare quello che ha fatto se non avesse danzato, giocato, scherzato con il potere. Ci giocava e rischiava. Perché il potere, per quanto possa sembrare saggio, in realtà è una furba belva, non si fa fregare più di tanto.
DV. Un po’ come un asino?
AV. Magari! Fosse un asino sarebbe molto saggio. Mentre invece il potere, sostanzialmente, è belluino, è bestiale. Più duro di un asino.
DV. Anche Boris Juchananov, suo allievo, è riuscito a creare un suo teatro, lo Elektroteatr Stanislavskij. Che ne pensa?
AV. Penso che sia un’impresa molto bella. Juchananov è il secondo, assieme a Kirill, ad aver creato un suo teatro. Sono totalmente differenti per lo stile, per il tipo di lavoro che fanno. Differenti i punti su cui si focalizzano, gli scopi, gli orientamenti, ma penso che comunque Boris Juchananov abbia fatto qualcosa di veramente eccellente. Vado spesso a trovarlo al teatro, vado nel suo ufficio, ufficio che è stato il mio per cinque anni, tanto tempo fa4, e mi sento a casa. Siamo in buoni rapporti di insegnante e allievo, ma anche di compagni nell’arte. Penso che quel teatro sia indispensabile a quella parte di gioventù che sente una sete di tipo estetico. Non una sete di tipo sociale, politico, civile, ma proprio di tipo umanistico, estetico. Ha raccolto attorno a sé una gran quantità di persone. E non solo giovani che creano, ma anche molti spettatori che anelano a questo tipo di lavoro. Credo che la cosa più importante che abbia fatto sia stato di dare spazio a una nuova opera e alla nuova musica. Non fosse stato per lui, nessun’altro lo avrebbe fatto a Mosca. E questo nuovo caleidoscopio musicale, forte, vive, progredisce solo grazie a Boris. Non fosse stato per lui, non avrebbe avuto luogo per esprimersi. Boris peraltro non ha solo permesso a tante persone di entrare in questo teatro, ma lui stesso ha fatto un buon lavoro da regista, insomma una figura importantissima.
DV. Mi sembra che anche il suo film sia connesso a necessità estetiche più che politiche; e trovo sorprendente che in un film che abbia nei titoli tutti questi nomi russi non ci sia nessuna connessione con la Russia. Come mai è successo?
AV. Perché ormai sono europeo, sono anni e anni che lavoro quasi solo in Europa. La cultura sovietica è bellissima, ma è comunque di origine proletaria. Noi abbiamo sempre voluto connettere la cultura sovietica a quella nobiliare russa, abbiamo comunque tentato di nobilitare, di elevare Cechov in tutte le maniere possibili immaginabili (e sì che Cechov non è poi così nobile, almeno non tanto quanto avremmo desiderato… insomma è Cechov, non Turgenev). Comunque io, per le mie radici, per i miei gusti, non sono mai stato vicino alla cultura proletaria. Mi dispiace, sono colpevole ovviamente, però è così. È una differenza che sentii già negli anni in cui frequentavo l’istituto teatrale. Forse per i miei studi scientifici5, forse per una biografia particolare, forse per gli amici che avevo, fatto sta che non ho mai condiviso questa sorta di impostazione culturale. Per questo ho così poche radici. Soprattutto nella metodologia teatrale mi sono subito allontanato dagli intenti dell’arte proletaria, dalle intonazioni, dalla gesticolazione, dalle tematiche che la caratterizzano. E questo è valso anche quando ho fatto uno spettacolo che sembrava di estrema attualità politica, che toccava dei nervi scoperti della società degli anni ‘70, e cioè La figlia adulta dell’uomo giovane, di V. Slavkin. Questo spettacolo divenne quell’avvenimento importante che fu proprio perché da una parte era riconoscibile, si capiva bene di cosa parlasse, di quale tema trattasse, ma dall’altra non c’era niente di riconoscibile, perché non c’era neanche una piccola nota di cultura proletaria, di quotidianità; il colorito di ogni azione era preminentemente estetico. Ho sempre pensato che un’enunciazione di tipo estetico sia sempre più forte di un’enunciazione di tipo sociale. Perché quella estetica può includere in sé anche il paradigma sociale, solo che il passaggio tra questi due livelli diventa così potente che è capace di suscitare molta più ira di quanto non possa farlo un’enunciazione smaccatamente sociale.
DV. Andando via dalla Russia lei aveva promesso di non farvi più spettacoli e invece…
AV. No, si sbaglia, non è così. Il vecchio e il mare che ho mostrato al Teatro Vachangov non è uno spettacolo vero e proprio, è un omaggio a Jurij Ljubimov. L’ho sempre definito un’AZIONE. Certo c’è chi lo considera uno spettacolo, magari anche un bello spettacolo, ma io non l’ho considerato uno spettacolo. L’ho considerato come una sorta di omaggio dedicato non solo alla memoria di quest’uomo ma anche alla sua capacità di contrapporsi, di essere in protesta. Jurij Petrovič Ljubimov da sempre, da quando l’ho conosciuto nei suoi primi spettacoli sino alla fine, è sempre stata una figura animata da uno spirito di protesta violentissimo, spirito con cui non è mai riuscito a fare pace. Non riuscì mai a comprimere la sua protesta, a rimanere tranquillo. Sino alla fine. E a questa figura in protesta ho dedicato Il vecchio e il mare, perché questa storia la vedo connessa a questo spirito. Però non penso di fare altri spettacoli.
DV. Quindi la sua promessa è ancora valida.
AV. Sì, sì, la mantengo. È stata un’azione specifica e limitata.
DV. E se in maniera inattesa un qualche burocrate la chiamasse e dicesse “le rendiamo il teatro solo, per carità, rientri a Mosca”?
AV. È già successo, ci siamo già passati, poi si è visto come è finita. No grazie, va bene così.
DV. Cos’è la cosa più difficile per lei quando lavora sulla scena francese.
AV. La cosa più difficile del teatro francese è il teatro francese. Credo che dopo il teatro russo non ci sia teatro più difficile, più farraginoso di quello francese. La sua routine è pesantissima, rovinata da un’amministrazione esorbitante, pervasiva. Tutto è sotto il segno dell’amministrazione. Tutto dipende da questo. La messa in scena, la metodologia, come si organizza il percorso formativo alla scuola di teatro. È il regno, anzi l’impero delle esigenze amministrative. Il nostro cliché del mondo teatrale francese è quello in cui regna una sorta di leggerezza, addirittura una sorta di capacità di prostituirsi… leggerezza, come che sia. Neanche per niente! Altro che leggerezza, altro che prostituzione. Sono tetragoni, severissimi amministratori, affetti da una complicazione burocratica esorbitante, maniacale.
DV. E la cosa che le piace di più?
AV. La cosa più bella invece è l’apertura mentale degli attori, il desiderio di venirti incontro, la curiosità per lo straniero, per il russo, una colossale curiosità per la cultura russa, la capacità di adattarsi, la curiosità di scoprire quel se stesso che è rimasto chiuso, nascosto, imbottigliato, l’aspirazione alla libertà. Insomma in molte cose di fatto gli attori francesi con cui ho lavorato sono persone veramente di grande talento. Se mi proponessero se fare uno spettacolo in Italia o in Francia, sceglierei sicuramente la Francia. L’Italia la sceglierei per girarci un film. Con gli attori italiani non farei mai uno spettacolo, mentre invece lavorarci in termini di formazione è un piacere.
DV. Castellucci invece in Italia gli spettacoli li fa.
AV. Sì, Castellucci fa spettacoli, ma non fa opere drammatiche; fa delle installazioni. Ho visto cose importanti italiane in teatro, ma è successo tanti e tanti anni fa. Gli spettacoli di Strehler, quando cominciò ad usare per la scena lo spazio bianco aprì lo spazio bianco6, ad esempio… Ma dall’epoca molto è cambiato. Devo dire che in genere molto è cambiato in Europa. Mi sembra che ora l’Europa teatrale sia come un succo d’arancia fatto male.
DV. Perché?
AV. Perché è andato a male, spiacevole, inespressivo, privo di talento, ordinario.
DV. Dove lo preparano bene il succo d’arancia? In Asia, in America?
AV. Il succo si prepara bene lì dove ci sono gli zar. Lì dove gli zar esercitano il loro potere c’è necessità di opposizione, e gli artisti trovano la forza di esprimersi, trovano in sé la capacità di essere contro.
DV. E noi sappiamo dov’è questo paese in cui regnano gli zar.
AV. Sì, ne sappiamo qualcosa.
DV. Sì però si vive meglio lì dove non c’è lo zar.
AV. (pausa)
DV. Lei ha fatto delle riprese anche a Venezia.
AV. Sì, per lo spettacolo che sta per andare in scena a Parigi. È basato su una novella di Cechov Il racconto di uno sconosciuto. Parte dell’azione si svolge a Venezia. È la storia di un terrorista che vive una crisi del suo impegno nella lotta armata e comincia una specie di fuga dalla Russia. Si sposta di continuo e nei suoi spostamenti finisce a Venezia e lì d’improvviso sente un enorme desiderio di vivere. Si tratta di un riflesso della condizione personale di Cechov che, malato e giovane, sentendo questo enorme slancio verso la vita, finisce per attribuirlo anche al suo personaggio. E dunque parte dell’azione del racconto si svolge a Venezia. Ma siccome si tratta di una “persona sconosciuta”, buona parte del racconto viene tenuta segreta, non raccontata sino in fondo. Forse Cechov fa così per ragioni tattiche, per evitare l’intervento della censura. O forse lo fa per una precisa volontà letteraria. Fatto sta che non tutto viene raccontato sino in fondo. Ma nello spettacolo io volevo far vedere questi avvenimenti veneziani, far vedere che c’erano stati per davvero e di conseguenza ho deciso di filmare questo episodio, semplice ma abbastanza lungo, che poi a me è piaciuto e che ho intitolato La gita. Si tratta dei miei personaggi che in gondola se ne vanno a lungo per i canali di Venezia. Sono riuscito a montare tutto questo insieme in maniera tale che sembri un viaggio in un’altra vita. Assieme al gondoliere che rema, pian piano si ritrovano prima nell’enorme canale della Giudecca e poi passano anche dall’altra parte, oltre la Giudecca e si inoltrano nella laguna. E lì c’è la nebbia. L’umore della gita cambia radicalmente e gli attori vanno a finire in una sorta di nulla, di buco infinito sulla laguna.
DV. Lei ha deciso di dedicarsi più al cinema e meno al teatro?
AV. Mi sembra che la mia strada nel teatro sia finita. Perché è diventato molto più difficile lavorare con gli attori. Mi sembra di essere l’ultimo dei Mohicani. Qualcosa so fare, qualcosa ricordo, ma mi incontro con una generazione che per lavorare con me, per riuscirci deve prima fare una lunghissima strada di laboratori. E per riuscire a fare questo ci vuole un atteggiamento diverso delle produzioni teatrali, che a loro volta non sono assolutamente disposte, non concedono tempo e non investono in risorse per sostenere questi laboratori. Soprattutto non hanno tempo. Vogliono solo che si faccia in fretta e quindi non permettono che si pratichi questa strada. Per questo è arrivato il momento di smettere. In Russia per le ragioni che sappiamo, in Europa per queste altre ragioni. Rimane solo la formazione, i libri, la teoria (perché devo rimettere un po’ in ordine degli aspetti teorici che ho elaborato)…
DV. …e il cinema.
AV. …sì, uno spazio più libero, una sorta di postdok7, nel quale trovi la possibilità di continuare ad essere attivo il mio amore verso le forze degli elementi, verso la natura, verso il caso, verso la vita, insomma verso ciò da cui si possa attingere materiale per una qualche ultima storia. Io sono come un autore che si rivolge alla vita per riuscire ad estrarne qualcosa, un senso, un qualche nuovo senso, ma in quale lingua non lo sa neanche… Lo farò in quella in cui lo so fare.

Rotterdam, 1° febbraio 2018.

  1. In russo è tradotto come Elogio della stupidaggine (n.d.t.).
  2. Si tratta di grandi maestri del teatro russo di differenti generazioni il cui sviluppo artistico è stato ostacolato, quando non totalmente bloccato, da critiche filogovernative, spesso addirittura istigate direttamente dai vertici dello stato, e da conseguenti decisioni politiche e amministrative ostili alla loro attività artistica. Nello specifico: Maria Knebel’ fu licenziata dal Teatro d’Arte dopo la morte di Nemirovič-Dančenko; Anatolij Efros fu dimesso da regista principale del Teatro Lenkom nel 1967; Oleg Efremov, nonostante il ruolo di prestigio di regista principale del Teatro d’Arte, dovette subire pesanti intromissioni sulla sua politica di repertorio; Jurij Ljubimov la cui attività artistica in epoca sovietica fu sotto costante minaccia di censura, venne privato della cittadinanza nel 1984 e dovette rimanere all’estero, dove si trovava per lavoro, (n.d.t.).
  3. Si tratta di un regista attualmente in carcere per un’accusa di malversazione nella gestione dei soldi pubblici destinati al teatro che dirigeva; è diffusa però l’opinione che dietro questa accusa infamante si celi una volontà politica persecutoria, (n.d.t.).
  4. Vasil’ev ha lavorato come regista al Teatro Stanislavskij dal 1977 al 1982, (n.d.t.).
  5. Prima di dedicarsi al teatro Vasil’ev è stato dottore di ricerca in chimica, (n.d.t.).
  6. Vasil’ev qui si riferisce a quella serie di spettacoli messi in scena da Strehler, in particolare con la collaborazione dello scenografo Luciano Damiani, nei quali il rivestimento della scena era preminentemente di colore bianco (ad es. La tempesta, Il giardino dei ciliegi, L’anima buona del Sezuan, La vita di Galileo, ecc.), (n.d.t.).
  7. La definizione di postdok come genere cinematografico in cui fiction e documentario si intrecciano in una determinata maniera è stata formulata dalla teorica Zara Abdullaeva, cfr. Z. Abdullaeva, Postdok, recitato/non-recitato, Novoe literaturnoe obozrenije, Moskva 2011, (n.d.t.).
Author

Dmitrij Volček, capo redattore del sito web dell’emittente Radio Svoboda. Nel 1987-1989 ha collaborato come redattore culturale alla rivista “Glasnost”. Dal 1988 avvia la collaborazione con Radio Svoboda (nelle sedi di Mosca e Monaco e, dal 1995, in quella di Praga) della quale attualmente è redattore del settore Cultura e conduttore del programma del sabato “Sommario settimanale”. Scrittore e poeta, oltre che giornalista, è nato a Pietroburgo nel 1964 e ha cominciato a pubblicare i suoi scritti in samizdat (pubblicazioni clandestine in periodo sovietico). Autore di diversi libri di composizioni in prosa e in versi, ha anche curato le traduzioni e le edizioni in Russia di W. Borroughs, F. O’Connor, G. Davenport, K. Acker, P. Bowles e altri autori inglesi e americani.

Author

Anatolij Vasil’ev, uno dei più eminenti registi e Maestri di teatro attualmente in vita. Nato nel 1942 a Penza, in URSS, è stato dal 1968 al 1973 allievo regista al Gitis nel corso diretto da Marija Knebel’ e Andrej Popov. I suoi primi spettacoli in URSS (anni ‘70 e ‘80) hanno riscosso un grande successo sia tra gli specialisti che tra gli spettatori (soprattutto con messe in scena di opere contemporanee - Slavkin, Remiz). A partire dalla fine degli anni ‘80, con le grandi tounée internazionali di Cerceau (1985-1989) di Slavkin e dei Sei personaggi in cerca d’autore (1987-1990) comincia il periodo in cui Vasil’ev produce molti spettacoli non solo con la compagnia del suo teatro di Mosca (chiamato “Scuola d'arte drammatica”), ma anche all’estero (in particolare in Francia, ma anche in Italia, in Germania, in Giappone, in Grecia) o in coproduzione con teatri o istituzioni straniere. Autore di importanti scritti e interventi teorici, solo in parte tradotti in italiano, e protagonista di un’intensa attività pedagogica, ha sempre praticato studiato e amato anche il cinema. Da poco ha cominciato a lavorarci più sistematicamente, sia come attore (per il ciclopico progetto DAU, mostrato a Parigi per due settimane a partire dal 23 gennaio 2019) che come regista. Asino, film girato interamente in Italia, la cui presentazione al festival cinematografico di Rotterdam 2017 è lo spunto per l’intervista qui presentata, è il suo primo lungometraggio.