La conversazione di Valentina Valentini con Chiara Guidi è parte di un’indagine sul “femminile della vocalità” che ha avuto una sua prima elaborazione nel seminario realizzato presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma (maggio 2019). Questa indagine – relativa a una sfera matriarcale e corporea della vocalità – affronta molte questioni: possiamo tematizzare una vocalità del femminile? Quali tratti dell’espressione vocale fa affiorare? Quali figure ci fa incontrare? Quali ascolti instaura? Le riflessioni in questa conversazione con Chiara Guidi ci mettono di fronte a voci “organiche” e “gravide” e contemporaneamente illustrano alcuni processi delle sue pratiche.
Valentina Valentini [da qui in poi V.V.] Una delle immagini più potenti del teatro greco è l’orecchio gigantesco scolpito sul lato della montagna – uno spazio di ascolto. Il potere del teatro greco è un potere acustico, aveva a che fare con la creazione di un’architettura che permettesse a ogni singola voce di raggiungere la cima della montagna. Se questo è vero come è vera l’origine dalla parola theaomai, che significa vedere, come si concilia con l’idea del teatro come ascolto? Questo è il prologo.
Chiara Guidi [da qui in poi C.G.] Credo che nei teatri antichi il suono fosse la porta per accedere alla visione. Vedere con gli occhi non era sufficiente. La scena era così distante che solo l’udito permetteva di andare oltre ciò che appariva. L’ascolto completava la presenza, manifestando in potenza ciò che la vista faceva presentire. Vedere era ascoltare e chi ascoltava suonava, in risonanza con quanto accadeva sulla scena. Chi, per assistere allo spettacolo, saliva i gradoni della cavea in realtà non scalava il monte che l’architettura del teatro aveva modellato ma si addentrava nella profondità del proprio essere. Il pubblico mentre ascoltava vedeva e mentre vedeva si vedeva. Vedeva sé attraverso altro da sé. La struttura ritmica e melodica della parola lo percuoteva così come si percuote un tamburo, così come la metrica con i suoi accenti taglia la parola portando alla luce l’abissale origine della sua forma. Il ritmo metteva tutto in risonanza: tutto suonava, sia le pietre che il pubblico. E suonando nasceva ogni volta un nuovo sguardo. Ad ogni rappresentazione si ritrovava lo sguardo: ecco perché il teatro è per definizione il luogo dello sguardo. Non lo sguardo del pubblico che assiste allo spettacolo, ma lo sguardo di colui che all’interno di un grande orecchio, tra scena e platea, ascoltando e risuonando, usava se stesso per ritrovare nell’udito i propri occhi, il vedere come cura di sé.
V.V. Ecco, consideriamo questo rapporto con l’immagine, con theaomai: il teatro greco è voce, è oralità che nel contempo ha la proprietà di far vedere la voce come capacità di visione in assenza dell’immagine. Tu sei arrivata a definire questo cammino della voce nello spazio attraverso una storia che viene da lontano. Negli anni Ottanta voi parlavate di una lingua che non c’era, la ‘generalissima’ la chiamavate, e per me l’immagine della donna con la bocca chiusa da un cerotto, ne I Miserabili (1986) in mezzo al palco, tutta vestita di nero – l’occlusione della verbalità, dell’oralità – era un’immagine molto potente. La mia domanda è: per comprendere che la voce ha un disegno che non è quello del significato, tu sei passata, con la storia della Socìetas, attraverso la negazione della verbalità? O no?
C.G. Il rapporto tra voce e immagine mi affascina e, credo, sia quello che costituisce il teatro. Io l’immagine la cerco nel suono della sua presenza. La cerco perché si fa sentire come si fa sentire l’aria dello spazio scenico che il pubblico respira quando è seduto in platea, oppure come si fa sentire il corpo dell’attore che suona sul palco, anche se tace o sta immobile. Quest’estate ho avuto occasione di lavorare nel sito archeologico di Dodona, invitata dal Summery Oracle in dialogo con il Teatro Municipale di Ioannina e Dodona’s Festival. Il sito porta la memoria di una musica. Nel 2000 a.C. lì, tra i monti dell’Epiro, si sviluppò un culto intorno alla quercia profetica che, con il frusciare delle sue foglie, trasmetteva ai sacerdoti le risposte alle domande che i pellegrini rivolgevano all’oracolo attraverso piccole lamelle di metallo incise. I pellegrini non parlavano. Ma la quercia udiva e suonava le sue foglie: suoni che i sacerdoti interpretavano. Successivamente, nel III secolo a.C., al fianco della quercia sacra, Pirro fece costruire un teatro che conteneva 17.000 posti. Questo significa che la struttura organica e naturale di quell’ascolto tra le alte montagne dava la possibilità a tantissime persone di seguire l’azione scenica dopo aver percorso a piedi molti chilometri tra le montagne e aver corso non pochi pericoli. Il loro guardare comportava una scelta non priva di rischi e conseguenze. Credo che si andasse a teatro con una domanda e si uscisse con un’altra domanda. Lo credo perché la fiaba me lo indica: il conclusivo “…felici e contenti” non è mai una risposta definitiva. “E vissero felici e contenti” esprime il coraggio di intraprendere un nuovo inizio: “Ricorda: ora sta a te!”. La fiaba come il mito manifesta un senso ma quel senso è complesso: non riconducibile a un’unica e chiara informazione da utilizzare nei momenti opportuni della vita. Il senso della fiaba o del mito diventa viscere nelle viscere, forza che si manifesterà. La forza manifestativa è propria del suono in generale e della musica in particolare: essi non esauriscono il significato in un’unica trama. Lo fanno presagire. Interrogano chi ascolta restituendo al pubblico la responsabilità dell’ascoltare. Per questo il teatro ha bisogno dell’ascolto del pubblico. Da sempre io mi sono concentrata sulla parte più sonora del corpo dell’attore, la sua voce, forse perché dovevo trovare una tecnica per recitare i testi drammatici che Claudia Castellucci scriveva. Come potevo recitarli e ripetere la complessità di quelle parole? Come tradurre con il suono della mia voce la molteplicità dei significati che il testo scritto generava? Come far uscire le parole dalla pagina scritta e trasformarle in aria? Cercai un’idea per la voce sganciandola da ogni cadenza che sottolineasse il significato palese che ogni parola comunicava. Non dovevo sottolineare il significato della parola ma trasferire quel potere manifestativo che il testo testimoniava nel suono della voce. Dovevo paradossalmente dimenticare le parole e, sebbene le usassi con estrema precisione, dovevo ritrovarle nella loro essenza sonora, vocale. Solo in questo modo riconoscevo al pubblico la responsabilità del suo esserci: chi siede in platea decide di ascoltare e chi ascolta non può fare a meno di suonare. Al pubblico va restituito il compito di usare se stesso per spingere la parola al suo gesto sonoro iniziale, matrice di ogni significato possibile. La Socìetas ha messo in scena numerosi testi. Il libro è stato il punto di partenza di molte rappresentazioni, anche se, spesso, nessuna parola veniva pronunciata sul palco: sempre, comunque, la parola consegnava al corpo dell’attore quel “silenzio del senso” che va sempre cercato.
V.V. Quando ho cominciato ad occuparmi di voce, di vocalità, con il lavoro su Drammaturgie sonore1, ero mossa da una motivazione, quella di superare questa opposizione manichea: da una parte c’è il significato e dall’altra parte c’è la phoné, una polarità, cioè da una parte c’è l’assenza di soggettività, il soggetto che si annulla, quindi la mancanza, il non poter proferire, e la phoné diventava il luogo dell’irrazionale, del puro ascolto senza comunicare. Sono partita dal desiderio di capire come fosse possibile superare questo. E in quello che tu dici mi pare che siamo oltre l’opposizione tra phoné e semantiké.
C.G. Sì, siamo oltre, perché la voce, prima di fabbricare la parola, prima di dire ciò che ha scelto di dire, si nutre di aria, respiro, e quindi la parola che verrà udita è anche parola non udita, puro soffio. Ciò che sentiamo è come l’eco di qualcosa che non sentiamo ma c’è. L’attore deve interrogarsi su questo. Il suo problema è prima di tutto il respiro, l’aria. E l’aria è densa e il pubblico la sente. E quindi in quale aria far camminare le parole? Di fronte ad ogni testo che devo recitare io cerco di scrivere una storia per la mia voce. Un’aria. Una storia fatta di immagini che come una partitura musicale guida la sinfonia emotiva della mia voce: una storia invisibile che si va a sovrapporre alla storia scritta che il pubblico ascolta. L’orecchio di cui tu parli, l’orecchio del teatro antico, è l’orecchio del pubblico. L’architettura non è fatta per l’attore, è fatta per il pubblico. L’idea di voce che si muove sulle parole è un’idea per il pubblico. Superare l’opposizione tra phoné e semantiké è interessante per riconoscere che in teatro il lavoro dell’attore è accompagnato dal lavoro dello spettatore. L’attore sceglie il timbro e il tono per l’ascolto: l’attore li deve scegliere ben sapendo che la sua voce non solo nasce dalle viscere ma anche dalle convenzioni sociali e dalle necessità del mercato. L’attore deve scegliere la sua musica per la sua città. Attore cittadino. La voce assorbe i timbri e i toni di un’epoca. Spesso è legata. L’attore deve torcere il corpo della propria voce come uno scultore torce la materia per trovarne l’essenza. Deve compiere un cammino a ritroso verso la “voce nuda”. Fragile. Se non lo fa, quando declama, chiede allo sguardo dello spettatore solo di capire, non di immaginare.
V.V. Arriviamo al tema del femminile, che vive ancora come un’intuizione: sono le donne che urlano, piangono, balbettano, singhiozzano, borbottano, cioè sono le donne che sono ricche di gesti sonori. Mi chiedevo se ci sia una relazione tra il femminile – non la donna nel senso ‘gender’ – e l’espressività vocale. Secondo te c’è un’espressività – questa ricerca dell’espressività vocale che non è negazione del significato, ma che è acquisizione di un timbro, di un tono, di un discernimento, con cui vuoi dire quella parola – legata al materno? La voce esce dalla laringe – la voce è un parto, è parto di un corpo – abbiamo la vagina da cui esce il corpo del bambino e la laringe da cui esce il corpo della voce, che a volte è bloccato. Volevo capire se tu ci hai mai pensato, se trovi un’assonanza con questa dimensione del femminile e della ricerca vocale.
C.G. No, non ci ho mai pensato, perché credo che la voce sia di entrambi i generi, la voce femminile è anche maschile, la voce maschile è anche femminile. In ogni uomo o donna c’è un suono che è di entrambi. Il suono della terra che li ha plasmati. Posso tuttavia rispondere alla tua domanda se introduco l’idea di memoria. La voce sedimenta sulla sua grana la memoria di una storia. Ogni esperienza arricchisce la voce, la cambia in modo impercettibile. Che bella la voce anziana di Elizabeth Cotten che canta Freight Train. In quella voce sento non solo lo scorrere del tempo, ma la vita. E qui sta il punto. Nella sua voce rugosa non si hanno informazioni dettagliate, ma quelle rughe manifestano (e non spiegano) la vita, la sua che, attraverso la musica, diventa anche la mia. Nella voce si rifugia la memoria. E nasce la poesia. La memoria ha una essenza femminile? Credo di sì, perché la memoria è una forza generante. Ci sarà sempre una madre che genererà una voce, farà nascere una voce e la inserirà nel solco della storia. La madre è la soglia che dall’interno, (dalle viscere, dalla placenta, che si genera per una nuova creatura e scompare dopo la sua nascita), conduce all’esterno la sorpresa di una voce. Dalla madre esce una voce che piange. A volte penso che la gravidanza sia il luogo simbolico della voce. Non solo: credo che la voce sia in sé gravida! Per questo l’attore deve scegliere voci organiche, voci in potenza, pregne di possibilità, voci aperte, che ascoltate generano in chi ascolta immagini simili ma diverse, come avviene quando si ascolta una sinfonia: mentre ascoltiamo immaginiamo qualcosa che, forse, il musicista non aveva immaginato. Ma abbiamo la libertà di vederlo. Generarlo.
V.V. Bisogna ricostruire un’enciclopedia del discorso sulla parola e sulla vocalità, perché siamo ancora legati a dei concetti vecchi, che parlano di assenza, sempre riprendendo Carmelo Bene. Lui parlava di una voce bambina, e questo è bello, non mi sembra vecchio, mi sembra che possa continuare. Per lui la voce bambina era la figura della potenza rispetto all’adulto, che era il presente: in questo si lega anche il tuo lavoro, la figura del bambino come figura di onnipotenza anche vocale, e di gioco anche vocale.
C.G. Io penso che la voce e il bambino siano elementi fragili e facilmente condizionabili. Eppure ogni voce e ogni infante sono la promessa di un tempo che verrà. Chi ascolta una voce o sta con un bambino deve compiere uno sforzo: interpretare così come si interpreta una profezia. Da tempo la voce e l’infanzia sono l’oggetto di un fortissimo condizionamento sociale, mediatico e commerciale: perciò le voci si uniformano e i bambini portano con sé i desideri degli adulti. Il mio lavoro concentrandosi in quello spazio tra infanzia e voce si pone spesso alcune domande e le rivolge all’attore: quale è la tua voce? Cosa racchiude? Come stai davanti a colui che vive prima del linguaggio, come ascolti un bambino? Queste domande sono un invito ad ascoltare prima di declamare.
V.V. Pensando alla voce per questo seminario2 e alla dimensione femminile, son venute fuori tutta una serie di figure mitiche. Per esempio pensavo alla voce delle profetesse, della Pizia, la voce non è la sua voce, ma trasmette la volontà di un altro, è parlata. Se pensiamo alla Sibilla Cumana, è potente come immagine, ma c’è qualcosa che la sovrasta, non è la voce che esce dalle sue viscere. Tu come la vedi?
C.G. C’è un racconto sulla vita degli indiani nativi d’America dove la donna, preparata fin da bambina al parto, allo scadere del nono mese di gravidanza, abbandona la comunità e va da sola nel deserto. Lì, quando partorisce, unisce il suo sguardo rivolto al bambino a ciò che vede nello spazio sconfinato che si distende davanti a sè. Inscrive la sua creatura nella vastità che la circonda. Questo racconto mi fa riflettere molto su chi, uscendo dal caos delle possibilità, apre la voragine della propria bocca e parla. Chi parla, non parla se non in relazione ad una connessione con un esterno e, quell’esterno lo fa entrare dentro di sé pur uscendo da sé. Armonia tra elementi diversi. In fondo l’etimologia della parola rimanda a questo: armonia è quel cardine che unisce l’animale, il bue, al carro che va in guerra. Nel cardine entra il bue e nel bue entra il cardine. Nella parola detta entra colui che ascolta e colui che ascolta fa entrare nel proprio corpo colui che parla. Chi parla diventa, allora, altro da sé. L’attore sul palco lo sa bene. “Io ho bisogno di te per capire me”. Ed usa una tecnica per farlo. Eppure, benché spinga consapevolmente le parole fuori dalla sua bocca tuttavia qualcosa gli sfugge. Ciò che dice non è detto esattamente come lui vorrebbe. Lo sorprende un soffio, che non aveva previsto. È l’anima della voce che all’improvviso cambia i colori. Li fa vedere di più. Li rischiara ma non li illumina. La voce ha un’anima come la materia: il marmo, il legno, la pietra. Questa anima sorprende sempre colui che parla e colui che ascolta. Quante volte un attore pensa di aver commosso il pubblico e invece non ci è riuscito, e quante volte pensa di aver fallito mentre il pubblico lo ringrazia per la commozione che ha creato. L’anima della voce soffia dove vuole. Presenza mitica per eccellenza che riconduce a quel grido e a quel pianto, a quell’eco e a quel gemito che continuano a vivere nella parola perché l’hanno creata. Credo che la prima lotta dell’attore che declama sia la lotta con la propria voce, come fece Ulisse con la voce delle sirene. Ho sempre la sensazione che ciò che dico sia la ripetizione di ciò che non dico e che continua a sorprendermi. Ad ogni replica. Mi pare che ciò che dico non viva all’interno di un solo perimetro ma in una zona di confine: un luogo paludoso, non coltivabile, non abitato, dove anticamente si tracciava il limite di una città. Un luogo selvaggio che crea attesa, timore e che va continuamente cercato per restituire alla bellezza, in rari momenti, la paura del sublime.
V.V. Ritorniamo all’essere insufflato, al flauto, all’oscurità di questo suono. Se io penso all’augure che si mette nel cerchio magico, guarda il volo degli uccelli e cerca di interpretare, anche in quel caso abbiamo una traslazione dal veicolo fonico al disegno.
C.G. Sì, ci sono voci oscure che mettono in crisi l’ordine della conoscenza e quella consolazione che si prova quando si scopre ciò che già si conosce. Queste voci complicano il significato delle parole. Spaventano ma seducono. Attraggono come la voce della strega che invita ad entrare nella casa di marzapane, come la voce della Sfinge o dell’oracolo: voci dove l’oscuro restituisce la vita alla vita. Nella fiaba solo se si ascolta la voce dell’Orco e la si attraversa si giunge alla gioia del lieto fine. La voce oscura è una porta che va attraversata per diventare adulti. Bisogna ascoltarla. Averne il coraggio. A volte penso che i timbri e i toni siano in perenne lotta con se stessi. Laggiù in fondo, dentro il nostro corpo, cosa accade quando apro la bocca? Non sempre riesco a dare forma a ciò che ho studiato. Basta poco per stonare, per sbagliare l’attacco, per non essere in accordo con le altre voci che vivono sul palco. Occorre ascoltare per suonare. È l’intuizione della madre quando cerca di percepire il fremito di un corpo che cresce nel proprio corpo. Quel fremito così fragile è già voce sulla quale lei deve intonarsi. Anche l’attore deve intonarsi, accordarsi con tutte le voci che si muovono sul palco: l’intensità delle luci, il colore delle scene, il cigolio delle assi del palcoscenico… Se l’intonazione è esatta, se ogni voce entra dentro l’altra, allora la magia si avvera. Si cade nel gioco.
V.V. In questo senso la parola scritta deve diventare oralità, deve essere vocalizzata, cioè deve essere affidata alla voce. Se non si affida alla voce rimane pagina, ma non ha niente a che fare col teatro.
C.G. Il teatro non può essere succube della letteratura. La letteratura non è il teatro. Il teatro è un luogo, uno spazio politico della città dove convivono differenze, dove è possibile il dialogo. Forse per questo da qualche anno, ogni mese, nel Teatro Comandini, dove ha sede la compagnia, incontro alcune persone per dialogare con loro su alcune questioni: questa azione si chiama “Libertà di movimento”. Io porgo una domanda che possa destare l’esperienza di chi è presente e poi si dialoga. Chi vuole può raccontare il proprio pensiero. Non è facile raccontare in modo tale che ciò che è personale possa diventare interessante per tutti e possa suscitare in tutti altre domande, altri racconti. Ci incontriamo per fare esercizio. Cosa racconto quando racconto? Cosa costruisco quando costruisco? Anche l’attore racconta. Ma non sale sul palco per mostrarsi e dimostrare i propri studi e le proprie ricerche, ma perché come cittadino, abita la città. Si rivolge al pubblico di una città per porre una domanda. Che bello pensare a quei cittadini di Cesena che sentono il Teatro Bonci come propria proprietà e attendono una domanda. Ma la domanda oggi qual è?
V. V. Pensa al mito di Eco: è stata punita, è stata privata del corpo ed è diventata solo la voce che si ascolta dalle cime delle montagne. Il corpo si è liquefatto con le lacrime perché ha perso Narciso, rimane pura voce. Tu come lo vedi questo mito, cioè questo processo per cui la voce esce fuori dall’inviluppo, dagli ostacoli ecc. Hai mai sentito come una prigione per la voce, il tuo corpo o quello degli altri?
C.G. Quando si ode una voce quella voce, in realtà, è l’eco di un’altra voce. Ad ogni voce sottende una voce più lontana. Non c’è mai una sola voce: è già doppia nel momento in cui esce. Non è mai singolare, ha già dentro un’eco. Una voce spinge una voce ad uscire. Viene da uno spazio che non è lo spazio nel quale tu la pronunci, ma viene da un posto più remoto. Non c’è voce se non c’è eco. L’attore deve nutrire la propria voce così come il pittore nutre il proprio disegno imitando la modella nuda. Occorre imitare altre voci. Entrare nella voce degli altri, degli animali, delle forme geometriche, delle cose e sentirne i colori. Chi recita deve conoscere come rimbalza nello spazio la sua voce, deve individuare il punto giusto per suonarla così come chi osserva individua l’esatto punto di osservazione per le sue scoperte.
V.V. Quindi diventa una meta, questo liberarsi della voce? Un punto d’arrivo?
C.G. La voce è fisica. Ha un peso e un volume e si muove, come un corpo. Per l’attore è materia da plasmare, modellare sulle parole che pronuncia. All’interno di una frase deve disegnare molti suoni, ripeterli e, alla fine, interpretarli. Ciò che interpreta è il suono della voce che si muove sul testo. A volte penso che la voce vada spezzata all’infinito per trovare varianti di uno stesso timbro. Sono necessari toni e semitoni per vederla camminare in più spazi, perché possa essere qui e là, sopra e dietro a chi parla. La si deve toccare e deformarne la presenza. È plastica.
V.V. Tu usi indifferentemente voce e vocalità. Secondo me non sono indifferenti. Cosa intendi per vocalità?
C.G. A volte il suono della propria voce si blocca in gola. È legata. Chi recita usa se stesso per liberare la propria voce e alleggerirne il peso. È un lavoro lento, paziente come quello di un artigiano. Credo che la voce vada cercata nelle necessità della vita quotidiana, non sul palco. Io cerco le voci perché si fanno ascoltare da me. Poi cerco di imitarle. Le rubo. Le annoto. Le studio per poi trattarle sia nella composizione che nell’esecuzione. Questa è la vocalità dove, anche addestrata, la voce deve continuare a rivelare se stessa per gridare, anche nella declamazione, il proprio e puro piacere di essere solo una voce nuda. Difficile, allora, separare voce e vocalità. La vocalità è una tecnica, ma guai a quella tecnica se perde la voce, perché ci sono tante vocalità, ma, spesso, non c’è la voce, e ci sono tante voci che pur non avendo la vocalità ti seducono. Voci straniere che spostano l’accademismo di chi crede di sapere cosa sia la voce e come la si usa. La voce, invece, non si sa cos’è, sfugge ad ogni definizione e, per questo, porta la vita.
V.V. Ho un’ultima questione. Tu prendi un testo e abbiamo visto come lavori su un testo: lo stacchi, ci scrivi sopra, lo disegni. C’è secondo te una differenza nel processo di espressione vocale tra quando le parole sono scritte, quando sono disegnate e quando sono memorizzate?
C.G. La voce mi pone dei problemi di composizione. Su ogni testo disegno il percorso dei timbri e dei toni, poi lo memorizzo per ripeterlo. Solo se lo disegno ne ho la percezione e posso interpretarlo. Sulle parole traccio una foresta di segni che destano in me il ricordo di quelle voci “rubate”, imitate, studiate… Poi recito leggendo i segni, non le parole, interpretandone il senso. E interpretando scopro sempre suoni nuovi. È un’esperienza bellissima! Quando recito ballo, nessuno lo vede ma io dentro ballo. Il mio corpo si muove per interpretare una partitura di segni. Da tempo penso che la composizione di ogni voce abbia come finalità quella di raggiungere il silenzio. L’attore recita per creare la pausa, quel vuoto disegnato: il disegno di una voce silenziosa. La pausa è voce e va disegnata così come si disegnano le parole per esser declamate. Quando costruisco uno spettacolo parto sempre dalla voce. Diventa il mio punto di osservazione per la composizione dell’intero spettacolo. La voce è un medium drammaturgico per cui la scrittura del copione ha una tensione sinfonica. Cerco di sentire tutto: l’ingresso del pubblico, il tempo dell’accensione delle luci, l’alternarsi dei pieni e dei vuoti, lo spazio delle pause. Prima di iniziare le prove scrivo tutto, così come un musicista scrive in un’unica partitura la musica per ogni elemento dell’orchestra. Ne nascono copioni complessi che coinvolgono tutte le voci e tutte le presenze. Tutto sul palco è voce. Non lo è solo la voce umana che cambia se è amplificata.
V.V. E quando non usi né microfoni né altoparlanti?
C.G. Raramente uso la voce naturale. Ho bisogno del microfono che come un microscopio entra nelle pieghe dell’espressione della mia voce: per recitare devo ascoltarla bene. Solo se la sento la riconosco e riesco a suonarla.
V. V. In realtà c’era una domanda riferita al coro, figura presente nei tuoi spettacoli. Come si riesce, se si riesce, a trovare un’omogeneità qualitativa della voce. Questa per te è una finalità?
C.G. In alcuni spettacoli lavoro con persone che desiderano fare teatro e creo dei momenti di laboratorio per preparare con loro uno spettacolo la cui struttura ha già previsto la loro presenza. La presenza di persone che formano un coro. La necessità di formarlo nasce sempre dal fuoco che guida la composizione di un lavoro. Ai laboratori partecipano gli abitanti della città che ospita lo spettacolo, cittadini che amano il linguaggio teatrale e lo vogliono vedere entrandovi dentro. Li pongo nella condizione di poterlo fare cercando una struttura misurata per la loro spontaneità. Cerco un coro e lo conduco ad una forma, a quella idea drammaturgica iniziale che rende necessaria e urgente la loro presenza all’interno dello spettacolo. Di solito chiedo a un coro “trovato” di seguire un ritmo e una cadenza per riconoscere la propria voce ossia la voce che solo quel coro “trovato” nasconde. Formare un coro è, dunque, porsi una domanda: quale voce ha il coro “trovato”? Quale è il suo suono? Il coro nasce nel momento in cui si ascolta. Quando il coro ha riconosciuto la voce giusta, esatta, poi la deve fissare, imitare e ripeterla. Con lo spettacolo Lettere dalla notte di Nelly Sachs ho sentito la necessità di formare un coro per realizzare le poesie corali della Sachs. L’idea di utilizzare voci di ogni età è nata in relazione al senso profondo che la scrittura dei cori della Sachs racchiude. Usare un coro “trovato” è prima di tutto una necessità del fare scenico: del fare drammaturgico. Usare il coro non può essere in sé un’idea, ma una finalità. In Gola, invece, il coro è muto. Compie dei gesti e con il proprio corpo segna le parole registrate di Ewa Klonowki che descrive il sollevamento e il riconoscimento dei cadaveri delle fosse comuni della guerra in Bosnia Erzegovina. Non sento differenza tra la formazione di cori cittadini per gli spettacoli e l’attività che svolgo e ho svolto al Comandini in questi anni. Incontrare giovani, insegnanti, bambini, fare esercizio in “Libertà di movimento”, sperimentare un’idea di teatro attraverso dialoghi e piccole azioni sceniche porta lo stesso senso della preparazione di uno spettacolo. Credo che nel coro ci sia un’idea di artista cittadino. Un artista artigiano che afferra la materia (anche povera) e la manipola per vedere cosa nasconde. Non segue un modello ma attende che il coro indichi una via. Il coro cambia ogni volta che lo spettacolo si ripete: per cui ogni volta va ritrovata la sua voce. Va ridisegnata. In Nelly Sachs deve intonarsi con la mia voce e con il vibrafono che suona in scena.
V.V. Quindi è come se tu stessi orchestrando quel testo col coro?
C.G. Sì, con l’eco che il coro
genera. Il coro
è sempre potente, ma la sua vera forza sta nell’eco del
suono che produce e che mette in risonanza ogni singola voce. Ogni volta che
collaboro con un coro “trovato” sento che la mia voce è fragile. Ogni volta è
una bella scoperta perché questa fragilità è la forza necessaria di ogni
singola voce che per essere parte di un tutto deve nascondersi sotto le parole
e riempirle di vita.
- Cfr. V. Valentini, (a cura di), Drammaturgie sonore. Teatri del secondo Novecento, Bulzoni, Roma 2012. ↩
- Il seminario “Il femminile della vocalità”, curato da Valentina Valentini e dal Gruppo Acusma, interroga l’espressione vocale a partire dalla prospettiva del femminile. Il seminario si svolge in due momenti – il primo avvenuto il 29 maggio 2019 presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma, ospitato all’interno degli eventi gravitanti attorno alla mostra Il corpo della voce. Carmelo Bene, Cathy Berberian, Demetrio Stratos; il secondo è previsto per il 5 novembre 2019 presso il Dipartimento pianificazione design tecnologia dell’architettura de La Sapienza di Roma. ↩